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domenica 9 giugno 2019

Voz De Nenhum - Sublimation

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Deathspell Omega, Aborym
L'Aesthetic Death da sempre mostra una capacità superiore di scovare le più stralunate band del pianeta per inserirle nel proprio roaster. Il progetto di oggi nasce da musicisti provenienti dalla scena cipriota e da quella inglese, inglobando in questi strani Voz De Nenhum, gente che arriva da esperienze precedenti in Bestia Arcana, Frozen Winds o Tome of the Unreplenished, tanto per fare alcuni nomi. Il quintetto internazionale propina in 'Sublimation' un black sound che sembra già maturo e "Ia'Iaxa" ne è la dimostrazione, grazie ad una proposta tortuosa, esoterica, selvaggia ed ispirata. Non che i nostri stiano inventando chissà che, ma quello che suonano alla fine si dimostra assai affascinante, un po' come sentire un improbabile mix tra Mayhem, Aborym e Deathspell Omega, con suoni sbilenchi, voci catramose (e non solo) alla Attila Csihar, scorribande selvagge (forse ancor più enfatizzate nella seconda doomish "Hornbearer"), oscuri break sperimentali dal vago sapore noisy ed una buona dose di melodia che permea l'intero lavoro. Le canzoni poi non mostrando durate impossibili, si fissano nella testa già dopo il primo ascolto e pur essendo 'Sublimation' un lavoro collocabile in ambito estremo, alla fine finisce per risultare ben più accessibile di altre proposte apparentemente più morbide. "Nails" ad esempio ha un attacco morbido, acustico, con tanto di voci pulite, mentre in sottofondo sembrano rombare i motori di un macello pronto ad esplodere da li a breve, ma che in realtà rimarrà strozzato nelle sole urla del vocalist e nulla di più, quasi un peccato. Suggestivo, ancor di più con l'ascolto della compassata industrial/cibernetica, "Chains", un pezzo dall'andamento quasi marziale, accompagnato dai vocalizzi urticanti del frontman e poi da una schizofrenica ritmica che sfocia in un caos primordiale che mi ha evocato il famigerato finale di "Raining Blood". Nient'affatto male. E il finale ha ancora alcune carte da giocarsi. "They" ad esempio, nel suo chitarrismo noise a rallentatore, successivamente accompagnato da un drumming quasi tribale e da una dose di synth che costruiscono atmosfere siderali, mostra un'altra faccia, più ponderata sicuramente, dei Voz De Nenhum. L'ultimo atto è affidato al bisbetico incedere di "Voidsworn" e alle sue sghembe melodie di derivazione francese, che viaggiano a braccetto con i caustici vocalizzi dei due cantanti. In definitiva, 'Sublimation' è un lavoro interessante, soprattutto in chiave futura se i nostri terroristi sonori sapranno meglio miscelare le loro influenze con la loro personalità non indifferente. Bravi. (Francesco Scarci)

Radare - Der Endless Dream

#PER CHI AMA: Post Rock/Dark/Alternative
Nel nuovo album dei Radare c'è qualcosa di molto speciale, una concentrazione emotiva che è spinta al massimo da suoni e costruzioni di alta qualità, buon gusto ed una lussuosa sensibilità musicale. Con il verbo del post rock, la band tedesca si permette di dar vita ad una creatura senza confini di suono, che abbraccia le atmosfere astratte di "New Space Music" (Brian Eno) e le converte nel libero gergo del (post) rock, aprendo un punto di contatto tra la colonna sonora del film 'Million Dollar Hotel' e le tensioni che abbiamo amato in '2°' dei seminali Ulan Bator, sfornando brani carichi di magistrale malinconia, del tutto simile all'umore grigio dell'ultimo, ottimo ma poco compreso, lavoro degli Suede ('The Blue Hour'). Prendete questi riferimenti ed immaginateli, mescolati alla forma più oscura del dark/jazz/ambient della Dale Cooper Quartet & the Dictaphones (epoca 'Metamanoir') e avrete un'idea in quale tipo di ascolto vi state per inoltrare. Un connubio sonoro esagerato, da assaporare ad alto volume e tutto d'un fiato, senza riprendere mai il respiro, in una specie di estasi buia, perchè questo è un disco spietato dal lato emozionale, geniale a livello compositivo, considerando tutte le sue ricercate, splendide dissonanze ed inoltre, altamente godibile per tutti gli amanti del suono di qualità, con una spettacolare e certosina, ottima produzione ed una masterizzazione a cura di Harris Newman, che ha dato al disco un'identità notturna assai originale. Il disco uscito per la Golden Antenna, con i suoi quaranta minuti circa, divisi in sette brani di media durata, riesce a penetrare l'animo dell'ascoltatore stringendolo saldamente in una morsa emotiva per tutta la sua durata, anche grazie alla sua attitudine progressiva che lo rende vivace e dai mille risvolti sonori. La personalità di questo 'Der Endless Dream' si discosta dai suoi precedecessori per l'accentuato ricorso dei canoni rock a discapito del dark jazz, da sempre la vera ossatura nel DNA della band. Il merito va attribuito certamente alla chitarra, la quale, usata in maniera esuberante, rilancia in grande spolvero il suono psichedelico e rock che ha reso famoso il grande Link Wray. Decisamente interessanti le distorsioni cristalline, sommerse di riverberi e tremolo, ma anche gli innesti inaspettati ed imprevedibili di sax ("Loup de Mer") e clarinetto della title track danno il loro contributo, confermando sin dal primo ascolto, l'idea e l'impressione di essere di fronte ad un ottimo disco strumentale, suonato alla perfezione e in maniera chirurgica, con un appeal maledetto che lascia sempre un gusto amaro in bocca ed una nostalgia assassina. Questo è un album che spiazza fin dallo splendido artwork di copertina, che una volta aperta, ricorda molto le pagine di qualche rivista di moda anni '90. Un insieme di canzoni rock dai tratti umorali, dotate di un potenziale enorme e grandi pregi compositivi, come ad esempio la coda finale, dissonante, malata e infinita di "Eternal Love" (brano delizioso) che ci proietta in un universo di riflessioni e stati d'animo d'altri tempi. Un album di altissimo valore, ove rock, dark jazz, tanta fantasia, ragionata sperimentazione e sensibilità da vendere danzano insieme. (Bob Stoner)

(Golden Antenna - 2019)
Voto: 83

https://radare.bandcamp.com/

venerdì 7 giugno 2019

Karakorum - Fables and Fairytales

#PER CHI AMA: Kraut Prog Rock, Marillion
Il pericolo numero uno per una prog band è sempre quello di scadere nel solito clichè di suoni e stereotipi legati al genere. Fortuna vuole, che ci sia un numero nutrito di band, che riescono, almeno in parte e in vari modi, a sfuggire, dalle grinfie del classico sentito e risentito. Una di queste band risponde al nome dei Karakorum, combo tedesco, ben affiatato, dotato di deliziose capacità compositive e strumentali. Arrivano in questi giorni al secondo full length, 'Fables and Fairytales', con un lavoro fresco e carico di adrenalina e fantasia, importanti doti che permettono al quintetto di Mühldorf, di stare in equilibrio tra passato e presente nel vasto universo della musica progressiva. Il lavoro è lungo e variegato, diviso in soli tre brani di media/lunga durata, con un suono praticamente perfetto: ottimi gli scambi stereofonici, assai belli da assaporare in cuffia, esemplare la tecnica dei musicisti. A dire il vero, avrei azzardato un design più carico sull'artwork di copertina per renderlo più intrigante e aggressivo, sul lato visivo, proprio per colpire di più la curiosità dell'ascoltatore. Il primo brano, "Phrygian Youth", si impone con un carattere moderno, molto rock oriented, dal tocco melodico di scuola ultimi Marillion e dalla vitalità tipica del suono degli Echolyn, senza dimenticare l'innovativo gusto retrò alla Anekdoten. Così, organo e chitarra fanno la gara per primeggiare su tappeti pulsanti e pause dal sapore kraut/jazz rock, il canto è decisamente sulla rotta di un rock emozionale che offre alla composizione una direzione inusuale e intelligente, mentre la coda del brano è una corsa strumentale psichedelica, dai mille colori, con un finale dai toni duri e drammatici. "Smegmahood" è il brano che rilegge la tradizione sulle tracce di mostri sacri come i Gentle Giant e Yes, qui rievocati con un'impronta canora a più voci, magistrale, studiata ad arte per caratterizzare la canzone, che già nella parte musicale si rivela come uno scrigno d'oro di innumerevoli fughe sonore e stravaganti intermezzi strumentali di memoria zappiana con divagazioni crimsoniane che mostrano quanto sia grande la cultura musicale di questi artisti, in assoluto il mio brano preferito. Non pienamente soddisfatti, i nostri cavalieri si lanciano in una nuova sfida alquanto dura, la composizione di un terzo brano dalle tinte cupe, con una veste iniziale, etnico mediorientale e una bella attitudine per la colonna sonora. Ventitrè minuti di luce e ombre all'insegna di una sperimentazione d'avanguardia che fu, anni or sono, campo di battaglia per band gloriose come Magma (epoca Köhntarkösz) e Art Zoyd e le intuizioni sonore più melodiche, sempre di casa Marillion, vicine alla forma del brano d'apertura. Per concludere, posso dire che 'Fables and Fairytales' è un ottimo disco, curato, ispirato e composto con stile, grazie a suoni caldi e avvolgenti, una bella produzione, che soddisfa anche i palati più fini del rock progressivo con una carrellata di stili variegata e convincente, un album che vale la pena approfondire con ripetuti ascolti proprio per godere al meglio la bellezza di questo lavoro, che si colloca decisamente al di sopra della media. Ben fatto! (Bob Stoner)

Sons Of Morpheus - The Wooden House Session

#PER CHI AMA: Psych Stoner Rock/Blues, primi Queens of the Stone Age
Se c’è una cosa che la musica insegna, è a rompere i pregiudizi: lo stereotipo che vuole gli Svizzeri freddi e (mi si passi il termine) poco rock, crolla miseramente di fronte a 'The Wooden House Session', secondo full-length dei Sons Of Morpheus dopo l’ottimo 'Nemesis' del 2017 ed uno split con i Samavayo dello scorso anno. Il trio, dopo un lungo tour di spalla ai Karma To Burn, si chiude in un locale e registra sei tracce a metà tra live e studio, che trasudano stoner rock e sludge, Queens of the Stone Age e Black Sabbath, New Orleans e film western (c’è un cowboy in copertina!), Jimi Hendrix e i Pride&Glory. Scordatevi il sound metallico dei Kyuss o (dio ce ne scampi!) la deriva pop degli ultimi lavori di Josh Homme e soci: in 'The Wooden House Session' i piatti sono lunghi e riverberati, le chitarre ruvide e rumorosissime, il basso grezzo, la voce sa di blues, whiskey e sigarette. Quintali di fuzz colano fuori dagli amplificatori, ed un sottile gusto lo-fi nella produzione rende tutto ancora più credibile, caldo, paludoso. I cori qua e là (“Sphere”, “Loner”) ricordano i primi lavori dei Queens of the Stone Age; ma c’è spazio per jam gonfie di psichedelia (“Paranoid Reptiloid”), colonne sonore alla Sergio Leone (“Doomed Cowboy”), rock grezzo e senza fronzoli (“Nowhere To Go”), fino alla lunghissima “Slave” (oltre 13 minuti, laddove le altre tracce raramente superano i 4.30) che si erge almeno una spanna sopra il resto: una lunga cavalcata rock blues costruita su un riff che fischietterete per giorni interi, che accelera e rallenta, si ferma e riparte, apre a soli in slide e lunghissime parti strumentali eteree e trasognanti — vi sfido a non muovere la testa per l’intero pezzo. Sellate il cavallo, indossate gli stivali migliori, si parte. (Stefano Torregrossa)

Of Spire & Throne – Penance

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Sludge, Esoteric
Gli Of Spire & Throne sono un nome probabilmente già noto agli appassionati del doom metal più tenebroso: attivi fin dal 2009, si sono rimboccati le maniche producendo una serie di demo, EP e split, guadagnandosi le attenzioni della Aesthetic Death, etichetta da sempre molto attenta alle novità dell’underground estremo, e con questa, nel 2015 hanno rilasciato il primo LP 'Sanctum In The Light'. Ora è il turno di 'Penance', nuovo imponente monolite sludge\doom che non devia di molto da ciò che ci è stato presentato in precedenza, semmai calca la mano portando la musica della band ad un nuovo livello di oppressione. Il terzetto scozzese qui danza tra la lentezza esasperante del funeral doom e i riff granitici propri dello sludge, mantenendo una sorta di sofferente equilibrio tra le due correnti acuendo la sensazione di precarietà e malessere: ogni mortifero drone sembra in procinto di ricomporsi in riff grondanti cattiveria, così come ogni struttura ritmica dà l’impressione di poter franare da un momento all’altro in caotiche destrutturazioni. La musica emerge dagli abissi nella strumentale “From Dust” e si spande come una torbida marea, tra i rallentamenti da capogiro di “Their Shadow Cast” e le devastazioni soniche di “Sorcerer”, celebrando così l’incontro tra il sound decadente dei loro “cuigini” Esoteric e i Sumac più nevrotici. Muoversi tra le sei tracce che compongono il disco, significa trascinarsi in una distesa desolata subendo ogni sorta di privazione, al punto che mai titolo fu più azzeccato: i freddi effetti di tastiera, i ruggiti del basso, i solenni riff di chitarra e le cadenze lisergiche della batteria, ci accompagnano come inquisitori, in questi 63 minuti di espiazione, mortificando con improvvisi scoppi di violenza l’ascoltatore inerme. Con queste coordinate è chiaro che non stiamo parlando di un album per tutte le stagioni e come chi non sia particolarmente attratto dalle esasperazioni del funeral-doom potrebbe patire una certa stanchezza, visto anche il minutaggio generoso dei brani. Tuttavia, le sfuriate più incattivite e vicine allo sludge e allo stoner, aiuteranno anche i profani a reggerne l’impatto fino alla fine. Inoltre, associare l’ascolto alla visione di uno di quei film horror dove i protagonisti non trovano alcuno scampo, o alla lettura del romanzo di Umberto Eco “Il Nome della Rosa”, dove nemmeno l’impegno e gli sforzi di Guglielmo e Adso, riescono ad evitare la catastrofe finale, potrebbe risultare un’esperienza impressionante. In 'Penance' l’unica luce che illumina il percorso è quella di fiamme rabbiose che covano sotto una coltre di cenere, ossia quella di una forza distruttiva e che non lascia scampo. La salvezza non è prevista, dunque, come ripeteva stolidamente Salvatore nel romanzo di Eco, “Penitenziagite!”. (Shadowsofthesun)

Rituals - Neoteric Commencements

#PER CHI AMA: Death/Black Melodico, Necrophobic, At the Gates
E io che pensavo che la Sleeping Church Records si dedicasse quasi esclusivamente al doom/stoner, sono stato immediatamente smentito con l'avvento di questo EP degli australiani Rituals, che con un moniker del genere, sentirli dediti ad un death melodico è quasi una bestemmia. Comunque 'Neoteric Commencements' è un lavoro di quattro pezzi che ci riporta ai fasti del death melodico svedese di primi anni '90. E "Wake of a Dead God's Robe" ne è la prima dimostrazione con un riffing massiccio, contrappuntato da buone melodie e growling vocals che mi hanno fatto pensare a gente del calibro di Unanimated, gli Entombed più melodici nella loro primordiale veste estrema e Necrophobic. Forse con "Drown Amongst Serpents" si può cogliere un più vasto ventaglio di influenze, scomodando anche i primi In Flames e gli At the Gates, fatto sta che il quartetto di Melbourne ci sa sicuramente fare, pur non promuovendo nulla di nuovo all'orizzonte. E allora non ci resta che ascoltare in modo spensierato anche le restanti "Slaves to the Tyrants" e "The Eighth Door", dove nella manciata di minuti a disposizione, la band australiana propina una bella ritmica portentosa, delle growling vocals belle profonde e poco altro che faccia gridare realmente al miracolo. Nella prima delle due song ci ho sentito un che dei primissimi Amon Amarth, quelli più oscuri e decisamente meno epici, mentre la seconda è un altro discreto pezzo di death che non rimarrà certo negli annali della musica estrema ma che comunque si lascia ascoltare con una certa fluidità. Per ora, mi sento di dire che quello dei Rituals non è nulla di cosi memorabile, si auspica pertanto in futuro un full length più illuminato. (Francesco Scarci)

(Sleeping Church Records - 2018)
Voto: 62

https://ritualsau.bandcamp.com/

sabato 25 maggio 2019

I Feel Like A Bombed Cathedral - Rec.Requiem

#PER CHI AMA: Ambient/Drone
La memoria ritorna al testo di una vecchia canzone dei Massimo Volume che mi aveva sempre fatto riflettere: "...mi sento come il tetto di una chiesa bombardata..." e più o meno il moniker di questo nuovo progetto solista dell'implacabile mente degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat, esprime, a mio avviso, lo stesso concetto di stordimento emotivo di fronte ad un mondo moderno, divenuto oramai inconcepibile per gli uomini che cercano di vivere sotto la stella sacra della ragione e della libertà. L'artista francese si rimette in pista e fa uscire questo nuovo album, 'Rec.Requiem', sotto il moniker I Feel Like A Bombed Cathedral. Si tratta di un lavoro perfettamente in linea con i clichè della label italiana, Dio)))Drone, ossia drone music a caduta ottenuta da sperimentazioni musicali ed effetti chitarristici in gran quantità, con qualche leggera impronta ritmica a servire la cascata sonica ideale. Quattro brani mirati, lanciati a medio/lungo raggio, tra gli 8 e i 15 minuti, centrano in pieno la cattedrale delle emozioni, lacerandola, rovinando il suo essere arte, rendendola storpia e brutta, priva della sua entità storica e divina, azzerandone il suo stato di monumento ancestrale, lasciando un vuoto, una lacuna interiore che si riflette benissimo con il titolo doloroso del disco. I primi due brani volano sul ricordo del noise più catartico, come se ascoltassimo 'Metalmusicmachine', cambiandone le coordinate al nero, virando il magma sonico in una salsa più nera e immersa nel sentore sacro e misterioso tipico delle chiese monumentali, mastodontiche e spettrali. Per il brano "Req.", l'atmosfera cambia e sulle note lente, profonde e scandite di un battito ritmico potente e cadenzato, ci sembra quasi di assistere al momento esatto del bombardamento, con i fraseggi, le sperimentazioni e i giochi di chitarra che giostrano le immagini sonore delle esplosioni. Il lutto è compiuto con la docile chitarra eterea e ipnotica di "Rev.", dove Mr. Cambuzat richiama la sua migliore parte interiore e si riappropria in solitudine delle splendide atmosfere post-rock tipiche del suo repertorio, provando a farci sognare per chiudere un drammatico ricordo, e iniziare una ricostruzione difficile, segnata dal dolore. Musica d'ambiente visionaria, dove lo stile e la classe di Cambuzat emergono per diletto, sensibilità e gusto, una capacità innata di creare un film sonoro di qualità e spessore artistico. Nuovo progetto, consolidata bravura. (Bob Stoner)

venerdì 24 maggio 2019

Saturnus Terrorism - Pamphlet

#PER CHI AMA: Death/Black
Borgogna, terra di grandi vini e splendidi castelli, ma anche luogo d'origine di questi Saturnus Terrorism (S.T.), duo che ingloba Dies, membro di Malevolentia e Einsicht, e l'ex Grisâtre Païard le Ferré. La musica offerta dai S.T., in questo debut dal titolo 'Pamphlet', riflette in un qualche modo, quanto proposto dalle band madri dei due terroristi sonori, propinandoci un black melodico che vive di guizzi di ferocia inaudita, ma anche di melodie al contempo sinistre e malinconiche. Questo almeno quanto testimoniato in "Division Mysticisme", la lunga traccia che segue l'intro del disco. Una rasoiata inaudita, un black corrosivo, distorto e dissonante, come solo in Francia sanno concepire. Le eminenze del black transalpino convergono nei suoni disarmonici di questo lavoro, ma nella sua espressione musicale, mi sembra di scorgere anche echi di un black metal norvegese di vecchia data, e penso ai primissimi Emperor. Il sound è comunque gelido e ostile. "Il Faut Obéir à la Nuit" è una lunga song black, nel cui pattern vi si trovano echi di epicità sorretti dallo scarno lavoro alle tastiere. La traccia è comunque tagliente, le ritmiche nella sua parte centrale, serratissime, le grim vocals producono un certo pathos, ma quelle declamate sono più evocative, le preferisco. Interessante l'evoluzione della song verso un mid-tempo decisamente più ragionato e lontano dalla violenta brutalità della prima parte, che ritornerà però in chiusura. "Le Philosophe aux Poignards" è uno stralunato esempio di black metal; i riff si confermano glaciali, cosi come le vocals infernali del frontman sembrano provenire direttamente dall'aldilà. L'episodio migliore del disco arriva però a mio avviso con le ritmiche sbilenche di "La Garde d'Acier", che vede in background oscure melodie che hanno una drammaticità paragonabile a certe cose suonate col violino dai Ne Obliviscaris, un tema da sviluppare maggiormente in future release. Assai particolare anche la componente più doomish della song che insieme alle funamboliche scariche death black, la rendono più completa rispetto alle altre. Con le due parti di "La Rhétorique de la Terre" si continua a mantenere ritmi sostenuti in un contesto costantemente spigoloso, sebbene compaiano delle infiltrazioni orchestrali che ne rendono l'ascolto un filo più accessibile. Alla fine quello dei S.T. è un esordio più che dignitoso, dove avrei dato più spazio ad alcune aperture melodiche o a più parti atmosferiche, piuttosto che provare a stordire l'ascoltatore con soluzioni a tratti eccessivamente martellanti. C'è comunque ampio spazio di manovra e crescita per il terrorismo venuto da Saturno. (Francesco Scarci)

(Epictural Prod - 2019)
Voto: 67

https://saturnusterrorism.bandcamp.com/releases

J'ai Si Froid - Loin des Hommes

#PER CHI AMA: Depressive Black Metal, Burzum, Paysage D’Hiver
Da non confondere con l'omonimo film con Viggo Mortensen, 'Loin des Hommes' rappresenta la terza fatica della one-man-band francese J'ai Si Froid. L'act, guidato dal factotum Brouillard, e forte della collaborazione con la Transcendance, ha da offrirci sette tracce (che includono duo pezzi strumentali) di emozionale e atmosferico black metal. Questo probabilmente si evince anche dalla suggestiva cover cd che lascia presagire da quelle montagne all'orizzonte, il senso di solitudine che vivremo durante l'ascolto del disco. Un album, che dopo l'arpeggiata intro, irrompe con "La Débâcle" ed una proposta di depressive black metal, con tanto di strazianti melodie costruite da compassate e ronzanti chitarre ritmiche su cui poggiano i vagiti disperati del mastermind transalpino in un viaggio di 12 minuti, in cui vi ritroverete anche voi come accaduto al sottoscritto, a pensare a qualunque cosa, contemplando il grigiore del cielo. Non solo suoni emozionali però nei lunghi minuti di questa song, ma anche furiose accelerazioni black, in cui ad essere penalizzata è la componente strumentale legata alla batteria, troppo secca e artificiale nel suo asettico programming sintetico. A ciò dobbiamo aggiungere una registrazione globale non proprio al top, forse legata agli stilemi imposti dal genere. Se i dodici minuti iniziali mi sembravano un po' eccessivi, i 13 prima di "Endurer pour Éprouver la Candeur" e i 16 di "Valse Mélancolique" poi, rappresentano uno sforzo notevole da affrontare, visto che a fronte di un approccio di "burzumiana" memoria, l'artista francese ha poco di nuovo e vario da offrire all'audience, se non un notevolissimo break melodico nella seconda parte della prima traccia, dai forti richiami classicheggianti. Poi un nuovo roboante attacco black che questa volta mi ha ricordato i Windir. Se l'incipit di "Valse Mélancolique" sembra più una suoneria del cellulare, la sua evoluzione invece è un black tiratissimo, saltuariamente epico e assai melodico, in cui però accade che si perdano i contorni degli strumenti, offuscati da quella marcescente registrazione low-fi che citavo poc'anzi. Un intermezzo acustico e arriviamo a "L'Espoir est le Dernier à Crever" il penultimo glaciale atto di 'Loin des Hommes', che riflette esattamente lo spirito distaccato, intimista, a tratti misantropico, del polistrumentista francese. "Le Rappel des Plaines" chiude il lavoro con poche variazioni al tema, concludendo proprio come si era aperto questo viaggio spirituale, ossia con un oscuro e malinconico black metal. Un lavoro più che sufficiente, che necessita di una ripulita generale per potersi aprire a platee più ampie, partendo da una pulizia dei suoni, una maggior umanità nelle linee di batteria, e meno derive musicali ampiamente già sentite sino ad oggi. (Francesco Scarci)