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lunedì 13 maggio 2019

Helheim - Rignir

#PER CHI AMA: Epic/Viking, Bathory
Ci eravamo fermati al 2011 qui nel Pozzo a recensire i norvegesi Helheim. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti: due album di suoni vichinghi, 'raunijaR' e 'landawarijaR', fino ad arrivare al nuovissimo 'Rignir' (che significa pioggia) fuori per l'imprescindibile Dark Essence Records. Le novità in questi anni sono state diverse, assistendo al forte desiderio di sperimentazione da parte della band di Bergen. Lo avevamo colto negli ultimi due album, forse è ancor più forte in quest'ultimo arrivato. Diciamo che all'ascolto della mite ed epica opener, il black metal degli esordi sembra ormai essere solo un lontano ricordo. Niente paura perchè con la successiva "Kaldr", non posso che sottolineare l'abilità dei nostri di muoversi tra un black atmosferico (di scuola Enslaved) con tanto di sporadiche accelerazioni ed un suono che a tratti diviene evocativo e solenne, complice come sempre l'alternanza alla voce tra V'ganðr e H'grimnir che, grazie ai loro differenti registri, riescono a mutare drasticamente la proposta dei nostri, tanto da farmi strabuzzare gli occhi nella seconda parte di "Kaldr", una song che si muove tra il progressive e le sperimentazioni neofolk di Ivar Bjørnson & Einar Selvik. Cosi come pure quando inizia "Hagl", song che si sviluppa attraverso un incedere lento, sinuoso, un po' stralunato in salsa folk rock, con improvvise accelerazioni, di fronte alle quali non posso che rimanere piacevolmente sorpreso e colpito dalla voglia dei nostri di suonare originali. E dire che nelle file della compagine nordica, ci sono ex membri di Gorgoroth e Syrach. Comunque la band è convincente in quello che fa, dall'epica bathoriana di "Snjóva" alle suggestive melodie di "Ísuð", là dove soffia il freddo vento del Nord, in un altro piccolo tassello di suoni devoti a Quorthon e compagni. Con "Vindarblástr" mi sembra di aver a che fare con i Solstafir, visto quel cantato pulito che evoca non poco il vocalist dei maestri islandesi. C'è ancora tempo per un altro paio di song: "Stormviðri" è un pezzo malinconico e compassato che vede ormai rare tracce di un retaggio black ormai quasi del tutto svanito. La conclusiva "Vetrarmegin" è l'ultimo atto in cui compaiono ancora forme di un black ritmato ma ormai completamente affrescato da un epica di bathoriana memoria. 'Rignir' è un disco ben fatto sicuramente, ma degli esordi dei nostri ormai non v'è più traccia alcuna. (Francesco Scarci)

(Dark Essence Records - 2019)
Voto: 75

https://helheim.bandcamp.com/album/rignir

Lucy in Blue – In Flight

#PER CHI AMA: Psichedelia/Prog Rock, Porcupine Tree
Non avevo mai sentito i Lucy in Blue prima d’ora ma di sicuro non li scorderò facilmente. 'In Flight' è un disco che mi ha stregato e mi ha fatto venir voglia di rispolverare i vecchi vinili dei Pink Floyd di mio padre e riascoltarmi la discografia completa dei Porcupine Tree. Siamo davanti ad una personalissima reinterpretazione del prog rock di stampo anni sessanta/settanta con una vena psichedelica e post importante. Gli ambienti dei Lucy In Blue sono immaginifici, sognanti e pieni di suggestione, saranno probabilmente stati i paesaggi ghiacciati e i tramonti islandesi ad aver conferito ai pezzi una tale cinematograficità e una tale intensità emotiva. Perfetto per una colonna sonora di un film, adattissimo all’ascolto in solitudine sulla poltrona a contemplare la notte, 'In Flight' riesce a riassumere la lezione delle grandi band del passato e a tramutarlo in qualcosa di nuovo, fresco e accattivante. Il dittico d’inizio "Alight" pt.1 e pt.2 è come un’infinita sequenza di lenzuola di seta che si stendono una sull’altra, senza peso, senza sostanza, fatte solo di leggerezza. La voce poi a ricordare moltissimo i primi lavori di Syd Barret con i Floyd, aggiunge quella componente malata e allucinogena che allarga la percezione e induce ad una trascendenza lisergica artificiale così piacevole e così profonda da sembrare tangibile. I pezzi sono vari ma lo stile e l’identità della band rimane; "Nùverandi" ricorda "Wish You Were Here" e lo struggente quanto leggendario rammarico per il compianto diamante pazzo. "Tempest" vanta la presenza di un frenetico prog rock che ricorda gli Area e i Jethro Tull, con quei suoni di organetto così evocativi dell’epoca d’oro del prog che quasi mi fanno commuovere. Una menzione merita anche la title track, indiscutibilmente il mio pezzo preferito del disco, che con i suoi quasi dieci minuti di lunghezza offre una selezione dei migliori ambienti dei Lucy in Blue e li conferma come maestri di espressività strumentale ed emozionale. Nonostante alcuni piccoli inciampi nel mood delle canzoni, il disco rasenta la perfezione. In particolare mi riferisco a momenti troppo frenetici seguiti da ambienti rarefatti ed intangibili, ove a volte la transizione appare troppo repentina, ma questo è il mio gusto personale, sono sicuro che altri ascoltatori potrebbero trovare questa caratteristica piacevole e interessante. Consiglio vivamente i Lucy in Blue a tutti i nostalgici della psichedelia e del prog, sono certo che troveranno gran soddisfazione nel volo di 'In Flight' e sono altrettanto certo che vorranno ripetere l’esperienza più e più volte finché la realtà non si squaglia e rimangono solo delle soffici nuvole dai colori pastello e un caleidoscopico cielo notturno adornato da un milione di stelle che lampeggiano ad intermittenza casuale e che non vogliono saperne di stare al loro posto. (Matteo Baldi)

(Karisma Records - 2019)
Voto: 82

https://lucyinblue.bandcamp.com/album/in-flight

domenica 12 maggio 2019

Anneke Van Giersbergen & Árstíðir - Verloren Verleden

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Indie Acoustic
Dieci limpidissimi e lamentosissimi lieder di provenienza assortita nello spaziotempo, limpidamente e nordicissimamente arrangiati utilizzando piano barra quartetto d'archi (di solito un violino e tre violoncelli) oppure chitarra barra quartetto d'archi (rispettivamente: "Bist Du Bei Mir", di Gottfried Stölze, compositore barocco coevo di Bach e il tradizionale inglese fine 800 "Londonderry Air - Danny Boy" di Frederic Weatherly) oppure limpidamente e noiosamente interpretanti a cappella ("Heyr Himna Smiður", Árstíðir) o quasi-a-cappella (il tradizionale islandese "Þér ég Unni", non-arrangiato dagli Árstíðir e già proposto nel live a Brema del 2013). Il torpore è allontanato di tanto in tanto, quando l'asticella emotiva sale intenzionalmente di qualche tacca (la summenzionata "Londonderry Air", ma anche "Russian Lullaby", Irvin Berlin, 1927, "A Simple Song", Leonard Bernstein per Zeffirelli, 1972, e pure il romanticismo nordico di "Solveig's Song", Edward Grieg dal Peer Gynt, senz'altro il più prossimo allo spleen Árstíðir) a scapito, provvidenzialmente, di un certo soggiacente e fastidioso narcisismo di fondo. (Alberto Calorosi)

Tintinnabula - Mamacita

#PER CHI AMA: Alternative Rock, System of a Down
Con le considerevoli eccezioni della metal-patchanka "Mamma", della electrotribale "Pazzo", a metà strada tra un Marilyn Manson che assume tachipirina da un flute e un Vinicio Capossela che si mangia uno yogurt scremato al mango, della melodic-vigorosa "L'immensità", riuscita cover del più celebre singolo di Don Backy, con tanto di ospitata dell'autore, o dell'inaspettata concessione al discorrer di amorosi sensi in chiusura, quel medesimo discorrer di amorosi sensi ipotizzato nella copertina (individuerete una punta, ma solo una punta di Fausto Leali nella conclusiva "Sottovoce" e un iceberg, ma solo un iceberg del Marco Masini più Disperato nella seconda A di amaro nella canzone "Amore Amaro"), con la considerevole eccezione di tutto questo, dicevo, nelle sedici canzoni del terzo album dei "Sicily of a Down" troverete un nu-metal old-school a tratti prossimo ("Clochard"), oppure molto prossimo ("Pietà") o ancora spudoratamente prossimo ("Mamacita") agli scorticanti fulgori dalla metal band archetipica dell'intera storia del metal armeno e mondiale e, nelle liriche, un approccio lubricamente combat folk, qualcosa a metà strada tra i Modena City Ramblers con la faccia sul bancone ("Viva Mazzarà") e i Litfba con l'unghia del medio incarnita ("Auto Blù" [sic], "Pietà"). "(∂+m)ψ=0", il titolo della quattordicesima traccia, è un enunciato (trascritto erroneamente, suppongo per esigenze di copione) dell'equazione di Dirac, universalmente nota come equazione dell'amore per via di una forzosa seppure affascinante interpretazione del suo significato. La mamacita, invece, è un vezzeggiativo in lingua spagnola di quella categoria femminile che nel vostro porn site preferito è classificata sotto il più noto acronimo di MILF. (Alberto Calorosi)

(Areasonica Records - 2018)
Voto: 68

http://www.tintinnabula.com/band.html

Ultra Zook - S/t

#PER CHI AMA: New Wave/Avantgarde
Incontrare l'immaginario folle degli Ultra Zook è cosa inverosimile ma alquanto rigenerante. Inverosimile perchè l'insieme di musiche e generi usati dal trio (il cd è uscito per la Dur et Doux and Gnougn Records mentre il digitale per Atypeek Music, in vinile ed anche in cassetta per i nostalgici) che si fondono nel loro sound sono innumerevoli ed imprevedibili, rigenerante poiché alla fine di questo loro disco ci si sente acculturati e pienamente soddisfatti sotto il profilo musicale. Immaginate i suoni caraibici di Rei Momo (vedi David Byrne) e la ballabile schizofrenia dei primi Talking Heads usati per suonare musica cabarettistica dal rustico sapore di campagna francese, suoni che dal Sud America si muovono verso i synth della Plastic music e il jazz gogliardico di memoria Zappiana, dove il compito arduo è capire le complesse formule di 'Jazz from Hell' per avere una chiave di lettura della folle musica di questo ensamble francese, figlio dell'avanguardia di matrice The Residents quanto della Bubble music/synth wave dei primi anni ottanta e del synth pop odierno. Dentro questo album (il primo full length dopo una manciata di EP tutti assai interessanti) ci troviamo di tutto, accenni di folk celtico con tanto di bagpipe ("Conderougno") e thin whistle ("Kawani"). In un contesto tropicale e atemporale si snodano i brani irreali del trio transalpino, che coniugano stupore, fantasia e genialità nel costruire brani pop di sofisticato approccio, attitudine elettronica tedesca, irriverenza rock alla XTC e fine ricerca ai confini col rock in opposition. Il canto in madrelingua è la ciliegina sulla torta, rendendo il tutto un'amalgama perfetta, l'astratto è in scena, una porta spalancata sulla strada della follia, una follia reale, libera di creare e gioiosa, mai banale, intelligente e convincente, una sorta di paese delle meraviglie in salsa sonora, dove tutto alla fine è una scoperta. Un disco allucinato, fuori dal tempo, stralunato e coraggioso, il proseguio perfetto per la dinastia psichedelica della famiglia Renaldo and the Loaf. Un dovere l'ascolto di questo album, per gli amanti e ricercatori di nuove commistioni sonore tra vintage, avanguardia e lucida pazzia. (Bob Stoner)

(Dur et Doux/Gnougn Records/Atypeek Music - 2019)
Voto: 78

https://ultrazook.bandcamp.com/

No Man's Valley – Outside the Dream

#PER CHI AMA: Psych Rock, Danzig
Gli olandesi No Man's Valley con questo nuovo album (edito dalla Tonzonen Records) hanno fatto un passo avanti da vero gigante, in assoluto il loro miglior lavoro, un disco che comprende composizioni carismatiche, compatte e avvolgenti, canzoni abbaglianti sotto l'egemonia del garage rock psichedelico più ricercato, cosmico e solare che spazia tra Fuzztones e On Trial, tra The Church e The Spacious Mind, tra Giobia e Crime & the City Solutions, tra il primo Danzig e i The Doors. La musica è intrigante e nasconde sotto la matrice garage anche una punta di stoner vecchia scuola europea, stile 7Zuma7 o The Heads. Il suono si esalta e mette a segno il miglior colpo con l'imponente e sulfurea "From Nowhere", dove è d'obbligo l'associazione alla mitica e irraggiungibile "Skeleton Farm" dei Fuzztones, ed è doveroso aggiungere, che la band dei Paesi Bassi, pur ricordando vari maestri del genere psych, si assume la pesante responsabilità di una originalità di grande valore. I suoni sono praticamente perfetti, curati in maniera maniacale, luminosi, profondi, lisergici e allucinati quanto basta per sentirne il vero calore e tutta la reale efficacia sonica. Il canto è sofisticato, coccolato dagli effetti vintage, il beat scalpita ed offre un sapore antico sulla rotta dei 60s, in un mood incantato che emana poesia e magia in tutte le sue tracce anche quando si surriscalda sulla via del buon vecchio Glenn Danzig, modalità canora "She Rides" (ascoltate "7 Blows"), facendolo rientrare nel finale, in un contesto sonoro stile "The End" dei Doors. Un lavoro importante, fantasioso e rispettoso allo stesso tempo, per quelli che sono i canoni preimpostati del garage rock/psichedelia di qualsiasi annata, musica per lasciarsi trasportare, per immergersi in un viaggio, liberare la mente e gioiosamente godere di un rock stralunato (ascoltate il fantastico ritornello di "Lies" in salsa Crime & the City Solutions, periodo 'Shine') suonato alla grande, una cascata di suoni luccicanti pronta ad investirvi con un taglio dark molto coinvolgente. La copertina del digipack è fantastica, surreale, allucinogena ed il disco è bellissimo senza alcuna caduta di stile, un caleidoscopio di colori tutto da scoprire. I No Man's Valley si affacciano all'altare del rock internazionale in maniera splendida e credibile. Ascolto imperdibile! (Bob Stoner)

sabato 11 maggio 2019

Sirena Velena – The Blood Girls (Le Mestruo)

#PER CHI AMA: Dark/Industrial/Ambient
Per la collana di produzioni Ho.Gravi.Malattie. a sfondo artistico/concettuale dell'etichetta torinese underground, HgM, ci giunge un nuovo capitolo tutto da scoprire. Nell'ambito dell'intento di portare a galla e sensibilizzare l'ascoltatore verso malattie o disagi più o meno gravi della vita quotidiana e moderna, l'artista palermitana in questione (Leandra Ardizzone), ci offre un EP, scandito da una voce narrante e scorribande rumoristiche varie, di sole tre tracce, sul tema delicato ed intimo del mestruo femminile, considerato in certe culture una vera e propria malattia discriminatoria per il genere femminile. L'aspetto visitato di questo rituale è visto con severa drammaticità e nel contesto del lavoro ci si addentra in un tipo di sofferenza che enfatizza il lato più doloroso e psichico di tale disagio. Le grida sul finale del primo brano dal titolo "Indisposizione" sorprendono per realistica interpretazione, il pulsare ritmico e ripetitivo dei rumori ed il recitato di "Le Ho", fanno avvicinare il nostro stato d'animo a quello della donna che vive queste situazioni una volta al mese. Unica pecca, ma voluta per esigenze sonore/stilistiche, è che il testo, in italiano, è poco comprensibile per via degli effetti usati che lo disperdono un po', ma resta comunque validissimo il risultato finale, drammatico e tagliente, a dir poco destabilizzante. La tensione si carica ulteriormente sul conclusivo terzo brano dal titolo "Non Posso Alzarmi", con quella sensazione di infermità e incapacità percepibile che la bella voce narrante di Sirena Velena (modella d'arte, performer, sperimentatrice noise) riesce a trasmettere legata al suo modo, molto intelligente, di paragonare ad ugual valore, l'arte del rumore ad una composizione musicale di tutto rispetto. La violenza di questo lavoro è palpabile, coerente e molto veritiera, in un suono diviso tra lo-fi noise, rumoristica e minimal industrial ambient, con il cd che contiene copertina ed un inserto a tema sanguinolento per rimarcare il concept delle composizioni. Il lavoro è disponibile anche in edizione limitata a 26 copie in cassetta (rossa/bianca) all'interno di un assorbente in busta di plastica rossa (peccato non siano stati inseriti i testi dei tre brani). Questa è la linea di confine estrema che separa la musica d'intrattenimento dalla musica di riflessione, l'espressione artistica che, tramite rumori e parole, dà sfogo alla lotta di sopravvivenza quotidiana della donna. Un EP sicuramente molto particolare, ispirato e di nicchia ben riuscito. Musica di culto e d'arte che non può e non vuole essere rivolta a tutti, poichè necessità di una sensibilità più alta per essere recepita ed apprezzata. (Bob Stoner)

The Worst Horse - The Illusionist

#PER CHI AMA: Hard Rock/Stoner
Una mitragliata hard-stoner-fucking-rock’n’roll ci getta violentemente in questo 'The Illusionist'. L’opener “Tricky Spooky” ci aggredisce e ci trascina giù, vorticosamente nel disco, al grido rabbioso dei milanesi The Worst Horse. Un grido che sale dal basso e si protrae fino alla successiva “313 Pesos”, che non accenna a diminuire i toni, con l’imposizione del suo groovvone metallico e fregiandosi di richiami (e ricami) hard blues, sempre ovviamente con gli amplificatori sparati al massimo. 'The Illusionist' è in realtà un concept, improntato appunto sulla figura appunto dell’Illusionista. Questo tetro personaggio è artefice ma allo stesso tempo vittima di malvagità, ormai schiavo di quei mostri interiori che ha voluto seguire ma che ora si impongono al suo volere, gli stessi mostri che sovente s'impossessano anche dei cupidi esseri umani. Le tetre fantasie che s'incontrano nei brani, sono infatti profonda allegoria di una realtà che troppo spesso cede alle malvagità, quei demoni che raschiano il fondo dell’anima umana e tuttavia ne sono anche parte integrante. La title-track, coi suoi richiami ai Motorpsycho più recenti, funge appunto da descrizione-presentazione del nostro Illusionista e della sua eterna caduta. L’album procede senza intoppi, sempre sfoggiando riffoni e groove trascinanti in puro stile Worst Horse, tra pure sonorità stoner alla The Sword ed ispirazioni dark-blues sabbathiane. Elemento fondamentale, anche per lo storytelling del concept, le vocals potenti e laceranti (come nel brano “XIII”) di David Podestà, fondatore del gruppo assieme al guitar-man Omar Bosis. Dopo essere passati per oscuri anfratti e scabrosi pensieri, arriviamo in conclusione, dove ci aspettano sette abbondanti minuti con la sparata hard-rock “It”, brano solido, dal titolo già decisamente evocativo in ambito di demoni e terrori. La struttura è decisamente articolata rispetto agli altri brani, ma pur sempre coesa, traduzione di un ottimo lavoro a livello compositivo e di arrangiamenti del trio milanese (oggi quartetto con l’ufficializzazione dell’ingresso del nuovo bassista). Da segnalare anche la presenza su quest’ultima traccia di un ospite d’eccezione: Luca Princiotta (Doro Pesch, Blaze Bayley) come chitarra solista. Diretto e deciso, ma molto più profondo del previsto nelle tematiche, questo concept-album è sicuramente un’eccellente prova da parte dell’ensemble milanese, che prima di 'The Illusionist' aveva pubblicato un EP omonimo, 'The Worst Horse'. Negli ultimi anni la frequente attività live deve aver temprato le corde di questi ragazzi dal grande potenziale, che ci regalano un’altra piccola chicca da inserire nell’ampio panorama dello stoner-rock nostrano, arricchito però da quell’anima groove ed aggressiva che li contraddistingue. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Karma Conspiracy Records - 2019)
Voto: 82

https://theworsthorse.bandcamp.com/album/the-illusionist

Kamala – Your Sugar

#PER CHI AMA: Psych Rock/Jazz
È un tocco di sana vena artistica quello che supporta la creatività di questa band tedesca, una verve che da tempo non sentivo, forse dai tempi dei super album di Paul Weller oppure degli Aztec Camera, album incantevoli come lo è 'Your Sugar', raffinato, ricercato e colorato. Non mi trovo d'accordo con la dicitura esposta sull'adesivo di copertina che etichetta il quintetto di Lipsia come "the new way of jazz & krautrock", cosa che a mio avviso svia la vera identità della band, ovvero, personalità jazz molto classica in salsa pop, innesti di soul e R'n B e una propensione psichedelica ed easy listening di classe, ottimi musicisti ma di krautrock neanche l'ombra. Questo non è un male visto che la band si contraddistingue per un sound vivace e frizzante, con un cantato intenso e caldo, chitarre avvolgenti che a volte sfiorano certa pop/wave degli anni '80, (il ricordo vola verso Johnny Marr) un paragone di dovere è anche l'accostamento a band di culto dell'acid jazz negli anni '90/2000 come potevano essere gli splendidi Corduroy, con la sofisticata raffinatezza e nobiltà stilistica degli album degli Style Council, mischiata al suono morbido e ultra dilatato dei Kikagaku Moyo (vedi l'album 'Masana Temples') anche se, in termini allucinogeni, molto meno spinti ma comunque capaci di tener sempre aperta la porta verso l'approccio psichedelico. Musicisti di ottima qualità che offrono composizioni aperte e solari ("Chronic Burden" è un gioiellino), dal taglio sonoro molto inglese, un'opera completa e fantasiosa, un percorso che nella sua mezz'ora abbondante di musica ci fa riscoprire il gusto per certe forme di jazz morbide e suadenti, a volte più sbarazzine e pop rock oriented, mai banali o lasciate al caso, a volte più intensamente elaborate ed intriganti. Tutti i sette brani dell'album sono di ottima fattura e nessuno sfigura all'interno della compilation (uscita per Tonzonen Records), mostrando una produzione più che eccellente con una profondità, una definizione e pulizia di suono degni di nota e assai appetibili per chi apprezza veramente la registrazione del suono reale che in più di un momento rispolvera il sound del buon vecchio, classicissimo, caldissimo disco in vinile di alcuni capolavori del jazz internazionale. Il disco, che crea una frattura ed al contempo un'evoluzione con i lavori precedenti della band, è contagioso, di qualità, fatto apposta per chi ama la musica di scoperta e multicolore. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2019)
Voto: 78

https://kamalapsych.bandcamp.com/album/your-sugar

Gabriel Lemaire, Matthieu Prual, D'Incise, Toma Gouband, Mathias Delplanque - Sans Titre #1

#PER CHI AMA: Experimental/Alternative
Due lunghi brani (assolutamente senza titolo) nati da una performance musicale live di tre ore al museo d'arte di Nantes, costituiscono il contenuto sonoro di questo cofanetto creato sotto la buona stella della sperimentazione ambientale rigorosamente suonata con l'aggiunta di live sampling e processori. Vi troviamo cinque musicisti tutto d'un pezzo, Gabriel Lemaire, sax alto e baritono, Matthieu Prual (la mente del progetto), sax alto e clarinetto, D'Incise, Orla keyboards, objects, electronics, Toma Gouband, batteria, percussioni, singing stones e Mathias Delplanque, live sampling e audio processing. Abili suonatori che sfidano le teorie della composizione rompendo gli schemi, creando arie statiche con piccole divagazioni sul tema, ritmi percussivi mai invadenti ma molto disturbanti a livello emotivo, aiutati nel loro intento da una tensione sempre presente, nulla di oscuro o violento ma una pressione continua sul tasto dell'emotività che spinge lentamente l'ascoltatore ad una crisi di nervi. Per 35 minuti filati, ci si intossica di visioni astratte dal ritmo lento, a volte ossessive, a volte sospese, a volte surreali, oblique, decise nel descrivere un certo disagio con profondità e realistica intensità. Non è un disco di facile ascolto, non è immediato, possiamo considerarlo una colonna sonora ben fatta con una produzione seria e una registrazione dal vivo di alta qualità. Un tipo di ambient ostica, dura e rarefatta che ha bisogno di essere compresa e considerata nella completezza dell'opera con più ascolti. Rumori e umori che si fondono per creare un paesaggio irrequieto, tesissimo. Dietro questi suoni (il disco è uscito per la francese Ormo Records) ci sono musicisti istruiti, che sanno creare e si sente. Non si arriva a questo tipo di ambient rumoristica senza attraversare i campi infiniti della musica classica e il jazz d'avanguardia o la sperimentazione tout court. Un buon estratto per ricercatori di musiche surreali, ipnotiche e sperimentali di lusso. Musica per fluttuare in un mare di pensieri pesanti e neri come la pece. (Bob Stoner)

mercoledì 24 aprile 2019

Il Re Tarantola - Scopri come ha fatto Il Re Tarantola a fare 50000 Euro in una settimana

#PER CHI AMA: Indie/Alternative
Un argomento dettagliatamente eviscerato nella sterminata letteratura musicale pop-punk italiana degli ultimi trent'anni (cfr. Senzabenza, Voina, Four Flying Dick et tantissimi al.): la fenomenologia comportamentale intergenerazionale della sfiga, ("Boero", "Agguati") anche sentimentale ("La Maglietta di Joe Cocker"), perché, amici, nella vita quello che conta ("Sono un Campione a Ballare da Seduto") alla fine è soltanto fanculo riderci sopra (nella copertina il re Tarantola taglia la strada a un gatto nero seduto alla guida della propria auto). Ma anche dada/msoniane epopee turistiche intergalattiche ("Suono per Pagarmi le Multe che Prendo Quando Vado in Giro a Suonare" - sì, è il titolo della canzone), metodi alternativi di fisioterapia applicata ("La Nostra Evoluzione Artistica Deriva Solo dalle Sigarette") e, vedi tu, un'arguta riflessione sulla incolmabile distanza interposta tra noi e certi portaceneri ("Mi Odio"). La vivace, a tratti irresistibile ironia esistenzial/social/scatologica del peloso monarca a otto zampe (a.k. anagraficamente Manuel Bonzi) pesca davvero ovunque, con una predilezione per certi paradossali ribaltamenti di sensibilità freak/antoniana, evidente per esempio nel singolo "Sono un Campione a Ballare da Seduto" ("A guardarmi così non mi dareste una lira / ma se mi conosceste un po' probabilmente dovrei pure pagarvi"). I suoni, a volte un po' artigianali, ("La Maglietta di Joe Cocker") attingono con disinvoltura anche a Blink 182, Green Day, Tre Allegri Ragazzi Morti ecc. ecc. (Alberto Calorosi)

Trevor and the Wolves - Road to Nowhere

#PER CHI AMA: Hard Rock, AC/DC
Nel primo album solista pubblicato dalla catarrosissima voce solista dei genovesi Sadist, rileverete fin da subito un'attitudine elettivamente e ostentatamente wild, pronta a riflettersi innanzitutto nella copertina, qualcosa a metà tra il vicino scorbutico di Dinamite Bla e un Rufus Ruffcut post Wacky Race e, subito dopo, nella ruvidità lignea e immediata dei suoni (chitarra, batteria, riuscite forse a non battere il piede per terra? Sì? Sul serio?) in modi non dissimili da cert'altri celeberrimi boscaioli a corrente alternata/diretta e provenienti dai famigerati antipodi. Riff asciutti, batteria metronomica: l'AB/CD del sound AC/DC omaggiato nella iniziale "From Hell to Heaven Ice" si propaga in realtà per tutto l'album, soltanto saltuariamente (e timidamente) virante verso sensazioni vagamente spacy (il blue-oyster chitarrismo percepibile in "Burn at Sunshine"), o NWOBHorrorM (una fuggevole capatina nel confortevole death metal sound della casa, è gentilmente offerto in "Bath Number 666"), oppure "motörheadeliche" (in "Wings of Fire" e "Lake Sleeping Dragon" ad esempio) o infine hardfolk/ancorapiùhardblues (nel violino scorticato di "Red Beer" o nella kilmister-sadness-blues "Roadside Motel"). Devozione, professionalità e un songwriting indubitabilmente ebanistico. (Alberto Calorosi)

(Nadir Music - 2018)
Voto: 65

https://www.facebook.com/brutaltrevor%20/

The Shadow Lizzards - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Groove Rock, Led Zeppelin
Un chitarrismo apertamente 1969/hendrixiano ("Power On" e tante al.) o jimmypage/esco ("Overhaul" e le restanti al.), a tratti eminentemente strumentale (cfr. la lunga coda psych di "Breathtaker", le divagazioni bluesy stile Gov't Mule di "Sea of Curls" e "Go Down"), una voce (non sufficientemente) rauca d'ordinanza, una batteria non sempre mixata a dovere ("Rip Me Off"), qualche timida testardaggine stoner (la paranoid-sabbatiana e successivamente iper-spacey "Warzone") e, splat, giù tonnellate di quella specie di gelatina hammond ("Go Down", "Power", "Rarity" e tutte le al.) color profondo purple utilizzata da qualche anno a questa parte dagli ingegneri del sound più astuti come principio attivo antichizzante: il frondosissimo album d'esordio delle Luccertole (sic) ombreggiate di Norimberga si colloca con monolitica intenzionalità nella prima periferia del popolosissimo empireo zeppelin-centrico, notoriamente pullulante di reggiseni sventolanti e ipertricotici beati in stato sempiterna rock-fattanza, ad osare là dove osano (si fa per dire) autori del calibro di Mountain ("Top of the Mountain", ovviamente), "Rival Sons" e soprattutto "Graveyard". Una manna sonora alla psilocibina per il vostro unico, rugginoso ganglio uditivo rimasto. (Alberto Calorosi)

(Tonzonen Records - 2018)
Voto: 75

https://theshadowlizzards.bandcamp.com/

Ritchie Blackmore's Rainbow - Memories in Rock II

#PER CHI AMA: Hard/Heavy, RJ Dio
Volonterosamente determinato a riempirvi gli scaffali e al contempo vuotarvi le tasche con quella nota logica di marketing cara alla politica italiana denominata annusa-le-mie-scorregge-puzzolenti, il Becchino Permamentato formerly-known-as-guitarist, sbatte fuori il terzo live-fotocopia in meno di due anni. Duemila16: 'Memories in Rock', di cui avrete senz'altro ammirato la copertina raffinata grosso modo come un bootleg filippino degli anni novanta. Duemila17: 'Live in Birmingham 2016', in cui avrete indubbiamente gradito la scaletta clonata (fuori "16th Century Greensleeves", dentro "Burn" e "Soldier of Fortune") come una pecora cinese canterina. Duemila18: 'Memories in Rock II', di cui avrete sicuramente apprezzato la clonazione al quadrato, nella copertina, uguale nientemeno che a 'Rainbow Rising', e nella scaletta (dentro tutti i summenzionati, più "All Night Long", "Temple of the King" e crepi l'avarizia, pure un fottuto inedito). Già, l'inedito. Il primo da ventitré anni a questa parte. Si parla di almeno diecimila metallari nel mondo ricoverati per complicazioni cardiache. Quasi la metà sarebbero reggiani. Un franoso mezzotempo 101% AOR aperto da un truffaldino (ma decente) riff Dio-era e nevrilmente percorso dai consueti clichet chitarristici di Mr. Becchino P. che potrebbe stare giusto sul lato B di 'Bent Out of Shape' o nelle bonus track di una qualunque release della Frontiers. Oppure qui. Si intitola "Waiting for a Sign". Un titolo, se ci pensate, straordinariamente comico. (Alberto Calorosi)

(Minstrel Hall Music - 2018)
Voto: 45

http://www.ritchieblackmore.info/