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giovedì 7 marzo 2019

Evilness - New Perspectives, No Evolution

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Forbidden, Pantera
Ci hanno impiegato ben 13 anni i francesi Evilness a venir fuori con il loro debutto su lunga distanza. Formatisi infatti in quel di Tolosa nel 2005, dopo un demo l'anno successivo, un EP nel 2013, finalmente arriva nel 2018, il tanto agognato Lp, 'New Perspectives, No Evolution'. Un titolo che sembra parafrasare un po' i contenuti di quest'album che mette in scena 12 brani (ma cinque erano già contenuti in 'Unreachable Clarity') all'insegna di un death thrash scoppiettante che rappresenterà verosimilmente una nuova prospettive per la band, ma zero evoluzione in fatto di sonorità. Questo per mettere subito i puntini sulle i e dire che non c'è granchè di innovativo nel sound di questa release, se non del sano thrash death dotato di una buona dose melodica e a tratti di ammiccamenti al prog. Penso ad esempio a "Basically Defleshed", che sembra strizzare l'occhiolino agli americani Anacrusis, con delle partiture più ricercate soprattutto a livello di porzione solistica, con un bel lavoro del bravo axeman Sébastien Chiffot. Lo stesso dicasi della successiva "Ginx", serrata a livello ritmico, ma sempre interessante nei suoi ricercati assoli. Mi aspettavo francamente di più da un brano come "Amok", semplicemente perchè in veste di ospite (con non si sa quale mansione) compare Eric Forrest, ex cantante dei Voivod, invece la song è tremendamente piatta e dotata di scarsa personalità. "21 Reasons to Bleed" è un bel pezzo thrash metal, che mi ha evocato un che dei Forbidden di 'Twisted into Form' miscelati con gli Over Kill di 'Under the Influence', complice probabilmente quel basso slappato a fine brano. Insomma un bel dejavù per un album che farà sicuramente la gioia degli amanti del thrash death, ma anche di chi ama il metalcore, considerata la natura melodico-esplosiva di "Missing One Piece", cosi carica di groove, ma anche di riffoni in Pantera style e vocalizzi graffiati. Si insomma, in 'New Perspectives, No Evolution' è possibile trovare un po' di tutto, questo perché il thrash death di anni '80-90 ha influenzato alla grande la band transalpina, visto che trovo ancora anche un che di Exodus o Anthrax e molti altri lungo l'intero lavoro, anche laddove si ravvisa una strana vena stralunata, come accade all'inizio della datata "Meeting Lady Death", la prima delle cinque song originariamente incluse nell'EP del 2013, qui ri-registrate per l'occasione, ma dotate di un piglio decisamente più old-school. In definitiva, nulla di nuovo sotto il sole, solo la colonna sonora ideale per un headbanging sfrenato da scatenare con gli amici. (Francesco Scarci)

mercoledì 6 marzo 2019

Hanormale - Reborn in Butterfly

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Pensees Nocturnes
Nomen omen, il moniker Hanormale dice tutto, ossia che un sound del tutto normale non è proprio lecito aspettarselo da questo 'Reborn in Butterfly'. D'altro canto avevo già intuito dal precedente '天照大御神' che il bravo Arcanus Incubus non è personaggio del tutto convenzionale, vista peraltro la sua militanza in band altrettanto peculiari quali Mystical Fullmoon o Deviate Damaen, tanto per citarne alcune. Il terzo disco degli Hanormale si apre all'insegna del delirio sonoro ossia con una sorta di rifacimento della colonna sonora di Twin Peaks (quella a cura di Angelo Badalamenti), con quel motivetto di Laura Palmer, incastonato in una paurosa sfuriata black ("It's Happening Again"). Poi quando "Like a Hug, Darkness Embrace Us All" irrompe col suo fare jazzato, sperimentale e spericolato tra partiture etniche, prog e black, non si può che rimanere disorientati e godere appieno della fantasia e dell'imprevedibilità compositiva del musicista milanese qui supportato da una serie infinita di ospiti provenienti da molteplici band (Mechanical God Creation, Orcassassina, Deviate Damaen), da due batteristi (Mox Cristadoro e Marco Zambruni), un sax, un violoncellista e un didjeridoo. Che 'Reborn in Butterfly' sia album originale si evince dall'alternanza di stili musicali in esso contenuti, ma attenzione perchè questo potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio. In effetti con "Human" sprofondiamo in una sorta di funeral doom cosmico e nebuloso, che solo nel suo finale accelera a dismisura, sforando in una specie di annichilente grind isterico e controverso. Sebbene mi faccia sorridere il titolo "Satan is a Status Symbol", il pezzo inizia col malinconico tocco di violini e un mood che si conferma navigare in un versante decisamente più mansueto e inusuale per i nostri, almeno fino a quando esplode il feroce chorus che dà il titolo al brano, e la musica sghemba che ci sta attorno, con tanto di sax e violini di sottofondo. Ma le sorprese sono sempre dietro l'angolo e la song va a scemare tra clean vocals ed atmosfere soffuse. Non proprio quello che ci riserva la successiva "Ghettoblaster Black Metal", un brano che potrebbe tranquillamente stare su uno dei dischi più blasfemi degli Impaled Nazarene con ritmiche all'insegna di una crudissima carneficina. "Haguzosu" mescola ancora le carte in tavola, proponendo un sound più votato ad un obliquo prog/post rock, dotato di ispirate venature black. "Candentibus Organis" ha la peculiarità di avere testi in latino, mentre il suo sound sembra quello del vento che attraversa le campane di legno orientali, intervallate da sgroppate black e solenni (e spiritualistici) momenti, atti per lo più a confermare quanto possa essere suggestiva la proposta del folle mastermind italico. "Rare Green Areas" è la narrazione di una storia da parte di Gab dei Deviate Damaen, in una sorta di ibrido tra gli Aborym di "Psychogrotesque IV" e i Deviate Ladies di "Nec Sacrilegium, Incesti Gratia!", dotato di un finale industrial da paura. Con "Al Tanoura" mi sembra di aver a che fare con i deliri sonori ed incontrollati dei Pensees Nocturnes dell'ultimo 'Grand Guignol Orchestra', con la sola differenza che gli Hanormale sono decisamente più ostici da digerire. "Iperrealismo" ci conduce nei meandri del dark ovviamente contaminato da un black truce che viene spezzato ancora una volta da un break di free jazz sperimentale che chiama in causa le sublimi divagazioni sonore di 'Knownothingism" dei Thee Maldoror Kollective. Ancora risvolti soft jazz questa volta con i tocchi di pianoforte e batteria di "The Search for the Zone" in un brano (forse il migliore del lotto) in cui convoglia un po' tutta la strumentazione alternativa della band (qui il violino è fantastico, quasi a emulare le melodie dei Ne Obliviscaris) e in cui il black trova nuovamente sfogo nel folle rincorrersi delle caustiche chitarre della band e nel disumano screaming del vocalist. Questo gioiello di musica estrema si conclude con "Requiem for Our Dead Brothers", un outro di solo pianoforte, un malinconico arrivederci che suggella l'enorme comeback discografico degli Hanormale. (Francesco Scarci)

martedì 5 marzo 2019

Master Margherita - Border 50

#PER CHI AMA: Dark/Ambient/Dub/Elettronica
Il consolidato musicista/DJ Moreno Antognini, che sotto le spoglie di Master Margherita sfodera musica al confine tra dub ed elettronica berlinese fin dai primi anni 2000 (innumerevoli le sue release), si scopre primo attore anche tra le fila della Ultimae Records, etichetta dai gusti molto radicali in fatto di musica, che però, con questo nuovo 'Border 50' lascia diversificare leggermente le sue proposte musicali, permettendo di spostare il tiro verso un ambient con spunti di matrice decisamente più alternativi. Una forma diversa, pensata con i ritmi lenti, psicotici e bui della Kilimanjaro Darkjazz Ensemble, Bohren & Der Club of Gore e Dale Cooper Quartet & Dictaphones, dove tutto risulta sospeso e rinchiuso nell'ombra, dai rumori uditi in lontananza fino ai colpi di una batteria appena accennata. La composizione di matrice rock oriented (alla maniera dei Pink Floyd più eterei), è un punto di partenza e non un arrivo, un motivo che offre uno spunto di ispirazione ma che viene progressivamente fatto svanire in favore di un ambient più consono all'estetica dell'etichetta. Spiccano le fughe sonore dei synth e la drone music più meditativa, tipico delle produzioni della Ultimae. Il dub che vive nel background dell'artista elvetico, viene messo in sordina nella parte iniziale dell'album, anche se, per tutto l'intero fluttuare del disco si sente, nella profondità dei bassi e nel bilanciamento del suono, che Master Margherita ha la stoffa, il carattere e l'esperienza per governare al meglio questo tipo di sonorità. Dicevamo che il sound può essere anche classificato come dark ambient, poiché richiama arie e stili usati da band vicine al dark/synth wave in generale (vedi 'Time Machines' dei Coil). Sicuramente ci si mantiene all'interno del genere e lo si rivisita in chiave malinconica e scura, ottenendo un'elettronica scenografica e cosmica di scuola Martin Nonstatic (compagno di scuderia), utilizzando in maniera statica e cupa il suono elettronico di Sync24. Il trittico iniziale è spettacolare nel suo essere un colosso sonoro completo ed elegante, un suono misterioso che sfocia ("Shruti One - Ambient Mix") in un folk guidato da un flauto etnico (magistralmente suonato da Don Hooke), dal tocco estremamente magico. Da questo punto in poi i ritmi diventano sempre più rarefatti, i brani sembrano rifarsi ad una coltre di fitta nebbia e tutto sembra congelato ed immobile. Con "Cosmogram" (il brano migliore della compilation a mio avviso) l'abbandono avviene tra le stelle di una sconosciuta e nera galassia, una visione buia ed infinita. I dieci minuti abbondanti di "Border 50 Dub Mix" in compagnia di The Positronics, ci riavvicinano al dub cosmico, liquido e pulsante con i suoni rimodernati alla maniera del mitico Bill Laswell con un ricordo d'annata delle opere di 'The Scientist'. In chiusura il ritorno al drone/ambient di "Extending Downwards (Border 50 Mix)". Un disco non facile da assimilare ma che offre spunti di cristallina bellezza, sicuramente non da sottovalutare (disponibile anche in versione 24 bit). (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2018)
Voto: 73

https://ultimae.bandcamp.com/album/border-50

lunedì 4 marzo 2019

Paths - In Lands Thought Lost

#FOR FANS OF: Black/Ambient
From the rich Canadian underground, Paths returns with its third effort entitled 'In Lands Thought Lost'. This is a solo project founded by Michael Taylor in 2013. As far as I know, this is Michael´s first fully metal project as his other projects like the extinct Heaven Was Beautiful Then, and his current side project, Teeth of the Wolf, are much more acoustic and ambient. In fact, Paths was initially a black metal project with many different influences and a weird touch, which has evolved to a more ambient black metal sound. This evolution happened in only 3-4 years, where Michael has kept an interesting rate of releases, recording several demos and the aforementioned three albums.

Now, only five years after the band´s inception, Paths seems to have achieved a state of maturity and consolidation of the current sound. This might lead the band to be more known in the scene, especially if we take into account that 'In Lands Thought Lost' has been released by the excellent label Bindrune Recordings. The new opus consists of five long tracks, where it is clear that Paths has now a quite distinctive ambient black metal touch. The tracks have in general a quite ferocious tone, where the guitars play a major role, the occasional synths increase this sense of atmosphere in certain parts, like it happens in the second track “To Brave the Storm”. Anyway, the use of the synthesizer is increased through the album, making certain tracks with a stronger atmospheric touch. Pace wise, the album has unsurprisingly a good amount of fast sections, but Michael manages to vary the pace enough to compose interesting songs maintaing a high interest. Thanks to this approach, the songs flow from fast to mid-pace and slow sections in a very natural way. Moreover, apart from the mentioned keys, he introduces more acoustic and ambient sections, like those contained in the second half of “Creaking Boughs”, where he even sings with a clean voice, just only like a single man choir. The last part has also a combination of excellent guitar melodies with a slightly more prominent synthesizer. This may be one of the most interesting compositions of this album. I would like to remark Michael´s excellent job with the guitars, both at riff level and especially with certain solos, which are quite emotional and with a melancholic touch; one of my favourites is that you can listen to in “The Everbright Land”. The album closes with “South Ever South”, the longest track of 'In Lands Thoughts Lost' that summarizes all the features here contained. It has a slower start with synthesizers whose melody is very similar to the one listened to in the previous song. This is not really a problem as I love how it increases the sense of solemnity. This is clearly the most solemn and epic track of the cd, with occasionally faster sections but a mainly slow-mid tempo. These calmer parts help Paths to have a greater room to create a hypnotic and beautiful composition. This is undoubtedly an excellent closing to the album and a composition I personally like to listen to over and over again.

In conclusion, Path has released an excellent third work where it seems to be very comfortable within the atmospheric black metal genre. Its mastermind Michael has composed excellent tracks, where guitars play a prominent role with very good melodies and a wide range of variety. The keys and other tweaks enrich the compositions and make the album even better. Very recommendable. (Alain González Artola)

Quiete - Eos

#PER CHI AMA: Death/Black, Novembre
Il progetto Quiete vede nelle menti di Nicola Trentin (che abbiamo già recensito nei Crafter of Gods) e Matteo Penzo (Descent from the Damned e Famen) i principali fautori. L'esordio 'Eos' riporta immediatamente alla mitologia greca e alla dea figlia dei Titani Iperione e Tia, condannata da Afrodite, per la sua mala condotta, ad innamorarsi di continuo di comuni mortali; da uno di questi ebbe un figlio che fu ucciso da Achille, nella Guerra di Troia. Le lacrime di Eos per quella perdita, generano la rugiada ogni mattina. Fatta questa dovuta introduzione, addentriamoci nella musica del duo di Treviso per capire la potenziale connessione tra la musica dei nostri e la mitologia greca. L'EP contiene tre pezzi, che esordiscono con "Samsara" (chiaro riferimento alla dottrina orientale inerente al ciclo della morte). La song apre in modo suggestivo risvegliando in me le immagini del film omonimo. È una sorta di intro a cui fa seguito il devastante ma estremamente melodico approccio della band, che ricama successivamente melodie dal sapore orientale su cui s'insinua il sussurato in italiano del vocalist. Il tribalismo etnico della proposta viene spezzata però da una feroce ritmica e da un growling possente, che va ripetendosi nel corso del brano, su cui aleggia un mood malinconico che sembra connettersi virtualmente alla tristezza della divinità greca menzionata poc'anzi. Con "Aurora", al di là di un pesante tappeto ritmico, è interessante sottolineare la presenza di tocchi di pianoforte che insieme ad una splendida melodia di chitarra, guidano il brano che ammicca, almeno nelle parti più atmosferiche e di cantato pulito, ai Novembre, mentre nelle porzioni ritmiche più selvagge, i riferimenti nel death melodico potrebbero essere molteplici. Alla fine però il risultato finale si rivela assai gradevole e non posso che concedere un plauso alla proposta dei due musicisti veneti, non fosse altro poi per la scelta di mettere i tre pezzi di 'Eos' in un elegante digipack. Nel frattempo arriviamo alla conclusiva "Ephemeral", una song che vuole probabilmente parlare con toni filosofici, della natura effimera dell'uomo o chissà, affidando il tutto alla voce femminile di Federica Bottega che fa da contraltare al growling malefico di Nicola in un esperimento quasi riuscito, dico quasi perchè il dualismo female e growling vocals ovviamente non è affatto nuovo, e poi perchè la tonalità vocale della brava Federica, a mio avviso, poco ha a che fare con la proposta dei nostri che si confermano più efficaci nelle porzioni più devastanti dell'album. Insomma, le premesse per fare bene in futuro sono davvero buone, c'è ancora da lavorare per integrare al meglio nuove collaborazioni con voci femminili o per calibrare al meglio la proposta dell'act trevigiano. Nel frattempo godiamoci la musica contenuta in 'Eos'. (Francesco Scarci)

The Universe By Ear - II

#PER CHI AMA: Psych/Alternative, Motorpsycho
Muoversi tra la psichedelia degli It’s Not Night, It’s Space e la scatola musicale dei Motorpsycho, passando per stoner e allucinazioni solari della vecchia scuola degli On Trial, deve essere un compito arduo ed estremamente complicato se al suo interno ci si vuol mescolare anche un'attitudine punk old style americana alla X ed un certo prog alla Pain of Salvation (periodo 'Road Salt'). Coretti e lyrics ben studiati (con evidenti richiami alla scuola alternative rock), equilibrio musicale e una orecchiabilità da tener conto, sono l'arma migliore degli svizzeri The Universe By Ear, giunti al loro secondo lavoro, 'II'. Il progredire dell'album è fluido e sempre fantasioso, già nel secondo brano la natura freak e lisergica di questa creatura sonora si mostra con aperture psych molto interessanti, anche se quello che colpisce rimane sempre la gioiosa cantabilità dei brani, che potremmo paragonare, valutandone l'alta qualità, ad una forma underground dei R.E.M. liberati dal mainstream ed immersi in acido. I nostri musicisti elvetici, si muovono con facilità ed esperienza in contesti psichedelici vari, con l'ausilio di una produzione molto intelligente che li avvicina a certe sonorità care ai Tame Impala e agli Oasis (quelli di 'Dig Out Your Soul' per intenderci) lasciando sempre una porta aperta verso lo stoner rock più allucinato della prima ora (vedi "Core"). È straordinario intuire quanto sia maturo un brano come "Follow the Echo" nel suo pulsare con reminescenze hard blues e 60's, la ballata alla Frusciante di "Fall", l'occhiolino strizzato verso il mood radiofonico tra Hendrix, EODM e primi Heels in "Bad Boy Boogie", oppure il mantra dilatato di "Sand...". Di sicuro si sente che non cercano di emulare altre band, prendono spunti e si coprono di originalità nel loro mescolare generi inerenti al rock desertico, psichedelico e solare. Sono svizzeri dicevamo e si sente, nel loro stile così certosino, nella ricerca della qualità, ma a Basilea, il sole non splende alla stessa maniera della California e questo li rende più interessanti e originali allo stesso modo dei norvegesi Motorpsycho, un'anomalia geografica che giova al suono del gruppo in maniera più che ottimale. 'II' nasconde a suo modo anche un'impostazione neo progressive non convenzionale, con l'album che si srotola lungo dodici brani suonati ad hoc andando via via ad evolvere e migliorare, ma anche stravolgendosi in una veste più garage, psych e vintage, concetti e sperimentazioni musicali presenti e ben espresse anche nel primo album. Ma 'II' è ancor più ricco di sfumature, e tutto da scoprire! (Bob Stoner)

Eremit - Carrier of Weight

#FOR FANS OF: Sludge/Doom
True to doom form, a massive lumbering lead guitar inhales the smoke of dying civilizations as growling and hacking vocals heave their ways across the desolation of “Dry Land”. Eremit becomes its own beast of burden in 'Carrier of Weight' and stumbles through the sludge of its reverb in search of relief from this treacherous strand. A very John Tardy feel comes with the vocals as the gravely unhinged scream of Florida's sickest sound finds its mirror in Moritz Fabian's voice, making the guitar billow clouds of grain to choke away such anguish. The pacing throughout over twenty-three minutes of “Dry Land” is reminiscent of the Altar of Betelgeuze's 2017 album, 'Among the Ruins', without the final step into the rays of an expanding sun to melt you away. Instead, you slowly starve to death as this agonizing song saps you of your nutrients and leaves you to finally be washed away by the incoming tide.

“Froth is Beckoning” brings that deluge with a massage of strings, fingers that become the legs of spiders, curling around you like the tireless onslaught of a lunar tide. This grimy and enchanting sound follows you for a few minutes before tumbling deeper into a chasm of inescapable darkness.

Epic longitude through three tracks is difficult to pull off. Flowing in a thought provoking manner from movement to movement without compromising the integrity of a song to keep a listener's focus makes it difficult to negotiate the distances a song will trek and what baggage it is willing to carry with it along the journey. Where “Dry Land” lost its luster, the energy of “Froth is Beckoning” absolutely brought that power back and, in the tips of its second riff, left me wondering where the soar of Pelican may come swooping by or, in its lowest register, when the intensity of a blast would squeeze its way in. Instead, none of that expected release would loosen Eremit's grip on a my neck, choking the throat and refusing to let go with the release for which I was so hoping. Like the torture of hanging by a hook waiting for your captor to return, the walls start to close in with a slight kick that speeds up the riff and drumming to make for a sloshing flow.

Then comes the monstrous final portion of the album, dragged out into a half-hour epic. Where “Dry Land” flowed like the dirty water of a receding flood into “Froth is Beckoning”, “Cocoon of Soul” takes a cleaner approach in its first minutes with an echoing atmosphere humming across the register. It is a satisfying payoff after nearly thirty-five minutes of very samey droning to hear a song that moves and varies while it drowns in the despair of doom. Like the chrysalis to which its title refers, this song wraps you tightly in its ever more claustral walls of guitar, slowly evolving and savoring every mutating muting of a previously plodding pace before crystallizing in the scream of a soul to escape its confines and be reigned in again over long progressions that last minutes at a time.

Though the imposing entirety of this package aims to daunt the listener with its ever-thundering power, there are few drum fills and deviations from form to bend the structure. Instead, these three tracks come more like a soundtrack to one's interment in a prison, an engrossing experience transfixing the listener with its subtleties throughout such minimal variation. 'Carrier of Weight' sews itself into your sinews, like a cancer that cannot be removed without splitting the brain and sacrificing who you are. The cage becomes the Stockholm syndrome love that you cannot live without, until the tiniest crack in the seams is spied. For a moment there is a way out. All of your self-denial, the indoctrination and convincing and the lies that lighten the load dissipate as you plunge towards the crack, blasting and screaming, wailing and tearing in time to the instruments in the hope that such raucous fury can quake these confines. The heart leaps, fingernails bend and break in the thrashing at the wall, and finally the force of this eruption, the deluge so long desired, breaks the thickness of these walls to set you free. Eremit has finally found catharsis. (Five_Nails)

giovedì 28 febbraio 2019

Legion of the Damned - Sons of the Jackal

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Death
Sentivo la mancanza dell’ennesima mazzata nei denti. Questa volta dovrò presentare il conto del mio dentista ai Legion of the Damned (LOTD), andando a ripescare il loro secondo lavoro del 2006. La band ci spara tra capo e collo un death violento e incazzato, oscuro e morboso. Potenti riff erigono un muro sonoro devastante, capace di assalirci alle spalle e lasciarci inermi e annichiliti. Cupe growling vocals si stagliano su una ritmica pesante con una batteria che ricorre spesso ai blast-beat. Per chi non lo sapesse i LOTD non sono altro che la reincarnazione degli ormai defunti Occult, band olandese di discreto valore negli anni ’90, che per ragioni contrattuali decisero di sciogliersi e riformarsi sotto altro nome e ripartire là da dove avevano lasciato, appunto con un death thrash dinamitardo che si rifà ai nomi sacri del genere. Niente di nuovo quindi sotto il sole: tanta rabbia e colate laviche di riff che ci percuotono e ripercuotono, lasciandoci tramortiti per terra. 'Sons of the Jackal' è un mortale attacco ai sensi, che alla fine dell’ascolto ci lascia totalmente privi di fiato. Sebbene non ci troviamo al cospetto di nulla di nuovo, devo rilevare l’assoluta perizia tecnica di una band che ormai da oltre 25 anni calca la scena metal con grande dignità. Ultima nota: il cd contiene anche un bonus DVD con più di due ore di materiale inedito estrapolato da backstage di vari festival estivi del 2006, due video e tre gallerie di immagini. Per soli amanti di album tritaossa. (Francesco Scarci)

(Massacre Records/Napalm Records - 2006/2015)
Voto: 65

martedì 26 febbraio 2019

The Pit Tips

Francesco Scarci

Mahr - Antelux
Delice - Sillage
Gorgon - Elegy

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Five_Nails

Spirit Division - Forgotten Planet
Intimidating Mage - Plainsman
Tristania - World of Glass

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Shadowsofthesun

Behemoth - I Loved You At Your Darkest
Massimo Volume - Il Nuotatore
Emma Ruth Rundle - On Dark Horses

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Alain González Artola

Rhapsody of Fire - The Eight Mountain
Konfront - Heks
Ringarë - Under Pale Moon

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Michele Montanari

Soen - Lotus
Varego - I Prophetic
Spaceslug - 4 Way Split

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Dominik

Cantique Lépreux - Paysages Polaires
Lunatic Affliction - Secreta Obscura Mysterium
Der Rote Milan - Moritat

Vanir - Allfather

#FOR FANS OF: Viking, Amon Amarth
Vanir is a band that, on paper, should be buttering my bread. A thick layer of bass clouds the mix while shafts of light break through in choral cries. Chest-pounding rhythms stomp through meaty melodic guitar riffs and images of grizzled ancients thrown about by massive waves complete the atmosphere of “Ironside” as landfall comes with a tide of chaos. The murky melancholy of glorious battle is brought by thunderous drumming, raging rhythms, and soloing six strings aching to accentuate the intensity of peril amidst the clashing of shield walls.

There is a palpable zeal in this dense almost atonal delivery, one as colorless as a collage of weathered stones and fading runes. The massive marching momentum of 'Allfather' cracks you across the face with a flying riff on occasion or a solo that spurs sails forward, but end up crashing into staggering waves of plodding verses and forgettable choruses that salt the wounds opened by such heartfelt moments. Attempts to outdo Bathory in atmosphere fall painfully flat as this flawlessly clean delivery roots itself in a groundwork of stiff blackened death aesthetic and the surrounding yawns of choir and synth make bleak what should be the clenching of a triumphant gauntleted fist. There is little to characterize this band in its own space, merely a series of tropes thrown at a template so basic and phoned in that it's clear why this band is entirely forgotten in the overflowing sea of folk, extreme, and viking themed metal bands populating Scandinavia and swarming scenes the world over with a reach that would make their ancestors weep.

The opening song, “Væringjar” is very much a testament to what you'll hear throughout the rest of the album. Melodic riffs with death metal aesthetic, a very Amon Amarth similarity as this folk metal overruns its power metal presentation with the harsh vocals and bass-heavy thunder of this modern more brash brood. Hulking melodies majestically flow like the grizzled beard of a great warrior, his outstretched arm gripping a rope as waves toss his boat to and fro, a blizzard fueling the large square sail as “Ironside” tumbles to tears of riffs and sprays of double bass. However, beyond the theme of songs like “Ulfhednar” about wolf-skin wearing berserkers of old, the energetic “Shieldwall” opening with a sample from the television show “Vikings” before crashing into its murky production, or “Einherjer”, named for the fallen who are brought to Valhalla, the album revels in an epically stagnant blandness that swamps over the wide gaps between its richest moments.

The Amon Amarth style flows too obviously when melody comes up. A guitar moment in “Einherjer” is taken right out of Judas Priest's “You've got Another Thing Coming” and is easily found in Amon Amarth's “The Beheading of a King”, “An Ancient Sign of Coming Storm”, and “Under the Northern Star”, but altogether is best shown in Amon Amarth's take on Judas Priest in “Burning Anvil of Steel”. This is totally derivative and its rise is the sort of blackened quip that Primordial employs to great release throughout 'Redemption at the Puritan's Hand' among many other black metal offerings that plunge into the ethereal sea in submarines of blast beats for a weekend of “Murmaider”. The reality is though, this moment is a meaty rip off of the opening riff to “She Sells Sanctuary” by The Cult, yet another derivative metal moment that I cannot unhear. Funny how the biggest standout in this release is also its most cliched moment, making an album that's supposed to be brash, grandiose, and powerful fall directly onto its face.

As Amon Amarth enters a new era of creative bankruptcy so epic that the government of Sweden will need to bail the band out in order to prop up its Dethklokian economy, this depression spreads to its Danish cousins as Vanir defaults on its loans from the viking cliché while making music as absent of life as the graves it robs for an identity. The reality is that this album isn't blatantly awful and doesn't feature any flubs. There's no single moment of cringe, save for the clean singing in the German vocalized “Fejd”, and the album becomes a flat plane of plain music. 'Allfather' is astonishingly average and makes Amon Amarth sound fresh and still vibrant in comparison, which is all sorts of sad when considering just how out of steam Vanir's Swedish cousins are. For an album that attempts to sound so monumental in aesthetic, its execution is so bland and blatant a rip off that it makes for a forgettable and disappointing listen when opening an ear a bit more beyond the band's fantastic presentation. (Five_Nails)

(Mighty Music - 2019)
Score: 65

lunedì 25 febbraio 2019

Gorgon - Elegy

#PER CHI AMA: Symph Black, Dimmu Borgir, Septicflesh
Di precedenti in Francia in fatto di black sinfonico ce ne sono parecchi, penso a Destinity, Anorexia Nervosa e Malevolentia, tanto per buttare li qualche nome. Oggi si fanno strada anche i parigini Gorgon, nonostante un full length di debutto, 'Titanomachy', già all'attivo, che però poco aveva fatto breccia nei cuori degli amanti del genere. 'Elegy' invece, un concept album sulla correlazione tra la creazione dell'Universo e la formazione dell'embrione nell'utero femminile, edito peraltro dalla nostrana Dusktone Records, non deve affatto passare inosservato perché la sua qualità è veramente eccelsa. Non solo per ciò che concerne le liriche e il dualismo tra scienza e spiritualità, ma soprattutto a livello musicale. "Origins" infatti esplode veemente nelle mie casse, sfoderando una classe cristallina, atmosfere bombastiche con richiami orientali ed eccellenti arrangiamenti che rappresentano probabilmente il punto di forza del quartetto transalpino. Gli ingredienti del black metal sinfonico ci sono tutti, tra bordate ritmiche sparate a tutta forza, growling vocals, montagne di tastiere (un plauso va al finlandese Felipe Munoz dei Frosttide) che rendono il tutto tremendamente orchestrale (ma in questo i Dimmu Borgir sono i veri maestri) ed un gustoso innesto di chitarre arabeggianti che per certi versi mi hanno evocato i primi Orphaned Land o i Melechesh più melodici. Addirittura in "Under a Bleeding Moon" compaiono in sottofondo anche delle eteree female vocals (a cura della tunisina Safa Heraghi, che ha collaborato con gente del calibro di Devin Townsend e Dark Fortress), in un brano che ha un approccio ritmico molto vicino alle ultime cose prodotte dai Septicflesh. L'avvicendamento dei brani è assai fluido e lineare e si passa senza alcun intoppo da un pezzo all'altro, attraversando le magniloquenti ed esoteriche melodie di "Nemesis", che vanta una parte centrale che appare più vicina ad una colonna sonora di un kolossal piuttosto che ad un disco metal. Infatti qui l'utilizzo delle partiture sinfoniche è più ricercata, talvolta forse un po' troppo spinta, però decisamente efficace. A tal proposito ascoltatevi "The Plagues", un vero inno di pomposità sinfonica che gli amanti del genere apprezzeranno enormemente (il sottoscritto ha goduto un casino), mentre per chi non ama questo genere di contaminazioni, potrebbe essere un problema. Io però vi suggerirei di dare una grossa chance ai Gorgon, sono convinto che non ve ne pentirete. E se avete ancora dubbi, ecco che in soccorso arrivano altri brani: la più oscura "Into the Abyss", con le voci della brava singer nord africana in background a smorzare la ferocia del frontman Paul Thureau, in uno sciame ritmico di black metal maestoso. "Ishassara", la song scelta come singolo lo scorso anno, conferma le ottime credenziali della band, abile sia nelle parti più tirate in blast beat, in cui il riferimento principe è rappresentato dagli ultimi Behemoth, che nelle parti più orchestrali, con tanto di utilizzo di ottoni e archi (ribadisco il concetto del Dimmu Borgir docet, a cui aggiungerei anche un pizzico di Therion) e a livello solistico, io ci sento anche influenze heavy classiche e power metal (stile Children of Bodom). "Of Divinity and Flesh" ci conduce ancora nei souk arabi con la sua tribalità orientale, a cui ben presto si accoderanno anche le serratissime ma intense chitarre black sinfoniche. A chiudere 'Elegy' arriva la suadente title track, gestita alla grande dal solo mellifluo canto della sirena Safa. Signori, ecco quel che si dice un signor album. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2019)
Voto: 85

domenica 24 febbraio 2019

Painthing - Where Are You Now...?

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Anathema
Nell'ultimo periodo abbiamo fatto una bella indigestione di uscite discografiche della Solitude Productions. L'ultima band che probabilmente ci mancava a rapporto, è quella dei polacchi Painthing e del loro esordio 'Where Are You Now...?'. Il quintetto di Varsavia è in giro dal 2014, ma solo sul finire del 2018, è riuscito a rilasciare il debut assoluto. Un disco di otto tracce che offre un death doom caratterizzato dall'alternarsi tra partiture tipicamente malinconiche a sfuriate death, con un utilizzo delle tastiere alquanto interessante, decisamente solenne. Lo si capisce dall'opening track, "Between", che mette in scena quello che sembra essere il più classico degli album death doom che richiama i primissimi Anathema, ma che tuttavia ha modo di offrire qualche trovata intelligente e originale. Gli arrangiamenti sono infatti di grande spessore e anche l'utilizzo delle clean vocals che sembrano ricordare Fernando Ribeiro dei Moonspell, alla fine risulteranno vincenti. Probabilmente quello che alla fine stona nel primo pezzo sono proprio le furiose accelerazioni death, che per il sottoscritto, ci stanno qui come i cavoli a merenda. Con "Widow and the King" sprofondiamo nel doom più cupo, con la sovrapposizione tra il cantato in growl e clean accompagnato dalle buone melodie di tastiere, che ad un certo punto trasfigurano in un bell'organone da chiesa. La progressione della song è comunque affidata ad una certa alternanza di cambi di tempo che rendono godibile la proposta della compagine polacca, che cattura enormemente la mia attenzione, quando mette in scena un assolo rock, guidato dal pianoforte. Ecco nuovamente l'originalità di cui andavo in cerca, che compare e scompare a tratti, nel corso dell'ascolto di questo disco, che nel secondo brano palesa anche qualche sentore ritmico alla Morbid Angel. Questo per dire che di carne al fuoco ce n'è parecchia e che forse il focus dei Painthing non è ancora del tutto chiaro. Quel che è certo è che i cinque giovani virgulti siano ottimi musicisti, probabilmente con idee anche particolari (ascoltatevi l'imprevedibile e folle "Buzz and Madness"), ma mi pare che ci sia un po' di indecisione sul cosa esattamente concentrarsi. Qualcuno lo potrà vedere come punto di forza della band, ma se i generi trattati sono un po' troppo distanti tra loro, questo potrà rivelarsi come una grossa debolezza. Mi intriga, sia chiaro, la proposta della band, ci sono ancora però alcune ingenuità da sistemare. Se con "The Shell I Live in" si ritorna alle melodie dei primi Anathema/My Dying Bride, cantati nello stile di 'Wolfheart' dei Moonspell, potete capire lo stupore e l'interesse che potrebbe generare 'Where Are You Now...?'. Poi arriva "Psychosis" e non mi convince granchè, più che altro per la sua eccessiva monoliticità, anche se i nostri provano a risollevarla nel finale con qualche tocco di synth. Con un titolo come "Only Death Will Divide Us" è lecito attendersi un death doom canonico con qualche keys stralunata in sottofondo. Lo stesso dicasi per "To Live is to Fight", una song dai tratti tipici della Mia Sposa Morente, che qui tiene sopita la componente più brutale dell'ensemble polacco, dando maggior spazio alla componente atmosferica. A chiudere il cd ci pensa invece "So Be It", il canto malinconico di una donna su tocchi strazianti di pianoforte ed un chorus etereo che evoca i Decoryah di 'Wisdom Floats', a decretare la fine di un lavoro di sicuro interesse, almeno per quanto concerne le potenzialità di crescita dei Painthing, dal cui futuro sono certo che ne sentiremo delle belle. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 70

https://painthing.bandcamp.com/releases

sabato 23 febbraio 2019

Marsala - S/t

#PER CHI AMA: Elettronica/Ambient, Tangerine Dream, Brian Eno
Immaginate i Tangerine Dream che fanno sesso non protetto con i 65DaysOfStatic mentre Brian Eno filma tutto: forse — dico, forse — avrete un’idea di cosa c’è nella testa di Andrea J. Marsala, qui al debutto con il suo primo lavoro solista. Con l’opening “Slipping Into Open Flesh” ci si spalanca davanti un universo strumentale di macchinari smisurati, ben raccontati dalla ritmica industrial sullo sfondo, su cui si stratificano incessanti dissonanze oscure e gorgoglianti. Si torna a respirare in “Drowning in the Void”, con un organo prima e un arpeggiator poi, a guidare i movimenti. “Wide Open Wound” ha il sapore allucinato dell’oriente etnico con i suoi strumenti misteriosi. Una voce campionata introduce “The Distrophic Dancer”, costruita su un groove di synth-bass tanto lineare quanto mesmerizzante, che lascia spazio ad una immensa cacofonia di fiati sul finale. String sintetici fanno da contraltare ad un basso sussurrato in chiave maggiore su “Streams of Light”, che prelude all’orchestrale “Sipario”: una batteria new-wave guida un’opprimente marcia militare di archi e flauti, che diventa inquietante con l’ingresso di una voce che sembra rivolgersi a divinità sconosciute. Chiude “Ultime Fatiche sulla Via del Ritorno”, lunga parentesi ambient guidata da voci campionate, pad sintetici ed echi sottomarini, in un epico crescendo di disturbi noise. Marsala conosce bene il suo mestiere: l’amalgama di musica elettronica e acustica è in perfetto equilibrio, sempre in tensione tra luce e oscurità, tra pace e inquietudine, tra digitale e analogico. Un lavoro di songwriting tutt’altro che banale, forse penalizzato da alcuni synth un po’ ridondanti e da una tracklist che sembra concentrare il lavoro a “capitoli”, anziché prediligere una sequenza dei brani più fluida ed omogenea. Piccole imperfezioni comunque, per un signor disco uscito solo pochi giorni fa (il 20 febbraio) e per cui attendo già impaziente Marsala al varco con il successivo lavoro. (Stefano Torregrossa)

(Wallace/Brigadisco/Dreamingorilla Records - 2019)
Voto: 75

https://soundcloud.com/user-716986154

Soliloquium - Contemplations

#PER CHI AMA: Death/Doom/Shoegaze, primi Katatonia
Mi spiace constatare che in Italia pochi si siano accorti degli svedesi Soliloquium, un duo originario di Stoccolma, che con 'Contemplations' taglia il traguardo del secondo album, che si va ad aggiungere ad un altro paio di EP ed una compilation. Il contenuto del disco è all'insegna di un death doom, come già il moniker della band poteva lasciar immaginare. L'album si apre con la lunga "Chains", e le sue chitarre pregne di malinconia, che ricordano un ibrido tra i Katatonia di 'Brave Murder Day' e i My Dying Bride, in un'atmosfera sospesa tra il cupo lirismo e un mood a tratti struggente, come evidenziato nel break centrale della song stessa, dove anche un che dei Saturnus sembra emergere dalle note dell'opening track, soprattutto a livello vocale, dove il growling di Stefan è per certi versi accostabile a quello del suo collega danese. Nel finale della song, laddove emergono anche delle clean vocals, le chitarre cambiano ancora e vedono avvicinare i nostri a 'Shades of God' dei Paradise Lost. Direi che il quadro è ora ben chiaro e definito, delineando a grandi tratti lo sviluppo sonoro di 'Contemplations'. "Catharsis" tuttavia va aggiungere ulteriore carne al fuoco con un accostamento acustico e vocale con i norvegesi Oberon, almeno nella prima parte della song. Nella seconda metà infatti, i nostri tornano a pestare sull'acceleratore, ma il brano si rivela mutevole e quanto mai interessante, mostrando alla fine l'ecletticità sonora di cui è dotato il combo scandinavo. "Streetlights" è un inedito pezzo strumentale, dotato di un carattere un po' dissonante, quasi jazzato, assai oscuro e quanto mai originale. Con "22" sembra che i due svedesi si vadano a rifugiare in un qualcosa di 'The Silent Enigma' degli Anathema, anche se qui la ritmica è più spinta con furiate death (blast beat inclusi) che si alternano con arpeggiati estremamente malinconici, e contestualmente fanno le vocals, con growl, pulito e scream ad avvicendarsi in una progressione davvero varia ed entusiasmante. Diciamo chiaramente che tutto il contenuto di 'Contemplations' ha dei livelli qualitativi medio alti, anche e soprattutto in fatto di originalità. Se ascoltate la lamentosa "Unfulfilling Prophecy" potrete capire di cosa stia parlando, una canzone dai tratti shoegaze/post-rock che sembra rappresentare una sorta di pausa virtuale nell'ascolto del disco, uno spartiacque con gli ultimi pezzi del cd, che include ancora "For the Accursed", "In Affect" e "Wanderlust". La prima apre con un'altra parte acustica di chitarra, che si trasmuterà in una splendida melodia che guiderà una song dal sapore semi-strumentale (la voce è fondamentalmente relegata a poche strofe finali), che ancora una volta prende le distanze dal death doom classico per lanciarsi in eteree partiture shoegaze. "In Affect" prosegue almeno inizialmente su questa scia, anche se tornerà forte la voglia dei nostri di muoversi in quel death doom melodico di scuola Katatonia, che poi è stato ripreso da gente come Rapture o Enshine. Il risultato è assai buono e apre a potenziali nuovi scenari per un genere che mi sembra da un po' di tempo chiuso in schemi un po' troppo prestabiliti, stantii e poco originali. "Wanderlust" è l'ultimo atto di questo inatteso 'Contemplations', un'altra lunga track di quasi nove minuti che ci consegna ritmiche un po' più tese e drammatiche, ma sempre e comunque estremamente melodiche che vanno a chiudersi in un lungo assolo conclusivo che sostiene l'eccelsa qualità di quest'opera consigliatissima. (Francesco Scarci)

(Transcending Records - 2018)
Voto: 85

https://soliloquium.bandcamp.com/