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giovedì 10 gennaio 2019

The Entrepreneurs – Noise & Romance

#PER CHI AMA: Noise Rock, My Bloody Valentine, Sonic Youth
Musicalmente sono nato tardi e per molti anni non sono uscito dalla rassicurante galassia delle chitarre zanzarose e delle percussioni a mitraglia finché nel 2008 un amico mi consigliò di ascoltare 'Loveless' dei My Bloody Valentine e i miei preconcetti vennero spazzati via da quella marea di muri sonori. Ricordo ancora il rimpianto per aver perso gli anni dell’esplosione di noise rock, shoegaze, dream pop e post-punk, salvo poi scoprire che l’interesse per quei generi si stava rinnovando al punto da concedere una nuova giovinezza alle formazioni storiche e favorire la nascita di una schiera di epigoni. In mezzo a questa pletora di gruppi (non sempre in grado di offrire spunti memorabili) troviamo gli Entrepreneurs, formazione al debutto con l’album 'Noise & Romance', ben decisa ad uscire dalla periferia della scena alternativa: a differenza di molti colleghi infatti questo ambizioso terzetto di Copenaghen si sforza di proporre nuove sperimentazioni, pur con chiari omaggi ai pionieri del passato. È dunque la contrapposizione alla base di questo lavoro, non solo tra vecchio e nuovo, ma anche nell’alternarsi di esplosioni di rumore e distorsioni sferzanti con armonie piacevolmente pop e condite da testi romantici (da qui il titolo), contrasto reso anche in copertina dove un’intrigante ragazza è immersa in una vecchia vasca piena di liquido blu, immagine che peraltro sembra richiamare l’artwork di 'Around the Fur' dei Deftones, autori anche loro (pur in chiave più dark) di un efficace connubio tra musica estrema e melodie seducenti. Le dieci tracce che compongono l’album sono un caleidoscopio di stili diversi: si parte con i feedback a cascata e le basse stordenti di “Session 1”, una sorta di rivisitazione in chiave moderna "Only Shallow" dei MBV, per poi passare alla cavalcata psichedelica di “Say So!”, quasi isterica nei suoi continui cambi di dinamica e che ci lancia nel singolo “Joaquin”, una corsa scatenata in stile Sonic Youth, guidati dalla voce scanzonata del cantante. Le ritmiche pulsanti di “Sail Away” e gli intrecci sonici di “Be Mine” ci conducono ad “Heroine”, dove esplosioni di volume e riff pachidermici, fanno da contraltare a strofe colme di dolcezza: è l’apice del disco, in cui le diverse influenze del gruppo si fondono in perfetta armonia. I brani che seguono appaiono più crepuscolari, dando spazio al dream pop elettronico di “Ages” e alle schitarrate in stile Pavement di "Despair". In chiusura troviamo l’immancabile traccia acustica (“Morning Sun”) e la malinconica e quasi Radiohead “D Tune”, pezzi ugualmente intensi ma forse un po’ meno ispirati. Dunque, come valutare l’opera? Del buon revival per ascoltatori malinconici o una produzione matura e davvero indipendente? Gli Entrepreneurs strizzano l’occhio ai nostalgici riproponendo soluzioni le cui paternità sono evidenti, tuttavia la capacità mostrata nell’amalgamare omaggi al passato e spunti più moderni rendono 'Noise & Romance' una novità piacevole e tutt’altro che derivativa. La loro energia, abbinata ad una crescita nella stesura dei pezzi, potrebbe riservarci piacevoli soprese per il futuro. (Shadowsofthesun)

Martin Nonstatic - Ligand Remixes

#PER CHI AMA: Electro/Ambient
Il segreto di questa rivisitazione di 'Ligand' sta nel fatto che il buon Martin Nonstatic, a mio parere, è talmente innamorato della sua musica che, come farebbe qualsiasi buon padre, vorrebbe vedere la sua prole crescere e migliorare sempre e di continuo nel tempo, accettando nuove sfide e investigando nuove strade. Eccoci quindi ai remixes di quello che già di per sè era un ottimo album, per accorgersi poi che da un sostrato sonoro già buono può rinascere nuova musica, animata da nuova linfa vitale. Se poi notiamo che a lavorare e rieditare questi brani ci sono anche compagni di etichetta come AES Dana, Scann–Tec, MikTek e molti altri artisti da varie parti d'Europa, la percentuale di riuscita del sound è certificata. Ambient liquefatto, impulsi elettro/trance e dub e spirito chill out, c'è più ritmo in queste versioni, anche se pur sempre moderato, calibrato e sofisticato, delicato e nobile. Noto che il lato visionario che animava 'Ligand' è stato un po' alterato a discapito di un'immediatezza più concreta, più dinamica e meno spirituale. Nelle tracce si cerca l'effetto sorpresa e si sente che l'omogeneità concettuale dell'originale è stata leggermente compromessa, non del tutto rimossa, riveduta giustamente da nuovi occhi. "Ligand (Roel Funcken Remix)" diventa un ballo spaziale dal tocco cosmico, sospeso e carico di ricordi ritmici stilizzati della cara drum'n bass di qualche anno fa. Il cosmo è base costante della musica di Martin e Scann–Tec ce lo confeziona come se "Parabolic View" fosse una hit suonata in un lounge bar di Saturno, pulsante e cristallina come una schiera di stelle in caduta libera. Riprendere brani di un album molto ben fatto poteva essere un'operazione rischiosa ma la professionalità di questi artisti è ben nota, come le loro capacità di rigenerazione musicale e il suono profondo della nuova "Methodical Random" ha la qualità perfetta per incantare. La Ultimae Records stupisce e colpisce sempre per la qualità delle sue release, ci ha abituati ad uno standard elevatissimo e questo lavoro di remixes non è da meno, bravi artisti, ottima musica, ricerca sonora, orecchiabilità e sperimentalismo in campo elettronico da dieci e lode. Da ascoltare a 24 bit in assoluta contemplazione. (Bob Stoner)

Madness of Sorrow - Confessions From the Graveyard

#PER CHI AMA: Dark/Gothic/Horror, Type O Negative
Quinto disco in sette anni per i toscani, ormai trapiantati in Piemonte, Madness of Sorrow, una compagine che fino ad oggi non conoscevo minimamente. Complice un sound che sembra non confacersi ai miei gusti, mi sono avvicinato con una certa titubanza a questa band, che considera la propria proposta sonora all'insegna di un gothic/horror. Per tale motivo, ho vinto le mie paure e ho deciso di avvicinare i nostri, in quanto ho trovato affascinante quanto il terzetto volesse esprimere. E cosi, ecco concedermi il mio primo ascolto di 'Confessions from the Graveyard', un lavoro che si apre con le spettrali melodie di "The Exiled Man", una song che miscela il doom con l'heavy metal, in un lento vagabondare tra riffoni di sabbatiana memoria, sporchi vocalizzi puliti (concedetemi l'ossimoro, ve ne prego) e ottime keyboards, responsabili proprio nel creare quelle flebili e orrorifiche ambientazioni che sanno tanto di castello infestato. Il taglio di questa prima traccia è molto classico, mentre la seconda "The Art of Suffering" ha un piglio più arrembante e moderno. Ciò che fatico a digerire è però il cantato del frontman, Muriel Saracino, forse troppo litanico in alcune parti e poco espressivo in altre, ma considerato il nutrito seguito della band, credo sia semplicemente una questione di abitudine alla sua timbrica vocale. Più dritta e secca la ritmica di "Sanity", che tuttavia evidenzia qualche lacuna a livello di produzione nel suono della batteria, non troppo curata, a dire il vero, in tutto il disco. La song sembra risentire di qualche influenza dark/punk che le donano positivamente una certa verve old-school. Più rock'n'roll invece "Reality Scares", che mostra una certa ecletticità dell'act italico, ma che al tempo stesso potrebbe indurre qualcuno (il cui presente ad esempio) a storcere il naso per un'eccessiva diversità con le precedenti tracce; io francamente non l'ho amata troppo. La situazione si risolleva con la gotica "The Path": voci bisbigliate, atmosfere rarefatte, influenza di scuola Type O Negative, in quella che a parer mio, è la miglior traccia del cd. Ritmiche più tirate (ed ecco ancora la scarsa fluidità musicale) per "The Garden of Puppets", un brano che gode di un discreto break centrale, mentre apprezzabile è il chorus di "No Regrets", una traccia che ammicca al Nu Metal e che, anche in questo caso, non trova troppo il mio gradimento. E che diavolo, "No Words Until Midnight" stravolge ancora tutto, e ora sembra di aver a che fare con una band black/death per la veemenza delle ritmiche, non fosse altro che i vocalizzi del frontman ripristinano le cose, essendo il marchio di fabbrica dei Madness of Sorrow. E si continua a picchiare senza soluzione di continuità anche in "The Consciousness of Pain", almeno fino a quando Muriel Saracino non entra con la sua voce: in quei frangenti infatti, l'efferatezza delle chitarre perde di potenza per lasciar posto ad un mid-tempo più controllato. In questa song, appare anche un riffone di "panteriana" memoria, da applausi, mentre un ottimo e tagliente assolo sigilla il pezzo. A chiudere il disco, arriva "Creepy" con i Madness of Sorrow in formato 3.0, a stupirci con un pezzo dal forte sapore dark wave ottantiano, con la classica tonalità ribassata delle chitarre ed un'apprezzabile voce sussurrata (buona pure in versione urlata) che ci consegnano una band che fa dell'eterogeneità il suo punto di forza, ma a mio avviso anche di debolezza. La band, di sicuro rodata e forte di una certa personalità, credo che necessiti tuttavia di sistemare alcune cosine, dal suono della batteria ad una voce che a volte perde di espressività. Buone le chitarre, cosi come le atmosfere, resta solo da chiarire quale genere i nostri vogliano proporre. Chiarito questo, direi che siamo a cavallo. (Francesco Scarci)

martedì 8 gennaio 2019

Muon - Gobi Domog

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Electric Wizard, OM
Leggo e sento spesso considerazioni molto pessimistiche sulla musica underground italiana (metal e non), tra cui la ben nota triade “mancano i gruppi”, “mancano i locali dove suonare”, “mancano le idee”: se da un lato la scena è bella proprio perché esclusiva, dall’altro diventa difficile proporre nuovi progetti, nuove occasioni per live e nuove idee quando il movimento si esaurisce in una cerchia ristretta di eletti. Malgrado queste problematiche, il filone doom-psych-stoner nostrano sembra essere più florido che mai, grazie a nuove formazioni che spuntano come quei funghi che spesso stimolano la fantasia dei musicisti. Non conoscendo la dieta dei Muon, quintetto veneto dedito ai muri di amplificatori e a visioni sciamaniche, immagino che abbiano ottenuto l’ispirazione per il loro disco d’esordio dal monolite nero di “2001 Odissea nello Spazio”: come quest’ultimo 'Gobi Domog' è solido nella sua semplicità, un album quadrato e dal sound classico, eppure in grado di regalare spunti interessanti all’ascoltatore attento. Dopo una breve traccia introduttiva, veniamo storditi dall’impatto devastante di “New Born”, l’austero sottofondo di un rituale primordiale con cui verremo iniziati alla setta dei Muon: la voce salmodiante del cantante sembra infatti guidare immaginarie processioni pagane in cui i penitenti sono continuamente terrorizzati dai riff mastodontici di chitarra e basso detunati e sferzati dalle percussioni selvagge. L’iniziale violenza è poi mitigata da melodie orientaleggianti, le quali non fanno che acuire la sensazione di essere trasportati in un mondo surreale. Ci facciamo strada attraverso il canyon creato dalle colossali distorsioni di “The Second Great Flood”, il racconto reso in musica di un cataclisma ancestrale dove a sopraffarci non sono le maree del diluvio, ma penetranti onde sonore di potenza inaudita: è da sottolineare il perfetto lavoro in fase di post-produzione grazie al quale siamo letteralmente immersi nell’esecuzione dei brani, quasi come se stessimo assistendo all’esibizione dal vivo della band. Le tenebre calano su di noi quando un marcissimo giro di basso apre alle ritmiche imponenti di “Stairway to Nowhere”, pezzo in cui l’ascoltatore è portato a perdersi tra dune impossibili di paesaggi desolati mentre il cantante-profeta intona, con voce sconvolta, lunghi sermoni. Chiude la maestosa “The Call of Gobi”, un’insana fuga al ritmo della batteria martellante e caratterizzata da un finale psichedelico, con il quale il mostro, che dà il titolo all’album, verrà finalmente evocato. La fine del cd ci coglie un po’ di sorpresa, ormai stregati dalle melodie ipnotiche alla Om e dalle distorsioni senza ritegno in stile Electric Wizard, lasciandoci un nuovo interessante tassello della sempre più affollata offerta musicale stoner/doom italica. Va però detto che i Muon possono e devono crescere nel songwriting, imparando a riempire meglio gli ampi spazi sonori da loro creati, perché i produttori di riff cafoni ci piacciono, ma la concorrenza nel mestiere inizia a diventare spietata. (Shadowsofthesun)

(Karma Conspiracy Recors - 2018)
Voto: 65

https://muonstonerdoom.bandcamp.com/releases

Dendera Bloodbath - Ascariasis

#PER CHI AMA: Noise/Ambient
L'artista americana Verge Bliss, in arte Dendera Bloodbath, ci omaggia di un nuovo lavoro, uscito per l'etichetta torinese, DIY, Ho.Gravi.Malattie. 'Ascariasis' è l'ottavo capitolo della collana di opere sonore che portano il nome di malattie che colpiscono la popolazione, al fine di concepirne l'esistenza e permetterne la conoscenza. La musica dell'artista statunitense è un collage di rumori e suoni di sottofondo, direi anche assai interessanti e non animati da una particolare oscurità, che si fondono in un concetto industriale deviato al psichedelico dove suoni ancestrali, fatti uscire da una ghironda suonata dall'autrice, donano un tocco folk, surreale ed arcaico, ai movimenti sonori. Interferenze e piccole, ma ben piazzate, geniali trovate ritmiche e rumoristiche qua e là, rendono il disco accessibile, un noise ammaliante, un sogno industrial che non si dimostra gelido, rigido, non è un incubo, al contrario, si avvolge su se stesso, si srotola come se fosse qualcosa di vivo, che si dimena, vuole uscire e farsi sentire. Il concetto di vecchia radio e cattiva sincronizzazione è vivido in questa release, in un intersecarsi di grovigli sonori continuo che risultano redditizi per l'economia dell'intera opera. In un genere così sofisticato ed estremo, riuscire ad estrapolare da parte dell'autore, quella che può essere l'anima di un rumore per renderlo suono e focalizzarlo, dandone il giusto significato poetico, è compito arduo, ma qui è spesso e volentieri portato a compimento in maniera egregia. Vi è un'anima parlante in queste nove tracce, un'anima piena di calore in questi versi rumorosi, cosa rara nell'industrial di oggi, cosa che si può trovare solo nelle produzioni più intime, umane, genuine e sotterranee. Dendera Bloodbath ci è riuscita con quest'affascinante opera in poco meno di mezz'ora atta a ridare un'anima al rumore, un concetto, un fuoco, raccolti in un disco di grande intensità, pensato e ragionato da un punto di vista totalmente diverso, che non vi creerà alcun disturbo, dal quale non fuggirete, anzi, vi legherete e alla fine lo apprezzerete per lo splendido album che è. L'esperienza sarà imperdibile! Industrial, umano, troppo umano! (Bob Stoner)

(Ho.Gravi.Malattie - 2018)
Voto: 80

https://hgmmusic.bandcamp.com/album/ascariasis

As I Destruct - From Fear to Oblivion

#PER CHI AMA: Death/Metalcore, Dark Tranquillity, Hypocrisy
Debut album per gli australiani As I Destruct che dall'anno della loro fondazione, il 2014, ad oggi, non avevano ancora rilasciato materiale ufficiale. Dopo un singolo messo online nel 2017 su bandcamp, ecco finalmente il tanto agognato full length, 'From Fear to Oblivion'. Come inquadrare la proposta del quintetto di Adelaide? Come un death melodico sporcato da qualche influenza metalcore e groove metal, ma che pesca essenzialmente da un sound di matrice scandinava, penso a Hypocrisy e Dark Tranquillity in testa. Dopo il classico prologo, ecco esplodere "Shattered Hearts", la traccia che delinea fondamentalmente la proposta dell'ensemble, ed evidenzia tutti gli ingredienti tipici del genere ossia un ottimo impianto ritmico che a più riprese chiama in causa tutti i grandi gods svedesi, una buona dose di melodia mista ad un bell'apporto energizzante. Non mancano ovviamente il classico growling e un bel lavoro nel comparto solistico. Con "Black Tie Stigma", il sound si fa più cupo e minaccioso ed il rifferama ancor più serrato, con la batteria letteralmente impazzita (prova magistrale del drummer). Il disco prosegue su questa falsariga, lasciandosi alle spalle un pezzo dopo l'altro senza offrire ahimè troppo spazio alla fantasia. Qui risiede infatti la prima pecca di un album assai robusto ma fin troppo monolitico, che trova in "Question of Faith" una song più convincente delle altre, un mix tra Meshuggah e Hypocrisy, con la muscolosità dei primi a servizio della melodia dei secondi, per un risultato nientaffatto malvagio, seppur dall'esito già scontato. Ecco, la scontatezza, il secondo punto a sfavore dei nostri: ottimi musicisti sia chiaro, però mancano le idee, quelle che ti fanno strabuzzare gli occhi e dire "cazzo che bell'album!". 'From Fear to Oblivion' è un disco che alla fine vive di qualche sussulto: i vocalizzi vampireschi della guest star Mel Bulian (voce dei In the Burial) in "Asher's Lullaby", il forcing esagerato di "My Endless Love", il riffing iniziale di "Thredson" che paga un certo dazio ai Morbid Angel o la forsennata "Vultures of Virtue". Tanti piccoli segnali che ci dicono che la band ha grosse potenzialità ma che evidentemente non le sfrutta ancora appieno. (Francesco Scarci)

(Firestarter Music - 2018)
Voto: 65

https://www.facebook.com/AsIDestructBand/

lunedì 7 gennaio 2019

Psychotropic Transcendental - .​.​.Lun Yolina un Yolina Thu Dar​-​davogh.​.​.

#PER CHI AMA: Experimental/Dark/Post Metal
La storia dei Psychotropic Transcendental non è delle più semplici: formatisi nel 2000 a Bielsko-Biała, i nostri rilasciano immediatamente 'Ax Libereld...', un discreto album di prog metal. Poi il silenzio assoluto, durato praticamente fino al 2018, quando la band si è riaffacciata sulla scena con questo '.​.​.Lun Yolina un Yolina Thu Dar​-​davogh.​.​.'. In realtà, il quartetto polacco non ha mai smesso di scrivere musica, visto che le song contenute in questa loro seconda fatica, sono in realtà state scritte tra il 2005 e il 2008, in varie imprecisate locations. La peculiarità dei nostri sta comunque nell'utilizzo di testi scritti in una lingua, il var-inath, inventata dal batterista Gnat, volta a miscelare in uno stesso idioma, l'atmosfera germanica con il calore dell'accento slavo. Non mi è dato pertanto sapere di cosa trattino i testi, quindi meglio concentrarsi sulla musica di questi stravaganti musicisti. Il disco si apre con "Mahad Lavor Sa-zax", una song che unisce in modo esplosivo, rock progressive, post-metal, dark e post punk, con delle atmosfere che richiamano inequivocabilmente i primi anni '80, tra The Cure e Misfits. Decisamente più cupa la successiva "...Luvan Daar Quorkugh", una traccia che poteva stare tranquillamente stare in un disco tipo 'Wildhoney' o 'A Deeper Kind of Slumber', due capolavori assoluti dei Tiamat. La malinconica melodia della song è guidata dalla splendida chitarra di Mariusz Kumala, mentre le vocals, molto buone, di K-vass (voce dei Moanaa e dei Sigihl, tra gli altri) si palesano come una versione molto graffiata e incazzata di un pulito. La title track è un flusso ipnotico tra psych e post-metal, su cui si pongono le urla drammatiche e litaniche del vocalist, peccato solo non se ne intuiscano nemmeno lontanamente i contenuti, a quel punto forse sarebbe stato meglio utilizzare un bel growling incomprensibile. "Lavor ni Termaned" è una lunga traccia di oltre 13 minuti, che si muove tra eteree sonorità post-rock, dark e progressive che evocano un che dei connazionali Riverside, in una progressione emozionale che pone questa tra le mie canzoni preferite dell'album, nonostante la sua eccessiva durata, che nell'economia dell'album forse costituisce un elemento limitante, a tratti in effetti, eccessivamente prolisso e ridondante nella sua evoluzione. "Iin Varandhaar Iin Badenath Mahad Karviin" segna invece la follia del combo polacco in un arrembante brano dalle sonorità un po' stralunate, in cui le vocals di K-vass si alternano tra il suo caratteristico vocione e delle urla sgraziate, in una song di difficile collocazione musicale, che mi lasciano un attimo spiazzato. Si torna ad atmosfere (e vocals) più graziate con "Float Wid Xeruaned Rattha", song decisamente più raffinata, che gode di atmosfere rock psichedeliche di derivazione pink floydiana, che diverranno decisamente più aggressive negli ultimi minuti del pezzo. Il disco ha un'altra mezz'ora da offrire col trittico finale, ma francamente mi sento esausto dall'ascolto impegnativo che richiede l'album. "Zig Il-saghar iin Il-saghar" è troppo ripetitiva e lamentosa nei suoi quasi dieci minuti, fosse durata solo la metà ne avrebbe di sicuro beneficiato l'ascolto. "Wid Arra Float" non ci va troppo lontano almeno per i primi quattro minuti, poi finalmente il brano prende quota e diviene più sperimentale nella seconda metà anche se il lungo finale risulta sfiancante. A chiudere quest'insormontabile disco, ci pensa “Hoxathilag”, quasi dieci minuti di suoni e melodie soffuse in sottofondo che la fanno somigliare più a un cd di tecniche di rilassamento che ad un lavoro metal. Insomma, alla fine l'impronunciabile '.​.​.Lun Yolina un Yolina Thu Dar​-​davogh.​.​.' è un lavoro per certi versi interessante per scoprire nuovi mondi sommersi, chissà solo se nel frattempo, la band polacca ha scritto qualcosa di nuovo, che verosimilmente potremo ascoltare solo nel 2031. (Francesco Scarci)

The Devil's Trade - What Happened to the Little Blind Crow

#PER CHI AMA: Folk/Doom/Rock
Arrivo ad avere questa chicca tra le mani in una sera gelida d'inverno, osservo la grafica di copertina cercando di intravedere segnali per capire di quale musica mi dovrò nutrire e se alla fine il pasto sarà succulento. Inserito il dischetto mi si apre un mondo inaspettato fin dalle prime note della breve intro arpeggiata, è il folk a farla da padrone in questo disco dalla copertina tetra e attraente. The Devil's Trade (al secolo Dàvid Makò) è il moniker con cui questo spettacolare cantautore ungherese esporta la propria arte e la propria maestria, musicale e vocale. Immaginate un banjo che s'interseca con chitarre acustiche, foraggiate da moderate distorsioni cariche di solitudine ed un canto profondo, al limite di una sacra litania cantata con l'estro del Vedder di 'Into the Wild' e l'estasi arcana dei migliori Steve Von Till e Scott Kelly, una voce cosi profonda capace di evocare spiritualità in continuazione, con il tocco oscuro ed epico udibile nei pezzi dei Tyr e in grado di far scatenare una forza così heavy da poterlo immaginare all'opera con i mitici Gran Magus. Il disco in questione è il suo ultimo, perfetto lavoro, intitolato 'What Happened to the Little Blind Crow', licenziato dalla Golden Antenna e devo ammettere che è un'opera splendida, ricca e convincente, nonostante si tratti di una one man band che suona tutto in solitudine. La magia che il cantautore magiaro riesce a far esplodere è frutto di una ricerca che ha portato ad uno stile chitarristico proveniente dai classici del folk e del rock, contaminati e rivisitati con le atmosfere e le cadenze solenni tipiche del doom, si, proprio del doom e seguendo questa direzione, unendola ad una vena epica tipicamente metal, il mastermind ungherese è riuscito a intagliarsi questo stile che lo eleva al di sopra delle righe di un semplice folk singer. The Devil's Trade è straordinariamente rock, oscuro e indomabile ma allo stesso tempo riesce ad essere intenso, primordiale, un bardo seduto in una foresta immersa nella nebbia, di fronte al fuoco e accerchiato dai lupi, che canta storie desolate e di resurrezione umana, in una forma folk rock apocalittica e mantrica (I brani "To an End" e "12 to Die 6 to Rise" con "Your Own Hell" sono delle vere gemme). Otto brani perfetti, prodotti divinamente, suoni profondi, reali, caldi e potenti. La voce si gusta appieno, in tutta la sua forma migliore, maestosa, piena e orgogliosa, il banjo è pura ovazione per la natura e brano dopo brano, ci si immerge in un suono atipico, semplice, ricercato e geniale. Un disco da ascoltare in solitudine, da apprezzare fino in fondo, un artista che merita attenzione, il suo miglior album ad oggi, che può essere idolatrato da ambienti metal, folk, dark o rock indifferentemente. Un album di notevole caratura. (Bob Stoner)

Inira - Gray Painted Garden

#PER CHI AMA: Death/Groove/Djent, Meshuggah, Tesseract, In Flames
Nel 2018 il metal nostrano è andato alla grande anche al di fuori dei confini italici. Peccato solo che i friulani Inira abbiano dovuto firmare per l'etichetta ucraina Another Side Records (sub-label della Metal Scrap), per rilasciare il loro 'Gray Painted Garden', secondo atto dal 2005 a oggi per i nostri. Avessi avuto la mia label, avrei puntato alla grande sulla fresca proposta della band del Vajont, che tra echi meshugghiani a livello ritmico, un cantato graffiante (e un altro in versione growl) condito da chorus di sapore "in flamesiano", un background tipicamente a cavallo tra metalcore e post-hardcore, hanno reso la loro proposta davvero gustosa da ascoltare. La title track, posta in apertura, conferma immediatamente le mie parole con un pezzo dritto, piacevole, carico di groove (ottime le keys a tal proposito) e melodie ruffiane quanto basta per mantenere comunque intatta l'esplosività intrinseca alla musica dell'act italico. Ancora meglio "Discarded", con quel suo riffing a cavallo tra Gojira, Mesghuggah e Tesseract, ad individuare solo alcune delle influenze dell'ensemble friulano. Le vocals più pulite suggeriscono infatti un altro filone da cui i nostri traggono ispirazione, ossia quello più "mainstream" di Architects e Bring Me the Horizon, ma non fatevi fuorviare da queste mie parole, gli Inira sapranno coinvolgervi con sonorità belle intense, moderne e avvincenti. Bella scoperta, visto che le undici tracce qui incluse, sono tutte delle potenziali hit: detto delle prime due, "This is War" ha un approccio più oscuro (sulla scia dei primi Tesseract) nelle note introduttive acustiche, che la rendono solo in apparenza meno orecchiabile rispetto le precedenti. Si torna a far male con le sghembe melodie di "Sorrow Makes for Sincerity", un brano più cattivo che vede in Meshuggah ed In Flames i punti di contatto più evidenti per i quattro musicisti nostrani. Si prosegue con la più ritmata e malinconica "Venezia", una song in cui le chitarre ultra ribassate dei nostri, sembrano maggiormente echeggiare nei miei timpani, e in cui la porzione solistica ci rende testimoni dell'ottima prova alla sei corde di Daniele "Acido" Bressa. L'unica cosa che mi fa storcere il naso è quanto diavolo canta qui il buon Efis Canu Najarro. L'approccio oscuro evidenziato in "This is War", riemerge più forte in "Zero", una song davvero potente che ci prepara alla più alternative "The Falling Man", in cui emerge qualche affinità con i Deftones, cosa che si ripeterà anche nelle successiva "The Path", la più delicata, suadente ed ipnotica del lotto, a rappresentare anche il pezzo più erotico dei quattro giovani musicisti, sebbene la tensione vada lentamente aumentando sul finale. Analoga come sonorità anche "Universal Sentence of Death". Decisamente più interessante è l'iper ritmata "Oculus Ex Inferi": ottime melodie, coinvolgenti le atmosfere e niente male le sferzate ritmiche che accrescono l'incandescenza dei contenuti. Si giunge, madidi di sudore a "Home", ultimo atto di questo ottimo 'Gray Painted Garden' che ci ha riconsegnato, dopo un bel po' di anni, una band pronta a dire la sua nell'iper saturo mercato musicale. Ben tornati ragazzi. (Francesco Scarci)

giovedì 20 dicembre 2018

AstorVoltaires - La Quintaesencia de Júpiter

#PER CHI AMA: Doom/Post-rock, Antimatter
Juan Escobar è musicista cileno parecchio attivo nella scena underground. Dopo aver militato negli ormai disciolti Mar de Grises, e aver fatto parte di una miriade di band tra cui Lapsus Dei e Bauda, il factotum sudamericano, ora trasferitosi in Repubblica Ceca, non solo è mente degli AstorVoltaires, ma anche membro di gente del calibro di Aphonic Threnody o Mourning Sun. Nei ritagli di tempo, si fa per dire, si diletta con la sua creatura, gli AstorVoltaires appunto, da poco usciti con questo 'La Quintaesencia de Júpiter', a rappresentare il terzo album, uscito a sei anni di distanza da 'BlackTombsForDeadSongs'. La proposta di Juan è all'insegna di un umorale post-rock, ampiamente suonato in acustico. I riferimenti per il nostro bravo artista, ci guidano in primis verso gli Antimatter dell'amico Mick Moss, piuttosto che indirizzarci verso le cose più malinconiche degli Anathema, penso ad un lavoro come 'Eternity', ad esempio. E il risultato non può che essere eccellente. "Manifiesto" è la perfetta song da collocare in apertura, un malinconica traccia strumentale che apre magnificamente questo lavoro che per alcune cose, proprio rinverdendo i bei tempi degli Anathema, si avvicina ad una song come "Angelica". Peccato solo per l'assenza della voce, che esce invece nella seconda "Hoy", una canzone aperta da un lungo tratteggio di chitarra acustica e piano, e poi la calda voce di Juan, che come una sorta di artista di strada, sembra volerci intrattenere con le sue melodie dalle tinte autunnali, che verso metà brano, sembrano caricarsi di maggiore energia. "Un Gran Océano" strizza l'occhiolino ancora alla band dei fratelli Cavanagh, con una maggiore elettricità a livello ritmico e con le liriche cantate in spagnolo. La voce drammatica del vocalist è davvero buona e ben si amalgama con la poetica musicale messa qui in scena, seppur inusuale per questo genere musicale. Strano ma originale e per me questo basta a giudicare in modo estremamente positivo la performance del nostro bravo polistrumentista. "Thrinakia: El Reino del Silencio" è un altro esempio dove la malinconia funge da driver del flusso sonico, che si oscura in un break centrale atmosferico che sembra arrivare da un qualunque lavoro sperimentale dei Pink Floyd. Il retaggio doom del mastermind c'è e si sente (e non è affatto un male), soprattutto nella coda un po' più pesante di questa traccia. Più eterea invece "Un Nuevo Sol Naciente", vicina a morbide sonorità post-rock che chiamano in causa nuovamente gli intimismi degli Antimatter, i Lunatic Soul o più semplicemente Juan Escobar stesso in questo 2018. "Arrebol" è un altro pezzo strumentale che ci rimette in armonia col mondo mentre con le conclusive "La Quintaesencia de Júpiter" e "Más Allá del Hiperbóreo", Juan propone l'espressione più "dura" della propria musica, con la lunga title track prima ed una chiusura con una breve song che evoca invece spettri di "ulveriana" memoria. In definitiva, 'La Quintaesencia de Júpiter' è un buon lavoro, che stacca dalle precedenti produzioni di Juan e spinge i suoi AstorVoltaires in una nuova sfida, da prendere o lasciare. (Francesco Scarci)

Doom:Vs - Aeternum Vale

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Del side project di Johan Ericson, dei doomsters svedesi Draconian, sapete ormai già tutto. Sto parlando ovviamente dei Doom:Vs, in cui il musicista scandinavo dà libero sfogo a tutti i suoi lati più oscuri e funeral oriented. 'Aeternum Vale' è il primo lavoro di tre, un cd uscito oramai nel 2006, ma riproposto dalla Solitude Productions in questo 2018, insieme al secondo 'Dead Words Speak'. È un cammino di 50 minuti nel lato più buio e profondo del polistrumentista: sei lunghe tracce che ci porteranno sull’orlo del precipizio e solo allora avremo la forza di decidere se lasciarci andare giù dalla rupe o salvarci. Il disco si apre con le splendide melodie di “The Light That Would Fade”, di certo il brano più riuscito, con quei suoi palesi richiami a 'As the Flowers Withers', debut dei My Dying Bride. È un doom disperato quello di Johan, straziante nei suoi momenti di pausa, dove le chitarre acustiche compongono soffuse e atmosferiche ambientazioni, richiamando inevitabilmente la band inglese; è musica che squarcia gli animi e dilania le menti, per tutta la cupezza e depressione in grado di emanare. Le successive lunghissime tracce si muovono sugli stessi binari: pesanti chitarre apocalittiche e una batteria decisamente all’altezza, ripetono all’infinito i medesimi giri all’interno dello stesso brano (forse unica vera pecca del cd), la voce growl di Johan urla tutto il proprio insopportabile dolore, voce, che si rivela più efficace nella sua veste disperatamente recitata; le tastiere ci regalano momenti di struggente melodia, le chitarre dipingono, in “The Faded Earth”, altra catacombale song, crepuscolari atmosfere da fine del mondo. In “The Crawling Inserts”, la canzone più squisitamente doom (Candlemass docet), trovano posto anche le clean vocals di D. Arvidsson, compagno d’avventura di Johan nei Draconian. Che dire di più su questo disco? Forse non ci troveremo tra le mani una pietra miliare del genere o un prodotto che può essere accessibile ad un vasto pubblico, tuttavia l’ascolto di 'Aeternum Vale' è consigliato a chi ama gruppi come Saturnus, Swallow the Sun e Mourning Beloveth, o per chi ha nostalgia dei primissimi Anathema di 'Serenades' o degli ahimé sciolti Morgion. Mr. Ericson propone sicuramente musica di difficile impatto, arricchita da testi esistenzialistici incentrati sulla fugacità della vita, che aumentano il cupo decadentismo di quest'opera. Se non conoscevate la band o non avete mai dato un ascolto a questo disco, beh è arrivato il momento di farlo. Se siete alla ricerca di una riflessione sulla vostra esistenza, forse qui troverete le risposte che cercavate. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2006/2018)
Voto: 75

https://doomvs.bandcamp.com/album/aeternum-vale

Birnam Wood - Wicked Worlds

#FOR FANS OF: Stoner/Doom, Sleep
With an album cover that absolutely needs to be a poster, the meaty production that finally does the justice this band deserves, and a sample fitting its name and initial theme as a band, “Dunsinane” brings Birnam Wood into fruition with killer soloing, a powerful explosion of verses, and the revelation that this badass Boston quartet has finally blossomed after staying strong on its Sleepy Sabbath path. Without trying to reinvent itself every album, like all too many bands do or (in some cases) absolutely need to do, Birnam Wood has smartly stuck to its distinct direction and it has payed off in the happiest surprise of 2018. The shamelessly Sabbath inspired 'Wicked Worlds' provides a crushing climax to this year and the pride of achievement for a band deserving of its success.

Craning its neck to observe the distance, a raven frames the center of a cover enamored with the regal shades of purple cloaks and green laurels, a photo negative in any other respect with plenty of black and gray to emulate the originators of heavy metal in their own fourth volume. Birnam Wood's 'Vol. 4' brings the psychedelic attitude of a smoked out Sabbath while wearing the riff-guzzling gas masks of Sleep. In very “Sweet Leaf” fashion, “Richard Dreyfuss” shouts “cock-a-doodle-doo” across the speakers before conjuring a riff that starts out as a slow “Snowblind” and grinds the grist with a mind-splitting, bass-heavy, scream and stomp rumble as resonance cascades into clear riffing rises ensuring that blues evolves from the oozy bed. From the filthy “Early Warning” comes predictions of a nuclear hailstorm with the grumbling of static from an evaporated society bringing lilts of fiery devastation, buttoning up each riff with the blinding clarity of fresh flashes before another lingering mushroom cloud of distortion envelops the sonic expanse.

This gargantuan approach, like whales breaching the surface of seas of sludge, is a captivating show of Birnam Wood's strength as the simplicity of the basic heavy metal foursome format is astutely executed, plunging like a knife into a belly, draping intestines over your shoulders, and performing burlesque bathed in blood. The grit that so delights and defines the now, a reaction to a world so obsessed with cleanliness and clarity through high definition, perfectly interplays with these shameless Sabbath snippets as each song weaves itself into the threads of this timeless music and sews its own patch into the denim of yesteryear. A psychedelic break in “Greenseer” with wavering guitars, the fades of a crunchy drum laid in the background, and an abundant series of solos shows Birnam Wood rousting its affinity for improvisation as the band splatters this jam all over the studio, recklessly runs right through another waterfall solo section in “A Song for Jorklum”, and cannot help but re-explore the intoxicating draw of the East in “Return to Samarkand”, jubilantly marching with all its new panoply of war.

Birnam Wood has finally found the production befitting its sound, and with that production has also come its most inspired work to date as quality continually inclines an ear to perk up at each fizzling fade of a note. The overwhelmingly meaty guitar, the band's willingness to loose itself upon a good riff in earnest exploration, and the sheer rapture of this climactic culmination in 'Wicked Worlds' renews a metalhead's zeal for the joy of jamming and playing with a focus on preeminence over pretense. As the result of the past four years of effort, Birnam Wood has very much come into its own as a cohesive unit and expressed its ambitious strengths through powerful heavy rock and beautiful blues that, as addling as a rush of chemicals, presents a potent product. (Five_Nails)

mercoledì 19 dicembre 2018

Gravespell - Frostcrown

#PER CHI AMA: Black/Death, Windir, Opeth, Dragonlord
Dall'assolata California, San Diego per la precisione, ecco arrivare i Gravespell e il sound dinamitardo contenuto nel loro secondo full length, 'Frostcrown'. Il riffing compatto dell'opener, nonchè title track del disco, ci ricorda perché il thrash metal abbia avuto la sua massima diffusione là dove Testament, Metallica, Slayer ed Exodus, si davano battaglia negli anni '80. La song che esordisce con questo thrashy mood, in realtà muterà in seguito, in una serie di cambi di tempo, stile e generi che arrivano ad abbracciare il techno death (a livello ritmico) e il black metal nord europeo. I cinque californiani picchiano duro, mantenendo però intatta la forte componente melodica che li contraddistingue, sempre gradevole, attraverso epiche cavalcate che scomodano un ulteriore paragone con un'altra realtà del luogo, i Dragonlord, creatura di Eric Peterson dei già citati Testament. Otto minuti quelli di "Frostcrown" per cercare di inquadrare la proposta dell'act statunitense, sempre in bilico tra scorribande black e velleità death progressive. Il disco è davvero buono, il che è certificato anche dall'arpeggio iniziale (una sentenza in quasi tutti i brani) di "Imprisoned", una traccia che ammicca agli Opeth, prima di esplodere in un riffing serrato che troverà successivi rallentamenti in atmosferici break acustici che si sovrappongono al rifferama compatto dei nostri e ad una sezione solistica di primo livello. Un breve interludio acustico ci dà modo di rifiatare, prima di imbatterci in "Shadows of the Underdark", song ben impostata a livello ritmico, che gode sempre di una certa libertà esecutiva, a testimoniare che i Gravespell non vogliono essere rinchiusi in un filone ben preciso. Le vocals di Garrett Davis poi sono un ibrido tra growl e scream e le chitarre qui si agitano rincorrendosi, in scale ritmiche da urlo. Se c'è una cosa su cui non discutere è pertanto la porzione ritmica dell'ensemble americano, cosi come l'ottimo gusto per le melodie. Forse c'è da lavorare un pochino su quei pezzi che suonano più come dei classiconi: penso a "Intrinsic Frost", un macigno, forse un po' troppo ancorato agli stilemi di un genere e quindi più suscettibile a giudizi perentori prima di godere di un finale in cui le chitarre si lanciano in aperture in stile Windir. Beh, tanto di cappello alla band che riesce a controvertere ogni pronostico, a fronte di commenti un po' troppo severi, con una prova di spessore. Lo stesso dicasi di "Occam's Razor", un pezzo che ha da offrire un diligente esempio di death metal tecnico, dotato di harsh vocals e di ottimi assoli conclusivi, l'altro punto di forza dei Gravespell. Sonorità più anguste sono quelle che compaiono nella più fosca e claustrofobica "Fear of My Vengeance", una traccia che per certi versi si avvicina come veemenza e compattezza del riffing a "Intrinsic Frost" ma che in taluni frangenti, fa riecheggiare quell'epicità, marchio di fabbrica dei Windir. Il disco ha le ultime cartucce da sparare e lo fa con gli ultimi tre belligeranti pezzi: "Ignis", spettacolare per quel rincorrersi delle sei corde. "Deadhand" è un brano dalla forte indole death thrash, un robusto omaggio alle grandi metal band del passato, che trova in un break acustico centrale un punto dove concedersi il meritato riposo, prima del conclusivo sprint, affidato alle stilettate della nervosa "Redemption", traccia che evidenzia una componente atmosferica più strutturata ed individua gli ampi margini di miglioramento in cui la band potrà muoversi in futuro. Insomma, 'Frostcrown' è un buon lavoro che vanta ottimi colpi, soprattutto a livello solistico ma che soffre ancora di qualche ingenuità. Ma le possibilità di crescere per i nostri sono davvero interessanti, basta solo coglierle al volo. (Francesco Scarci)

martedì 18 dicembre 2018

Mate's Fate - Eve

#PER CHI AMA: Metalcore/Post-Hardcore
Non sono mai stato il fan numero uno del metalcore. Scrivo da quasi vent'anni e francamente credo di averlo visto nascere, crescere e morire, per poi vederlo nuovamente riapparire molte altre volte. Tuttavia, ogni tanto mi piace avvicinarmi a qualche realtà meritevole del panorama metalcore mondiale e vedere a che punto stanno le cose, quali progressioni sono state fatte nel corso degli anni. Quest'oggi ho pensato di dare un ascolto ai francesi Mate's Fate per capire lo status del genere. 'Eve' è il debutto sulla lunga distanza del quintetto di Lione, dopo l'EP d'esordio dello scorso anno, 'A Home for All'. Il nuovo lavoro, rilasciato in un elegante digipack, contiene 10 song, che dall'iniziale "Alone" alla conclusiva "Eve", avranno modo di dirci di che pasta sono fatta questi giovani musicisti. Dicevamo di "Alone", l'opening track del disco: è una song che miscela egregiamente il metalcore con il post-hardcore, probabile retaggio dei nostri in un tempo non troppo lontano. Cosa aspettarsi? Beh, il classico rifferama potente e melodico tipico del genere, le vocals rabbiose, graffianti, e a tratti anche pulite, del frontman Matthieu, ed un ottimo lavoro dietro alla batteria, cosi come una ricerca di parti atmosferiche volte ad ammorbidire la proposta dell'ensemble transalpino. Ci riescono infatti con il più morbido attacco di "Peace", in cui la parte da leoni sembrano farla invece voce e batteria, la prima che si muove su molteplici tonalità, la seconda decisamente fantasiosa e tecnica. Le chitarre comunque crescono col tempo, ma non rappresentano la parte preponderante del pezzo se non dopo metà brano, quando divengono finalmente il vero driver del flusso sonoro dei nostri, col vocalist qui in veste di growler incallito. "Empty" è il classico brano con drumming sincopato e ritmiche sghembe, urla sguaiate ma anche vocals ammiccanti ai vari Tesseract o Architects. Muoviamoci su "Sadness", dove troviamo il featuring di Elio dei The Amsterdam Red-Light District, altra alternative punk rock band francese, in una song sicuramente carica di groove e melodie dal forte sapore catchy, in cui è interessante ascoltare i due vocalist duettare insieme. Il disco prosegue su questi binari fino al termine, non presentando particolari sussulti o trovate che mi inducano a pensare che il metalcore stia percorrendo nuove strade sperimentali. Probabilmente, l'eccezione alla regola è offerta da "Proud", una song dal mood malinconico che ho apprezzato più delle altre, o l'eterea (nel prologo e nel suo bridge) "Different", che proprio nel suo titolo sembra nascondere quel desiderio di sentirsi diversa dalle altre canzoni sin qui ascoltate e che alla fine, la pone di diritto in cima alle mie preferenze di 'Eve'. Ultima menzione per la title track, bella oscura, sebbene un cantato quasi rappato, davvero coinvolgente e più carica emotivamente parlando. Insomma, cose buone ed altre meno, alcune trovate interessanti sono spendibili per sottolineare la bontà di questa release, considerato poi che si tratta di un debutto, non possiamo che stimolare la band lionnese non solo a proseguire su questa strada, ma a cercare qualche variazione al tema, che spingerebbe i nostri a ritagliarsi un piccolo posto nell'iper inflazionato mondo metalcore. (Francesco Scarci)

Project Helix - Robot Sapiens

#PER CHI AMA: Thrash/Metalcore/Math
Non è che ci sia troppo sul web a raccontarci di questi Project Helix, se non che si tratti di gruppo teutonico originario di Stoccarda, dedito a un thrash metalcore carico di groove e che questo EP sembra voler affrontare temi relativi alla difficoltà di vivere in un mondo moderno, dove in qualche modo si deve "funzionare come macchine" e quindi 'Robot Sapiens' è una sorta di prototipo di ciò che "il sistema" vuole che siamo. A completamento delle liriche, i nostri affrontano anche il tema della disumanità in generale. Ma iniziamo a dare una musica a queste liriche cosi tematicamente pesanti e via che si parte con i veloci riffoni di matrice thrash metal di "Demons Aren't Forever" e al vocione animalesco del frontman Tim Gallion, che inizia a ringhiare su un sound iper ritmato di scuola Gojira. Il vocalist alterna poi il suo falso growl con un cantato più pulito, orientato al versante post-hardcore che contestualmente vede anche un ammorbidimento delle chitarre e ad uno stravolgimento generale del sound. Ci ritroviamo in balia di un nervoso riffing con la seguente "Rorschach Dilemma", una traccia che sembra incanalarsi invece in schizofrenici territori math, complici tematiche verosimilmente legate ad una qualche malattia della psiche umana. Il pezzo si muove su ritmi sincopati, cambi di tempo da paura, come quelli che ritroviamo a sessanta secondi dal termine, in un finale in cui metalcore e djent (stile Tesseract) si sposano alla perfezione. La voce del frontman continua con alterne fortune nella sua battaglia tra urlato e pulito. Di altra pasta "I Don't Hear the People Sing", più diretta, una song che può considerarsi una certezza in termini thrash metalcore ma che in realtà dice poco o nulla di nuovo. Meglio allora quando i nostri si muovo su terreni più intricati, a macinare riffs pesanti e urlarci sopra, sono capaci un po' tutti. Li promuovo pertanto nella loro componente più ricercata, ma anche più ostica da digerire: "Conduct Disorder" ha un doppio strato di chitarre, uno ritmato di scuola Pantera, l'altro che srotola qualche riff più psicotico che dona inevitabilmente imprevedibilità e originalità alla proposta di questi giovani musicisti teutonici. "Echoes" è un pezzo che vede ancora ritmiche frastagliate, suoni che sembrano arrivare da mille direzioni differenti, cosi come le vocals del buon Tim che si palesano in mille modi diversi. "Control", come già dichiarato dal titolo, parte un po' più compassata per provare a sfogarsi nel corso dei suoi quattro minuti, con tutto l'armamentario palesato sin qui dai Project Helix. 'Robot Sapiens' è in definitiva un album complesso, articolato, che al primo ascolto pensavo banalissimamente inserito nel filone metalcore, ma che alla lunga, mette in scena una serie di trovate che dimostrano per lo meno una certa ricercatezza di suoni da parte della compagine germanica. Al solito, siamo lontani da un risultato che possa definirsi memorabile, serve ancora una buona dose di sudore per venir fuori dall'anonimato legato alla moltitudine di band che popolano l'underground. Ma rimboccandosi le mani e mettendocela tutta, chissà non se ne possano sentire delle belle in futuro. (Francesco Scarci)