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venerdì 6 luglio 2018

Moonreich - Fugue

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Tornano gli amici francesi della Les Acteurs de L’Ombre Productions con il comeback discografico di una delle band più interessanti della scena black transalpina. Sto parlando degli efferati Moonreich che arrivano al traguardo del quarto album con questo notevole album intitolato 'Fugue'. Il disco, rilasciato in uno splendido digipack, mostra una certa cura nei dettagli anche a livello sonoro, con una produzione cristallina da far impallidire le migliori uscite mainstream. Bombastici fino al midollo, i quattro malvagi individui, in apertura con "Fugue Pt.I - Every Time She Passes Away", si lanciano in un'autentica cavalcata black, in linea con le precedenti apparizioni della band, qui forti però di un nuovo brillante vocalist, e con una linea melodica più marcata ed atmosferica che esalta notevolmente l'esito finale. Non ero un grande fan della band prima ma credo che dopo l'ascolto dell'opener dovrò ricredermi non poco, soprattutto per la dinamicità, i cambi di tempo, i suoni, e ribadisco, una matrice melodica che talvolta sembra sfociare in un rock carico di groove. Non me ne voglia nessuno, sembrerò blasfemo, ma l'efferatezza dell'act parigino sembra (e sottolineo questo sembra) aver lasciato il posto ad un sound più accessibile anche per chi non mastica suoni estremi all'ennesima potenza. "Fugue, Pt. 2: Every Time the Earth Slips Away" ha un'apertura decisamente compassata prima di spostare il proprio focus verso un suono irrequieto, funambolico, avvincente, disturbato, angosciante, al punto tale da farmi sobbalzare dalla sedia. Signori, l'evoluzione fatta dai Moonreich rispetto al precedente 'Pillars Of Detestè', la trovo davvero notevole, a tratti destabilizzante. Migliorato di gran lunga il songwriting e l'approccio sonoro, qui più votato alla ricerca di una componente atmosferica, spezzata comunque da sferzanti, quanto mai malvagie rasoiate ritmiche (spaventosi i blast beat qui contenuti). Troviamo poi una forte componente malinconica, complici le immancabili chitarre in tremolo picking. Chi già mostra le prime convulsioni rispetto a questa apparente attenuazione della feralità del quartetto francese, dorma pure sonni tranquilli, visto che con "With Open Throat for Way Too Long" si torna a ritmi infuocati, inframmezzati da qualche più raro e bieco rallentamento. Poi è solo la furia indemoniata dei quattro cavalieri dell'apocalisse a governare, in compagnia delle taglienti chitarre del duo formato da Weddir e Sinaï e dallo splendido screaming del frontman. L'inizio di “Heart Symbolism”è rockeggiante, piacevole, ma è sola pura apparenza perchè da li a pochi secondi, la song esploderà in una tempesta degna dei migliori Impaled Nazarene, visto un piglio punk black da paura. La potenza continua a scorrere incessante anche in "Rarefaction", un pezzo dal break centrale inquietante quanto assai discordante. È però con “Carry That Drought Cause I Have No Arms Anymore” che la band tocca vette mai raggiunte prima d'ora: si tratta di un pezzo infatti che mescola con grande classe, black, avantgarde, thrash e suggestive divagazioni progressive. A chiudere, ecco gli oltre dieci minuti di “The Things Behind the Moon”, in cui la band spariglia ancora le carte in tavola con una traccia inizialmente pacata, ma provvista di una potenza di fuoco inaudita, talora schizofrenica e incontrollata, all'insegna di una ricerca tecnica che mi ha evocato gli Ephel Duath più ispirati, riletti però in chiave black. Non mancano tuttavia anche in questa song i soliti obliqui rallentamenti, le progressive e pericolose accelerazioni, nonchè una invidiabile preparazione tecnica ed una imprevedibilità di fondo che vede già 'Fugue', in cima alle mie preferenze black di questo 2018, in attesa ovviamente del nuovo album degli Anaal Nathrakh. Intanto i miei complimenti! (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions - 2018)
Voto: 85

https://moonreich.bandcamp.com/album/fugue

giovedì 5 luglio 2018

Dark Fortress - Séance

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black, Satyricon, Mayhem
Quando ascoltai la prima volta questo disco pensai fosse la nuova band di Attila Csihar? Mi sorse questo dubbio perchè il vocalist della band tedesca, assoldata dalla Century Media, aveva la voce che somigliava a quella del frontman dei Mayhem. E mentre fino al precedente lavoro, proprio a questi ultimi si avvicinava il sound del combo tedesco, con 'Séance' la band teutonica propone un black di difficile catalogazione: dieci lunghe songs che viaggiano su mid-tempo, atmosferiche, dalle tinte malinconico-depressive a tratti, graffianti e gelide come il black old school in altri momenti. Le tastiere sono abili nel creare un’aura oscura attorno a tutto l’album; violini sinistri dominano la scena in “While They Sleep”, mentre le chitarre e la voce di Azathoth contribuiscono a donare desolanti e tenebrose ambientazioni che rendono 'Séance' un lavoro molto interessante pur essendo questo disco del 2006. Il gruppo tedesco fu abile nel coniugare alcuni elementi sinfonici dei primi Dimmu Borgir, con altri presi in prestito dai più recenti Mayhem e Satyricon: il risultato che ne viene fuori è un sound pesante e decisamente cupo. Interessanti sono gli interludi acustici che servono a spezzare le sfuriate black, così come inaspettati sono alcuni ottimi assoli che completano le songs. Bellissima “Shardfigures”, nona traccia dalle fosche tinte invernali, con quel suo riff di chitarra che richiama i primi lavori di Burzum ed uno spettacolare assolo di chitarra acustica, da pelle d’oca, davvero il miglior episodio dell’intero album. Anche a distanza di oltre 10 anni, 'Séance' non si rivela come un album di facile presa, ma ripetuti ascolti vi permetteranno di apprezzare al meglio questo lavoro. Spalanchiamo le porte al gelo dell’Oscura Fortezza. (Francesco Scarci)

(Century Media - 2006)
Voto: 75

https://www.facebook.com/officialdarkfortress

7marzo - Vorrei Rinascere in un Lama

#PER CHI AMA: Pop Punk Rock
Soft-punkettismo ballonzolante terzomillennario, gradevolmente contaminato con un opportuno dosaggio ska ("Vorrei Rinascere in un Lama"), calypso ("Ridi Quanto Vuoi"), picchioduro (il riffone Nirvan-ico da cui scaturisce "Eva Correva"), ipodermicamente tre-allegramente-pazzerello-morto nelle linee vocali (dappertutto, a partire dalla title track) e nelle tematiche (cfr. il post-giovanilismo retrospettivo di "Ciao"), con sentori negramaramente nazional-pop ("L'Immagine del Cambiamento", cosi diabolicamente orecchiabile). Un approccio spericolatamente cantautoriale alle liriche, anche se di primo acchito apprezzerete i momenti più liricamente acuminati: forse derivativo l'interludio di "Michele" (da confrontare col monologo conclusivo di "Cara ti Amo", Elio e le Storie Tese), senz'altro condivisibile la tesi soggiacente a "Grandissimi Film Americani ("La scienziata si innamora dei nemici / e quello nero muore"), semplicemente ineffabile il singolo "Dai Passa Questo Pezzo". Ascoltate questo disco al posto di radio Deejay. (Alberto Calorosi)

(Self - 2017)
Voto: 65

http://www.7marzo.com/

Apathy Noir - Black Soil

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive Doom, Opeth, primi Katatonia
Da Norrköping, ecco arrivare un duo la cui formazione risale addirittura al 2003. Trattasi degli Apathy Noir, conosciuti fino al 2016 semplicemente come Apathy, ma che poi a causa delle consuete rogne legali, ha dovuto modificare il proprio nome. E sotto questo nuovo moniker, ecco arrivare 'Black Soil', un disco che oltre avermi intrigato inizialmente per una cover album decisamente minimalista, ha poi saputo lentamente conquistarmi con un sound decisamente malinconico, ideale per questa stagione invece all'insegna di sole e mare. Ecco perchè "The Glass Delusion" potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un autunno uggioso e drammatico, che si snoda attraverso un pezzo di oltre sei minuti dediti ad un black/death doom decadente, quasi disperato, perfettamente in linea con le liriche dei due musicisti scandinavi. Ottime le melodie, cosi tremendamente nostalgiche che in alcuni frangenti mi hanno rievocato i primi Katatonia. La seconda "Samsara" è un po' più folk oriented (un'occhiolino agli Amorphis i nostri lo strizzano), con le vocals che si dimenano tra un gracchiante growl (a mio avviso un qualcosa da rivedere) e una linea vocale pulita, più piacevole che si palesa nei momenti più compassati, mentre la chitarra è abile nel districarsi tra trame death doom progressive influenzate da October Tide e dai primi Opeth, e altre più votate al black svedese in stile Dissection. Il risultato alla fine è davvero buono. La title track conferma un sound che nuovamente prende come fonte di ispirazione i Katatonia dei primi due lavori (ma anche i primi Rapture e gli Swallow the Sun), arricchendo poi la propria proposta con azzeccati arrangiamenti inglobati in sempre più cupe e funeree atmosfere che hanno il pregio di sfruttare diversi cambi di tempo. "The Void Which Binds" propone una lunga introduzione che ci conduce ad un cantato pulito e a delle melodie nostalgiche, per virare successivamente ad harsh vocals e ad una ritmica più feroce che comunque vive di chiaroscuri, intermezzi acustici e ripartenze votate ad un oscuro death progressive. Il disco come spesso capita con questo genere, non è proprio di facile assimilazione. In "Bloodsong" mi vengono in mente Daylight Dies e Opeth come impianto ritmico, con la song che si muove tra luci ma soprattutto ombre e non intendo momenti negativi, bensì faccio riferimento ad un suono che si fa via via più lento ed tetro che nel finale ha modo di regalare anche un intenso assolo. Ultima menzione dell'album per la conclusiva "Time and Tide", aggressiva quanto basta per spezzare quell'aura angosciante che si era instaurata con la precedente "Towers of Silence". Bordate ritmiche, frangenti acustici e growling vocals completano quest'ultima traccia che evoca a più riprese il periodo più brillante degli Opeth (per il sottoscritto quello di mezzo) chiudendo in bellezza la quarta fatica dei due polistrumentisti svedesi. Che altro dire, se non ben fatto! (Francesco Scarci)

mercoledì 4 luglio 2018

Palmer Generator - Natura

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock Strumentale
È già da un po' di tempo che vado affermando che la scena italica brulica nel sottobosco di band assai interessanti. Quest'oggi mi soffermerò sulla terza release firmata Palmer Generator, power trio a conduzione famigliare (trattasi infatti di padre, suo fratello e suo figlio) proveniente da Jesi che mi ha ammaliato non poco con quelle sue melodie ipnotiche, suadenti e talvolta esotiche, questo almeno nell'opening track. Quattro i movimenti inclusi in 'Natura' per 38 minuti di musica che riescono a combinare un psych rock di natura strumentale, liquido e dilatato che ci prende per mano e con i suoi suoni ridondanti, quasi dronici, ci trascina in un vortice sonico da cui sarà difficile uscirne integri mentalmente. Penso agli oltre 12 minuti della lisergica opener "Natura 1", una song che scombussola l'animo per la sua cupezza ma anche per quel suo loop che rischia di condurre alla follia, in un vuoto spinto che introduce ai suoni siderali di "Natura 2". Il sound di questo brano poteva tranquillamente fare da colonna sonora a film come 'Gravity' o 'Interstellar', grazie ad un suono guidato dall'assenza di gravità che ci accompagnerà nel nostro viaggio verso galassie lontane attraverso cunicoli spazio-temporali, quei cosiddetti wormhole che a fine brano accelereranno i C, ossia la velocità di propagazione dell'onda elettromagnetica. Pur essendo un album di grande fascino, 'Natura' non si presenta come un disco di facile assimilazione. Lo testimonia il terzo passaggio, "Natura 3" che ci proietta nuovamente nel vuoto cosmico a interagire con creature extraterrestri (in questo caso i suoni propagati sembrano quelli del film 'Contact') laddove la temperatura si avvicina allo 0 assoluto, ma che verso metà brano, vedono i nostri provare ad invertire rotta e non certo per l'effetto di una fionda gravitazionale, semplicemente perchè i tre musicisti hanno finalmente deciso di accendere i motori roboanti della loro astronave nel tentativo di far ritorno verso la Terra ("Natura 4"). Tutto si rivelerà ahimé vano. La song è l'ultima deriva post rock ambientale che ci condurrà con i suoi rumori e sensazioni inevitabilmente fino ai confini dell'Universo. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco Records - 2018)
Voto: 75

https://palmergenerator.bandcamp.com/

Sequoyah Tiger - Parabolabandit

#PER CHI AMA: Electro Dream Pop
Lo pseudonimo dell'autrice unirebbe la silenziosa determinazione della tigre alla innovativa intelligenza di Sequoyah, il cherokee che nei primi '800 alfabetizzò la sua tribù, con l'ambizioso intento di codificare un nuovo dream-pop, etereo, old-age, qualcosa tra una Enya che ingerisce due plegine ("Another World Around Me") e delle Warpaint che buttano giù un giro di mezcal per colazione ("Where Sm I?", ma soprattutto Cassius, senz'altro l'episodio più pop dell'album), bucolico, sì, ma a tratti anche (sub)urbano (cfr. la "Tune Yards" con le mani sporche di asfalto di "Lemur Catta" e "A Place Where People Disappear"). Di tanto in tanto i suoni appaiono invecchiati ad arte (il singolo "Punta Otok" propone un evidente carpet-tastieronismo anni '80 alla Orchestral Manoeuvres in the Dark, se qualcuno se li ricorda, però filante, come una sorta di motorik beneducato, ecco). Tra gli episodi più riusciti, la elettro-beatlesiana "Sissi" e il doo-wop stupefatto e, diciamo così, asintoticamente bipolare nella riverberante conclusione. (Alberto Calorosi)

martedì 3 luglio 2018

Runespell - Order of Vengeance

#FOR FANS OF: Pagan Black, Primordial, Agalloch
Climbing Celtic riffs clamor for control of an ebbing and flowing meter, as though a man with a small spade attempts to tame a river and is repudiated by the tragic incompatibility of his intentions with reality. Yet there is eventually a turn of the tide, forced by an immense will, a slight intervention of deus ex machina, and an ever flowing artistic license that yearns to realize results from recalcitrant ritual. Honoring its name, “Destiny over Discord” overcomes the powerlessness of the poor soul struggling against the tide, breaking its first movement's confinement with a hard pounding and finding space to deviate and move, as though cutting a secondary estuary to alleviate the flow. In small doses, Runespell abandons the Agalloch appeals above its Bathory base in favor of a Primordial persuasion that, in achieving frustrating expectation, illogically disappoints in a feeble attempt to display artistic agency.

When Runespell made its debut with 'Unhallowed Blood Oath', Nightwolf had no shortage of samey riffs and basic black metal to ascribe to his dingy dominion. With a slight handle on harnessing a hollow atmosphere, humidified by raining guitar notes and barely audible blasting moments into his swampy mix, the Australian newcomer's first attempt made for an unimpressive display of down under diligence. Nevertheless, Nightwolf plunges on with his 2018 attempt in 'Order of Vengeance', an equally milquetoast album with an equally vague title that somehow extinguishes the small and distant flicker of hope that once emanated from this bland bedroom. Where 'Unhallowed Blood Oath' had the potential to presage a pivot after an initial display of prowess, 'Order of Vengeance' plods down the same safe path, fearful of the creatures that creep in the bush and unwilling to undertake the struggle to discover a truer aspect within.

“Retribution in Iron” encapsulates everything you need to hear, to understand, and what to expect from this album. The barely audible swinging rear riffs, hallowed harmonies hailing calls to trigger blast beat charges, and a consistent melancholy lending the generic surface meaning to ferocious music leaves the listener conflicted, wondering whether to weep or shriek at this enraging cage. At the forefront are proclamations from a calm but stern vocal, unintelligible at most times but raspy enough to leave a microphone sopping with unbrushed flavor after an hour. Yet there is a second layer of conflict underpinning 'Order of Vengeance', a conflict that leaves this listener wondering whether he even wants to listen to another bland bedroom black metal band such as this after so many years of consistent, cannibalistic, and incestuous music with so little variation and exploration in this well-hidden sub-culture.

Rather than branch out, Runespell's latest attempt is a far more cloistered display of Nightwolf's vision, consistent to a fault, and leaves a listener yearning for the Agalloch worship and flagging idealism of yesteryear. With a dull and dulcet demo sounding mix that betrays the energy of this album by propelling puttering patters rather than a powerful and passionate punch, the effort and black metal zeal is apparent in some places, but is in a quiet place of studious creation rather than the overt, unsettling, vengeful, and brash individual enterprise typical of the style. Turning his sights from the most obvious groups to simulate and instead scratching somewhat beneath the surface of one of the most placid black metal coves, 'Order of Vengeance' maintains an unwavering Primordial focus that eschews epic ambiances in favor of a gait as uninterrupted by diversity, fresh ideas, and originality as a festival featuring an abandoned fifer who knows only one song. While this creates a sound that must make the album grow on the listener in order to be approached with appreciation, with some great riffing in the background of “Claws of Fate” and tremolos abound, the disheartening lack of originality throughout these forty-six minutes serves as a reminder of the talent that serves so many facets of underground metal and the ease with which a passing posing band wagoner may be spotted. 'Order of Vengeance' is replete with two-riff inanities that wash the ears in so many by-the-numbers, beaten down, and uninspiring reels that it shows Nightwolf as a formulaic well-versed musician phoning in his art and attempting to turn trash into cash.

That being said, Runespell has a sound that is steadily growing on me. In spite of its lacking originality, the pinches of nuance and improvement in formula and pacing have shown that Nighwolf has been studying and adapting his songwriting ever so slightly. In spite of the fact that every song on 'Order of Vengeance' sounds either the same as the last or generically repeats just about every old trope in the black book, underpinning many modern mechanics with a modest low-fi aesthetic, the general gist of the album plays things safe and even enough not to offend, let alone imbue itself into memory. This is best shown in the ambient and acoustic “Night's Gate”, where a most familiar string tinkle joins with the sound of distant cars hitting a freeway bump, almost beat for beat an Agalloch piece, but that would be too easy a comparison to draw. This song strips down some of the Balkan fire of Bethroned, quiets the sound of “Autumn I” by Gallowbraid, and leaves this writer scratching his head, ready to embark on a ten hour search for that single exact example of emulation. It's frustrating when a sound so typical and overdone pings so loud that it conjures a dozen responses on the radar, but this is the eternal plight of the bedroom black metal band. In spite of Occam's razor prevailing in finding the near mirror likeness of “Night's Gate” in another woefully average Australian band, Vaiya's endlessly monotonous “:W i n t e r m o o n:”, there is a larger bottleneck of ideas that needs to be addressed.

Struggling with the issues that plague so many, working in the same styled space as countless others, and attempting to force the individuality inspired by black metal out of such a counterintuitively collective culture stagnates musicians and leaves swaths of scorched earth as common and indistinct from each other as a bass guitar is in a lo-fi mix. Runespell is a product of a much larger endemic issue in the black metal underground. A misguided and misdirected hope to stand out with the crowd leaves so many broken and beaten bands by the wayside for the sole reason that they simply are not interesting or unique enough to deserve more than a cursory glance. In a style so stark in its search for solitude, so willing to praise itself for its population of lone wolves, bedroom black metal musicians seem unable to grasp the reality that they are the dime a dozen worldwide distribution of self-parodying sadness spawned from a once proud, cloistered, under-publicized, and passionate sub-culture. The internet has become the new Sunset Strip. Soundcloud, bandcamp, and Facebook are the new nightclubs filled with musicians caked in make-up hoping for a record deal, and there isn't a chick in sight. Runespell is just another here today and gone tomorrow member of a lost generation with nothing to say, further cheapening the idea of bedroom black metal in spite of some examples of fantastic musicians that Nightwolf may well consider his peers.

Eight years ago Runespell would have been one of many in the long list of listenable but impactless bedroom black metal bands, unable to hold a candle to the few stars seen as transcendent in the realm but considered capable enough to deserve its marginal success and a modest following. Eight years ago this DNA flowed through the veins of musicians in Norway, Sweden, and Germany, Croatia and Slovenia, the United States and Canada, Bahrain and Iran, Russia and Ukraine, and most of them are still around today, saturating a musical landscape with an immense elaboration on the particulars of the style. What makes anything by any of the latest in this Australian branch within this last year any different?

As much as this album starts to grow on me, digging in meek tendrils of roots that lose their grip to even a drizzle, Runespell may as well be holding up the background of a mindless low-tier video game with its music rather than strive for the lofty par set by the likes of Final Fantasy's Nobo Uematsu or Command and Conquer's Frank Klepacki. If Koei decided to create an endless series of viking hack and slash games, Runespell could easily provide the soundtrack with a reverential eruption like “Wolf.Axis” and wouldn't offend in the least after a generation of players hears these endless riffs recycling just under the sound of terribly-voiced awfully translated dialogue. Simply put, Runespell is incredibly boring, inert and soulless in its rage, and it seems this has become a common thread with some of these more atmospherically inclined Australian bedroom bands. The lack of ambiance shows how hollow and lacking in ideas these musicians are while the endless repetition shows how one-dimensional, copy and paste, their outlooks can be. Something needs to change. (Five_Nails)

Dobbeltgjenger - Limbohead

#PER CHI AMA: Indie Rock/Alternative, Queens of the Stone Age, Incubus
A Bergen, in Norvegia, non si vive di solo metal o black, esistono band che toccano altri confini con risultati interessanti, coprendosi di fantasia e mostrando qualità eccelse. La Karisma Records, etichetta splendida per uscite metal complicate e oscure, lo ha capito ed ha assoldato tra le fila della sua scuderia band geniali e bizzarre che esplorano mondi diversi, aumentando ulteriormente il valore e la quotazione delle sue release. Questo è il caso del progetto Dobbeltgjenger che accosta composizioni bizzarre ad esecuzioni musicali al di sopra della media, fatte da musicisti che amano sperimentare e mischiare generi diversi per confonderli (e confonderci) e farli rinascere in modo stravagante. Così si parte con "Tin Foil Hat", indie rock incalzante dalla vena molto sbarazzina, tra esplosioni chitarristiche noise e blues e con un cantato che ricorda splendidamente i Chambawamba più ballabili e il Beck dei tempi d'oro. "Calling Tokio" è un brano rubato dalle session di una improbabile cover dei Queens of the Stone Age, di un brano del miglior David Byrne, dal gusto esotico e psichedelico, mentre "Like Monroe" continua il richiamo alla band di Josh Homme con venature rock più suadenti e sfumature canore vicine agli Incubus più romantici. Per non annoiarsi mai ecco "Loking My Doors" dove il registro cambia ancora, il pop si fa adulto e ci si imbatte in una inaspettata soul ballad che richiama la magia di Otis Redding in "Sitting on the Dock of the Bay" e il canto alla Extreme di "More Than Words". Nel velocissimo brano "Swing", la compagine di Bergen, immedesimandosi in territori polverosi e desertici, cerca di spiegare le origini del suono dei QOTSA, proveniente dalla leggenda sonora quali sono i Fatso Jetson, mentre "In Limbo" sembra un brano dei più recenti Red Hot Chili Peppers passato però in acido, dove le forme più lisergiche ed astrali della band, venate di magma 70's, vengono fuori in massa mettendo in risalto una performance strumentale e soprattutto vocale, magistrali. "Keep'em Coming" gioca con il funky del leggendario folletto di Minneapolis, cori alla Franz Ferdinand e taglio dance da hit disco alla Parliament. Eccletismo sonoro è la parola d'ordine per questo 'Limbohead', cosi accattivante e affascinante, tutto da scoprire, musica dalle mille sfumature e tante sfaccettature, suonato benissimo e prodotto divinamente, con gusto e fantasia, come quelle racchiuse negli ultimi due brani, "Radio", che rilascia fresco rock alternativo alla maniera degli ultimi Incubus e allucinazioni in stile Beatles/John Lennon e "Mangrove", dove ritornano le strutture care alle ballate soul di classe e al funk rock dei RHCP. Un album che bisogna assolutamente ascoltare liberi da pregiudizi, valutarlo per la fantasia degli accostamenti musicali provenienti da generi diversi, la qualità d'esecuzione e per una voce a dir poco splendida. Autentica sorpresa! (Bob Stoner)

(Karisma Records - 2018)
Voto: 85

https://dobbeltgjenger.bandcamp.com/