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giovedì 8 marzo 2018

Decemberance - The Demo Years (1998-2001)

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi The Gathering, primi Anathema
Considerate subito una cosa: avevo definito l'ultimo album della band ellenica una prova di sopravvivenza, cosa aspettarsi dunque da un lavoro che recupera i primi due demo della band, datati 1998 e 2001, che propongono una registrazione alquanto casalinga e che esordiscono con la marcia funebre? Francamente, io temerei il peggio. "Dying" è il primo pezzo, estratto dal demo d'esordio 'Decemberance', una song che mantiene per quasi tutta la sua durata, la melodia di fondo della marcia funebre appunto e su cui poggia il cantato sussurrato di Yiannis Fillipaios. Si va avanti con "When Darkness...", dieci minuti di suoni che lasciano intuire quello che il combo dell'Attica avrebbe concepito e migliorato nel corso degli anni, ossia un death doom robusto, sorretto da delle tastiere forse un po' troppo elementari, ma che mi hanno ricordato l'album d'esordio dei The Gathering, quelli estremi, non le derive pop rock dei giorni nostri. Comunque già s'intravedono quelle che saranno le peculiarità dell'act greco, con quei suoni violenti ed opprimenti, smorzati da un break acustico che scomoda pesanti paragoni con "Remember Tomorrow" degli Iron Maiden, mentre la voce del frontman è qui in versione growl, cosi come nella successiva title track, lenta ma venata di un alone orrorifico, con tanto di lamentosa voce femminile in sottofondo. A chiudere la prima parte del cd ci pensa la strumentale ed acustica "Sorrow". Vado ad affrontare il demo 'Just a Blackclad...' e prima cosa che posso notare è una registrazione leggermente più pulita ed un approccio musicale forse più feroce ma al contempo più votato alle tenebre, con accenni agli Anathema di 'Serenades' che si fanno più importanti. Il disco è un bel macigno da assorbire, non ne avevo dubbi; meno male che torna un break semi-acustico dal sapore barocco ad allentare una tensione che, si stava facendo via via sempre più pesante da tollerare. Certo l'incedere del disco è mastodontico ed ecco che mi sovviene un altro paragone col passato, quello con l'EP 'Preach Eternal Gospels' degli olandesi Phlebotomized. Ascoltare per credere ed apprezzare la monumentalità di ritmiche iper-distorte, che viaggiano in profondità, la cui pachidermia viene alleggerita dal suono di archi. "Numquam" è un Everest di 21 minuti da scalare tutti d'un fiato, e chi si ferma è decisamente perduto. E allora via ad affrontare l'ennesima inerpicata tra sonorità a rallentatore, delicati arpeggi di violino, gorgheggi d'oltretomba, sprazzi atmosferici, raffinati squarci acustici che evidenziano già un certo talento nelle corde di un ensemble che non vuole comunque rinunciare nemmeno alle classiche galoppate brutal death. Devastato, giungo all'ultima "...Of Decay and Sadness", in cui è il suono del flauto ad aprire le danze, prima di lanciarsi in una serie di divagazioni acustiche con tanto di strumenti ad arco, che per oltre sette minuti deliziano i padiglioni auricolari con della musica classica, che precede l'ultima breve fuga death metal di quest'interminabile ma affascinante raccolta. Ora che ho compreso da dove i Decemberance siano nati, tutto mi è molto più chiaro. (Francesco Scarci)

(Endless Winter/GS Productions - 2018)
Voto: 70

lunedì 5 marzo 2018

Aorlhac - L’Esprit des Vents

#PER CHI AMA: Epic Black, Windir, Einherjer
Il monicker Aorlhac (mi raccomando si pronuncia "our-yuck") sta per Aurillac, ossia la citta natale dalla quale proviene la band, espresso nel linguaggio occitano. 'L’Esprit des Vents' è il terzo capitolo di una trilogia iniziata nel 2007 con 'La Croisée des Vents' e seguita da 'La Cité des Vents' nel 2010, volta a narrare storie e leggende medievali dell'Occitania, ossia quella parte di territorio che comprende il sud della Francia, ma anche alcune aree dei Pirenei spagnoli e alcune valli piemontesi. Tutto questo attraverso dieci brani che, partendo dalla tellurica "Aldérica", si concluderà con la strumentale "L'Esprit des Vents", in un cammino musicale votato ad un black thrash epico e belligerante. Pochi infatti i momenti di quiete, il disco è frenetico e spavaldo, fiero portavoce delle proprie origini ancestrali. Durante l'ascolto dell'album, le citazioni per questa o quell'altra band però si sprecano, mostrando una certa dose di influenze provenienti dal Nord Europa, che si miscelano con l'heavy metal britannico (l'assolo classico de "La Révolte des Tuchins" è a dir poco spettacolare) e la scelta di cantare in francese, per un risultato alla fine dei conti, comunque più che discreto. Non siamo di fronte a nulla di estremamente originale sia chiaro, il black metal degli Aorlhac è onesto, dotato di buone melodie (fischiettabile il motivetto della folkish "Infâme Saurimonde") e di una buona preparazione tecnica, con la prova del batterista sicuramente sugli scudi. Echi di Einherjer e Windir rieccheggiano nelle linee di chitarra vichinghe di "Ode à la Croix Cléchée", su cui si poggia il cantato abrasivo ma abbastanza originale di Spellbound. "Mandrin, l'Enfant Perdu" si muove tra sonorità black e thrash, chiamando in causa anche i cechi Master's Hammer oltre ai norvegesi Taake e verso la fine, addirittura emerge forte un riconoscibilissimo richiamo agli Iron Maiden. Tra le mie song favorite citerei sicuramente "La Procession des Trépassés", intensa a livello ritmico quanto dotata di sagaci melodie e di un forte tocco malinconico; ultima citazione infine per "L'Ora es Venguda" dove addirittura sento un che dei Primordial. In conclusione, 'L’Esprit des Vents' è un disco che sicuramente farà la gioia di tutti gli amanti di sonorità black pagane ma che, almeno personalmente, non mi ha appagato in modo totale. (Francesco Scarci)

domenica 4 marzo 2018

Interview with Arallu


Follow this link to know much more about the proposal by Arallu, an Israeli band mixing black metal, thrash and Arabian/Middle Eastern sounds. The interview with them allowas also to understand better the Middle East tensions and their day by day situation:

Premarone - Das Volk Der Freiheit

#PER CHI AMA: Psych/Doom sperimentale, Nibiru
Inquietanti, da brivido, deliranti. Tornano i piemontesi Premarone con un secondo lavoro, 'Das Volk Der Freiheit', dalle forti tinte psichedeliche oltrechè psicotiche. Il quartetto di Alessandria, forte del nuovo deal con la russa Endless Winter, rilascia un mastodontico album di 60 minuti, coperti per buona parte, da sole due song. Si viene risucchiati immediatamente dal vortice lisergico dell'intro, che ci introduce alle cupe atmosfere di "Parte I - D.V.", un colosso di quasi 29 minuti di durata, in cui il doom claustrofobico dei nostri si fonde con lo psych, lasciando alle chitarre quel quid che evidenzia inevitabili reminiscenze stoner. Liquidare una traccia di mezz'ora in due sole righe sarebbe alquanto riduttivo, ecco perchè posso aggiungere che dopo sette minuti di suoni sfiancanti ed ipnotici, i quattro folli si lanciano in una serratissima ritmica black, che dopo qualche secondo, lascia posto a delle voci che richiamano la storia politica italiana. Questo perché il disco è in realtà un concept che propone una sorta di analisi personale dell'ultimo ventennio della storia politico-sociale dell'Italia: non sono solo le voci di politici (sempre all'insegna della par-condicio) quindi a palesarsi nel corso del flusso angoscioso di un brano, potente sia sotto il profilo musicale che vocale, ma anche pubblicità delle reti Mediaset con rievocazioni al Grande Fratello o ad altri programmi che arrivano dalle reti di Piersilvio. Dopodiché, spazio al delirio assoluto, tra kraut-rock teutonico, suoni progressivi che arrivano direttamente dai nostri anni '70, ma soprattutto tanta improvvisazione, il che significa originalità a profusione che non posso far altro che apprezzare. Certo, bisogna affacciarsi a questo disco con una mente assai aperta se non si vuole soccombere agli stralunati deliri musicali dei Premarone, che ci infilano nel loro poco confortevole shakeratore, buttandoci dentro ancora qualche elemento che scopriremo poco più in là, mentre le urla inviperite di Fra eccheggiano nel mio stereo, rievocandomi peraltro il cantato di una band storica del panorama italiano, i CCCP, quanto tempo. Stordito da brutali suoni schizofrenici, vecchie registrazioni vocali, rallentamenti abissali, synth che ci riportano ad un'altra epoca, mi accingo finalmente ad affrontare l'intermezzo ambient-drone di "Interludio - Interferenze", che con un titolo cosi non può far altro che alterare lo stato già di per sè alterato, del mio cervello. E allora, mentre scorrono suoni/rumori dal vago sapore casalingo, vi posso svelare la ragione del titolo in tedesco: 'Das Volk Der Freiheit' vuole infatti evocare lo spettro di un regime totalitario (andatevelo a tradurre su Google translator e capirete). Andiamo avanti con l'esplorazione degli ultimi venti minuti affidati a "Parte II - D.F.", una traccia la cui matrice ritmica ha forti sentori sludge/doom su cui si agitano poi le narrazioni di Fra, in una song apparentemente più stabile e lineare della precedente, ma che comunque ha ancora modo di sorprendere con i suoi (mal)umori, le sue nevrosi e gli abbattimenti, in una digressione musicale che sembra voler evidenziare quel decadimento imperante nel nostro amato paese. Alla fine, 'Das Volk Der Freiheit' è un signor album, sicuramente difficile da approcciare, ma che certamente sarà in grado di offrirvi un interessante spaccato dell'ormai deprimente società italica, dimostrando allo stesso tempo che almeno a livello musicale, l'Italia ha diritto di sedersi con i più potenti stati del mondo. (Francesco Scarci)

sabato 3 marzo 2018

Senzabenza - Pop From Hell

#PER CHI AMA: Punk Rock
Dalla old school ultralondinese con guida a destra alla Madness ("London Town", eccheccaz, "Ten Day Holiday") a quella cazzon-revival-americana stile Social Distortion ("A Street Car Named Desire") o Ramones ("Someone" o "She is Just a Runaway"); dalla prima dollarosissima reviviscenza rock-oriented early-90 a trazione Green Day (quasi ovunque, per esempio in "Never Really Hurts") e NOFX ("Father Jack") per raggiungere certe soleggiate pennellate sixty-surf ("Someone") oppure inopinatamente psych-beat tardosessanta ("Mrs. Lucy Simmons" sta indubbiamente svolazzando in "The Sky With Diamonds"). Sedici nitide policromie happy-punk provenienti dall'affollato inferno del pop per conficcarsi direttamente nei vostri padigilioni, a chiara dimostrazione che la punk-band italiana apprezzata da Joey Ramone, giunta al ventottesimo anno di carriera e al quindicesimo anno di astinenza dallo studio di registrazione, paradossalmente, ancora non ha terminato la benza. (Alberto Calorosi)

Mothership - High Strangeness

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Black Sabbath
Il terzo album dei cosmic-sassaioli Mothersip, provenienti dalla medesima città di J.R. Hewing e Meat Loaf, esordisce con uno strumentale, "High Strangeness", se possibile persino più psico-cosmico del già largamente psico-cosmico "Celestial Prophet" collocato in apertura del precedente 'Mothership II' (avrete senz'altro ascoltato 'Embryo' dei Pink Floyd almeno una volta nella vita). Ma a differenza del precessore, più monolitico, qui lo stoner è una sorta di substrato sedimentario ove collocare, di volta in volta, chitarrismi eminentemente secondozeppeliniani (la quasi citazionistica chiusura di "Midnight Express" e "Wise Man") o primosabbatiani (i riverberi infernali emanati dalla conclusiva, eccellente, "Speed Dealer") oppure polverose aspirazioni nu-grunge (la deboluccia "Crown of Lies"). Quello che sorprende è che si tratta proprio dei momenti maggiormente riusciti, a (ulteriore) testimonianza di un futuro auspicabile distaccamento dal genere di riferimento oppure, vedete voi, del fatto che chi scrive nutre una conclamata antipatia nei confronti delle ortodossie musicali in generale e dell'ortodossia stoner in particolare. (Alberto Calorosi)

Abigor - Höllenzwang (Chronicles of Perdition)

#FOR FANS OF: Black Metal
For an Austrian black metal band that has been around since the early '90s Abigor's only outstanding aspect is in its failure to impress with this 2018 offering, released as soon as possible into a new year to garner some credence before this band's betters begin breaking solar silences. 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is an album that aims to capture the chaos of a hellacious descent and torture the listener with an avant-garde style that supplants harmony with horror to diverge from meditation with exhaustive apocalyptic exercises. Instead, and maybe in spite of such an ambition, Abigor accomplishes little more than a parody of itself, as though tethered so tightly to cliched notions of evil and scary ideas that the only way it can seem different from a thousandth viewing of The Exorcist is to provide utterly unlistenable music as introductions to inane horror movie interludes.

That isn't to say that there isn't anything redeemable in 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)'. The regal and theatrical synth that closes a series of unusual arrangements in “All Hail Darkness and Evil” introduces an offering that initially intrigues while leaving listeners wondering just how such chaos can be sustained by presenting such an intimidating mix buffered by such truly off putting aspects. A cursory glance at the shrieking and stumbling leads as they are trodden upon by a litany of drum changes does pique some initial curiosity. However, that is only until moments of clean singing and choral outpouring of the song's namesake call out from the winds of controlled chaos crashing into cliffs of cringe, as though the lyrics are being yelled into an oscillating fan as the guitars clamor up blood soaked walls with tormented and grotesque limb movements, their jagged joints having been bent, broken, and repurposed in opposing directions. The album does well to focus on the agony of malformation while drastically abusing the register but finds itself stuck in the most unsophisticated and sophomoric senses of the sentiment that it renders its bewilderment moot to its own emasculated execution.

The weirdness doesn't stop there as “Sword of Silence” awkwardly runs up, down, and around its register like the little feet of spectral children haunting the staircase where their necks were broken. The absurd vocal delivery boots this clumsy song as far from evil territory as its kick can muster and instead jams its big toe into the anus of parody. The guitars attempt to corrupt and distort the flow of a song like “The Duelists” or “Flash of the Blade” with a delivery that inverts any and all chivalric concepts to dishonor past regal Iron Maiden bouts, yet its realization merely comes off as a goof on black metal so easily able to fit into a Spinal Tap sequel's montage as the aging band attempts to stay relevant by hopping from style to style in search of a following. Just because three separate songs can be played at once, it doesn't mean that they combine amicably or even hint at the fruits of jazz. The avant-garde treble movements in this album seem like an excuse to feign intellect while having no prescribed direction before jumping into wholly unsatisfying runs, but at least the rhythm tries to pump some adrenaline despite its dilution. 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is made even more comedic by the disharmony of “Black Death Sathanas- Our Lord's Arrival” and the groans that accompany it and “The Cold Breath of Satan” into what sounds like a harem full of Fergie replicants all singing “The Star Spangled Banner” while reenacting The Exorcist by masturbating with golden eagle flag toppers in order to shock Dani Filth out of an opera house. By the end of “The Cold Breath of Satan” there is a breakdown where the guitars create a ghastly and intriguing curl that creeps down the spine, finally achieving the sort of eminent evil that draws out images of horror rather than residing only in parody. Sadly it is too little too late after enduring such unpalatable mechanics, made even less enticing by this meandering maelstrom maiming its majesty.

Unfortunately, the redemption found in achieving maleficent notation is in sparse supply as its most apparent instance appears in “Christ's Descent into Hell” where the ensemble careens into the depths with a frolicking tumble, as though chasing a wheel of cheese into a cauldron of shaved steak. Idiotic souls are left screaming as their mouths melt from the delicious lava in spite of knowing exactly what luncheon grotesquerie they were lunging into. An opening run in “None Before Him” provides paltry satisfaction before the guitars are allowed to run riot and the ensemble embraces the boredom brought by Dimmu Borgir. As much as Abigor promises the unusual and pads it with a slight bit of interesting, 'Höllenzwang (Chronicles of Perdition)' is an album that tries too hard to fail laterally. This is an album that prefers to crash and burn so terribly that Don McLean may noodle through a song about it, that Tommy Lee would love to neglect it at a pool party, and that has strung itself up by its own umbilical cord rather than experience the pain of seeing its own misshapen visage burned by the light of day. This is an album that surely did not make it far past the drawing board and somehow is burning itself into my ears, like ice picks tipped with sulfuric acid, just to make way for thoughts as banal as this album's ideas. As hard as this band attempts to be ugly, it simply sounds crass, phony, and annoying. As hard as this band tries to be avant-garde, it merely comes across as unlistenable dreck, but at least it's not as bad as Chepang, Nic, Mutilated Messiah, or many of the other unutterable failures that populate a realm hell-bent on reveling in mediocrity in order to feign depth in its pathetic poetry. This album needs to be heard like I need another höllen my zwang. (Five_Nails)

giovedì 1 marzo 2018

Blackfield - Blackfield V

#PER CHI AMA: Progressive Rock
Distensivi (il singolo "Family Man" et molto al.) o corrucciati ("How Was Your Ride?" et poco al.) poppettini idroponici monocultivar seminati da Tel Aviv Geffen, arati a nido di porcospino da Steven King Wilson e incellofanati da Alan Prostatite Parsons, che vanno a costituire l'impronta di dinosauro di quest'album e, più in generale, dell'intera seconda reincarnazione Blackfield (da 'Welcome to My DNA' a questo 'Blackfield V' compresi: la ampiamente annunciata e pubblicizzata rinascita della partnership non è altro che una mozzarella di bufala). Torpidi lentoni 100% Blackfield-iani ("Sorrys", "October" et tantissimi al.), e qualche timidissima concessione progressive, cfr. l'ammorbidente in 7/8 erogato in "We'll Never Be Apart", oppure l'architettura traballante tardo(ne)-Yes di "Life is an Ocean", unica composizione firmata da entrambi gli spaventapasseri del Campo Nero. Ovunque, un registro narrativo (eccessivamente) patinato e trattenuto, nei testi (ascoltate il modo tristerello in cui A-G canticchia "my happiness" in "October") e nei contenuti sonori (cfr. "Lately", la canzone più tardo(ne)-Parsoniana dell'intero album) e, ahimè una diffusa, fragorosa mancanza di ispirazione. (Alberto Calorosi)