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domenica 6 marzo 2016

Show Me A Dinosaur – Dust

#PER CHI AMA: Post Metal/Post Rock strumentale 
Oscuro, pesante e nero, nerissimo. A tratti melodico, intendiamoci, ma di una melodia dissonante e carica di malinconia, suonata con grandissima sensibilità. E poi feedback, lunghissimi delay, fuzz e riverberi a tonnellate. Le distorsioni, cupe e potentissime, trasformano ogni esplosione in un soffocante muro di suono, che travolge e lascia sbalorditi (“Bhopal”). Il quartetto russo non lascia frequenze libere: là, sotto terra, il basso – sentite che registrazione perfetta! – è potente e preciso come una pulsazione primordiale (adorerete i 9/8 del gran finale della opening “Man Made God”). Le chitarre si dividono lo spettro sonoro: una, sulle corde più basse, costruisce architetture monumentali e oscure; l’altra, un paio di ottave sopra, traccia linee melodiche vibranti su singole, lunghissime note che si avvolgono in spirali di oppressione. La batteria, minimale nella sua insistenza sui crash e su cassa-rullante, dà all’intero disco la costante e inesorabile velocità di un enorme mostro marino, che emerge dai flutti per annunciare il giorno del giudizio. Gli Show Me A Dinosaur attingono a piene mani dalla tradizione post-rock (la scelta strumentale, i cambi di dinamica, gli arpeggi distanti, la predilezione per gli accordi pieni rispetto ai riff mononota, i lunghi break melodici), ma condiscono il risultato con tantissima personalità: nei suoni, negli arrangiamenti, nell’effettistica, nelle influenze – prog, doom, persino death (sentite l’inserto vocale in scream nella velocissima e violentissima “Rain”). Il disco si perde un po’ nel finale, preferendo tonalità maggiori e un aumento di velocità che, personalmente, mi ha lasciato un po’ stupito. Ciononostante, 'Dust' – pur avendo un paio di anni e con e con il nuovo lavoro “Vjuga” in uscita – è un disco ben fatto, equilibrato, ricco di momenti memorabili. Da ascoltare a volume esagerato. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 75

sabato 5 marzo 2016

Wreck Of The Hesperus - Light Rotting Out

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Doom
'Light Rotting Out' è un album non nuovissimo ma di ottima fattura che la Aestethic Death Records ha riesumato dalle lande desolate del black/doom più intransigente, dimostrando ancora una volta di far centro nelle sue uscite con musiche di confine, violente, funeree, sperimentali ed estreme. Il cd, ormai datato 2011, si snoda in tre lunghissimi brani aprendo le danze con "Kill Monument" che lascia esterrefatti per le urla lancinanti d'estrazione molto black e gli infiniti lassi di totale silenzio usati come pause tra una colata di doom nero come la pece, sinistro, primordiale e cavernicolo e le successive trame più articolate e rumorose. Violentissimo l'impatto sonoro, con atmosfere da black metal viscerale, tanto difficili da trovare in un classico album funeral; la velocità del disco è ridotta, rallentata e soffocante, l'ambientazione tra il sacro e il profano, sempre e comunque meravigliosamente doom. Il sound è buio, crudo, malato sempre tirato all'estremo per una forma espressiva portata avanti da un'aurea drammatica dal marcato istinto animalesco, tetro e orrorifico. Sarà la splendida e disumana performance vocale di AC Rottt che ci macera il cuore e le carni con i suoi vocalizzi, a rendere il tutto così folle e disincantato, una forma di tortura che non brilla certo per suoni ad alta fedeltà ma che ci offre piuttosto un collage underground selvaggio, rarefatto, scarno, visionario e istintivo. Gli oltre dieci minuti di "Cess Pit People" spostano il tiro verso un corridoio d'avanguardia, incrociando il suono della nuova creazione di Lee Dorian, i With the Dead, con quello che fu il mito dei primi Napalm Death ed i Naked City per un'orgia di suoni dal secco odore industriale, un sound pronto a confrontarsi con gli ultimi Twilight e l'oscurità dei Vallenfyre vista al rallentatore. "The Holy Rheum" nella sua maestosa durata di ben oltre 20 minuti, è divisa in due atti, "Night of Negative Stars" e "Hologram Law", con il vuoto ancestrale che le divide e la cui evoluzione potrebbe creare molti problemi ad ascoltatori deboli di cuore. La sua veste sperimentale ed il sax ululante e folle, alla maniera del signor Zorn, esalta la potenzialità psicotica e la voglia di varcare il limite introducendo una splendida seconda voce in stile Death in June, marziale e pulita nel finale, a combattere con lo screaming forsennato e una batteria che regna incontrastata e paranoica, che mi ha ricordato l'estraniante capolavoro dei PIL, 'Flowers of Romance', ovviamente da immaginare in chiave rigorosamente black/doom/sperimentale. Rinchiuso in un digipack geniale formato A5, prevalentemente nero e dal gusto vintage, senza titolo né nome in copertina e quattro inserti tipo cartolina artistica a spiegare l'opera attraverso i testi dei brani, 'Light Rotting Out' si presenta come un diamante grezzo, pregiato, da essere ascoltato con le dovute maniere e meritare un posto d'onore nei vostri cuori. Questa band irlandese (in attività dal 2004 con una costellazione di release), sebbene cerchi con ogni mezzo di rimanere nell'anonimato più assoluto, deve essere scoperta ed apprezzata, anche se non tutti riusciranno a capirla, ma è innegabile che gli intenditori l'ameranno alla follia. Devastante per la psiche! (Bob Stoner)

(Aestethic Death Records - 2011)
Voto: 85

https://www.facebook.com/Wreck-of-the-Hesperus

Grey Heaven Fall - Black Wisdom

#PER CHI AMA: Black/Psichedelia, Deathspell Omega, Oranssi Pazuzu
I Deathspell Omega ormai fanno scuola a livello planetario e quest'oggi la loro ombra si è allungata fino a Podolsk, nella regione di Mosca, incarnandosi nelle note di questo 'Black Wisdom', secondo capitolo dei Grey Heaven Fall. La band russa mette a disposizione sei tracce per dar sfoggio del proprio black death acido e visionario. Proprio la opener, "The Lord Is Blissful in Grief", dà dimostrazione di come il terzetto abbia fatto propri gli insegnamenti dell'act francese (ma anche di un qualcosa degli Oranssi Pazuzu) e li abbia espletati in una forma assai efficace di sonorità estreme che deliziano le mie orecchie con scorribande di ferocia inaudita, inframmezzate da sprazzi di cupa e delirante psichedelia. Il risultato che ne vien fuori dalla prima traccia è senza dubbio vincente (oltre che di valore) e con gli oltre undici minuti di "Spirit of Oppression", la band sembra addirittura far meglio, sprigionando una ritmica serrata, che di sovente muta, divenendo instabile e psicotica, coadiuvata anche dall'eccellente voce di Arsagor, dotato di una timbrica feroce ma le cui parole sono facilmente comprensibili. Il brano viaggia su ritmiche abbastanza infuocate, non disdegnando tuttavia in taluni frangenti, rallentamenti da brivido, proprio come mostrato nel bel mezzo della seconda traccia, glaciale e mortifera al tempo stesso. I ragazzi nella loro furia primordiale non si fanno neppure mancare deliziose aperture melodiche o assoli malinconici, mantenendo comunque un costante flusso tensivo per l'intero brano e in generale in tutto il disco, prediligendo peraltro un più dilatato approccio strumentale. Le ombre dei Deathspell Omega, pur serpeggiando lungo gli oltre 50 minuti di 'Black Wisdom', vengono dissolte dalla spiccata personalità dei nostri, anche nel lisergico intermezzo strumentale di "Sanctuary Of Cut Tongues". "Tranquillity of the Possessed" inizia lentamente con ritmiche sghembe che mostrano ancora una volta la disinvoltura dei Grey Heaven Fall nell'incanalarsi in territori non cosi semplici da affrontare. E proprio qui risiede la forza di questo ensemble, non suonare scontati, ma affrontare senza timore le proprie paure, guardando la bestia infernale direttamente negli occhi. La cavalcata non si placa neppure nella inizialmente corrosiva "That Nail In A Heart", ultimo schizoide atto di questo imprevedibile 'Black Wisdom', che rappresenta a mio avviso il top di quanto ascoltato sinora, soprattutto quando a parlare è un meraviglioso assolo che da solo vale il prezzo del disco e per cui i nostri meriterebbero tutta la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Aesthetics of Devastation - 2015)
Voto: 75

https://greyheavenfall.bandcamp.com/

Downlouders – Arca

#PER CHI AMA: Psichedelia/Kraut Rock/Post Rock
Vede finalmente la luce il nuovo lavoro del collettivo varesino, nato nel 2009 come “laboratorio di ricerca basato sull’improvvisazione e la sperimentazione”, ed è, tanto vale dirlo subito, un disco bellissimo. I Downlouders sono un gruppo piú o meno aperto, che ha visto negli anni avvicendarsi diversi elementi accanto ad un nucleo stabile di musicisti provenienti da alcune delle migliori realtà della scena indipendente di Varese (tra gli altri Encode, Mr. Henry, Belize) e si sono fatti conoscere negli anni grazie ai loro “istant concerts”, session estemporanee e mai uguali a loro stesse, oltre che una serie di album tematici davvero interessanti. 'Arca' nasce e si compie in una settimana di registrazioni libere effettuate dai musicisti (per quest’occasione ben nove!) in un casolare sulle colline piemontesi, per poi essere mixato e masterizzato dalle sapienti mani di Andrea Cajelli ed Enrico Mangione (rispettivamente batterista e chitarrista, nonchè un sacco di altre cose, del gruppo) presso lo studio La Sauna, già menzionato su queste pagine per l’ottimo 'Magnifier' dei Giöbia. Il concept che sta dietro al disco e che ha ispirato le registrazioni, gira attorno ad uno dei più classici temi della psichedelia space rock, ovvero la fuga dalla terra a bordo di una nave spaziale alla ricerca di nuovi mondi da abitare. Solo che qui l’astronave, l’arca del titolo, è il capodoglio biomeccanico che fa bella mostra di sè nelle splendide illustrazioni dell’artwork curato da Andrea Tomassini (in arte Tsuna, anche valente cantautore). Il viaggio musicale che accompagna la spedizione trova la sua ispirazione tanto nella psichedelia dei Pink Floyd (quelli a cavallo fra 'A Saucerful of Secrets' e 'Meddle'), quanto nel kraut rock più spaziale degli Amon Düül II, filtrandoli peró attraverso le lenti della contamporaneità di un certo post rock, con una sensibilità simile (seppur meno sovversiva) a quella con cui i Flaming Lips hanno rivisitato 'The Dark Side of the Moon'. I 50 minuti che separano la partenza drammatica e grave di “Bake Kujira” dall’estasi finale di “Spermaceti”, meraviglioso crescendo in cui un piano elettrico arriva a sfiorare territori Jarrettiani, raccontano di un’avventura di cui non vorrete perdervi nemmeno un passaggio. Si passa attraverso la splendida “Moto Perpetuo”, in cui i Pink Floyd vanno a bagnarsi nel Bosforo e incontrano i Mogwai in viaggio sulla via della seta, alle chitarre twang da deserto spaziale di “Uno”, dai synth di “FTL” che ricordano i primi Tangerine Dream alle visioni apocalittiche in chiave Godspeed You! Black Emperor di 'Deriva'. Quando poi la chitarra acustica sul finale di “Velocità di Crociera” ti provoca un brivido lungo la schiena, capisci che ormai il viaggio non ha piú ostacoli e che il posto che hai raggiunto lo puoi chiamare casa. La cura maniacale rivolta alla timbrica degli strumenti, il trasporto con cui la musica nasce e si modella come materia viva tra le mani, le menti e le anime dei musicisti, sembra quasi stabilire un contatto con l’enorme nave-capodoglio, di cui giurereste di sentire il canto in sottofondo e vederne, con la coda dell’occhio, l’ombra fluttuare inafferrabile e leggera dietro di voi. Se 'S.P.A.C.E.' dei Calibro 35 è la colonna sonora di un western di Sergio Leone ambientato su un altro pianeta, allora 'Arca' è quella del viaggio leggendario della carovana che quel pianeta l’ha raggiunto per primo. (Mauro Catena)

(Lizard Records - 2015)
Voto: 85

https://www.facebook.com/downlouders

Dalkhu – Descend… Into Nothingness

#PER CHI AMA: Black/Death, Watain, Absu, Sarpanitum, Behemoth
Ragazzi, che botta! Oggi come oggi si va in cerca oltreoceano dei vari Nile, Morbid Angel o Suffocation, quando dietro l'angolo (nella vicina Slovenia) c'è un duo che è in grado di triturare le ossa anche a quei sprovveduti americani. Sto parlando di J.G. e P.Ž., i due musicisti di Slovenj Gradec che si celano dietro il moniker Dalkhu. I brani contenuti nel loro secondo album, 'Descend… Into Nothingness', sono come sassate sparate contro i vetri, capaci di polverizzare ogni cosa che gli si frapponga avanti. Inutile perdersi in inutili giri di parole, i Dalkhu sono dei killer seriali che iniziano a mietere vittime sin dall'iniziale "Pitch Black Cave", un brano che scorre sui binari di un perverso death metal (a livello ritimico e vocale) che poi, in taluni bridge, estrae dal cilindro un rifferama che pesca direttamente dal black svedese dei Watain. Capito che cosa hanno creato questi due personaggi? Un brutal death ipertecnico, fatto di psicotici cambi di tempo, che strizza palesemente l'occhiolino allo swedish black. Ecco, se siete dei puristi di entrambi i generi, sicuramente il rischio di storcere il naso c'è, ma se siete amanti dell'estremo in tutte le sue sfaccettature, beh qui avrete da che divertirvi, e per un pezzo. Parte "The Fireborn" e mi trovo davanti una band dedita a un death massiccio ma abbastanza classico; tempo 40 secondi e già le cose sono cambiate e maturate, tra brevi assoli, robusti sprazzi atmosferici, tonnellate di riff ubriacanti, growling vocals, e un lavoro mostruoso dietro alle pelli che da solo vale il prezzo del cd. È il turno di "In the Woods" e sono dei melodicissimi riff Swedish death a darmi il benvenuto, inducendomi addirittura a rilassarmi. Mai abbassare la guardia con i Dalkhu però, perchè le ripartenze ultracompresse di death metal sono quanto mai improvvise e rabbiose e quindi non stupitevi se il riffing divenga ben presto una carneficina partorita da una mitragliatrice impazzita. Il ritmo però continua a muoversi su chiaroscuri di melodia svedese controllata frammista a schegge di brutalità. Con "Distant Cry" la matrice death sembra quasi fondersi con il black in un pezzo ovviamente tirato, ma dove non è più possibile discernere tra i due generi e dove il maelstrom creato da questi due funamboli sembra rievocare anche i primi Absu. “Accepting The Buried Signs” prosegue con questo vortice ritmico e repentini cambi di tempo che hanno il puro effetto di disorientare l'ignaro ascoltatore. Mostruosi sotto un profilo tecnico, abbastanza navigati da un punto di vista di songwriting, i Dalkhu si confermano ottimi musicisti anche nella sinistra e orrorifica "Soulkeepers", una song in cui si alternano riff melodici con bordate ritmiche funeste e qualche improvviso rallentamento che contribuiscono a incrementare la dinamicità di un brano davvero complesso, quanto interessante, soprattutto per un break acustico inserito nel nulla. Non è finita perchè rimane ancora “E.N.N.F.”, l'ultimo orripilante mostro dei Dalkhu, nelle cui linee di chitarra percepisco anche il delirante feeling dei Deathspell Omega, anche se francamente stare dietro a questi due personaggi per dieci minuti di brano non è assolutamente compito facile, dato il turbinio ritmico a cui si è sottoposti dall'inizio alla fine di questo incredibile 'Descend… Into Nothingness', che ha ancora modo di riservare uno spiazzante e splendido assolo conclusivo che vi allieterà nell'ultimo minuto di questa bomba ad orologeria. Mostruosi! (Francesco Scarci)

(Darzamadicus Records - 2015)
Voto: 90

https://dalkhuofficial.bandcamp.com/

venerdì 4 marzo 2016

Ottone Pesante - S/t

#PER CHI AMA: Heavy Brass Metal
Ok, provate a immaginare la banda del vostro paese, quella che apre le celebrazioni del 25 Aprile in piazza, a suonare death metal, e avrete un’idea di quello che è racchiuso in questo EP. Del resto sta già tutto nel gioco di parole del nome: l’ottone è la lega metallica di cui sono fatti gli strumenti suonati dai tre musicisti: tromba, trombone e (in parte) batteria, ed è quindi solo una precisazione di quale tipo di metallo pesante stiamo parlando. Simone Cavina (batteria) si era già visto all’opera con Iosonouncane, mentre Paolo Raineri (tromba) e Francesco Bucci (trombone) sono la sezione fiati già sentita nei dischi dei Calibro 35, per cui il trio aprirà i concerti per il tour di S.p.a.c.e. Anche alla luce di questo, nulla lasciava presagire che i tre fossero in realtà degli appassionati ascoltatori di musica metal, per dirla con loro parole, “dagli Slayer ai Meshuggah”. Perchè questo fanno, in pratica, gli Ottone Pesante: metal, con due ottoni e una batteria. Niente chitarre, niente basso, nemmeno un sax, strumento già usato in precendeza in operazioni in qualche modo assimilabili da John Zorn nei Naked City o dagli Zu, tanto per fare un paio di nomi. Dopo un attimo di straniamento iniziale, questi 5 brani (poco piú di un quarto d’ora di musica) si insinuano sotto pelle, cominciano a suonare meno bislacchi e nelle orecchie rimane un concentrato di potenza primordiale, ottenuta senza l’aiuto di artifici tecnologici, nemmeno un po’ di corrente elettrica. Quà e là rimane l’effetto di una versione ipercinetica della colonna sonora di qualche film di Kusturica, ma è un inevitabile effetto collaterale, quasi un difetto strutturale insito in una formazione del tutto peculiare. Al netto di tutte queste considerazioni, rimangono 5 tracce di “brass death metal”, strumentale veloce e tonante (menzione speciale per la prestazione tentacolare di Simone Cavina), che ci si ritrova a voler ascoltare piú spesso e con piú piacere di quanto non si pensasse all'inizio. Se il progetto avrà un futuro o si limiterà ad essere un divertente e riuscito esperimento, lo vedremo nei prossimi mesi. Per il momento, bravi! (Mauro Catena)

(Solo Macello - 2015)
Voto: 75

giovedì 3 marzo 2016

Bedowyn - Blood of the Fall

#FOR FANS OF: Heavy/Stoner/Doom Metal, Mastodon, Hellyeah
The debut full-length from North Carolina metallers Bedowyn offers a rather decent mixing of an eclectic style here mixing together a series of traditional metal, doom and stoner rock into a progressive mixture found in here. The basic component here is still far more traditional in base with swirling heavy rhythms and plenty of tight drumming that gives this one quite a fine base for sturdy, tough-sounding rhythms that are balanced alongside the extended, psychedelic noodling that tends to give this the kind of sprawling musical sections that recall more Stoner Rock/Metal with the type of swirling rhythms over elongated passages. This is all done quite nicely throughout here into a pleasing and overall enjoyable ride that makes for a rather promising and enjoyable new band with a lot of potential. While some of the simpler arrangements showcase the fact that the band is still new and haven’t gotten a true handle on their style yet this is a more-than-worthy start here with some enjoyable tracks. Opening instrumental ‘The Horde’ brings a deep distorted guitar riff droning over the reverb-laden background leading into proper first track ‘Rite to Kill’ slowly brings the thumping drumming along with the strong series of swirling stoner-influenced riffing filled with a strong series of dynamic drumming that keeps this changing through a high-impact velocity of tempos throughout the final half which makes for a good opening impression. The title track features a fine swirling riff with droning along through a series of mid-tempo rhythms all taking the thumping rhythms and dexterous drumming through the extended droning style of riff-work into the stoner-style solo section into the finale for a somewhat enjoyable effort. ‘Cotard's Blade’ offers light, melodic droning riff-work with heavy, droning rhythms carrying along the stylish mid-tempo paces as the dramatic switch-over into a rousing, thumping solo section brings along plenty of fine energy into the final half for another enjoyable effort. The mostly bland ‘Leave the Living...for Dead’ uses swirling, droning riff-work and plodding rhythms that take the dull paces along through the tight and explosive riffing and thumping drumming that picks up considerable energy and intensity into the finale for a fine if overall unimpressive feature. The useless mid-album instrumental breather ‘For a Fleeting Moment’ uses sampled rain-fall and thunder-strikes alongside a melancholy acoustic guitar lilting away that ends on an extended fade-out ‘Where Wings Will Burn’ uses an extended, moody atmospheric riff with light drumming that slowly grows into thumping, heavy mid-tempo riffing with swirling rhythms throughout the steady pacing that continues throughout the final half for another overall unappealing effort. ‘I Am the Flood’ features a slow-building series of swirling riff-work and gradual drumming to a mid-tempo series of rhythms that bring the simple rhythms down into a rather frantic second half with plenty of dynamic drumming and extended soloing throughout the finale for a much more enjoyable track. ‘Halfhand’ features a light, melancholy acoustic guitar with plodding paces and sprawling swirling rhythms that make for a wholly dragging and lethargic tempo with the tighter patterns coming from the final half for a quite overlong and somewhat troubling effort. ‘Lord of the Suffering’ features a long, swirling intro with bland riffing and heavy, thumping drumming slowly taking a series of swirling, mid-tempo riffs into an extended series of sprawling, atmospheric noodling with ambient celestial patterns throughout the extended finale for a slightly better if another overlong effort. Lastly, ‘The Horde (Exodus)’ takes a stoner-style swirling riff through extended sprawling atmospheres in an enjoyable lasting impression. It doesn’t really offer up a whole lot of flaws here, but there’s still enough here to make for an enjoyable if somewhat troubled first effort. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 70

Phobonoid - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Black, Blut Aus Nord, Darkspace
Esattamente due anni fa scrissi dell'EP di debutto della one man band trentina, 'Orbita', un concept album che riguardava la fine della civiltà su Marte. Ora Phobos torna con il suo full length d'esordio che, stando ai titoli, continua ad affrontare tematiche spaziali con suoni, che come un'onda gravitazionale, si propagano minacciosi nello spazio profondo. Dodici i capitoli a disposizione del musicista italico, tra cui tre tracce strumentali. "Fiamme distanti si accavallano nella nube del tempo, la polvere soffia attraverso la luce riflessa, trema lo spazio invaso dalla paura del passato, si muovono le forme colpite dal passo di crono": cosi apre il disco con i toni apprensivi di "Crono". Segue "Alpha Centauri" e come potete intuire, i riferimenti intergalattici non si sprecano. Da un punto di vista musicale poi, la proposta dei Phobonoid si muove su sonorità black sperimentali, chiamando in causa per qualche affinità mal celata, Darkspace e Blut Aus Nord, come già avevo avuto modo di evidenziare nel precedente lavoro. Anche qualche punto di contatto con i Progenie Terrestre Pura sarà riscontrabile nell'arco degli oltre 40 minuti del disco, ma non solo. "La Sonda di Phobos" ha infatti da offrire suoni glaciali che ammiccano al doom più desolante, mentre "Fuga nel Vuoto" crea un forte senso di disagio per quell'aura iniziale che poteva fare tranquillamente da colonna sonora a 'Gravity', nel momento in cui la tempesta di asteroidi si abbatte sulla navetta spaziale dei protagonisti. L'effetto infatti è il medesimo, con quel senso di angoscia legato alla catastrofe incombente. "Eris" (cosi come pure la title track conclusiva) è una traccia di black mid-tempo dai toni marziali che annichilisce esclusivamente per la fredda asetticità che emana. Si sprofonda nuovamente negli abissi della rarefazione galattica con il flemmatico incedere de "La Risonanza della Sonda", in cui la demoniaca voce del frontman è quanto di più vicino al genere umano che questo disco ha da offrire. Se in "Kairos" c'è un tocco di velata malinconia nelle sue melodie, è forse con "Frammenti di Luce" che il cd tocca il suo apice artistico, un pezzo che miscela egregiamente il black cibernetico e avanguardistico con lo sconforto del doom più oscuro. "Tachyon", la terza song strumentale, è invece quanto di più si avvicini a sonorità aliene, con suoni distorti, sghembi e disarmonici che per certi versi si spingono in territori quasi trip hop, quello dei Massive Attack più tenebrosi. Il mio viaggio l'ho compiuto e voi vi sentite pronti per un altro viaggio interplanetario in compagnia dei Phobonoid? (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2015)
Voto: 70

mercoledì 2 marzo 2016

Wildernessking - Mystical Future

#PER CHI AMA: Post Black/Progressive, Enslaved
L'etichetta francese Les Acteurs de l'Ombre Productions ha stranamente allungato i suoi tentacoli anche al di fuori dei confini del proprio paese, andando a pescare i sudafricani Wildernessking, con un disco che è uscito anche in vinile e cassetta. Noi, il quartetto di Cape Town lo conosciamo già, in quanto nel 2013 parlammo piuttosto bene del loro debut cd, come un black metal venato di influenze post metal e suoni progressivi. Ebbene, a distanza di quasi tre anni da quel lavoro, mi ritrovo in mano il nuovo digipack 'Mystical Future', un disco che sorprende immediatamente per un approccio diverso rispetto a 'The Writing of Gods in the Sand', qui assai più malinconico e spirituale. È "White Horses" ad avere l'incombenza di darci il benvenuto con un lungo bridge chitarristico su cui poi si staglieranno le voci caustiche, ancora non del tutto convincenti, di Keenan Nathan Oakes. La musica dei nostri si muove poi su di un tappeto di suoni eterei che si rifanno palesemente al post rock e hanno il merito di deliziare i nostri timpani, senza ricorrere a sfuriate di stampo post black, come era lecito aspettarsi. Nella seconda "I Will Go to Your Tomb", riesco addirittura a captare un che dell'epicità pagana dei Primordial, sia a livello ritmico che di atmosfere, ma dopo svariati ascolti, mi rendo conto che la band a cui i nostri sembrano essere più debitori in questo momento, siano in assoluto gli Enslaved, andando a tessere lunghe e psichedeliche fughe lisergiche dal forte sapore prog. "To Transcend" la potrei addirittura associare ad una ballad black metal, una bestemmia per carità, ma il calore che emana, ha suscitato in me inespresse emozioni. In "White Arms Like Wands" ecco esplodere il classico rifferama post black, con ritmiche serrate e blast beat a manetta, su cui le voci di Keenan meglio si adattano. Lungo gli oltre otto minuti del pezzo, i nostri si riassestano poi su suoni mid-tempo, aumentando però l'intensità della propria proposta grazie all'utilizzo di chitarre in tremolo picking, che donano quell'inevitabile aura malinconica alla composizione. Gli ultimi 12 minuti di 'Mystical Future' sono affidati a 'If You Leave', brano oscuro in cui trovano addirittura spazio i vocalizzi di un'angelica donzella, Alexandra Morte, un nome un programma. La song è la più spirituale dell'intero disco, merito di Miss Morte, che con il suo intervento a controbilanciare l'arcigna voce di Keenan, impreziosisce la qualità di questa interessantissima release, mentre la musica disegna spettacolari e strazianti melodie, tra break acustici e momenti di delicata sofferenza, in un pezzo che strappa tanti applausi dal sottoscritto e impenna anche la mia valutazione conclusiva. Calibrando qui e là alcune cose, il prossimo album dei Wildernessking non potrà che essere un capolavoro. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod - 2016)
Voto: 80

domenica 28 febbraio 2016

Sahona - S/t

#PER CHI AMA: Rock Progressive
I Sahona sono una formazione francese di matrice indie rock con richiami progressive e attitudine shred metal, in attività dal 2014. Siamo di fronte ad una classica rock band di quattro elementi e questa di cui parleremo, è la prima ed omonima pubblicazione autoprodotta. La copertina rappresenta, per assurdo, quello che le orecchie andranno a percepire, cioè un paesaggio poco definito e surreale in cui una piccola ombra antropomorfa osserva la strada che sta percorrendo, indecisa se proseguire o virare sul sentiero che si stende alla sua sinistra. Il nome della band deriva dal cognome del cantate chitarrista Charly Sahona, il principale autore e mente dell’opera. Charly è un gran musicista senza dubbio, ha perfetta padronanza della sua voce, della sua chitarra e dei suoni in generale, ma purtroppo qualcosa non torna. Sembra infatti che Charly stia guidando una Ferrari ma non abbia idea di dove stia andando. Gli altri componenti della band sono altrettanto validi tecnicamente ma ciò che manca ai Sahona non è sicuramente il saper suonare ma è la ricerca di significato, di qualcosa da trasmettere. Ma ora basta parole, inseriamo 'Sahona' nel lettore e vediamo cosa esce. All’inizio la sensazione è piacevole, c’è un forte gusto per la melodia e i suoni sono curati in maniera quasi maniacale. L'opener “Light of Day, Sense of Life” per qualche attimo mi culla e mi soddisfa, grazie a uno scenario pacifico, psichedelico ed etereo dal sapore molto Muse; anche la voce mi ricorda molto quella di Bellamy, le note sono suadenti e cantate con forte carica emotiva. Tuttavia questo paesaggio non riesce a trovare una sua giusta forma nella mente di chi ascolta perché interrotto da parti che musicalmente sembrano non avere molta attinenza con le precedenti, ogni parte ha una sua linea vocale differente e una diversa sequenza di note. L’effetto è quello di non riuscire a seguire il pezzo per le troppe informazioni proposte, l’orecchio è continuamente sorpreso da nuove idee ma allo stesso tempo spaesato in quanto non riesce a trovare il filo conduttore che guidi le sensazioni attraverso il brano. Il livello tecnico però rimane altissimo, non c’è una sbavatura e tutti i musicisti sono perfettamente amalgamati. Il disco prosegue senza troppe sorprese, tutte le tracce presentano caratteristiche simili, cioè una strofa psichedelica stile Muse, un ritornello distorto e l’immancabile assolo shred, con mille note eseguite a velocità supersonica, peraltro sempre in modo impeccabile. A parere mio questo tipo di assoli risultano fuori luogo con il sentimento delle canzoni, e purtroppo molto spesso ne rovinano l’atmosfera. Vale la pena ascoltare questo disco per imbattersi in “I’m Alive”, forse il pezzo più interessante del cd. Si tratta di una ballata con un caldo suono di pianoforte elettrico come sottofondo, la voce è sognante e malinconica e l’intreccio di strumenti crea un paesaggio onirico senza tempo. Questa song sarebbe andata in loop per un bel po’ nel mio stereo, se non fosse presente l’elemento di disturbo degli assoli; in questo disco sembra che ogni brano debba per forza contenerne uno. Da notare la gran prestazione di batteria di Stephane Cavanez che negli ultimi brani del lavoro trova la sua maggiore espressione; in generale in tutta l’opera, la precisione della ritmica è senza dubbio un punto di pregio. Alla fine, 'Sahona' è un lampante esempio di come la capacità tecnica non sempre riesca a produrre della musica che parli all’anima. Dalle note si percepisce un ego molto presente e una forte tendenza all’autocelebrazione; ma la musica deve fare bene a tutti, non solo a se stessi. In conclusione una cosa bella: sicuramente quando l’ombra in copertina si renderà conto di quale via è destinata a percorrere, la musica dei Sahona ci regalerà momenti memorabili. (Matteo Baldi)

(Self - 2016)
Voto: 55

Heads - S/t

#PER CHI AMA: Noise Rock, Jesus Lizard
Quanto è grande e profondo il retaggio lasciato dai Jesus Lizard? Sarebbe uno spunto interessante per un saggio critico su quello che il gruppo di David Yow e Duane Denison ha significato per tutto il rock cosiddetto “noise” che, dopo di loro, non è piú stato lo stesso. Di certo, dischi come 'Goat' o 'Dirt' hanno significato qualcosa di molto, molto importante, per i tre membri degli Heads, due berlinesi e un australiano trapiantato nella capitale tedesca, che hanno dato alle stampe il loro esordio nel 2015, ma nessuno avrebbe sospettato nulla se la data impressa sul disco fosse stata di vent’anni precedente. La sezione ritmica teutonica (Chris Breuer al basso e Peter Voigtmann alla batteria) è una macchina dalla coesione impressionante (prendere nota alla voce “come ottenere il suono di basso perfetto”) su cui impeversano la chitarra spigolosa e la voce profonda di Ed Fraser, per un album rapido (meno di mezz’ora) che è una vera e propria boccata d’aria fresca. Se i riferimenti paiono quanto mai precisi (“A Mural is Worth a Thousand Words” sembra presa di peso da un disco dei Jesus Lizard di mezzo), il modo in cui gli Heads fanno loro il linguaggio noise rock è molto personale e consapevole, come già avevano fatto gli altri magnifici esordienti Ha Det Bra nel loro splendido 'Societea for Two'. Solo che qui Fraser e soci rallentano e puntano all’essenzialità del suono laddove i croati lo saturavano e infettavano al massimo. Un album che sembra registrato da Steve Albini, questo, asciutto e dritto, che punta tutto su una manciata di pezzi di assoluto spessore. Ed Fraser ha una voce profonda e un modo di cantare sornione che qualcuno ha accostato a Scott McCloud dei grandi Girls Against Boys e che a me ricorda anche Hugo Race, e il modo in cui questo riesce a sposarsi con la ritmica granitica e una chitarra deviata di stampo chiaramente denisoniano, risulta essere l’aspetto vincente di questo lavoro, soprattutto alla luce del fatto che questo conferisce alle sei tracce in scaletta un fascino sinistro e decadente davvero particolare. Se a questo uniamo il tono beffardo espicitato da titoli quali “Chewing on Kittens” e il fatto che “Black River” è, con quell’accelerazione finale che rimanda ai migliori Pile, semplicemente una delle migliori canzoni dell’anno, allora è chiaro che ci troviamo di fronte ad un esordio magnifico, autentico gioiello nel panorama noise rock, che lascia l’amaro in bocca soltanto per l’esiguità del programma e la breve durata, perchè di musica cosí ne vorremmo sempre un po’ di piú. (Mauro Catena)

(This Charming Man - 2015)
Voto: 80

https://headsnoise.bandcamp.com/album/s-t

Sequoian Aequison - Qual der Einsamkeit

#PER CHI AMA: Post Rock/Drone/Ambient
Quando arriva materiale dall'etichetta Slow Burn la giornata prende subito una buona piega, vista la qualità dei lavori da loro prodotti. In realtà stavolta c'è una collaborazione con Tokyo Jupiter Records (supporto cd) e Towner Records (cassetta), quindi le aspettative crescono a dismisura. I Sequoian Aequison (SA) nascono nel 2012 nella bellissima e ricca città di San Pietroburgo e nel corso della loro giovane carriera 'Qual der Einsamkeit' si posiziona come secondo e penultimo lavoro (si tratta di un EP di due lunghissimi pezzi), infatti qualche mese fa è uscito anche uno split con i Dry River, mentre il debut album 'Onomatopoeia' è stato recensito sempre dal sottoscritto su queste pagine alla fine del 2014. Il cd che ci è pervenuto è la versione per gli addetti ai lavori, priva di booklet, molto minimalista quindi e per cui non potremmo dare un giudizio sulla versione disponibile per il pubblico. Il genere perseguito dai SA è un post rock intriso di atmosfere ambient e doom, come la prima traccia "Der Sklave Des Nichts" (lo schiavo di niente) mostra con un inizio affidato a un lungo monologo in lingua tedesca. Man mano, il quartetto russo tesse una trama sonora oscura e malinconica, ma allo stesso tempo carica di tensione repressa pronta ad esplodere ad un cenno del capo. Arpeggi liquidi di chitarra e un pattern ritmico ipnotico crescono e calano a rotazione per circa undici minuti che grazie ad un'interpretazione artistica di tutto rispetto, riescono ad ammagliare e coinvolgere l'ascoltatore senza mai annoiarlo. Anzi, basta abbassare un poco le difese mentali e si entra subito nel mood della band, ciondolando lenti come un paziente di psichiatria che ha preso la sua dose giornaliera di farmaci. Nonostante la ritmica doom, sia il batterista che il bassista riescono a intrecciare riff e battute in modo da arricchire la composizione che altrimenti affonderebbe nella totale accidia. "Abendwasser" sembra il secondo atto dell'opera musicale imbastita dalla giovane band e come tale, ricalca suoni (perfettamente curati) e melodie già dettati dai maestri che segnarono la via da seguire. La struttura è la solita: campionamenti di voci e qualche suono elettronico qua è la, anche se in realtà è proprio l'esplosione che arriva quasi alla fine a far rimpiangere uno svolgimento diverso. La visione epica che la band crea in modo immaginario davanti ai nostri occhi, è una sorta di mondo parallelo, fatto di colori e profumi mai percepiti prima. Un mondo nuovo che esiste, ma che ci sfugge troppo presto dalle mani. In sè l'album è eccellente, i SA hanno studiato e messo in pratica alla perfezione tutto quello che già è stato fatto in questo genere, ora il punto da capire è se qualcuno avrà il coraggio e le doti per mischiare le carte in tavola e trovare un'evoluzione stilistica non fine a se stessa. (Michele Montanari)

(Tokyo Jupiter Records/Towner Records - 2015)
Voto: 75

https://sequoian.bandcamp.com/album/qual-der-einsamkeit

Orphans of Dusk - Revenant

#PER CHI AMA: Death/Gothic/Doom, Type O Negative, My Dying Bride
Australia e Nuova Zelanda non sono dopo tutto cosi lontane, cosi come non lo sono Canada e Russia. In un mondo in cui le distanze siderali sono azzerate dall'esistenza di internet, non c'è da stupirsi se gli Orphans of Dusk siano un terzetto formato da personaggi della scena di Sydney (Australia appunto) e di Dunedin, sconosciuta località confinata all'estremo sud della Nuova Zelanda. Altrettanto vale per le etichette che hanno messo le mani in cooperazione su questo act oceanico: la canadese Hypnotic Dirge Records e la russa Solitude Productions. Originariamente uscito in solo formato digitale nel 2014, 'Revenant' ha pertanto modo di farsi vedere più vicino al mondo grazie all'intervento delle due case discografiche, dimostrando che la scelta fatta è stata assai arguta. Quattro i pezzi a disposizione del trio, che in questo primo EP, ha modo di citare nelle proprie composizioni, i primi My Dying Bride e i Paradise Lost, grazie alla vena death gothic doom che ammanta l'intero lavoro e in secondo luogo, e qui sta il forte interesse per i nostri, anche i Type O Negative per l'uso delle vocals baritonali da parte di Chris G (membro dei Mesmur), molto vicine a quelle del compianto Peter Steel (ma anche al vocalist dei Crash Test Dummies), nonchè anche per un certo uso delle tastiere che richiamano i primi lavori, più doom oriented, della band di Brooklyn (ascoltate "August Price" e capirete cosa intendo). La musica si muove comunque tra gli anfratti del doom più atmosferico e decadente, con le keys che sprigionano una certa sacralità per quella loro affinità con l'organo da chiesa, forte soprattutto in "Starless". "Nibelheim", la terza, è forse la traccia più ostica a cui avvicinarsi, laddove le asperità del death in stile Bolt Thrower trovano pace in un gothic ammaliante in grado di placare l'istintiva brutalità espressa nella prima metà del brano e donare una certa vena di originalità alla proposta dell'ensemble oceanico. Chiude l'EP "Beneath the Cover of Night", un mellifluo brano di oltre otto minuti in cui a farla da padrone sono quasi esclusivamente le vocals di Chris (in formato growl e gotico) e i synth di James, sorretti comunque da una buona base ritmica. Se il buongiorno si vede dal mattino, mi aspetto grandi cose nell'immediato futuro da questo terzetto. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records/Solitude Productions - 2015)
Voto: 70

https://orphansofdusk.bandcamp.com/album/revenant

martedì 23 febbraio 2016

Ataraxie – Slow Transcending Agony

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Gli Ataraxie vengono da Rouen in Francia, sono attivi dal lontano anno 2000, suonano doom death e hanno tre album all'attivo. Inserendo la cover dei Disembolvement ("The Tree of Life and Death") e magari pensando di riprendere e rivedere, anche il titolo del famoso film di Terrence Malick, 'The Tree of Life', il quintetto transalpini si è fatto ispirare dal maniacale e celebre perfezionismo del regista statunitense per creare un album curatissimo, sofisticato e multiforme che mostra al suo interno una radiosa vena doom, ai confini con il funeral ed una marcata attitudine death di vecchia data. In realtà, il cd non è un nuovo album, non è altro che la reissue della prima release registrata dalla band per festeggiare il decimo anniversario dalla sua uscita, distribuito in formato digipack dalla giapponese Weird Truth Production e disponibile anche sulla pagina bandcamp del gruppo in formato digitale. Impressionante e impegnativa la durata di sessantadue minuti del cd, compresa la bonus track ovvero la cover, che da sola va oltre i dieci minuti, che qui è presente mentre non è disponibile in download da bandcamp. Ottima la qualità dei suoni e la produzione è più che perfetta, la costruzione dei brani, suonati benissimo da musicisti navigati e capaci, volge lo sguardo ai My Dying Bride quanto ai Mournful Congregation o in anticipo temporale sugli Ahab dell'ultimo capolavoro 'The Boats of the Glen Carrig', senza dimenticarci degli Swallow the Sun e lo spirito indomito di alcune band black metal stile Zuriaake. Tutte queste influenze amalgamate con il suono metal oscuro di qualche anno fa, quello che rese immortale 'Morbid Tales' dei Celtic Frost o il sound dei mitici Incantation. Una cosa molto strana che infonde in alcune parti del disco una vena molto death e vintage al suono della band. L'intero lavoro, anche se uscito un decennio fa, è da considerarsi un gioiellino oscuro di doom moderno, carico di un potente sound che non abbandona mai l'atmosfera e la pesantezza, la maestosità e un'inquietudine perenne che si stende come un velo su tutte le note del disco. Il trittico micidiale formato dai brani "L'Ataraxie", la title track e "Another Day of Despondency" (brano delizioso) ha un qualcosa di innato e infernale, con chiaroscuri dal tratto drammatico e teatrale, realistico e capace di rappresentare delle vere scene di sofferenza, uno stato di trance depressiva talmente coinvolgente che, all'ascolto, si rischia una qualche sorta di ferita dell'anima. Non mi stancherò di ripetere che è un opera alquanto impegnativa, per soli cultori del genere in questione, senza sprazzi di luce e tutta da scoprire, da ascoltare per intero se possibile per assaporarne la forma progressivo/cinematica dei suoi continui mutamenti sonori, giocata sui colori del grigio e del nero, sulla malinconia e sul confine di una riflessione tra la vita e la morte come induce a pensare il titolo stesso, perfetto nell'esporre i contenuti sonori dell'album. Una band tutta da riscoprire, partendo da questa ultima fatica che riesuma una chicca di dieci anni fa per arrivare ad apprezzarne l'intera discografia. (Bob Stoner)

(Weird Truth Productions - 2005/2015)
Voto: 75