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martedì 12 gennaio 2016

Les Lekin - All Black Rainbow Moon

#PER CHI AMA: Psychedelic Stoner, Pelican
Sei tracce per quasi 50 minuti di viaggio in questo debut album del trio austriaco Les Lekin. Dalla breve "Intro" (quasi 2 minuti, costruita su un ruvido ma inquietante arpeggio di chitarra) alla lunghissima "Loom" (oltre 13 minuti – che, con la straordinaria "Solum", è il capolavoro del disco), questo 'All Black Rainbow Moon' è un piccolo capolavoro sotto ogni punto di vista. La sezione ritmica costruisce un tessuto solido e groovy: su una batteria minimale ma fantasiosa quando serve (splendido il pattern delle rullate nei main riff di ‘Solum’), un basso ruvido, pieno e pesante, fa da architettura per vere e proprie cattedrali di psichedelia oscura e riff tossici. È la chitarra a farla da padrone: il talentuoso Peter G. si muove senza sosta tra riverberi, delay, distorsioni sludge, arpeggi e feedback, trascinando l’ascoltatore in una giostra multicolore di suoni angelici e atmosfere diaboliche, melodie indimenticabili (fischietterete "Allblack" per giorni interi, ve lo garantisco) e granitici riff stoner. Quasi tutti i brani sono legati tra loro da un feedback di chitarra che, idealmente, trasforma 'All Black Rainbow Moon' in un unico, lunghissimo trip psichedelico strumentale, perfettamente bilanciato nelle dinamiche e nell’equilibrio tra poesia e pesantezza, e perfettamente registrato e prodotto. Spero di poterli vedere dal vivo: sono certo che questi stessi brani, suonati live, diventino palco per splendide improvvisazioni. Indimenticabili. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 80

domenica 10 gennaio 2016

Stories From the Lost - Impairment

#PER CHI AMA: Alternative Elettronica
SoMnius deve essere un'anima inquieta che rifiuta di stare con le mani in mano e sente la necessità di dar sfogo di continuo alla propria creatività. Nel 2013 con la sua band omonima, nel 2015 con i Varen; doveva in un qualche modo colmare il gap temporale fra questi 2 anni e cosi nel 2014 è uscito con il quartetto degli Stories From the Lost, e quello che è il secondo album per la band belga, dopo 'For Clouds' uscito nel 2012. 'Impairment' è peraltro un doppio cd, contenente ben 15 brani strumentali che strizzano l'occhiolino a un alternative post metal dotato di forti venature elettroniche. Il disco si muove tra possenti riff di chitarra, frammenti parlati ("The Haze II"), estrapolati magari da qualche film (questo non mi è dato saperlo), breaks elettronici e bombastici arrangiamenti orchestrali. Ecco, se pensavate che anche in questo disco potesse apparire lo spettro black di SoMnius, state pure tranquilli, perchè qui avrete di che divertirvi con le splendide melodie post- dei quattro di Zottegem. L'album è lungo (oltre 75 minuti), quindi mettetevi comodi, spegnete le luci e rilassatevi, potrete immergervi in un lungo e fruttuoso viaggio, a tratti spensierato, a tratti malinconico e in alcuni momenti quasi danzereccio ("Impulsion"). La bellezza di 'Impairment' alla fine risiede nella sua eccletticità, nel suo passare da oscuri frangenti, ad altri più meditabondi, passando da intensi attimi di malinconia fino ad arrivare ad abbracciare l'elettronica tout court, le colonne sonore ("Mighty Nobody"), l'ambient ("Benefits") e il cinematico ("Complex #"), mantenendo comunque intatto lo spirito post incarnato dalla band fiamminga. Mancano le vocals lo so, ma la loro assenza è supplita dalla presenza di quel parlato campionato di cui facevo menzione inizialmente, ma anche da tutto l'apparato musicale che contraddistingue la musica degli Stories From the Lost. Il secondo cd mostra un approccio pesantemente più votato alla elettronica e questo sinceramente non mi turba più di tanto: "Black" è una breve intro quasi techno, mentre in "Duosign" i nostri sperimentano un noise cibernetico. Le atmosfere si fanno ancor più cupe e surreali, e sembra addirittura di essere finiti nel set cinematografico di 'Blade Runner' dove "ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire". Gli Stories From the Lost mi hanno conquistato con il loro sound inedito che necessita però di grandi aperture mentali. (Francesco Scarci)

(Dunk! Records - 2014)
Voto: 75 

Rusty Pacemaker – Ruins

#PER CHI AMA: Gothic/Dark/Alternative
Uscito per la Solanum Records nel 2015, l'ultima fatica della one man band austriaca, Rusty Pacemaker, si muove tra l'alternative e il gothic rock irrorato d'atmosfere dark decadenti. Impressionante il secondo brano "Made of Lies" che a livello sonoro sembra un brano dei The 69 Eyes epoca Brandon Lee, con un cantato che emula come per incanto, la rimpianta ugula punk del Joy Ramone ai tempi di 'Pet Cemetery'. Passando alle vellutate "Ocean of Life" e "Night Angel" (un brano delizioso!) dove il buon Rusty è affiancato in duetto da Lady K si cambia registro, ampliando lo spettro romantico del brano, e configurandolo in una parentesi storica appartenuta gloriosamente ai Theatre of Tragedy. Musica dal potere oscuro e trasversale che usa atmosfere alla Der Blutharsch, una forma di recente punk minimale e alternativo di stanza tra i Mission of Burma e Death of Samantha, mescolandola con la vena buia dei seminali Crisis, pre Death in June e i Damned del periodo gotico. Troviamo un certo gusto per l'oscuro e l'intromissione sovente di interventi dal sapore goth alla Sanguis et Cinis ultimo periodo, tutto prodotto in salsa moderna e dai tratti metal alla A Pale Horse Named Death. Ottima la forma acustica di "Forever" dove il fantasma di Wayne Hussey, orfano dei The Mission, si mette in mostra, poi di corsa verso la fine, continuando a rimescolare le suddette coordinate sonore per un totale di quasi un'ora di onorato gothic rock metal con qualche caduta di stile e balzi in avanti, notevoli ed interessanti. In verità tutto l'album risulta stimolante ma leggermente fuori tempo massimo per il periodo metal attuale, perfetto per chi ha vissuto qualche anno fa il risveglio del rock gotico. In generale 'Ruins' rimane un buon lavoro con alcuni punti al di sopra della media, vedi "Matter Over Mind". Piacevolissimo, completo, lungo ed efficace il'ipnotico brano "Pillow of Silence" posto in chiusura del cd. Infine, ottimo l'artwork di copertina e la produzione. Album dalle qualità tutte da scoprire, destinato ad un pubblico amante di romanticismo e notturni territori gothic rock. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

(Solanum Records - 2015)
Voto: 70

sabato 9 gennaio 2016

Somali Yacht Club - The Sun

#PER CHI AMA: Post/Stoner/Shoegaze
Se parli di Ucraina e stoner viene subito da pensare agli Stoned Jesus, band rivelazione che imperversa già da qualche anno e che sta riscuotendo sempre maggior successo tra il pubblico amante del genere. I Somali Yacht Club hanno in comune poco altro con la band sopracitata, in realtà il loro genere si discosta e si riempie di influenze shoegaze e post rock che rendono il loro sound più etereo e meno ruvido. Una sorta di Mars Red Sky ma con una voce meno fastidiosa per intenderci. In generale alla band Ucraina (per la precisione di Lviv) piace sperimentare, per cui troverete un intermezzo in levare (!!) come in “Sightwaster”, una suite che nasce come brano post rock, diventa stoner a circa metà brano senza disdegnare infine innesti di altro tipo. Il tutto fatto in modo molto naturale e semplice, puro istinto, ma con cognizione di causa. In totale l’album contiene cinque brani che vanno dai sette ai dieci minuti di durata, questo a sottolineare anche la complessità compositiva a cui la band sembra tenere particolarmente. Attivi nella scena da più di cinque anni, il trio ha all’attivo un precedente EP che gli ha permesso di riscuotere un discreto successo, confermato anche dagli innumerevoli live in patria e in giro per l'Europa. “Up in the Sky” è probabilmente il brano che rappresenta meglio l’album e l’essenza della band: un inizio lento dove il riff desertico di chitarra conduce l’ascoltatore verso l’assolo psichedelico, mentre la voce eterea chiude il cerchio in modo impeccabile. Un brano emotivo e colmo di atmosfera, ricco di diverse linee melodiche che viaggiano a livelli di ascolto diversi. Quando a circa metà sembra che il brano stia per concludersi, i Somali Yacht Club ne approfittano per velocizzare il ritmo e fuggire verso la cavalcata finale che si potrebbe considerare una traccia a sé stante. “Signals” , dopo l’intro di basso a cui si uniscono progressivamente gli altri strumenti, parte in modo sommesso, con un riff liquido di chitarra che conduce verso l’esplosione di fuzz, potente, ma non dirompente come prevede il genere. Il basso ha il suo momento di gloria e i suoi intrecci, al limite del prog, trascinano gran parte del brano mentre il cantato è sempre sporadico, quasi un orpello stilistico da aggiungere qua e là al bisogno. In conclusione la band ha fatto un discreto lavoro con questo album, ci sono buoni spunti (vedi gli intermezzi fusion), anche se in certi passaggi si sente la forzatura di aver voluto a tutti i costi un brano di lunga durata. Ancora qualche tempo per la maturazione artistica e poi il trio potrò dire la sua in maniera più incisiva. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 70

Forbidden Planet - From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity

#PER CHI AMA: Instrumental Prog Rock/Art Rock
Adam, Laurence, The Freq e Dave sono i 4 musicisti di Singapore che compongono i Forbidden Planet che debuttano nel 2015 con l’album 'From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity'. Mi immagino un gruppo di 4 ragazzi che vogliono divertirsi seguendo la loro passione. Suonare quello che viene fuori da una delle loro mille jam session. Da queste scartano poco o niente e prendono per buona una, due, undici canzoni, decidendo quindi di confezionare un bel regalo. Il loro regalo. Un cd autoprodotto. A loro va il mio rispetto. Tutto il loro viaggio è un'esperienza magnifica che ogni ragazzino, che prende in mano uno strumento, prima o poi percorrerà. Lo deve fare. Una volta concluso questo periodo perfetto, che rimarrà come pilastro formativo della sua vita, è giusto lavarsi la faccia, magari fare colazione e cominciare a riguardare a quanto prodotto. Dico questo perché l'album dei nostri sembra ideato, registrato e masterizzato con la "pancia". L'album è infatti decisamente penalizzato dalla qualità di registrazione, che penalizzerà anche la mia valutazione finale. La batteria in primis è inscatolata, spesso la grancassa si percepisce solo perché convenzionalmente in un 4/4 cade almeno sulla prima battuta. Considerato il genere, non credo sia una scelta ragionata, ma semplicemente un errore da principianti. È poi un peccato sentire questa equalizzazione fai-da-te, facendo arrivare la chitarra solista e poi, a scendere, seconda chitarra, basso e batteria; la sola eccezione è "Yoko", dove insieme alle chitarre "pulite" si sentono bene anche gli altri strumenti. Questi "inconvenienti" purtroppo rovinano l'ascolto. Non c'è molto da aggiungere. L'album è composto da canzoni che spaziano dal prog rock leggero al funky rock, con incisi thrash e math metal ("I Know What it Takes"), anche se a farla da padrone è il virtuosismo degli axemen. Sono chiare le capacità tecniche e gli studi fatti, al punto di fare una cover di Bach ("Cello suite n.1 Prelude in G Minor"), ma il risultato, a mio avviso, è un insieme di esercizi combinati che cercano di spiazzare l'ascoltatore con cambi di genere: un metodo inflazionato per chi vuol fare un album prog. Se l'intento è il caos, ma suonato bene, è fallimentare perché confuso e da l'impressione di non sapere cosa si stia facendo. Forse sono io a non capire il loro genio. "Hands Around the Throat" è già più pop, e considerato il titolo della canzone è chiaro l'intento della band ad unire gli opposti. Adam, nella seconda di copertina, ringrazia tutte le persone e gli artisti che lo hanno ispirato, affermando di esser stati parte integrante di questo progetto. Infatti mi sembrava di ricordare l'andazzo di Satriani e Steve Vai in "Can I Borrow Your Bass" e "Put On The Suit". Funky rock virtuoso, tuttavia, sempre con la contaminazione per uscire dal coro. Carina la citazione (nell'intento almeno) a "The Audience is Listening" di Steve Vai al minuto 2:24 di “Put On The Suit”. Tutto sommato, al netto dei problemi espressi, le canzoni sono piacevoli, ma visto che 'From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity' è stato mixato e masterizzato da un componente del gruppo (The Freq), mi auguro che, in futuro, i Forbidden Planet facciano mixare il prossimo lavoro da qualcuno proveniente da un Allowed Planet. (Alessio Perro)

(Self - 2015)
Voto: 55

Psicotaxi - Effect To The Head’s Mass

#PER CHI AMA: Electro Rock, Space Rock, Post Rock 
Difficile definire un genere per questo primo lavoro dei milanesi Psicotaxi. Post-rock? Vero: lunghi pezzi strumentali, arrabbiati, con ampi interventi di elettronica, arpeggi ricchi di eco e riverberi. Space-rock? Anche: i brani sembrano una miscela contemporanea di Hawkwind e Ozric Tentacles, con riff ossessivi, psichedelici, soundtrack stoner e tessiture vibranti. Progressive? Perché no: ogni canzone è una piccola suite ("Zingaropoli", col suo incedere esplosivo di basso ispirato ai Tool), tecnicamente ineccepibile, che si dilata e si restringe, non disdegna tempi dispari e lascia spazio persino a sax, tastiere e arpeggiatori taglienti. Aggiungete poi la teatralità dei testi recitati da Manlio Benigni: l’ironica "Un Tram che si Chiama Pornodesiderio" (“Il fatto è che lei fa la pornostar, io non me la sento di avere una storia con questa qui”), l’oscura e terrificante "Performance", l’impegnata e amara “Il Mondo Nuovo” (“Benvenuto nel mondo nuovo ragazzo […] tanto tu ti diverti a lavorare, non è vero?”). La cifra stilistica degli Psicotaxi va forse ricercata proprio in quell’underground musicale che, negli ultimi anni, sembra aver sfornato solo indie e folk: il quartetto milanese è fortemente indipendente, autonomo, dotato di personalità tale da raccogliere tutte le proprie ispirazioni e frullarle in una ricetta davvero nuova, originale, innovativa. 'Effect To The Head’s Mass' fa un uso preciso e superbo dell’elettronica; non dimentica l’importanza delle chitarre distorte e di un basso duro e presente; sa sfruttare il sassofono in modo originale; in ultima analisi, non fa sentire per nulla la mancanza di una voce nel senso stretto del termine, come invece capita a tante band post-qualcosa. Impossibile resistergli. (Stefano Torregrossa)

(Subsphera - 2015)
Voto: 75

venerdì 8 gennaio 2016

SoMnius - Darkness Falls...

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black strumentale
Abbiamo avuto modo di apprezzare Mathieu Vanlandtschoote (in arte SoMnius) nel suo ultimo progetto, i Varen; facciamo ora un passo indietro e diamo un ascolto alla sua band omonima e al disco 'Darkness Falls...', uscito nel 2013. Nove brani, otto dei quali strumentali, che danzano su di un sound di nero vestito. Stiamo parlando di un black metal cadenzato, che dalla opening track nonchè anche title track, arriva fino alla conclusiva "The Void", muovendosi in meandri angusti fatti di un suono oscuro e maligno. L'architettura del disco è sorretta dalle classiche chitarre ronzanti tipiche del black metal scandinavo che rendono scarno, a livello chitarristico, la proposta del factotum belga. Quando fortunatamente si sovrappone una seconda chitarra, e penso al secondo brano, "Where Hope Lies Dying" (ma sarà cosi anche negli altri), il sound diventa più corposo e piacevole da ascoltare, arricchito peraltro da ottimi arrangiamenti di synth. Un plumbeo pianoforte apre "An Illustrated World", song spettrale e dal mood malinconico che conferma che musicalmente il disco ha ottime potenzialità, garantite anche da una certa alternanza tra ritmiche ronzanti e frammenti atmosferici. La pecca più grande a mio avviso è, come di consueto, la totale mancanza di vocals, anche di sottofondo, che guidino l'ascolto e contribuiscano ad arricchire le qualità musicali di questo 'Darkness Falls...'. Un vero peccato perchè delle vocals arcigne, psicotiche o urla lontane del buon SoMnius, sarebbero state inserite ad arte nel tessuto musicale sorretto dal mastermind di Ronse. Tra gli altri miei pezzi preferiti, citerei "Stop Being Human", per le sue splendide, melodiche e strazianti linee di chitarra; la criptica "Entering Wasteland" e la sognante "The Void", ove finalmente fa capolino lo screaming corrosivo di Mathieu. Non avesse atteso l'ultimo brano per farci questo regalo, il voto di 'Darkness Falls...' non ne sarebbe uscito penalizzato. Next time SoMnius... (Francesco Scarci)

(Dunk! Records - 2013)
Voto: 70

Postvorta - Aegeria

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Quella di 'Ægeria' è una di quelle situazioni in cui spesso mi ritrovo, ossia voler segnalare al mondo intero l'uscita di un disco interessantissimo, pur non avendolo fisicamente nella mia collezione (ahimè è solo digitale, un grave delitto). Sto parlando dei romagnoli Postvorta e del loro EP che segna il primo capitolo di una trilogia sul ciclo della vita e che segue a distanza di un anno, il full length d'esordio dei nostri, 'Beckoning Light We Will Set Ourselves On Fire'. 'Ægeria' lo dico già, è un gran bel lavoro di post-metal, nella sua veste più classica, quella che strizza l'occhio a Isis e Cult of Luna, tanto per citare due nomi a caso, anche nella tipica costruzione dei brani, che si srotolano nella struttura strofa, intermezzo semi-acustico, strofa, intermezzo e via dicendo. "Amnios" ne è la dimostrazione assoluta, snodandosi in tal senso, lungo i suoi disagiati 13 minuti fatti di suoni raffinati che palesano si la devozione dell'ensemble italico verso le band sopra citate ma al contempo, anche l'enorme classe di cui sono dotati i ravennati. "Corion" prosegue sulla stessa scia, muovendosi tra giochi di luce in chiaroscuro, tenui atmosfere, vocals coriacee e splendide melodie di un post-metal scoppiettante che non accenna a mostrare segni di debolezza, ma anzi si arricchisce giorno dopo giorno di entusiasmanti sorprese (leggasi anche la nuova fatica dei Sunpocrisy). In "Uterus", l'elemento post-metal si arricchisce di incursioni in territori post-black con le classiche cavalcate alla Deafheaven, immediatamente smorzate da toni dimessi e quel perverso senso di malinconia che avvinghia l'intero lavoro e che genera in me contrastanti emozioni. La conclusiva "Placenta" è in realtà una cover più energizzata di “In The House, In A Heartbeat” di John Murphy, colonna sonora del film “28 Giorni Dopo”, song strumentale scelta non a caso, in quanto avvolta dalle stesse drammatiche suggestioni e portatrice delle stesse tetre emozioni delle precedenti tracce. Che altro dire se non suggerire la stampa in versione cd di questo piccolo gioiellino. (Francesco Scarci)

(Drown Within Records - 2015)
Voto: 85