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giovedì 9 aprile 2015

Dö - Den

#PER CHI AMA: Death/Doom/Stoner, primi Cathedral
Il sottobosco metallico è cosi ricco di preziose primizie che potrebbe sfamare ogni tipo di appetito. Oggi nella fitta coltre boschiva incontro i Dö, improbabile (ma solo per il nome ovviamente) band finlandese dedita a un lacerante death stoner doom che con questo 4-track, dall'altrettanto breve titolo 'Den', ci regala un'intrigante miscela musicale. Si parte dai sette minuti di "For the Worms", in cui gli ingredienti chiave per definire il genere proposto ci sono tutti: chitarrone belle pesanti e ossessive, vocalizzi growl, ma anche qualche trovata niente male che forse andrebbe meglio sviluppata. Partiamo da una buona sezione solista che dona una dinamicità affatto malvagia alla traccia grazie a splendide melodie dal piglio southern rock, ma anche un'appena accennato arpeggio che poteva e doveva essere maggiormente esplorato, peccato. "Frostbites" ringhia che è un piacere con le sue graffianti chitarre, che si posizionano su un doomeggiante mid-tempo non troppo memorabile ma di sicuro impatto che trova il suo punto di forza in un malsano break centrale in cui finalmente decolla la porzione solista del trio di Helsinki che gioca tra wah e delay ipnotici; anche in questo caso il risultato appare come privato della sua logica esplosione musicale e questo, a discapito del risultato finale. Un bel basso apre "Hex", traccia dal magmatico sapore sludge che si mostra essere come il pezzo più coinvolgente del dischetto, anche per la presenza di vocalizzi puliti e una linea di basso che sembra provenire dall'immortale 'Heaven and Hell' dei Black Sabbath, mentre la 6-corde sul finire del pezzo, si diletta in ottimi ma piuttosto brevi giri caleidoscopici. "The Moon Follows Us" chiude il platter, un EP di quattro pezzi che raggiunge i 28 minuti. Il sound non si discosta poi di molto dalle precedenti e come le precedenti mostra luci ed ombre: un interessante uso delle chitarre ritmiche che andava meglio strutturato, le vocals non sono affatto male e i solos si rivelano ancora piuttosto brevi. 'Den' è un punto di inizio che necessita di ulteriori aggiustamenti per il futuro, ma che lascia presagire comunque una più che discreta vena di personalità di questi misteriosi Dö. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70

We Are Impala - Synesthesia

#PER CHI AMA: Post Rock, Explosions in the Sky, Mogway
Ormai il post rock strumentale sta dilagando nel mondo come un morbo impazzito. Se prima le band che proponevano tale genere provenivano quasi esclusivamente da UK or US, ora ovunque ci si diletta a dare sfogo alla propria creatività; e il quartetto di oggi arriva dalla Spagna, anzi dalla Catalogna, con il proprio debut album, 'Synesthesia'. Si chiamano We Are Impala e non so se il riferimento al loro moniker vada al mammifero che popola le savane africane. Fatto sta che i nostri ragazzi di Matarò, ci offrono sei tracce di sognante post rock che vengono introdotte dal sound oscuro di "Tentakloj", brano che mette in evidenza la sinergia tra una ritmica pesante, quasi stoner, e altri eclettici giri di chitarra che concedono un più ampio respiro ad un suono altrimenti assai cupo. I giochi di chiaroscuri in cui i nostri si lanciano, creano una certa eleganza nel pattern strumentale che altrimenti rischierebbe di suonare troppo monolitico. "Forgeis" è una traccia giocata per lo più sul dualismo basso/chitarra che per certi versi mi ha ricordato un nome decisamente underground del panorama nostrano, che uscì nei primi anni del 2000, ma poi sparì nel nulla, gli Escape. I We Are Impala scandiscono nell'etere fascinose melodie in cui a sovrapporsi è il suono di roboanti chitarre con quello di altre decisamente più leggiadre, quasi ad affrescare la matrice sonora dei nostri. Il risultato che ne fuoriesce è una musicalità a tratti emozionante, che colpisce per i continui cambi di tempo, in cui ad alternarsi nella guida delle sinuose melodie, sono chitarra-basso o tastiere. Quello che lamento con i dischi strumentali è alla fine l'assenza di una voce che spezzi quel granitico "wall of sound" che le band puntualmente creano. Ecco allora utilizzare la tattica dell'arpeggio ruffiano con qualche tastiera eterea in "Delaylama", pezzo che a parte gli sbadigli iniziali, trova il suo perché in un finale dai tratti quasi onirici. "Abstrakta" apre carica di groove, con tocchi di keys incastonati nel suono del basso. Sebbene la traccia stenti a decollare, lentamente trova modo di far esplodere la propria energia in una burrascosa seconda parte dai contorni post metal. "Kasdan" mette in primo piano la batteria fin qui mai troppo in evidenza, affiancata dal profondo sound del basso, in attesa che sopraggiunga lo stentoreo riff delle chitarre. La song è tuttavia molto ambientale fino al breakpoint, in cui a rompere gli indugi, ci pensa una malinconica linea musicale. A chiudere il disco ci pensano i quasi nove minuti di "Heleco", brano quasi tribale che oltre a richiamare un sound dal gusto retrò, tipicamente seventies, finisce con un riff dark sulla scia dei primi The Cure, a dimostrare comunque una certa versatilità nelle corde dei quattro musicisti catalani. Siamo sicuramente sulla buona strada, un pizzico di dinamicità in più certo non guasterebbe, se poi vogliamo metterci qualche voce o chorus, si potrebbe addirittura rasentare la perfezione. (Francesco Scarci)

(Jetglow Recordings - 2015)
Voto: 70

mercoledì 8 aprile 2015

The Nihilistic Front - Procession to Annihilation

#PER CHI AMA: Funeral Death Doom, Disembowelment, Incantation
Ho gridato al miracolo, lo ammetto, "i Disembowelment si sono riformati". Ahimè si è trattato di un mero abbaglio, ma questo duo di Melbourne suona davvero in modo molto simile ai loro precursori, peraltro originari della stessa città. Se siete dei beceri ignoranti in materia e non sapete chi siano stati i Disembowelment e state sgranando gli occhi, vi inviterei a fare un tuffo nel passato e andarvi a riprendere un capolavoro unico nella storia del doom apocalittico, quale fu 'Transcendence into the Peripheral'. A distanza di vent'anni da quell'album incompreso, i The Nihilistic Front fuoriescono dalle viscere della Terra con un concentrato stagnante e putrefatto di death dannatamente oscuro, lento e melmoso che ridà voce ai gods australiani. Quattro le tracce incluse in questo 'Procession to Annihilation', disco uscito nel 2013, ma soltanto oggi tra le mie mani, grazie all'Aesthetic Death. Quarantacinque i minuti a disposizione per i nostri per annichilirci con un disco il cui obbligo è l'ascolto in cuffia ad un volume alto, molto alto. E quando vi sparerete nelle orecchie "Confronted by the Obscure", capirete il perché delle mie parole, la necessità di cogliere ogni singola mortificante nota contenuta in questo lavoro, un rumore, un suono, un fottutissimo claustrofobico riff che annienta i neuroni del nostro cervello. Cingoli di carro armato, voci d'oltretomba, sporchissimi suoni nefasti, asfissianti atmosfere, in cui i Disembowelment sembrano jammare con Esoteric, Incantation e primissimi Anathema per un risultato da brividi, che trova conferma anche nella successiva roboante title track, ove il caos sonoro regna incontrastato sul mondo. Paurosi, non trovo altre parole per definire i degni eredi del mortifero e mai dimenticato sound dei Disembowelment. E la lentezza disarmante di "Opaque Shadows" o la litanica proposta di "A Working God" sovrasta qualsiasi altra cosa death doom abbiate ascoltato ultimamente, perché qui è racchiusa la vera essenza di un genere. Non potrò certo definire i nostri originali, visto che il nichilistico sound andava tanto in voga nei primi anni novanta spruzzato anche di una certa verve brutal death, ma i The Nihilistic Front sanno il fatto loro e questo è sufficiente per invitarvi a tenerli sott'occhio, ovviamente solo dopo aver ascoltato gli originali. Deflagranti. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2013)
Voto: 80

Mothercare - Chronicles of Ordinary Hatred

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Forbidden, Slayer
Dati per bolliti, imborghesiti o addirittura additati come "commercialotti", i veronesi Mothercare spazzano via ogni nube con una prova che conferma quanto di selvaggio già avevamo ascoltato nel precedente 'The Concreteness of Failure'. 'Chronicles of Ordinary Hatred' è il loro nuovo lavoro, costituito da sei tracce inedite e due cover, tra l'altro mica prese a caso: "Relics" dei Nasum e "Piss Angel" dei Pig Destroyer, ma andiamo con ordine. Il cd attacca con "Lingering Over the Tide to Float", song aperta dal suono del mare e dei gabbiani. Nella quiete eterea di quest'immagine romantica, irrompe furente il sound fragoroso dei nostri, che viaggia in bilico tra il death/thrash degli Slayer (anche a livello vocale) e alcuni frangenti (soprattutto nel finale) che potrebbero richiamare gli esordi dei Cynic, il tuo riletto in una chiave decisamente più estrema e a tratti originale. Sono un po' spiazzato lo ammetto. Provo pertanto a skippare alla successiva "Devouress (Part 1)" e altri suoni si materializzano nella mia mente. Ricordate Craig Locicero, frontman dei grandissimi Forbidden? Bene, non solo il vocalist, Simone Baldi, richiama un potenziale ibrido tra lo stesso Craig e il buon vecchio Tom Araya, ma la musica dei Mothercare scomoda quella delle due band californiane: riffoni belli grossi, ritmica selvaggia (bravo Marco Piran dietro le pelli che lavora in perfetta sinergia con Mauro Zavattieri alle percussioni) e un sound carico di groove a manetta, che si riflette anche nella seconda più breve parte del brano. Con "Bent to the Almighty" a venire scomodati questa volta sono i Pantera, complice un giro di chitarra che l'immortale Dimebag Darrell si sarebbe divertito nel proporre e alle vocals di Simone che ripropongono un Phil Anselmo in versione più raw. "La Stanza Dipinta Di Viola” è un bell'esercizio di percussioni, in cui l'eccezionale Sbibu (Farabrutto tra gli altri) dà un breve accenno della sua classe da jazzista avanguardista. Con "Venomous" si torna a picchiare su ritmiche death/thrash (ottima la sezione ritmica completata da Mirko Nosari e Rudy Pellizon alle chitarre e Jacopo Ravagnani al basso) e tra i guest questa volta appare Sebastian “CP” Platzer (Not To Save One’s Life – Kàla). E veniamo infine alle due cover e al perché della loro scelta: la furiosa “Relics” vuole essere un tributo al grande Mieszko Talarczyk dei Nasum, che perse la vita nello tsunami del dicembre 2004, Mieszko che fu guest vocals nel disco dei Mothercare, ‘Traumaturgic’. E per l'occasione, è proprio l'ex vocalist di quel disco, Guillermo Gonzales, a prendersi carico in modo spietato, delle vocals che furono del cantante polacco. "Piss Angel" invece è una perla di suoni old school da cui i nostri hanno tratto parte della loro ispirazione. Che dire, se non che i Mothercare sono in forma e incazzati più che mai... (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records - 2015)
Voto: 75

Pauwels - Elina

#PER CHI AMA: Math Rock/Noise, Hot Head Show
Mettiamo subito le cose in chiaro: questo non è post-rock. Non c’è un briciolo di malinconia, non c’è la tristezza cosmica di chi sublima riflessioni e sofferenze in lunghe cavalcate strumentali, non c’è quel senso di distacco, di inquietudine, di etereo respiro dell’universo. Questo disco è un concentrato di follia, di furioso e terrificante ottimismo, di incoscienza sotto acidi: è caos puro, imbrigliato in forma-canzone da cinque francesi psicopatici che suonano come rockabilly-punk strafatti di adrenalina. Gli Hot Head Show dell’istrionico Sean Copeland sono il primo riferimento che mi viene in mente, per via della costante tensione esplosiva tra le chitarre (potenti ma mai troppo distorte) e le ritmiche di batteria (singhiozzanti, veloci, dinamiche). Ma ci sono anche i Melvins di 'Houdini' nell’attacco groovy del basso in “Wig”; c’è qualcosa dei vecchi One Dimensional Man in “La Une”; immaginando un basso slappato al posto delle chitarre, è impossibile non sentire i Primus di 'Sailing the Seas of Cheese' nascosti dietro la splendida “Ouspenski” o dietro il continuo crescendo saltellante di “Pendule”. Il disco è giocato quasi esclusivamente su frequenze medio-alte, ma non fa affatto rimpiangere suoni più cupi: la botta in piena faccia qui non manca – sentite il marziale finale ipnotico di “Beelzebub” – e fa venire voglia di spogliarsi nudi e prendere a pugni i passanti ululando versi senza senso. Atmosfere, tempi, raddoppi, tonalità: niente è scontato con i Pauwels, che rendono tutto dispari, dissonante e imprevedibile con una spontaneità rara, sempre a metà tra il math-rock, il jazz, il rock’n’roll vecchia maniera e il punk-noise. La produzione, intelligentissima, lascia il giusto spazio ad ogni strumento, creando una bella sensazione di presenza schizofrenica ma molto naturale, grazie anche ad un leggero white noise onnipresente nelle pause tra i brani. Un’ultima parola per l’artwork: 300 pezzi numerati per un packaging di gran classe, un pieghevole su cui si sviluppa un’inquietante illustrazione che racchiude riferimenti esoterici (volti, insetti, polipi, figure antropomorfe, corpi dissezionati – c’è persino Chtulhu) ispirati allo scrittore dell’occulto Louis Pauwels. Un disco che segna un nuovo capitolo nel genere: assolutamente imperdibile. (Stefano Torregrossa)

(October Tone - 2015)
Voto: 90

The Pit Tips

Larry Best

Accept - Blind Rage
Christopher Lee - Omens of Death
Cruachan - Blood for the Blood God

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Kent

Jesu - Conqueror
Sunn O))/Ulver - Terrestrial
Ahab - The Call Of The Wretched Sea

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Claudio Catena

Ufomammut - Ecate
Judas Priest - Screaming for Vengeance
Extrema - The Positive Pressure (of Injustice)

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Roberto Alba

Dødheimsgard - A Umbra Omega
Enslaved - In Times
Caronte - Church of Shamanic Goetia

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Francesco Scarci

Enslaved - In Times
Negura Bunget - Tau
Dawn of a Dark Age - The Six Elements, vol​.​2

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Yener Ozturk

Neurosis - Through Silver & Blood
Overkill - White Devil Armory
Gorod - Process of a New Decline

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Michele "Mik" Montanari

Limerick - S/t
Stoned Jesus - The Harvest
My Home on Trees - EP

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Don Anelli

Death Karma - The History of Death and Burial Rites, Part I
DeadlySins - Anticlockwise
Dødheimsgard - A Umbra Omega


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Stefano Torregrossa

Shining - Blackjazz
Conan - Blood Eagle
Electric Wizard - Time To Die

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Bob Stoner

Therapy? Disquiet
Kontinuum - Kyrr
Pop Group - Citizen Zombie

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Philippe Perez

Various Artists - Feral Media: Strain of Origin IV
Golden Blonde - GWAN
Teamwork - Teamwork

martedì 7 aprile 2015

Ilydaen - Maze

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Math
L’album dei Ilydaen parte carburato con scorrerie elettriche descritte da chitarre imperiose. Il ritmo è sostenuto e ci dà appena il tempo di battezzare questa prima traccia, “Lux”. Il secondo brano, “1/121”, apre danze vagamente metalliche contigue alle musicalità casuali del primo pezzo. Assecondate le vostre luci psichedeliche continuando a ballare ipnotizzati da questa fonte elettronica di suoni, a tratti percorsa da una voce, in cui si sentono corde vocali vibranti alla carta vetro. Ci imbattiamo in un growl improvvisato e tutt’altro che peculiare. Rimaniamo entro le mura di una discoteca per pochi intimi amanti dell’elettronica annulla neuroni. Si. Perché le intenzioni di “Curves & Saeptums”, sono quanto mai bellicose verso la consapevolezza del domani. Andiamo alla prossima traccia, ma sembra di viaggiare a ritroso. Un ticchettare di chitarra che lentamente si fonde al piatto della batteria, ci introduce a questa “Argon Walls”. Ora il nostro terzetto belga reitera sonorità da colonna sonora di film anni ’90, già sentite, stucchevoli. Con “Breach” si cerca una redenzione alle premesse poco incoraggianti. Ma, nulla di fatto, perchè la ripetitività meccanica di queste pseudo note, annoia. Anche l’estensione del volume è inefficace al migliorarne le percezioni uditive. Il tedio, vince sulla musica. Con fatica e fiducia metto on air la prossima traccia,“Quandary”. Ma la speranza, a volte è il marciapiede della delusione. Poco cambia infatti rispetto al fotocopiare sonorità ed effetti elettronici dei brani precedenti. La voce che emerge come un’ombra tra alberi rinsecchiti, nel mezzo di questa sound, non solo non fa la differenza, ma conferma l’impersonalità dell'album. Per la prima volta, anziché arrivare alla fine in cuffia, affido al vostro giudizio, “Sokkole”, “Deadalus”, “Shelter”. Credo si debba ritentare. Poiché non sempre la fortuna aiuta gli audaci. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 55

Offerstigen – Drankt/Genomsyrad

#PER CHI AMA: Sludge, Crust, Ahna, Graves At Sea, 
In tutta sincerità non ero per nulla fiducioso sulla qualità di questo disco in quanto la sua presentazione, in una semplice busta e un paio di fogli di carta stampati, presagivano l'ennesima produzione punk DIY di scarsa qualità, poca creatività e e forse eccessiva voglia di far musica, qualunque essa sia. L'“Intro” non sfata decisamente questo mio pensiero ed anzi mi fa dubitare sulle reali intenzioni dei nostri Offerstigen, ma ai primi secondi di “Ytvandrarna” accolgo con stupore e piacevolezza la via intrapresa dal duo svedese: riff funerari e distorti al massimo, voce straziante, un drumming cadenzato che a tratti sfocia in fulminei blast beats. Una soluzione musicale minimalista ma oltremodo efficace, resa ancor più convincente da cori in sottofondo. “Celest – Saknad” perde mordente a causa della chitarra che dedica troppo spazio a soluzioni melodiche, le quali stonano leggermente con la linea principale, mentre la successiva “Forstor Allt” riesce a valorizzare una vena melancolica che pare rimembrare gli Skepticism, riportando il lavoro su livelli qualitativi della seconda traccia. Il dischetto si chiude con un'ennesima sorpresa: “Utro” è probabilmente la traccia migliore del disco da un punto di vista creativo ed emozionale, tanto che potrebbe risultare una bonus track degli Ulver o dei Bohren, lasciando al termine dell'ascolto, un forte desiderio che la musica continui. Punto debole del lavoro è la parziale estromissione delle basse frequenze che rendono il suono magro seppur tagliente; la produzione per un lavoro autoprodotto come questo è sufficiente (anche se in alcuni punti la batteria ha dei cali a livello dei volumi) regalando quella sensazione di musica viscerale e senza compromessi. Per questo progetto ora mi sono creato reali aspettative, e sarei pertanto molto curioso di vederli dal vivo. (Kent)

(Self - 2014)
Voto: 70

Corbeaux - Hit the Head

#PER CHI AMA: Post-rock/Alternative, Cult of Luna, Pelican, The Ocean 
Primo: il disco è masterizzato dal grande Magnus Lindberg, l’uomo dietro i Cult of Luna – e si sente. Secondo: il packaging è piacevole e curato, pur mancando di un booklet. Terzo: è post-rock strumentale, d’accordo, ma il quartetto francese al primo full lenght (dopo un EP nel 2011 e uno split CD nel 2012) sprizza personalità da tutti i pori. Si sente l’influenza di Cult of Luna e Pelican, ma ci sono anche i The Ocean, qualcosa di Mogwai e molto altro ancora. I Corbeaux suonano da dio, curando le dinamiche con grazia ma senza disdegnare distorsioni sporche e suoni grezzi: il disco è suonato davvero, è molto analogico e caldo sia nei suoni che nella tecnica. Apre le danze “Cran d’Arret” – l’unico brano, con “Ezimpurkor”, a superare i 7 minuti – con un riff dispari che condurrà lungo tutta la canzone. Il brano prima esplode, e poi definitivamente deflagra intorno ai 3 min in uno splendido bridge in controtempo con un inquietante bending di chitarra: da antologia, uno dei momenti migliori del disco. “La Bagarre” mi ha ricordato in certi passaggi gli Helmet più noise nei giochi delle chitarre e nella batteria tiratissima. “7th Avenue” si muove eterea ed inquietante tra arpeggio e tastiere, evocando abbandonati paesaggi post-urbani come in una perfetta colonna sonora. Con “Sur Un Fil” si torna alle ritmiche aggressive che mi hanno ricordato alcuni lavori Pelican: il basso (sentite che suono, perfetto!) in primo piano tiene il tempo per tutta la prima parte, per poi lasciare spazio alle oscure pennellate di chitarre nel resto del brano. Splendidi gli scambi forte/piano in “Where Is Dave”, che presto evolve in un ambient ispiratissimo fino alla reprise finale. Conclude il disco “Ezimpurkor”, l’altro gioiello di 'Hit the Head': è il brano più lungo, e i Corbeaux ne approfittano per riassumere un po’ tutta la loro visione: diversi livelli, emozioni, velocità, riff, atmosfere – tutto è mescolato in un brano schizofrenico e a tratti ipnotico (come nel lungo bridge intorno ai 5 min), e contiene l’unica parte cantata dell’intero lavoro: una disperata melodia urlata che si staglia come una perla nel nero mare strumentale del disco: la chiusura ideale di un cerchio. Un bel lavoro, premiato da una produzione praticamente perfetta, scritto e suonato con gusto, precisione, eleganza e idee. Non c’è nulla di spaventosamente innovativo, intendiamoci: ma se questo non è il futuro del post-rock, è senz’altro una delle migliori visioni sul suo presente. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80