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giovedì 9 aprile 2015

Dö - Den

#PER CHI AMA: Death/Doom/Stoner, primi Cathedral
Il sottobosco metallico è cosi ricco di preziose primizie che potrebbe sfamare ogni tipo di appetito. Oggi nella fitta coltre boschiva incontro i Dö, improbabile (ma solo per il nome ovviamente) band finlandese dedita a un lacerante death stoner doom che con questo 4-track, dall'altrettanto breve titolo 'Den', ci regala un'intrigante miscela musicale. Si parte dai sette minuti di "For the Worms", in cui gli ingredienti chiave per definire il genere proposto ci sono tutti: chitarrone belle pesanti e ossessive, vocalizzi growl, ma anche qualche trovata niente male che forse andrebbe meglio sviluppata. Partiamo da una buona sezione solista che dona una dinamicità affatto malvagia alla traccia grazie a splendide melodie dal piglio southern rock, ma anche un'appena accennato arpeggio che poteva e doveva essere maggiormente esplorato, peccato. "Frostbites" ringhia che è un piacere con le sue graffianti chitarre, che si posizionano su un doomeggiante mid-tempo non troppo memorabile ma di sicuro impatto che trova il suo punto di forza in un malsano break centrale in cui finalmente decolla la porzione solista del trio di Helsinki che gioca tra wah e delay ipnotici; anche in questo caso il risultato appare come privato della sua logica esplosione musicale e questo, a discapito del risultato finale. Un bel basso apre "Hex", traccia dal magmatico sapore sludge che si mostra essere come il pezzo più coinvolgente del dischetto, anche per la presenza di vocalizzi puliti e una linea di basso che sembra provenire dall'immortale 'Heaven and Hell' dei Black Sabbath, mentre la 6-corde sul finire del pezzo, si diletta in ottimi ma piuttosto brevi giri caleidoscopici. "The Moon Follows Us" chiude il platter, un EP di quattro pezzi che raggiunge i 28 minuti. Il sound non si discosta poi di molto dalle precedenti e come le precedenti mostra luci ed ombre: un interessante uso delle chitarre ritmiche che andava meglio strutturato, le vocals non sono affatto male e i solos si rivelano ancora piuttosto brevi. 'Den' è un punto di inizio che necessita di ulteriori aggiustamenti per il futuro, ma che lascia presagire comunque una più che discreta vena di personalità di questi misteriosi Dö. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70

We Are Impala - Synesthesia

#PER CHI AMA: Post Rock, Explosions in the Sky, Mogway
Ormai il post rock strumentale sta dilagando nel mondo come un morbo impazzito. Se prima le band che proponevano tale genere provenivano quasi esclusivamente da UK or US, ora ovunque ci si diletta a dare sfogo alla propria creatività; e il quartetto di oggi arriva dalla Spagna, anzi dalla Catalogna, con il proprio debut album, 'Synesthesia'. Si chiamano We Are Impala e non so se il riferimento al loro moniker vada al mammifero che popola le savane africane. Fatto sta che i nostri ragazzi di Matarò, ci offrono sei tracce di sognante post rock che vengono introdotte dal sound oscuro di "Tentakloj", brano che mette in evidenza la sinergia tra una ritmica pesante, quasi stoner, e altri eclettici giri di chitarra che concedono un più ampio respiro ad un suono altrimenti assai cupo. I giochi di chiaroscuri in cui i nostri si lanciano, creano una certa eleganza nel pattern strumentale che altrimenti rischierebbe di suonare troppo monolitico. "Forgeis" è una traccia giocata per lo più sul dualismo basso/chitarra che per certi versi mi ha ricordato un nome decisamente underground del panorama nostrano, che uscì nei primi anni del 2000, ma poi sparì nel nulla, gli Escape. I We Are Impala scandiscono nell'etere fascinose melodie in cui a sovrapporsi è il suono di roboanti chitarre con quello di altre decisamente più leggiadre, quasi ad affrescare la matrice sonora dei nostri. Il risultato che ne fuoriesce è una musicalità a tratti emozionante, che colpisce per i continui cambi di tempo, in cui ad alternarsi nella guida delle sinuose melodie, sono chitarra-basso o tastiere. Quello che lamento con i dischi strumentali è alla fine l'assenza di una voce che spezzi quel granitico "wall of sound" che le band puntualmente creano. Ecco allora utilizzare la tattica dell'arpeggio ruffiano con qualche tastiera eterea in "Delaylama", pezzo che a parte gli sbadigli iniziali, trova il suo perché in un finale dai tratti quasi onirici. "Abstrakta" apre carica di groove, con tocchi di keys incastonati nel suono del basso. Sebbene la traccia stenti a decollare, lentamente trova modo di far esplodere la propria energia in una burrascosa seconda parte dai contorni post metal. "Kasdan" mette in primo piano la batteria fin qui mai troppo in evidenza, affiancata dal profondo sound del basso, in attesa che sopraggiunga lo stentoreo riff delle chitarre. La song è tuttavia molto ambientale fino al breakpoint, in cui a rompere gli indugi, ci pensa una malinconica linea musicale. A chiudere il disco ci pensano i quasi nove minuti di "Heleco", brano quasi tribale che oltre a richiamare un sound dal gusto retrò, tipicamente seventies, finisce con un riff dark sulla scia dei primi The Cure, a dimostrare comunque una certa versatilità nelle corde dei quattro musicisti catalani. Siamo sicuramente sulla buona strada, un pizzico di dinamicità in più certo non guasterebbe, se poi vogliamo metterci qualche voce o chorus, si potrebbe addirittura rasentare la perfezione. (Francesco Scarci)

(Jetglow Recordings - 2015)
Voto: 70

mercoledì 8 aprile 2015

The Nihilistic Front - Procession to Annihilation

#PER CHI AMA: Funeral Death Doom, Disembowelment, Incantation
Ho gridato al miracolo, lo ammetto, "i Disembowelment si sono riformati". Ahimè si è trattato di un mero abbaglio, ma questo duo di Melbourne suona davvero in modo molto simile ai loro precursori, peraltro originari della stessa città. Se siete dei beceri ignoranti in materia e non sapete chi siano stati i Disembowelment e state sgranando gli occhi, vi inviterei a fare un tuffo nel passato e andarvi a riprendere un capolavoro unico nella storia del doom apocalittico, quale fu 'Transcendence into the Peripheral'. A distanza di vent'anni da quell'album incompreso, i The Nihilistic Front fuoriescono dalle viscere della Terra con un concentrato stagnante e putrefatto di death dannatamente oscuro, lento e melmoso che ridà voce ai gods australiani. Quattro le tracce incluse in questo 'Procession to Annihilation', disco uscito nel 2013, ma soltanto oggi tra le mie mani, grazie all'Aesthetic Death. Quarantacinque i minuti a disposizione per i nostri per annichilirci con un disco il cui obbligo è l'ascolto in cuffia ad un volume alto, molto alto. E quando vi sparerete nelle orecchie "Confronted by the Obscure", capirete il perché delle mie parole, la necessità di cogliere ogni singola mortificante nota contenuta in questo lavoro, un rumore, un suono, un fottutissimo claustrofobico riff che annienta i neuroni del nostro cervello. Cingoli di carro armato, voci d'oltretomba, sporchissimi suoni nefasti, asfissianti atmosfere, in cui i Disembowelment sembrano jammare con Esoteric, Incantation e primissimi Anathema per un risultato da brividi, che trova conferma anche nella successiva roboante title track, ove il caos sonoro regna incontrastato sul mondo. Paurosi, non trovo altre parole per definire i degni eredi del mortifero e mai dimenticato sound dei Disembowelment. E la lentezza disarmante di "Opaque Shadows" o la litanica proposta di "A Working God" sovrasta qualsiasi altra cosa death doom abbiate ascoltato ultimamente, perché qui è racchiusa la vera essenza di un genere. Non potrò certo definire i nostri originali, visto che il nichilistico sound andava tanto in voga nei primi anni novanta spruzzato anche di una certa verve brutal death, ma i The Nihilistic Front sanno il fatto loro e questo è sufficiente per invitarvi a tenerli sott'occhio, ovviamente solo dopo aver ascoltato gli originali. Deflagranti. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2013)
Voto: 80

Mothercare - Chronicles of Ordinary Hatred

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Forbidden, Slayer
Dati per bolliti, imborghesiti o addirittura additati come "commercialotti", i veronesi Mothercare spazzano via ogni nube con una prova che conferma quanto di selvaggio già avevamo ascoltato nel precedente 'The Concreteness of Failure'. 'Chronicles of Ordinary Hatred' è il loro nuovo lavoro, costituito da sei tracce inedite e due cover, tra l'altro mica prese a caso: "Relics" dei Nasum e "Piss Angel" dei Pig Destroyer, ma andiamo con ordine. Il cd attacca con "Lingering Over the Tide to Float", song aperta dal suono del mare e dei gabbiani. Nella quiete eterea di quest'immagine romantica, irrompe furente il sound fragoroso dei nostri, che viaggia in bilico tra il death/thrash degli Slayer (anche a livello vocale) e alcuni frangenti (soprattutto nel finale) che potrebbero richiamare gli esordi dei Cynic, il tuo riletto in una chiave decisamente più estrema e a tratti originale. Sono un po' spiazzato lo ammetto. Provo pertanto a skippare alla successiva "Devouress (Part 1)" e altri suoni si materializzano nella mia mente. Ricordate Craig Locicero, frontman dei grandissimi Forbidden? Bene, non solo il vocalist, Simone Baldi, richiama un potenziale ibrido tra lo stesso Craig e il buon vecchio Tom Araya, ma la musica dei Mothercare scomoda quella delle due band californiane: riffoni belli grossi, ritmica selvaggia (bravo Marco Piran dietro le pelli che lavora in perfetta sinergia con Mauro Zavattieri alle percussioni) e un sound carico di groove a manetta, che si riflette anche nella seconda più breve parte del brano. Con "Bent to the Almighty" a venire scomodati questa volta sono i Pantera, complice un giro di chitarra che l'immortale Dimebag Darrell si sarebbe divertito nel proporre e alle vocals di Simone che ripropongono un Phil Anselmo in versione più raw. "La Stanza Dipinta Di Viola” è un bell'esercizio di percussioni, in cui l'eccezionale Sbibu (Farabrutto tra gli altri) dà un breve accenno della sua classe da jazzista avanguardista. Con "Venomous" si torna a picchiare su ritmiche death/thrash (ottima la sezione ritmica completata da Mirko Nosari e Rudy Pellizon alle chitarre e Jacopo Ravagnani al basso) e tra i guest questa volta appare Sebastian “CP” Platzer (Not To Save One’s Life – Kàla). E veniamo infine alle due cover e al perché della loro scelta: la furiosa “Relics” vuole essere un tributo al grande Mieszko Talarczyk dei Nasum, che perse la vita nello tsunami del dicembre 2004, Mieszko che fu guest vocals nel disco dei Mothercare, ‘Traumaturgic’. E per l'occasione, è proprio l'ex vocalist di quel disco, Guillermo Gonzales, a prendersi carico in modo spietato, delle vocals che furono del cantante polacco. "Piss Angel" invece è una perla di suoni old school da cui i nostri hanno tratto parte della loro ispirazione. Che dire, se non che i Mothercare sono in forma e incazzati più che mai... (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records - 2015)
Voto: 75

Pauwels - Elina

#PER CHI AMA: Math Rock/Noise, Hot Head Show
Mettiamo subito le cose in chiaro: questo non è post-rock. Non c’è un briciolo di malinconia, non c’è la tristezza cosmica di chi sublima riflessioni e sofferenze in lunghe cavalcate strumentali, non c’è quel senso di distacco, di inquietudine, di etereo respiro dell’universo. Questo disco è un concentrato di follia, di furioso e terrificante ottimismo, di incoscienza sotto acidi: è caos puro, imbrigliato in forma-canzone da cinque francesi psicopatici che suonano come rockabilly-punk strafatti di adrenalina. Gli Hot Head Show dell’istrionico Sean Copeland sono il primo riferimento che mi viene in mente, per via della costante tensione esplosiva tra le chitarre (potenti ma mai troppo distorte) e le ritmiche di batteria (singhiozzanti, veloci, dinamiche). Ma ci sono anche i Melvins di 'Houdini' nell’attacco groovy del basso in “Wig”; c’è qualcosa dei vecchi One Dimensional Man in “La Une”; immaginando un basso slappato al posto delle chitarre, è impossibile non sentire i Primus di 'Sailing the Seas of Cheese' nascosti dietro la splendida “Ouspenski” o dietro il continuo crescendo saltellante di “Pendule”. Il disco è giocato quasi esclusivamente su frequenze medio-alte, ma non fa affatto rimpiangere suoni più cupi: la botta in piena faccia qui non manca – sentite il marziale finale ipnotico di “Beelzebub” – e fa venire voglia di spogliarsi nudi e prendere a pugni i passanti ululando versi senza senso. Atmosfere, tempi, raddoppi, tonalità: niente è scontato con i Pauwels, che rendono tutto dispari, dissonante e imprevedibile con una spontaneità rara, sempre a metà tra il math-rock, il jazz, il rock’n’roll vecchia maniera e il punk-noise. La produzione, intelligentissima, lascia il giusto spazio ad ogni strumento, creando una bella sensazione di presenza schizofrenica ma molto naturale, grazie anche ad un leggero white noise onnipresente nelle pause tra i brani. Un’ultima parola per l’artwork: 300 pezzi numerati per un packaging di gran classe, un pieghevole su cui si sviluppa un’inquietante illustrazione che racchiude riferimenti esoterici (volti, insetti, polipi, figure antropomorfe, corpi dissezionati – c’è persino Chtulhu) ispirati allo scrittore dell’occulto Louis Pauwels. Un disco che segna un nuovo capitolo nel genere: assolutamente imperdibile. (Stefano Torregrossa)

(October Tone - 2015)
Voto: 90

The Pit Tips

Larry Best

Accept - Blind Rage
Christopher Lee - Omens of Death
Cruachan - Blood for the Blood God

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Kent

Jesu - Conqueror
Sunn O))/Ulver - Terrestrial
Ahab - The Call Of The Wretched Sea

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Claudio Catena

Ufomammut - Ecate
Judas Priest - Screaming for Vengeance
Extrema - The Positive Pressure (of Injustice)

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Roberto Alba

Dødheimsgard - A Umbra Omega
Enslaved - In Times
Caronte - Church of Shamanic Goetia

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Francesco Scarci

Enslaved - In Times
Negura Bunget - Tau
Dawn of a Dark Age - The Six Elements, vol​.​2

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Yener Ozturk

Neurosis - Through Silver & Blood
Overkill - White Devil Armory
Gorod - Process of a New Decline

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Michele "Mik" Montanari

Limerick - S/t
Stoned Jesus - The Harvest
My Home on Trees - EP

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Don Anelli

Death Karma - The History of Death and Burial Rites, Part I
DeadlySins - Anticlockwise
Dødheimsgard - A Umbra Omega


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Stefano Torregrossa

Shining - Blackjazz
Conan - Blood Eagle
Electric Wizard - Time To Die

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Bob Stoner

Therapy? Disquiet
Kontinuum - Kyrr
Pop Group - Citizen Zombie

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Philippe Perez

Various Artists - Feral Media: Strain of Origin IV
Golden Blonde - GWAN
Teamwork - Teamwork

martedì 7 aprile 2015

Ilydaen - Maze

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Math
L’album dei Ilydaen parte carburato con scorrerie elettriche descritte da chitarre imperiose. Il ritmo è sostenuto e ci dà appena il tempo di battezzare questa prima traccia, “Lux”. Il secondo brano, “1/121”, apre danze vagamente metalliche contigue alle musicalità casuali del primo pezzo. Assecondate le vostre luci psichedeliche continuando a ballare ipnotizzati da questa fonte elettronica di suoni, a tratti percorsa da una voce, in cui si sentono corde vocali vibranti alla carta vetro. Ci imbattiamo in un growl improvvisato e tutt’altro che peculiare. Rimaniamo entro le mura di una discoteca per pochi intimi amanti dell’elettronica annulla neuroni. Si. Perché le intenzioni di “Curves & Saeptums”, sono quanto mai bellicose verso la consapevolezza del domani. Andiamo alla prossima traccia, ma sembra di viaggiare a ritroso. Un ticchettare di chitarra che lentamente si fonde al piatto della batteria, ci introduce a questa “Argon Walls”. Ora il nostro terzetto belga reitera sonorità da colonna sonora di film anni ’90, già sentite, stucchevoli. Con “Breach” si cerca una redenzione alle premesse poco incoraggianti. Ma, nulla di fatto, perchè la ripetitività meccanica di queste pseudo note, annoia. Anche l’estensione del volume è inefficace al migliorarne le percezioni uditive. Il tedio, vince sulla musica. Con fatica e fiducia metto on air la prossima traccia,“Quandary”. Ma la speranza, a volte è il marciapiede della delusione. Poco cambia infatti rispetto al fotocopiare sonorità ed effetti elettronici dei brani precedenti. La voce che emerge come un’ombra tra alberi rinsecchiti, nel mezzo di questa sound, non solo non fa la differenza, ma conferma l’impersonalità dell'album. Per la prima volta, anziché arrivare alla fine in cuffia, affido al vostro giudizio, “Sokkole”, “Deadalus”, “Shelter”. Credo si debba ritentare. Poiché non sempre la fortuna aiuta gli audaci. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 55

Offerstigen – Drankt/Genomsyrad

#PER CHI AMA: Sludge, Crust, Ahna, Graves At Sea, 
In tutta sincerità non ero per nulla fiducioso sulla qualità di questo disco in quanto la sua presentazione, in una semplice busta e un paio di fogli di carta stampati, presagivano l'ennesima produzione punk DIY di scarsa qualità, poca creatività e e forse eccessiva voglia di far musica, qualunque essa sia. L'“Intro” non sfata decisamente questo mio pensiero ed anzi mi fa dubitare sulle reali intenzioni dei nostri Offerstigen, ma ai primi secondi di “Ytvandrarna” accolgo con stupore e piacevolezza la via intrapresa dal duo svedese: riff funerari e distorti al massimo, voce straziante, un drumming cadenzato che a tratti sfocia in fulminei blast beats. Una soluzione musicale minimalista ma oltremodo efficace, resa ancor più convincente da cori in sottofondo. “Celest – Saknad” perde mordente a causa della chitarra che dedica troppo spazio a soluzioni melodiche, le quali stonano leggermente con la linea principale, mentre la successiva “Forstor Allt” riesce a valorizzare una vena melancolica che pare rimembrare gli Skepticism, riportando il lavoro su livelli qualitativi della seconda traccia. Il dischetto si chiude con un'ennesima sorpresa: “Utro” è probabilmente la traccia migliore del disco da un punto di vista creativo ed emozionale, tanto che potrebbe risultare una bonus track degli Ulver o dei Bohren, lasciando al termine dell'ascolto, un forte desiderio che la musica continui. Punto debole del lavoro è la parziale estromissione delle basse frequenze che rendono il suono magro seppur tagliente; la produzione per un lavoro autoprodotto come questo è sufficiente (anche se in alcuni punti la batteria ha dei cali a livello dei volumi) regalando quella sensazione di musica viscerale e senza compromessi. Per questo progetto ora mi sono creato reali aspettative, e sarei pertanto molto curioso di vederli dal vivo. (Kent)

(Self - 2014)
Voto: 70

Corbeaux - Hit the Head

#PER CHI AMA: Post-rock/Alternative, Cult of Luna, Pelican, The Ocean 
Primo: il disco è masterizzato dal grande Magnus Lindberg, l’uomo dietro i Cult of Luna – e si sente. Secondo: il packaging è piacevole e curato, pur mancando di un booklet. Terzo: è post-rock strumentale, d’accordo, ma il quartetto francese al primo full lenght (dopo un EP nel 2011 e uno split CD nel 2012) sprizza personalità da tutti i pori. Si sente l’influenza di Cult of Luna e Pelican, ma ci sono anche i The Ocean, qualcosa di Mogwai e molto altro ancora. I Corbeaux suonano da dio, curando le dinamiche con grazia ma senza disdegnare distorsioni sporche e suoni grezzi: il disco è suonato davvero, è molto analogico e caldo sia nei suoni che nella tecnica. Apre le danze “Cran d’Arret” – l’unico brano, con “Ezimpurkor”, a superare i 7 minuti – con un riff dispari che condurrà lungo tutta la canzone. Il brano prima esplode, e poi definitivamente deflagra intorno ai 3 min in uno splendido bridge in controtempo con un inquietante bending di chitarra: da antologia, uno dei momenti migliori del disco. “La Bagarre” mi ha ricordato in certi passaggi gli Helmet più noise nei giochi delle chitarre e nella batteria tiratissima. “7th Avenue” si muove eterea ed inquietante tra arpeggio e tastiere, evocando abbandonati paesaggi post-urbani come in una perfetta colonna sonora. Con “Sur Un Fil” si torna alle ritmiche aggressive che mi hanno ricordato alcuni lavori Pelican: il basso (sentite che suono, perfetto!) in primo piano tiene il tempo per tutta la prima parte, per poi lasciare spazio alle oscure pennellate di chitarre nel resto del brano. Splendidi gli scambi forte/piano in “Where Is Dave”, che presto evolve in un ambient ispiratissimo fino alla reprise finale. Conclude il disco “Ezimpurkor”, l’altro gioiello di 'Hit the Head': è il brano più lungo, e i Corbeaux ne approfittano per riassumere un po’ tutta la loro visione: diversi livelli, emozioni, velocità, riff, atmosfere – tutto è mescolato in un brano schizofrenico e a tratti ipnotico (come nel lungo bridge intorno ai 5 min), e contiene l’unica parte cantata dell’intero lavoro: una disperata melodia urlata che si staglia come una perla nel nero mare strumentale del disco: la chiusura ideale di un cerchio. Un bel lavoro, premiato da una produzione praticamente perfetta, scritto e suonato con gusto, precisione, eleganza e idee. Non c’è nulla di spaventosamente innovativo, intendiamoci: ma se questo non è il futuro del post-rock, è senz’altro una delle migliori visioni sul suo presente. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80

giovedì 2 aprile 2015

The Owl of Minerva - Bright Things Turn Gray

#PER CHI AMA: Dark/Alternative, Tool, Katatonia
Ne avevamo saggiato le potenzialità già nel 2013, quando incontrai la band a Milano a un concerto e mi lasciò un promo di quattro pezzi. Sto parlando degli Owl of Minerva, band formatasi nel 2008, originaria di Padova, di cui da sempre si parla un gran bene. E allora andiamo a tastare il polso dell'act patavino, alla scoperta del tanto atteso debut album, 'Bright Things Turn Gray'. Il platter consta di dieci pezzi che si aprono con il sound decadente di "Crown of Gold" che mi ha fatto immediatamente pensare ad un altro esordio di qualche anno fa, quello dei Klimt 1918. E il sound degli Owl of Minerva per certi è accostabile a quello della band romana: atmosfere decadenti inserite in un contesto alternative che a più riprese richiama il sound dei Tool in salsa "katatonica". Il nostro quartetto non si limita a ripetere la lezioncina dei soli maestri americani, ma prova a rileggere il tutto sotto una luce diversa, alla ricerca di una propria direzione in cui mostrare la propria personalità, che in più punti sembra davvero emergere. Se nella prima traccia, è anche l'anima di Maynard e soci a venire a galla, nella successiva e più meditativa "Distance" è un mix di sonorità nordiche che echeggiano nelle note dei nostri. Penso ai Warm of the Sun o ai The Isolation Process, bands che probabilmente i nostri Owl of Minerva non conosco neppure, ma che per chi legge ed è ben edotto, potrebbe essere invece un buon punto di riferimento. Con “Bag of Stones” ci avviciniamo al sound dei Deftones, per le sue saturazioni ritmiche e per quel cantato che talvolta rischia di essere il punto di debolezza dei nostri. "Sender" è una song apparentemente tonante (almeno per la pesantezza delle ritmiche) che tuttavia si muove sul binario di un mid-tempo melodico, il cui unico punto debole è rappresentato dalle urla del vocalist, che peraltro in questa traccia sfodera, almeno per un secondo, un growling selvaggio. "The Kite" è una traccia che parte piano, ma poi va ad irrobustirsi, offrendo una prova più convincente dell'ensemble veneto, attestandosi su influenze più vicine ai Katatonia. Le melodie di 'Bright Things Turn Gray' si confermano interessanti per l'intera durata del disco, e questo vale anche per "House of Birds Gone Mad", song ammiccante che prosegue sulla linea tracciata dalle precedenti, con il dualismo spiccato tra il robusto riffing portante della chitarra ritmica, su cui va a schiantarsi quello della lead guitar che si diverte in fraseggi acustici molto spesso assai ruffiani, un po' sulla scia di quanto fatto dagli Amorphis o dagli svedesi Sarcasm (con gli Owl of Minerva decisamente più depotenziati). Il disco ci accompagnerà con questa vena fino alla sua conclusione, passando tra l'acustica tribalità di "Your City by the Snow" e la tenue "The Lake" (song piuttosto anonima per lunghi tratti, a dire il vero), fino alle conclusive "The Well", traccia che sembra ancora richiamare sonorità nu metal/alternative per giungere alle pulsazioni frastornanti della title track. 'Bright Things Turn Gray' alla fine si dimostra un lavoro dotato di una certa caratura, ricco di sfumature, ritmi e sonorità dalla matrice sperimentale, assolutamente apprezzabile a volume e non. Ora vi attendo per l'intervista radiofonica. (Francesco Scarci)

(Jetglow Recordings - 2015)
Voto: 75

mercoledì 1 aprile 2015

Inexorable - Morte Sola

#FOR FANS OF: Technical Death Metal, Gorguts, Immolation
Making it to their second EP, this release from the German act bearing the name Inexorable is quite a blend of Technical and traditional Death Metal. The technical side of the band is a bit more avant-garde than the usual assortment of bands in the genre as there’s a heavy swarm of Gorguts-styled sweeping riff-patterns that contain all manners of off-beat, discordant patterns. These creates a discomforting feeling throughout the album by still featuring the more nominal style of riff-work found in Technical Death Metal of wanking lead rhythms and swirling, dazzling riff-work fueled by complex, dynamic arrangements dive-bombing throughout the music, yet when all of this is put alongside the darkened atmosphere it leaves a rather disorienting experience. By featuring these rather unfamiliar elements together in terms of mixing highly-complex and technical work alongside simplistic arrangements that evokes a darker, rawer tone with the kind of atmosphere that’s hardly been used by the genre as this type of atmosphere is more in-line with traditional Death Metal acts. As the clanking, raw drum-tone accompanying this also generates, there’s an even more pronounced feeling of the dirty, guttural qualities that make for an overall impressive-seeming mixture. While this makes for an intriguing listen, it also leaves an incredibly disjointed feeling overall as there’s never really any focal point in the music. Whether it’s the rather impressive technical chops on display or the primordial atmosphere present, one of these matters should be the main mark of the band yet each one manages to undercut the other. By having this drip with a dark evil atmosphere, it really drowns out the technicality by turning it into a thick, muddy mess which lets the technicality get overshadowed into these darker sections, and likewise the technicality manages to distract from the atmosphere with all sorts of wanking and dive-bombing throughout in incredibly discordant patterns so it inevitably loses the attempts at creating those harsher rhythms. If these issues can be solved, the band could be onto something here as the music itself isn’t band. Intro ‘Praeludium Mortis’ is all eerie and discordant riffs that charge along with build-up drumming and dark vocals into an ominous start. Proper first song ‘Pantheon's Demise’ has a fine technical display dive-bombing through the varying tempo changes fueled by those discordant riffs, raging patterns and dexterous drumming which makes for a rather impressive showing here. Likewise, ‘Disenthrallment’ is all charging patterns, swirling leads and discordant riffs before blasting through the finale for an even more impressive effort. ‘Media Vita’ is all complex blasting through a more mid-tempo offering that offers deep chugging along the discordant riff-work drops off for a pounding finale that is a bit blander than the rest of the songs as that mid-section isn’t all that interesting. Easing off the speed, ‘In Morte Sumus’ utilizes the angular, discordant riff-patterns and rather laid-back atmospheres with the occasional complex patterns bursting through the sprawling paces which makes for an overall decent offering. Finally, ‘Futility’ sweeps all notions of technicality for utterly frantic patterns, battering drumming and tight chugging before being swept aside further for meandering, pointless minutes of discordant fade-out noise which leaves this quite frustrating and puzzling. Otherwise, this one does have some room to work with but does have some flaws within. (Don Anelli)

(Self - 2013)
Score: 70

Hands of Orlac - I Figli del Crepuscolo

#PER CHI AMA: Doom Rock, Mercyful Fate, Candlemass, Black Sabbath
Ispirati all'omonima pellicola horror del 1924, gli italo-svedesi Hands of Orloc, fanno uscire il loro secondo LP a distanza di tre anni dal disco che gli diede un po' di visibilità. Il five-piece (in parte) nostrano torna con un album nuovo di zecca che esce per l'etichetta danese Horror Records in compartecipazione con la Terror From Hell Records. La proposta di questo mistico 'I Figli del Crepuscolo' non si muove poi di troppo rispetto al precedente lavoro, offrendo un sound all'insegna dell'esoteric doom rock, che rompe il ghiaccio della solita intro, con "Last Fatal Drop". E qui si inizia ad apprezzare alla grande il sound di questi misteriosi ragazzi che con una ritmica non troppo sofisticata, danno inizio alle loro danze diaboliche. Fin qui però nulla di trascendentale: dopo un minuto, gli arrangiamenti si fanno più interessanti grazie ad una splendida melodia di flauto e alle impetuose vocals di Ginevra (aka The Sorceress), che si collocano su delle linee di chitarra che richiamano suoni prog rock dai tratti palesemente seventies. Chitarre che sul finire del pezzo si prenderanno la scena, scatenando una tempesta magnetica di fluttuanti melodie cosmiche, per un risultato da brividi. L'impatto con la band è certamente dei migliori. "Burning" sembra essere sospinta da un impulso stoner, ma è solo apparenza, perchè gli Hands of Orlac si lanciano in psichedelici fraseggi che si muovono tra il doom dei Black Sabbath e sfuriate tipicamente metal, in cui trovano posto le vocals spettrali della cantante e l'immancabile suono del flauto. Ma il flusso sonoro dell'ensemble è in costante evoluzione: non pensate di trovare lo stesso arpeggio o lo stesso accordo per più di qualche secondo perché le atmosfere sono assai mutevoli nell'arco di questo disco. Ancora una citazione cinematografica all'inizio (e poi alla fine) di "A Coin in the Heart" con un pezzo di dialogo estrapolato da "Operazione Paura" di Mario Bava (1966) con le chitarre che irrompono citando i primi Iron Maiden. La song prosegue poi lungo i binari sin qui percorsi dai nostri, mostrando i notevoli punti di forza della band: le atmosfere criptiche da film horror anni '60 che si miscelano con stralci progressivi e fughe di flauto a la Jethro Tull. Quello che magari faccio più fatica a digerire è la voce della "sacerdotessa", troppo pulita e un po' priva di personalità. Per molti di voi che apprezzano la band sin dagli esordi, questa mia affermazione potrebbe risuonare nell'aria come una bestemmia, ma sinceramente una voce maschile, un po' più carismatica, avrebbe giovato maggiormente nel mio giudizio globale. Le tracce rimanenti, "Noctua" e "A Ghost Story", confermano quanto di buono fatto sin qui dal combo italo-scandinavo, grazie alle ottime doti individuali dei due chitarristi che sciorinano riffoni profondi e assoli stentorei, mentre Jens Rasmussen (aka The Clairvoyant), si mostra come un batterista preparato ed eclettico sia su velocità sostenute che più rilassate. La conclusiva "Mill of the Stone Women" aperta da un altro spezzone di film degli anni '60, "Il Mulino delle Donne di Pietra", garantisce altri sette minuti di matrice occult doom che sicuramente farà la gioia di tutti gli amanti del genere rock. Pollice alto per questa ottima formazione dal sicuro avvenire. (Francesco Scarci)

(Terror From Hell Records/Horror Records - 2014)
Voto: 80

martedì 31 marzo 2015

The Raven King - Red

#PER CHI AMA: Death/Doom
Giunge in una limitata edizione cartonata (100 copie) questo primo lavoro dei The Raven King, band di Gran Canaria la cui musica sembra riprendere gli stilemi di un death/doom profondamente mancante di oscurità, nebbia e solitudine. La produzione prevede suoni estremamente limpidi e brillanti, su tutti si notano le chitarre educatamente distorte le quali danno, insieme alla struttura compositiva alquanto basilare, un'impronta sonora tendente al rock, dirigendosi verso la strada intrapresa da alcuni gruppi del sopracitato genere della seconda metà degli anni '90. La prima “I, Bringer Of Death” ha una sconfortante partenza in quanto per i suoi quasi nove minuti è largamente monopolizzata da un riff anonimo, capace quasi di recare fastidio per la sua prolissa ridondanza, mentre le vocals di Eduardo Rodriguez ringhiano che è un piacere. Nella successiva “Walls Of Flesh” le idee si rivelano già più apprezzabili anche se non scompare quella estrema semplicità compositiva già evidenziata nella opening track, virando il sound maggiormente verso passaggi “tradizionali” in chiave doom classico e ove compare anche un notevole intermezzo atmosferico. Si ha il proverbiale cambio di passo con la terza “Black Light, Red Death”, song incentrata su una placida atmosfera che progredisce ossessivamente culminando in un trascinante riff ripetitivo. Forse la traccia più riuscita del disco, capace di combinare in modo equo, seppur ancora embrionale, le varie idee del gruppo. La chiusura affidata a “The World in His Eyes”, consiste in una traccia, a mio avviso molto piacevole, che vede protagonista una solitaria chitarra che affronta, con un mesto arpeggiare, il compito di dare degna sepoltura al Re Corvo. Complessivamente l'opera mostra una leggera verve malinconica che va più ampiamente esplorata, che si va ad unire a un doom tendente al death in cui fanno capolino anche sprazzi di post metal e alternative. Un patchwork di sonorità non ancora del tutto sviluppate da un punto di vista compositivo, che lasciano ancora un alone di immaturità sul gruppo. (Kent)

(Self - 2014)
Voto: 60

sabato 28 marzo 2015

Orden Ogan - Ravenhead

#FOR FANS OF: Heavy/Power, Grave Digger, Running Wild
Along with the likes of Sabaton, Mystic Prophecy, Blind Guardian, Firewind et al. German powerhouses Orden Ogan have been leading the march of European power metal acts who shun the uber-melodic methods of more light-hearted bands like Freedom Call or Power Quest. Instead, they favour a more direct kick-to-the-throat barrage of heavy riffage within their huge timbre. Orden Ogan have been gradually darkening and beefing up their sound throughout their first 4 albums (previous effort 'To The End' being an apparent peak), but the Teutonic quartet may have hit a creative pinnacle with the epic 'Ravenhead'. I may have fibbed slightly up there; Orden Ogan don't really 'shun' melodic methods. In fact, the melodies woven throughout 'Ravenhead' are some of the finest the genre has ever produced. Each chorus will implant itself in your head after only one listen, and in some cases, chill your spine with the sheer beauty of the intervals between each note (the chorus of "The Lake" being particularly noteworthy). However, they differ from the typical euro-power Helloween clones by employing their arsenal of hefty, grinding riffs which are, at some points, heavier than cannonfire. The middle section of "F.E.V.E.R." and the first twenty seconds of previously-mentioned "The Lake" are enough to snap your neck. The key essence that makes this album so addictive, is the epic male choir which is never underused or ignored. This has been an essential characteristic of Orden Ogan since their very first album, and it has only gotten more impressive and majestic. It turns every chorus into an absolute highlight, as opposed to a repetitive refrain. The production contributes to this element, bringing the choirs to the forefront of the mix, whilst backing it up with a rumbling and colossal bass/drum combination. This album revels in a dark mood and depressing atmosphere, despite the triumphant tone of the choruses. This could be due to the lyrics, the grim but brilliant artwork, or maybe the ever-improving broody vocals of Seeb. But certainly, the closing track "Too Soon" is sure to wash over you with a beautiful sense of melancholy. I think it's important to immerse yourself in the bleak atmosphere 'Ravenhead' emanates, using the powerful melodies and heroic choruses as lamps in the darkness. The only moderately minor qualm about this new release, is that they didn't quite make enough of their name's sake. The intro, as it is named after the band itself, should have been huge - though the theme it expresses is repeated in the following title-track, which is a lovely touch. There's no such thing as a less-than-brilliant Orden Ogan album. "Easton Hope" buffed up the heaviness, "To The End" coated their sound in ice, now 'Ravenhead' brings it to a magnificent peak. The twin guitar attacks are mesmerising, the riffs are hard-hitting, the choirs are massive and "The Lake" is power metal song of the month! Germany does it again. "In the light of a midnight sky, I have found one good reason to die. Take me down to the quiet place, In the lake, where she sleeps in grace..." (Larry Best)

(AFM Records - 2015)
Score: 90

https://www.facebook.com/ORDENOGAN

mercoledì 25 marzo 2015

Volahn - Aq'Ab'Al

#FOR FANS OF: Black Metal, Gorgoroth, Nargaroth
Sometimes you come across a band that based on sheer ingenuity and creativity alone it demands your attention, not just because of the general musicianship or talent involved but more for curiosity sake which is what’s going on here in these California-based Black Metal warriors’ second release. While on the surface it would seem to be a rudimentary raw Black Metal release, however a closer look at the bands’ efforts reveals them to be completely focused and intent on ancient Aztec society for both lyrical inspiration and sonic accents. A similar approach is taken with Nile and Ancient Egypt or Melechesh and Mesopotamia, and the results here are just as inviting since not only is it an untapped source of inspiration that makes the choice quite innovative but also because the subject matter is distinctly relevant to the music on hand with potentially scores of works to be created that delve deep into such sources. Mind you, all this doesn’t serve as a way to avoid mentioning the music on display for anyone with even basic knowledge of Aztec society knows that a vicious, violent attack is necessary to convey that society properly and it is delivered here in spades. Vicious, jagged tremolo-picked riff-work for the main attacks stand alongside ambient, atmospheric droning that accounts for more direct lyrical passages and sampled effects that clearly demonstrate this facet of their sound quite clearly with this making for a combined whole here in raw, blasting Black Metal with native touches and accents, which is topped off with wholly destructive drumming and rabid vocals. Finally, add in the ethereally keyboards into the appropriate sections and some fine spoken-word snippets that conveys their story rather well, overall this becomes quite a stellar package. True, the raw low-fi production here might be somewhat too harsh for those to take but that’s the way the game is played with this being no exception to that rule at all with the static hiss blaring through at several opportunities and the bass being non-existent to the point of it being questionable as for if it was even on the album to begin with. Still, this one isn’t all that bad at all as intro 'Najtir Ichik' starts this off immediately with scorching tremolo-picked riffing and furious drumming whipping through up-tempo passages with delirious melodies flowing through the blistering tempos full of violent, angular rhythms for a violent and dynamic but slightly overlong introduction. 'Halhi K'ohba' again features unrelenting drumming and furious blasting through a frenzied series of riffing with tremolo-styled rhythms and furious, blasting drum-work for a more chaotic, condensed and therefore more enjoyable effort, while 'Bonampak' gets more out of its swirling tremolo riffing with a strong series of raw-edged blasting and nimble rhythm variations that feature rabid pace changes and dynamic atmospherics into the chaos that makes for a surprisingly enjoyable epic offering. A slightly-more experimental take on their trademark sound, 'Quetzalcoatl' attempts to use melody in their riffing for the first time which is quite nice considering the raw production really does a number on this style of music, but the chaotic blasting, mournful wailing and ardent attempts at producing actual riffs make for another surprisingly enjoyable if somewhat overlong track. 'Koyopa' changes that up by being the album’s most intense and unrelenting track with raging drum-blasting and intense rhythms with the furious tremolo melodies flourishing in the chaos with an unrelenting charge throughout that makes for a truly nonstop assault and is the albums’ quintessential highlight piece. Somewhat expectedly, 'Nawalik' uses furious blasting and scorching guitar-work with technical melodic injections within the unrelenting frenzy of the drumming blasting for an appropriately cacophonic finish to this. For the most part, this one is just a tad too overlong at times as some of the arrangements could’ve been trimmed by a minute or two so it’s not wandering around so much but for the most part this is a thoroughly enjoyable, violent release just the way the Aztecs would’ve wanted it. (Don Anelli)

(Crepúsculo Negro - 2015)
Score: 85