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domenica 7 aprile 2013

Il Buio - L’Oceano Quieto

#PER CHI AMA: Punk, Post Hardcore
Il buio ci circonda, il buio non ha voce se non quella della paura. Ma il Buio grida, scalpita, proclama e non lascia indifferenti. Quest'ultima versione affascina di più, credetemi. Il nuovo filone del cantautorato italiano lo vedo così, fresco, impegnato e che sputa parole e poesia moderna. Rispetto al precedente album (di cui custodisco gelosamente lo stupendo vinile colorato), "L' Oceano Quieto" è più maturo, curato e con delle scelte sonore che confermano il loro stile. Ogni singola traccia, arrangiamento e nota, trasuda la duplicità dell' essere umano che combatte tra speranza e rassegnazione, amore e odio. Quello che mi colpisce de Il Buio è la complessità degli arrangiamenti e dei ritmi che si scontrano con il suono, scarno e minimalista quasi a sottolineare che un concetto detto senza fronzoli arriva meglio a chi l'ascolta. Velocità e botta sonora sono sempre dietro l'angolo: "Marionette" inizia brutalmente e corre vertiginosamente per tre minuti abbondanti con la struttura che contraddistingue il Buio, poi stacca e si conclude in una lunga introspezione finale che viene condotta da un bel riff di chitarra che rasenta l'acidità assoluta in quanto a suono. "Da che Parte State" è il primo singolo e video del LP, scelta attenta che conferma il desiderio del gruppo di voler essere conosciuto e apprezzato per la nuova vena artistica, forse più quieta rispetto ai lavori precedenti, ma potente nelle parole. Questa evoluzione è paragonabile a quella di gruppi storici che nel corso degli anni (e diversi album) hanno lasciato che i riff arrabbiati venissero sostituiti da potenti versi e idee brucianti. State attenti, se ascoltate questo cd con il cuore e non solo con la mente, rischiate di sentirvi vivi e vogliosi di rialzare il capo per iniziare a pensare da soli, per poi agire. “Burn Thiene Burn”, brucia le vecchie idee e risorgi dalla ceneri a nuova vita. Che questo possa essere contagiosi e dilaghi il più rapidamente possibile. Il plettro sfiora le corda per l'ultima nota e cala il sipario su questo bell'album. (Michele Montanari)

Cortez - Phoebus

#PER CHI AMA: Post-hardcore, Math, Dillinger Escape Plan, Converge
Anche se non ho fatto il liceo classico, da bambino ho trascorso tante ore sulle pagine de “La vita è meravigliosa” l’enciclopedia di mia mamma, che narrava con splendide illustrazioni le vicende della mitologia greca (infanzia triste, ne convengo), per cui una cosa la so: Phoebus è l’altro nome del dio Apollo, la personificazione del sole. Quale contrasto più grande tra il titolo dell’opera e la sua copertina, peraltro specchio fedele dell’atmosfera plumbea dipinta (con un solo colore, rigorosamente il nero) dal suono pesantissimo di questo trio svizzero, che affonda le sue radici nel feroce post-hardcore di tipi poco raccomandabili quali Dillinger Escape Plan e Converge, di cui i Cortez paiono quasi una versione europea. Alla fine dei 7 minuti e mezzo di “Temps Mort”, il pezzo di apertura, pensavo di avere trovato uno dei dischi dell’anno: un incedere minaccioso e inesorabile, un crescendo di chitarre e ritmiche serrate ma dall’approccio molto free, che poi ti arrivano addosso travolgendoti come una valanga di neve e ghiaccio. Quasi una versione 2013 di quel capolavoro immortale di “New Day Rising” degli Husker Dü. Purtroppo però, in un certo senso, le sorprese finiscono qui, e il resto del programma non riesce a mantenere del tutto quanto promesso. Chiarisco subito, a scanso di equivoci, che i tre ci sanno fare, e anche parecchio, e che ogni traccia produce più o meno l’effetto che otterreste a posizionarvi davanti al motore di un Boeing 747, ma il punto è proprio questo: la prima volta ti rialzi cercando di capire cosa ti ha colpito, la seconda pure, la terza ti pianti bene sulle gambe e pensi “Cazzo, che botta”, la quarta inizi a sapere cosa aspettarti e poi sei lì che ti sorprendi a pensare “ok, bello, ma poi?”. Il punto non è certo la qualità dei brani, che presi singolarmente sono quasi tutti molto validi (alcuni più di altri, oltre alla già citata “Temps Mort”, la tortuosa “Arrogants Que Nous Sommes” e la ferocissima “Un Lendemain Sans Chaines…”), ma proprio una certa ripetitività che si fa strada con l’andare dei minuti, la chitarra macina riff che non brillano per originalità, la ritmica rimane sempre sparatissima senza accennare a tirare mai il fiato e la manopola dei volumi costantemente sull’undici. L’altra (parziale) variazione sul tema è quella della conclusiva “Borellia”, con i suoi muri rumoristi e le reiterazioni ossessive che sfociano in un maelstrom noise davvero apocalittico. E proprio le qualità intraviste nei due brani di apertura e chiusura sono il motivo per cui ci si ritrova alla fine con un senso amaro in bocca, di occasione non del tutto sfruttata. Sarebbe bastato forse qualche intermezzo, qualche alternanza tra piano e forte, qualche oasi di relativa calma a far sì che quella scatenata dai ginevrini fosse davvero la tempesta perfetta. (Mauro Catena)

(Throatruiner Records)
Voto: 70

http://cortez.bandcamp.com

sabato 6 aprile 2013

Myraeth - In Glorious Death

#PER CHI AMA: Gothic Doom, Tristania, Trail of Tears, Draconian, My Dying Bride
Avrei potuto recensirlo assai prima questo lavoro se solo il cd inviatomi dalla band di Sydney, fosse stato leggibile, ma niente da fare: bella la tenebrosa cover cd, ma della musica nessuna traccia. E allora, sfruttando un’ottima connessione internet (quella di casa mia è di una lentezza disarmante), procedo con la recensione direttamente dal sito bandcamp dell’act oceanico (che non venga in mente a nessun altro ora di farmi questo tipo di richiesta). E dal sito della band prendo spunto per qualche notizia con cui rimpolpare questo mio scritto. Partiamo dal dire che oltre che la produzione ai Brain Studio di Sydney, la masterizzazione del disco è stata fatta ai famosi Fascination Street Studio di Orebro in Svezia (gli studios dove hanno registrato Katatonia, Soilwork e Amon Amarth, mica gli ultimi pivellini), questo a dimostrazione che la band tiene molto al proprio lavoro e si sente. Poi quando è la musica a dire la propria, quello che passa immediatamente all’orecchio è quel meraviglioso violino che con le sue arcane e gotiche melodie, si va a stagliare fin da subito nella mia testa. Metteteci poi le soavi voce di una gentile donzella e “Monarch” è servita: un piatto di succulento gothic death di altri tempi, che farà la gioia di tutti coloro che si cibano di Tristania, Trail of Tears e compagnia bella. Non conoscessi la provenienza del combo australiano, avrei sicuramente pensato alla Norvegia come nazione di origine dei nostri, anche per il loro fantasioso monicker. Invece è l’assolata Sydney a dare i natali ai Myraeth e devo ammettere con somma soddisfazione, che quanto venuto fuori, oltre ad essere di eccellente fattura, si pone addirittura davanti a quanto prodotto ultimamente dai cosiddetti maestri nordici. Quando poi è “Confession” a partire e il melanconico violino a occupare la scena, lo spettro dei My Dying Bride, si manifesta sulle teste dei nostri e la vena doom emerge prepotentemente nelle corde del quintetto del New South Wales. La voce di Samantha (tra l’altro responsabile anche di tastiera e violino) conquista la scena, e assurge a ruolo di protagonista e non più di comprimaria del growling animalesco del buon Ryan (che in “Driftwood” sfiora addirittura lo screaming). Certo, come si suol dire, non è tutto oro quel che luccica, “Mythology” è un pezzo sentito una marea di volte, in cui anche un che dei primi Lacuna Coil viene fuori dalle note di questo brano. Per dire che “In Glorious Death” per quanto sia buono, non splende decisamente di luce propria, in un genere che ha detto tutto o quasi e che sta sparando le sue ultime cartucce (a tal proposito attendo con ansia le ultime release proprio di Tristania e Trail of Tears, per capire se decretarlo definitivamente morto oppure dare ancora una possibilità di rivitalizzazione, staremo a sentire). Nel frattempo i Myraeth continuano a deliziarci con la loro proposta che qua e là, da vari generi e band (in ultimo citerei anche Draconian e i primi Anathema), finisce per pescarne a piene mani, offrendoci alla fine un lavoro decisamente derivativo, ma che comunque si lascia piacevolmente ascoltare, le sue melodie immagazzinare nella mente e alla fine anche appisolarmi sulle dolci note di questo “In Glorious Death”. Come opera prima (se escludiamo l’EP di debutto), devo dire affatto niente male. Ottimo il songwriting, cosi come la prova di tutti i musicisti; cercherei ora di migliorare l’originalità della proposta per evitare di cadere nel sentito e risentito, come spesso accade durante l’ascolto di questa release. Le potenzialità per migliorare ci sono, ai Myraeth ora la palla. (Francesco Scarci)

venerdì 5 aprile 2013

Declan Berdella - Indigo

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali 
Gli Expedición a las Estrellas sono una band messicana dedita ad un post rock/hardcore che mi è ormai entrata nel cuore; Declan Bertella è il chitarrista di questa band, che lo scorso anno, in attesa di dar la luce al nuovo lavoro dei EALE, ha pensato bene di uscire con un qualcosa di strano e assai interessante/intrigante. Già dall’intro infatti è possibile intuire che non ci troviamo di fronte a nulla di cosi scontato, un qualcosa di non cosi facile presa e catalogazione. Un carillon apre la seconda energica traccia, “Transmutacion” (dove compaiono tra l'altro un paio di ospiti di EALE e Dervans), che ha un qualcosa del thrash anni ’90 dei nostrani Alligator e IN.SI.DIA. che ben si miscela con sonorità più attuali e post- qualcosa, che non so e non oso definire. Ormai troppo sottili i confini che dividono le sonorità post da qualunque altro genere, e per questo preferisco non sbilanciarmi; e faccio bene, visto che nel mezzo della song, il bravo Declan cede ad un intermezzo ambient, in cui le chitarre quando ripartono, hanno un feeling al limite del depressive. Poi è un po’ l’imprevedibilità a prendere il sopravvento con il thrash che si fonde a ritmi sudamericani. Un drumming deliberatamente cibernetico domina la troppo sintetica e “ataristica” “Feed Them to the Lions”. La marcescenza di “Jose Saenz” irrompe e dopo cinque tracce non mi è ben chiaro se la musica che sto ascoltando sia dello stesso artista o sia il risultato di un collage di più band, comunque la song è oscura e minacciosa, con un finale in cui compaiono anche degli archi e una verve che si rifà ai The Ocean. A Declan piace disorientare l’ascoltatore non c’è dubbio, e lo si evince dai suoni di chitarra che adotta in un brano, piuttosto che in un altro. Con “Chapter II” parte la seconda parte delle tre che costituiscono questo stravagante Lp, di cui auspico una messa su cd, prima o poi. Trovandomi al cospetto di ritmiche techno music, non so più che pensare, vado avanti convinto di trovare sperimentazione a go go, pane per i miei denti. E non mi sbaglio di certo, dato che con la successiva “Framed Pictures of Strangers and Sore Spines” mi sembra di avere a che fare con dei Primus ancora più folli e in una versione post. La musica è in continua evoluzione, Declan ne esplora un po’ tutti gli ambiti, non ponendosi alcun limite e voi dovrete fare altrettanto se vi metterete all’ascolto di questo delirante lavoro, che tra cupi suoni minacciosi, inserti di dialoghi cinematografici, riverberi post rock, frangenti ambient, incursioni disco dance, messaggi subliminali e momenti quasi romantici su ritmiche thrash, ne sentirete davvero delle belle. Bravo Declan! (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 75

Burned in Blizzard - Whiteout

#PER CHI AMA: Thrash Melodico
L’occhio inquietante della copertina del cd mi guarda da un po’ troppo tempo: ok a noi due. I Burned in Blizzard arrivano da Riga, l’idea del gruppo nasce nel 2010 e si completa nel 2011. Ecco la line-up: Karl Kalvish (voce/chitarra), Matt Claveiniuss (chitarra/voce), Robert Tsesheiko (batteria), Roland “Joe” Ignatyev (basso/voce). Sì, avete visto bene: tre vocalist. No, non cominciate ad alzare il sopracciglio con quell’aria poco convinta. Sì va bene, l’ho fatto anch’io, però guardate che ne uscirà un lavoro fatto bene. Giuro. A questo punto, uno si potrebbe aspettare un prodotto thrash melodico, dove le doti di tre voci vengono messe un po’ qua e là, magari in maniera spiccatamente posticcia. Una cosa del tipo: facciamo delle tracce belle cattive, con un cantato growl onnipresente, dei riffoni tiratissimi, una batteria che neanche il motore di un trattore picchia così, un basso giusto accennato e poi ci aggiungiamo dei cantati più melodici; così ci esce una cosa super meticcia e ci facciamo una bella figura come band eclettica. No, secondo me, qui le possibilità di una tale assortimento canoro sono state sfruttate per bene. Forse la band ha detto qualcosa del tipo: va bene, il genere che ci piace lo sappiamo, partiamo dalla nostra dote di vocalist, usiamola come base e creiamoci intorno delle song come diciamo noi. Facile a dirsi, meno a farsi. Però i nostri sono stati in gamba, hanno fatto un platter equilibrato. Nelle varie tracce si avverte anche lo sforzo compositivo nella continua ricerca di soluzioni e suoni. Le parti strumentali veloci si mescolano bene con quelle più tranquille. E lo stesso fanno le diverse voci, ognuna portando una sfumatura diversa. L’anima strumentale e quella canora si amalgamano in modo abbastanza personale, in cui gli episodi sono quasi sempre riusciti. Alcune cadute infatti ci sono e ci stanno, come è fisiologico che sia, specie nelle tracce più lunghe. Spiccano “Welcome” per la sua carica energetica, le più introspettive “Bloodlees” e “Burn” e la bonus track “Motors” (cantata in lingua lettone, ma non ci giurerei...). Menzione a parte la merita per la strumentale “The Heart”, che sembra venire fuori da un altro album, le cui sonorità variegate, il suo crescendo e il finale sfumato, alla fine mi hanno davvero colpito. Trovo invece in “SinPathetic” una certa mancanza di coerenza che la rende inferiore al resto delle tracce. Pollice decisamente alto, e voi ora potete abbassare quel sopracciglio! (Alberto Merlotti)

(Self) 
Voto: 80

giovedì 4 aprile 2013

Gardenjia - Epo

#PER CHI AMA: Djent, Meshuggah, Vildjartha
Ecco il rischio della musica digitale: scaricarla, metterla in una qualche parte nell’hard disk e dimenticarsi totalmente di avere a portata di mano qualcosa di succoso ed interessante. Mi scusino i baresi Gardenjia, che già avevamo ospitato nelle pagine del Pozzo, in occasione del loro primo lavoro, quella volta però fortunatamente in cd. Tornano dunque con quello che dovrebbe essere il loro full lenght di debutto, un album che prosegue sostanzialmente la strada tracciata dal precedente EP, “Ievads”. Stiamo parlando ovviamente di djent, che tanto andava di voga nel biennio 2010-2012, ma di cui poi lentamente se ne sono perse le tracce, con alcune band che hanno virato il proprio sound verso altre sonorità più ruffiane. Non è certo il caso dei nostri che tentano immediatamente di anestetizzarci con l’ipnotica “Ante Rem”, song che oltre a fare il verso ai Meshuggah, ricalca anche le gesta dei vari Vildjartha e Uneven Structure. Gli ingredienti classici del genere ci sono tutti: le solite chitarre polifoniche e ribassate, che entrano da un orecchio e escono dall’altro, lasciandomi in uno stato mentale distorto e stordito. La tecnica sopraffina non può assolutamente mancare, se si vuole emulare le gesta dei gods svedesi o francesi, quindi anche la band pugliese, esce a testa alta sotto questo profilo. Da un punto di vista musicale, l’approccio alle song non è dei più semplici, dato che un po’ come è in casa Meshuggah, anche qui l’act italico rischia il più delle volte di (s)cadere nell’eccessiva reiterazione di alcuni riffs o poi, come accade nella lunga title track, le chitarre suonano molto disarmoniche e ubriacanti, rendendo il tutto di difficile digestione, ma forse conferendo un maggiore interesse al disco. “In Blue” è un bel pezzo, anche se il riffing suona ormai troppo simile ad altre mille release. Certo sarà anche il genere che lo impone, ma se dopo 3-4 anni di globalizzazione di questo stile, siamo già in una fase di saturazione, sarebbe il caso di trovare nuove soluzioni. La voce del vocalist spazia tra il pulito (non troppo convincente) ad una voce più incazzata, mentre interessante e spesso sottovalutato è il lavoro dietro alle tastiere. Menzione finale per “In Dusk”, in cui fa capolino anche un malinconico sax, che denota una voglia di maggiore personalità nel proprio sound da parte dei nostri. Forse la carne al fuoco è ancora molta, tuttavia, la strada intrapresa dal combo italico, sembrerebbe quella giusta. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 75

lunedì 1 aprile 2013

The Pit Tips

Bob Stoner

David Bowie - The Next Day
Esben and the Witch - Wash the Sins not Only the Face
Voivod - Target Earth

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Francesco “Franz” Scarci

Maudlin - A Sign of Time
The Black Heart Rebellion - Har Nevo
Obsidian Kingdom - Mantiis

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Alberto Merlotti

David Bowie - The Next Day
Suede - Bloodsports
Depeche Mode - Delta Machine

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Samantha Pigozzo

CMX - Seitsentahokas
Viihteen Uusi Aalto - Kvanttikuolemattomuus
God is an Astronaut - All is Violent all is Bright

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Michele “Mik” Montanari

Black Rebel Motorcycle Club - Specter at the Feast
Il Buio - L'Oceano Quieto

Mud Angel - Promo 2011

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Roberto Alba


Tribulation - The Formulas of Death
Hypocrisy - End of Disclosure
Black Crucifixion - Coronation of King Darkness

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Stefano Torregrossa


James Blake – James Blake
Romero – Take The Potion
The Ocean – Precambrian

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Mauro Catena

Self-Evident - We Built a Fortress on Short Notice
Crash of Rhinos - Distal
David Bowie - The Next Day;

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Kent

Syndrome - Floating Veins
Russian Circles - Station
Midryasi - Corridors

Wilds Forlorn - Bellum Omnium Contra Omnes

#PER CHI AMA: Black Ambient
Un vero e proprio peccato che certe band passino totalmente inosservate ed inascoltate. È il caso della one man band olandese dei Wilds Forlorn che, sotto l’egida di Yuri Theuns, credo vanti un bel record: zero recensioni trovate online di questo disco e una difficoltà assurda a reperire qualsiasi tipo di informazione, se escludiamo uno striminzito sito e la loro pagina bandcamp. “Bellum Omnium Contra Omnes” è una sola traccia di 27 minuti, anche se per come progredisce, sembra scandire l’evolversi in realtà di quattro song ben distinte, che si aprono con una lunga intro ambient, lasciano il posto successivamente ad un brano che si dipana tra il black sofferente, ma ricco di atmosfere e orchestrazioni. Ancora ampio spazio tra un pezzo e l’altro viene concesso a lunghi interludi ambient, che smorzano la tensione palpitante che si respira nel corso dell’ascolto. La produzione non è proprio impeccabile, forse un po’ troppo pastosa, che penalizza il suono degli strumenti, in primis la batteria, di cui è difficile riconoscere il pattern. La voce gracchiante di Yuri ben si adatta invece alla proposta maligna dell’act di Utrecht. Il problema essenziale di questo EP è che non offre alcun tipo di sussulto che attiri la mia attenzione: un black notturno, mid-tempo, ben orchestrato per carità, ma che nel giro di un paio di ascolti rischia di cadere nell’oblio. Sound da rivedere e riascoltare col nuovo lavoro, “We, the Damned”, il cui titolo è perfetto per il Pozzo dei Dannati. (Francesco Scarci)

The Matador - Descent Into the Maelstrom

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Cult of Luna
Non dovrei più stupirmi di nulla ormai, sono nel giro “metallico” da quasi 30 anni e credo di aver sentito decine di migliaia di album, aver esplorato generi e sottogeneri, aver attribuito ad alcune nazioni il merito di aver inventato alcuni stili o partorito alcune tra le più grandi band di sempre. Ebbene, ho sempre pensato che gli US, che hanno dato i natali a Isis o Neurosis, tanto per citare due nomi a caso, fossero la patria del post metal. Ora scopro che in successione, dopo i We Lost the Sea, ecco arrivare dall’Australia anche questi The Matador con il loro debut EP. “Descent Into The Maelstrom” è un lavoro di chiara matrice post, assai raffinato e dalle molteplici influenze, che nei suoi 30 minuti spazia dagli inquietanti riverberi iniziali di “Kingdom of Glass”, in cui è il suono del basso e delle chitarre a guidare il sound dei nostri, prima che irrompa la voce abrasiva del bravo vocalist. Le atmosfere sono criptiche, a tratti claustrofobiche, ma credo che l’effetto sia dovuto all’ispirazione della band, in fatto sia di concept che di contenuti, all’enigmatico Edgar Allan Poe. E cosi ecco fuoriuscire dagli strumenti del five-piece di Brisbane, lente composizioni costituite da suoni prettamente notturni (emblematica la seconda splendida traccia, “Parallax Error”, quasi un rituale mantrico in grado di sprigionare un’immensa energia) o altri che richiamano il post rock (che va spesso a braccetto col post metal) come nell’inizio di “Eclipse”. La band è poi brava anche ad innalzare irti muri di chitarre come in “The Woman Clothed in the Sun”, nonostante il litanico epilogo e i suoi brevi interludi ipnotici. Comunque è poi l’amore viscerale dei nostri per Isis o Cult of Luna a prevalere e nella conclusiva “Vurt”, tutto quello che la band ha imparato dai loro paladini, si fonde in un brano da urlo, che sancisce la mia nuova ultima eccellente scoperta. Signori ecco a voi i The Matador, potenziali fuoriclasse di un nuovo filone post proveniente dal nuovo continente. Sublimi! (Francesco Scarci)

(Serotonin Productions)
Voto: 80

https://www.facebook.com/thematadornoise