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venerdì 5 ottobre 2012

Legion of Darkness - Meridies

#PER CHI AMA: Black Epic, Spite Extreme Wing
È noto quanto io sia un profondo conoscitore della scena metal mondiale, mi domando pertanto come mi sia potuta scappare una simile release, peraltro rilasciata da una band nostrana, mea culpa... E cosi, con peccaminoso ritardo da parte mia, mi appresto a scoprire con sommo piacere, i siciliani Legion of Darkness e la loro seconda fatica, “Meridies”, che prosegue quel discorso iniziato con il loro promettentissimo debutto, “Cantus”. Spiace innanzitutto constatare che una band dalle cosi elevate potenzialità, non abbia quella promozione adeguata, da parte di un’etichetta di spessore, che possa dare i giusti meriti a questo eccellente trio. Venendo al disco, “Meridies” consta di 5 lunghi brani che coprono 50 minuti di musica, che decollano con “Sentenced to Eternity”, il cui inizio ha evocato in me un’immagine particolare. Ricordate il film “La Mummia” (quella più moderna), quando l’enorme faccia del faraone, costituita di sola sabbia, si materializza nel deserto, minacciando i protagonisti del film, cercando di deglutire il loro aeroplano? Ebbene, quel senso di potenza infinita l’ho percepito anche nel magniloquente prologo di questo cd, prima che le screaming vocals di Lord Inferos, si materializzassero maligne nelle mie casse e prima ancora che si mettessero in mostra delle epiche vocals. Chi pensava scioccamente di avere fra le mani un lavoro all’insegna del black metal più cruento, dovrà ricredersi come il sottoscritto, perché al minuto numero quattro, una splendida apertura di chitarra acustica mi induce i primi brividi di piacere che mi segnalano quanto mi stia già entusiasmando “Meridies”. Per carità, i nostri sanno anche pestare sull’acceleratore con delle scudisciate rabbiose, pregne di malignità, ma nuovamente, l’utilizzo di brillanti clean vocals, distolgono la mia attenzione dalla furia imponente dei nostri, per andarla a focalizzare invece nella componente più melodica, a cui segue un breve bridge chitarristico. I nostri galoppano a ritmi sostenuti, denotando sicuramente una eccellente preparazione tecnica, a cui si affianca un ottimo gusto in chiave compositiva-esecutivo; brillante da questo punto di vista l’utilizzo delle tastiere. Annichilito dagli undici minuti della prima traccia, ecco “Ek Pètras” pronta a massacrarmi con i suoi 14 minuti. L’inizio è tranquillo, affidato mi pare, ad un mandolino, che rappresenta verosimilmente, la quiete prima della tempesta, che puntualmente non tarda a prendere corpo, e proseguire con quel suo lavoro rutilante. Mostruoso il lavoro al basso di Adranor, cosi come pure quello di Flagellum, che si diletta, nel costruire ringhianti riffs di chitarra che somigliano a saette di Apollo, eccellente poi per quel lavoro di cesellatura, garantito da deliziosi arpeggi che si incontrano nell’ascolto di questa, passatemi il termine, poetica opera, affiancato da violini e violoncelli, e da un buon lavoro in chiave solistica. I Legion of Darkness ci sono e lo confermano anche con “Songs of War”, brano che vede l’utilizzo anche di vocals in italiano dal contenuto prettamente metafisico – guerresco, con una impostazione simile a quella dei Spite Extreme Wing. Ora folkish (da sottolineare anche l’utilizzo del flauto), un po’ pagani nel loro approccio, ma alla fine blackish, nel loro solenne pauroso incedere, i Legion of Darkness confermano la loro classe anche nella successiva “Ciclo d’Acciaio”, altra bestiale song dal flavour sinfonico norvegese di metà anni ’90 (sulla scia di “Stormblast” dei Dimmu Borgir), che fa della velocità il suo punto di forza, su cui però si intercalano ed incastrano, in modo perfetto, gli archi. Sbalordito, giunge nel finale anche l’acustica “Ithaca”, il cui video clip è contenuto nel cd. Un inno alla musica mediterranea che chiude avvalorando alla grande, questo ottimo esempio di black made in Italy. Epici! (Francesco Scarci)

(Dark Babel Records)
Voto: 80

http://www.legionofdarkness.it/

martedì 2 ottobre 2012

Tenochtitlan - Sotvorenie Mira

#PER CHI AMA: Metal Etnico, Avantgarde, Senmuth, Negura Bunget
Era da un bel po’ che tenevo d’occhio questa band, poi finalmente nella cassetta postale mi sono trovato il loro cd e con grande entusiasmo mi sono lanciato ben presto nella recensione. Beh, mettiamo subito in chiaro una cosa: pur avendo i nostri un monicker che richiama l’antica città azteca o un’intro dal sapore vagamente tribale, non siamo al cospetto di alcuna band centramericana, bensì trattasi di un side-project russo, che vede coinvolti alcuni membri di act dell’underground, tra cui il più noto, è sicuramente Senmuth, un polistrumentista resosi famoso, per aver prodotto una cosa come 120 release in una decade. Comunque sia, la proposta del combo dell’est Europa è un qualcosa di estremamente suggestivo, originale, e a tratti mi verrebbe da aggiungere esotico. Si perché pur presentando un sound piuttosto estremo, diverse sono le divagazioni etniche che esso propone, probabilmente dovute anche all’interpretazione in lingua madre (in cirillico tra l’altro l’intero booklet) delle song, che, cinque in tutto, raggiungono un totale di 45 minuti di musica di pregevole fattura. Se devo porre attenzione su qualcosa in particolare mi soffermerei sulla traccia numero tre, un mid-tempo dai suoni stranianti, in cui le vocals pulite di Archon si alternano con le harsh del duo Senmuth e Lefthander, e in cui si percepisce pure l’innesto di un flauto e di altri strumenti tipici della tradizione flokloristica. Niente male, ma l’album non è ancora decollato del tutto; lo fa però alla grande con la sinfonica quarta song, un’ondata di suoni magniloquenti, pomposi ed epici, che mi inducono ad alzare il volume e farmi trascinare dalla fierezza che essa emana. Il quinto brano evidenzia ancora una certa predilezione per sonorità ambient, comunque intrise da quel flavour etnico che va via via conquistandomi; poi ad irrompere ci pensa una ritmica marziale, con un bel growling in primo piano. Quando parte l’ultima traccia, il suono dei synth mi ricorda la proposta etnica del buon Senmuth, mentre le incursioni a dir poco stravaganti, possono suggerire alla mia memoria i francesi, ahimè disciolti, Carnival in Coal o i finlandesi The Wicked. In conclusione, questo quarto lavoro offre la possibilità di dare ascolto ad un interessante prodotto, che per certo, prende le distanze da tutti gli stereotipi che affollano, in questo momento, l’ormai saturo mondo metallico. Provare per credere. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

lunedì 1 ottobre 2012

Inborn Suffering - Regression to Nothingness

#PER CHI AMA: Death/Doom, Draconian, Swallow the Sun
Dopo un paio di giri a vuoto, la Solitude Productions pare aver raddrizzato il tiro ed essere tornata sulla dritta via, grazie alla performance di questi francesi Inborn Suffering, che escono per l’etichetta russa, anche con la riedizione del loro album di debutto, che verrà recensito sempre su queste stesse pagine. Fatto sta che quella della band parigina è la classica uscita che preannuncia la caduta delle foglie, l’arrivo delle nebbie e delle mattinate gelide, in cui il ghiaccio va a depositarsi sull’erba, si insomma l’arrivo dell’autunno. “Regression to Nothingness” è pertanto la più azzeccata delle uscite autunnali, dedite all’ormai imprescindibile marchio di fabbrica della Solitude: death doom atmosferico, che guarda ai soliti Draconian e Swallow the Sun, come principale fonte ispiratrice, senza tralasciare comunque i fondamentali insegnamenti, in fatto di passaggi di tristezza infinita nei Katatonia di “Brave Murder Day” o nell’uso delle vocals meditative, negli Anathema di “Eternity”. Si, insomma, di recensioni di questo tipo, ne avrete letto a bizzeffe nelle pagine del Pozzo, eppure qualcosa di vagamente originale, lo si riesce a percepire nel lungo, quasi estenuante, secondo lavoro degli Imborn Suffering. Già dall’iniziale “Slumber Asylum” c’è qualcosa di pungente nel sound del quintetto di Parigi, pungente quasi quanto il vento d’inverno che soffia tagliente sul viso. Non saprei identificare cosa, forse il suono delle tastiere quanto mai egregio, che in sottofondo fanno un massiccio ed ispirato lavoro oscuro (come l’angosciante suono portatore di morte in “Born Guilty”), o probabilmente la voce di Laurent Chaulet, a cui piace alternarsi tra il growling e il pulito, senza tralasciare le chitarre mai troppo furiose, con le ritmiche assolutamente compassate, se non in taluni sprazzi, in cui i nostri si concedono scorribande tipicamente death; ma ci sta dopo tutto, questi sono gli ingredienti tipici del genere, che fa dei quantitativi esagerati di malinconia, il proprio punto di forza, ben coniugati con rallentamenti enigmatici, dirompenti squarci acustici, con tonnellate di melodia ben distribuite lungo tutti e 72 i minuti di questo attraente “Regression to Nothingness” (con una ragguardevole media di 10 minuti per brano). Insomma, ci voleva una release di questo tipo per farmi iniziare alla grande quest’autunno, che si preannuncia assai infuocato. Bravi Inborn Suffering, anche nella scelta della cover cd e del logo, che devo ammettere avermi abbastanza depistato, spingendomi a pensare a qualcosa di più estremo su sentieri death. Per concludere, vale anche per i nostri la solita raccomandazione espressa per tutte le altre band, facenti parte della nuova ondata di death/doom: se solo si osasse maggiormente per prendere le distanze dai ben più famosi originali, il risultato finale sarebbe decisamente di tutt’altro spessore ed interesse. Per ora mi accontento, ma la prossima volta, non garantisco di essere cosi indulgente… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 70

Funera Edo - De Bello Heroica

#PER CHI AMA: Black/Thrash, Epic, Janvs, Frangar
Quest’album, dalla veste grafica ben curata, tanto colorata e tanto atipica per il genere intrapreso, è opera dei romagnoli Funera Edo e segue il precedente “Split cd” del 2011, intitolato “Dolore Iconoclasta”, in compagnia degli emiliani Inner. “De Bello Heroica” è un lavoro molto compatto, con i pezzi cantati in lingua italica, pieni zeppi di rimandi di fiera epicità, inni alla guerra, alla vittoria e alla forza, che si muovono attraverso i vari versanti del black metal, ma con un gusto tutto proprio che va a ricordare per attitudine altre bands conterranee quali Janvs o i già recensiti su queste pagine, Frangar. Analizzando i brani, segnaliamo come preferito “Impeto e Tempesta”, per la sua carica guerriera, violenta e primordiale. Il sound è monolitico e standardizzato come scrittura, a volte volutamente statico ed ipnotico, a creare una forma di estasi pre-battaglia, sempre rumoroso e marziale. Nell'insieme il lavoro è molto efficace e la qualità risulta ottima e piacevole per chi ascolta. A volte, l'ago della bilancia si sposta forse inconsapevolmente su coordinate metal/ hardcore “Italian old style”, che fanno vagamente tornare alla mente band storiche come Atrox o più recenti come 1984HC. Questa ultima osservazione tiene in considerazione l'attitudine del suono di “De Bello Heroica” che si estranea dal tipico sound del black (la sezione ritmica costruisce ritmiche lineari e pulsanti che spaccano e viene messa sempre in evidenza da un mixaggio molto classico, creando un vero e proprio distacco dal genere di riferimento). I Funera Edo optano per un suono più italico, personale, ritmico, compatto e vibrante, carico di tensione e presente, molto pieno e martellante con un'ottima voce che comunque si trova a fare i conti con una lingua molto difficile, qual è l'italiano, da inserire in contesti musicali così estremi. Il sound di questa band trova radici profonde nel black metal e molto deve anche al versante epico della musica metal, e la sua fusione all'irruenza schietta dell'hardcore della prima ondata italiana, fa si che il tutto risulti quadrato, diretto e tanto militaresco. Il risultato è a tutti gli effetti una vittoria e per certi aspetti potrebbe essere una coniazione di un nuovo sound tutto italiano molto più rock per un nuovo modo di intendere il metal estremo. Molto personali, una band da tener d'occhio! (Bob Stoner)

(Lo-Fi Creatures)
Voto: 80

Round 7 - Dedicated to Nyhc

#PER CHI AMA: Hardcore, Sick of it All
Ormai la speranza stava svanendo, ma è successo di nuovo. Un gruppo che propone cover e/o tributo (in questo caso ai Sick of it All), comincia a scrivere pezzi propri e arriva ad incidere un intero cd. Questa è in breve la cronistoria dei Round 7, quartetto vicentino che propone un potente hardcore e ne arriva a fare anche una filosofia di vita. Ultimamente la scena HC sta rivivendo una seconda giovinezza nella nostra zona (Verona-Vicenza), sembra di essere a New York tra gli anni 80 e 90. Infatti si contano diversi gruppi (Sin Circus, Social Disaster, etc.) dal livello tecnico anche discreto, probabilmente perché sotto lavorano musicisti con diverse esperienze alle spalle, che popolano questa zona. Ma torniamo ai Round7. Da pochi giorni è uscito il loro primo LP "Dedicated to Nyhc", undici pezzi registrati al Gypsy Studio di Negrar presentati in un semplice jewel box, ma arricchito da una buona fotografia del libretto e una copertina in parte disegnata a mano. I testi scritti avrebbero aiutato a capire lo spessore delle tracce, magari sarà per il prossimo LP. I vari pezzi ripercorrono le sonorità dei Misfits, H2O e traggono molto in termini di ispirazione dai Sick of it All, anche se, ascoltando bene ci si accorge che, certi arrangiamenti, sono frutto di studio e tanta tecnica. Lo scream di Emanuele porta con se i benefici di una voce matura e quindi all'altezza delle aspettative, unite ai fantastici riff e agli assoli di chitarra che si staccano dalla semplicità richiesta spesso dal genere. La parte ritmica, creata da Andrea e Michele, è un treno lanciato all'impazzata senza controllo, con affondi e cambi di ritmo che aiuta i pezzi a non essere mai noiosi. Forse l'unica pecca di "Dedicated to Nyhc" è il classicismo, nel senso che un LP così, qualche anno fa, sarebbe stato molto apprezzato, ma come ho scritto in altre recensioni, non lo considero un difetto. Spesso la ricerca assoluta di sonorità eclettiche può essere catastrofica per tanti gruppi. Questo album getta le basi per una strada dritta verso obiettivi che alla band sembrano essere molto chiari. Dopotutto il treno è in corsa, chi non se la sente può sempre scendere. F..U (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 70

Kråke - Conquering Death

#PER CHI AMA: Black Symph., Dimmu Borgir, Old Man's Child 
Signori, ho il piacere di annunciarvi che il black metal sinfonico non è ancora morto. A tenerlo in vita ci pensano infatti i norvegesi Kråke che, ereditata la pesante eredità dagli Emperor e dagli ultimi Dimmu Borgir, mostrano al mondo che c’è ancora spazio per dire qualcosa in questo genere ormai logoro. E io non posso che goderne. Devono averla pensata come il sottoscritto anche quelli della Indie Recordings, da sempre label lungimirante (penso ad esempio agli Enslaved), che ha dato la chance ai nostri di rilasciare questo album. La solita tastieristica intro dà il la al cd e poi ecco esplodere il melodico symph black dei nostri, che parte piano piano, mostrando addirittura una certa vena viking, con dei chorus che sarebbero più azzeccati in release di band quali Thyrfing o Amon Amarth, ma “… And a Colder Breed” lascia ascoltarsi lo stesso e anzi devo dire che mi piace parecchio; nel frattempo, l’album ingrana ed incrementa poco a poco la sua base sinfonica con la malinconica “Hearts Blood”, mentre l’aggressività si accresce con l’incipit di “Ed”, una song decisamente ben strutturata e complessa, che passa dall’arrembante prologo, tipicamente black, passa attraverso un mid-tempo ragionato, fino ad evolvere a coordinate più progressive. L’eco degli Enslaved lo si riesce cogliere nel corso dell’ascolto, ma anche quello dei Dimmu Borgir meno ruffiani (“Enthrone Darkness Triumphant”), cosi come pure l’influenza dei già citati paladini del viking, grazie a quelle epiche atmosfere, corredate da qualche tastierona e atmosfere da battaglia. Bombastica e assai curata anche la produzione, tipico per questo genere di uscite: il lavoro ci regala difatti un suono pieno, cristallino e potente, da godere assolutamente con le cuffie conficcate nelle orecchie. Per carità non è poi tutto oro quel che luccica, in quanto “Conquering Death” talvolta perde smalto in qualche frangente e rischia di gettarmi nel torpore (ad esempio nella strumentale “Snowfall”), ma niente paura, perché il diabolico quintetto scandinavo, si rialza velocemente e con fierezza, piazzando qualche bel colpo ben assestato, come “The Gatekeeper” o la sognante ultima traccia, “I Ly Av Lyset”, cantata rigorosamente in lingua madre, e che segna la fine del primo positivo capitolo targato Kråke. Ci sarà da sistemare ancora qualche cosina, per risultare più convincenti e meno ridondanti. Direi che per ora mi sento di consigliare il lavoro agli amanti di sonorità, si estreme, ma assai melodiche. Da tenerli sotto stretta osservazione, perché la band ha le carte in regola per vincere. To be continued… (Francesco Scarci)

(Indie Recordings) 
Voto: 75 

sabato 29 settembre 2012

Meniscus - War of Currents

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Explosions in the Sky
È tempo di rilassarsi, non posso certo martoriare costantemente le mie orecchie con brutal death o black satanico. Ecco perché ho preso il nuovo disco degli australiani Meniscus e l’ho infilato nel mio lettore, consapevole di quello che avrei trovato, avendo da poco recensito positivamente anche il loro debut EP. Partendo da un ottimo digipack, sotto un profilo prettamente estetico, con una cover cd che richiama quella cascata di lettere e numeri che compariva nel film “Matrix”, su uno sfondo bianco questa volta, la musica dei nostri aussie boys torna a percorrere il filone del post rock, cosi come era stato per il loro precedente lavoro, perdendo tuttavia un pizzico di smalto che tanto mi aveva ben impressionato in “Absence of I”. Mentre le prime due songs, “Room3327” e “130” ripercorrono quanto proposto in precedenza, “Immersion” si rivela molto più pacata, stentando proprio a decollare e trascinandosi pesantemente nell’oblio della noia. Chiaro, la band australiana non è diventata scarsa tutto di un colpo, sembra semplicemente essersi un attimo smarrita, alla ricerca di una visione ancora più intimista della propria musica, ed in tal caso devi essere un fenomeno e non aver paura di rischiare di perdere la faccia, altrimenti il rischio di fare una figuraccia è là dietro l’angolo. Beh per i Meniscus voglio essere chiaro: un passo indietro è stato fatto, e questo mi dispiace, ma sono certo che comunque anche voi avrete modo di perdonare questa defiance, anche perché nei 38 minuti di “War of Currents”, tutti gli elementi classici del genere sono comunque riscontrabili. Partendo dicevamo da un post rock strumentale, il trio cerca di sviluppare il proprio sound lanciandosi in divagazioni space rock progressive che ne esaltano la performance, nella più sperimentale delle tracce, “Fight Club”, in cui fa la sua comparsa in modo importante anche l’elettronica e finalmente un riff di chitarra dotato di un certo mood melanconico. Torno a ribadire la necessità di avere un vocalist, che possa aggiungere un quid in quei momenti che rischiano di intorpidire anche l’ascoltatore più attento. L’abilità della band non si discute, rimango perplesso su alcune scelte ridondanti che sono state fatte in sede di stesura dei pezzi. Meglio rendere più scorrevoli i pezzi, piuttosto che ripetere alcuni giri all’infinito in un loop, ahimè non ipnotico, semmai alquanto tedioso. Comunque i Meniscus rimangono eccellenti esponenti di un post rock, che sta vivendo in questo momento un boom, che non avevo di certo pronosticato. Da rivedere o meglio risentire… (Francesco Scarci)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 70

giovedì 27 settembre 2012

Abske Fides - Abske Fides

#PER CHI AMA: Doom/Post/Avantgarde
Devo ammettere di essermi avvicinato con una certa titubanza a questo lavoro, in quanto le ultime uscite in casa Solitude, non mi avevano granché convinto, a causa di un eccessivo crescere di un movimento, quello doom, che se continuerà ad essere sfruttato in modo cosi massiccio, rischierà di veder ben presto la sua fine. Tuttavia, il debut album di questi brasiliani dal nome astruso, non fa che impressionarmi positivamente e vederli affiancare ai connazionali Helllight, come compagni di etichetta. Qui, non siamo di fronte ad una proposta tipicamente funeral doom, ma la musica del combo di San Paolo, colpisce piuttosto per la sua componente avanguardistica, che ben si fonde con quella death doom. Quel che è certo è, che anche qui si viaggia su durate piuttosto lunghe dei brani, con “The Consequence of the Other” che risulta essere una song ostica, difficile da delineare al primo ascolto, perché pur viaggiando su coordinate stilisticamente vicine al doom, trova il modo di impreziosire la propria proposte con inserimenti estemporanei di female vocals. La seconda “Won’t You Come?” si fa ricordare per un riffing di chitarra ipnotico e melodico, che immediatamente si stampa nel cervello e per uno splendido break centrale, dal vago sapore post rock (ottimo il pseudo assolo e l’intera componente ambient), mentre le vocals si alternano tra un cantato da cavernicolo ed uno più pulito. Ho alzato pertanto le mie antenne, capendo che il debut album degli Abske Fides, non è qualcosa che suona in modo scontato, ma piuttosto, va ascoltato con crescente attenzione, perché i particolari che si possono captare, risultano davvero azzeccati e notevoli da un punto di vista di godibilità del prodotto. Ecco non voglio sembrare uno da televendita, ma mi sembra di scorgere nel sound dei nostri paulisti, un tocco di originalità, che fin qui era venuta a mancare nelle uscite della label russa. Non tutto fila per il verso giusto, in quanto affiorano momenti di stanca, che si potevano sicuramente evitare o per lo meno, non tirare cosi tanto per le lunghe e penso all’infinito inizio onirico/visionario di “Coldness”, ma cavolo, non appena parte una chitarra seventies, di scuola pink floydiana, non posso che sobbalzare sulla mia sedia e porgere ancor più attentamente il mio orecchio, e sentire quelle meravigliose plettrate sulle corde della chitarra che mi fanno godere non poco. Poi le vocals si mostrano magari un po’ deboli, ma poco importa se il feeling che respiro è di quelli da dischi acustici dei favolosi anni ’70. E 70 sarà anche il mio voto finale, come forma di incitamento per il terzetto sud americano a continuare su questa tecnica, affinando di sicuro la tecnica, per quello che potrebbe rischiare di diventare un sensazionale lavoro finale. Gli undici minuti e passa di “Aesthetic Hallucination of Reality” sono belli lunghi, un po’ grezzi e rappresenta alla perfezione quello su cui i nostri dovrebbero lavorare maggiormente per non rischiare di dilungarsi troppo nelle loro elucubrazioni mentali. Menzione conclusiva per l’ultima traccia, “Embroided in Reflections” che palesa invece le influenze più spiccatamente post della band, con un sound notturno. Ve lo dico io ragazzi, non siete una band doom, potete essere tranquillamente qualcosa di più, pertanto non vi nascondete dietro un riff trito e ritrito per farvi apprezzare dalle masse di doomsters, basti ricordare gli esordi degli Anathema e di quell’”Eternity” che li ha portati oggi ad essere quello che sono. L’esperienza insegna e se il nostro bel trio proveniente dal Brasile, sarà bravo a giocarsi le proprie carte, sono certo che potremo sentir parlare di loro molto presto… Audaci ma ancora un po’ troppo timidi (Francesco Scarci).

(Solitude Productions)
Voto: 70
 

martedì 25 settembre 2012

Abaton - Hecate

#PER CHI AMA: Sludge, Doom, Celeste, Coffinworm
Era il lontano novembre del 2011, ricordo il freddo che mi raggelava le ossa mentre seduto in macchina con una bottiglia di whiskey aspettavo una cara amica per andare a vedere un live dei Forgotten Tomb. Dopo alcuni minuti che ero entrato nel locale, vengo letteralmente malmenato dal suono che la band opener mi propone, e quella band che mi aveva colpito cosi profondamente erano gli Abaton. Ed ora sono qui davanti al pc a raccontarvi della loro prima tappa discografica: "Hecate". Dico subito: se non siete amanti del riverbero e della fitta oscurità, lasciate perdere questa band perché non farà per voi. La proposta è ben strutturata, un artwork in scala di grigi, con un immaginario esoterico e con suoni claustrofobici ed estenuanti; dal primo ascolto si percepisce subito la consistente base di matrice doom e post-core che ospita sonorità che si estendono fino allo sludge e movimenti influenzati dal black più malvagio. Le tracce ci trascinano con un’opprimente atmosfera in un cupo labirinto sonoro, dove la mavoleva musica del giovanissimo gruppo forlivese, con le sue plunbee disarmonie, le voci agghiaccianti e le ritmiche opache, regna incontrastata. I punti deboli di questa pubblicazione sono essenzialmente due: la quasi inesistente differenziazione delle voci e le composizioni troppo simili tra loro. A me piace molto questo disco, ma nonostante il songwriting eccellente, non si è riusciti a raggiungere una proposta così creativa, da far emergere le singole tracce. Durante l'ascolto, sono poche le volte in cui chiaramente si identifica una composizione dall'altra, colpa dell'abuso delle “cavalcate” doom e delle melodie ripetitive. C'è da sottolineare la lama a doppio taglio causata dal riverbero che da una parte rende eccezionali le parti più dilatate e cadenzate, mentre dall'altra, impasta completamente i momenti più veloci ed aggressivi. In definitiva "Hecate" è un album con delle splendide atmosfere e delle idee molto accattivanti, che però non riescono ad evolversi definitivamente e raggiungere una maturità completa, tuttavia l'opera nel suo insieme, seppur monotona, riesce ugualmente a trascinare nell'ascolto. Chiudo consigliandovi di vederli assolutamente live, senza tappi per le orecchie.(Kent)

(Lo-Fi Creatures)
Voto: 70


lunedì 24 settembre 2012

An Autumn for Crippled Children - Only the Ocean Knows

#PER CHI AMA: Black Shoegaze, Dark, Alcest, Heretoir, Les Discrets
Che il terzo album di una band sia sempre quello della conferma ed eventuale consacrazione, è ormai luogo comune e assai diffuso, pertanto lo riterrò estremamente importante nella valutazione di questo nuovo capitolo degli olandesi An Autumn for Crippled Children, che mi avevano incuriosito con la loro prima prova, “Lost”, addirittura elettrizzato con la seconda release, “Everything”, e ora… E ora prosegue il personalissimo percorso dell’enigmatico trio di Friesland, con “Only the Ocean Knows”, un lavoro che ancora una volta si pone super partes per quanto riguarda la catalogazione del genere proposto. Ascoltando solo la musica infatti, potrei immaginare un fantomatico ibrido costituito dal dark sound dei The Cure, punk e shoegaze; poi non appena Mchl ci mette il suo grugnito malvagio, ecco apparire anche la componente black, per un risultato eccitante per chi adora suoni senza tempo e all’insegna della sperimentazione più avanguardistica. Colpiscono nel segno i nostri, per quanto si rischi di mal digerire l’utilizzo dello screaming, che su questa tipologia di musica sembra talvolta essere fuori posto; l’avrei visto bene infatti alternato con delle vocals pulite simil Alcest o Les Discrets. Ma non è certo un problema, e sicuramente non inficerà la mia valutazione finale, in quanto quello che più mi emoziona sono i suoni oscuri, disperati e tenebrosi che imperversano nel cd. “Past Tense”, ma soprattutto “Yes I know…” danno immediatamente sfoggio della bravura degli AAFCC, bravi nell’amalgamare le sonorità appena citate, con un’attitudine decisamente post rock, identificabile nella carica malinconica di cui è pregno il disco. Ascoltandolo e riascoltandolo, ho identificato nel basso l’elemento catalizzante, un basso che svolge un lavoro incredibile in fase ritmica, sostituendo a tutti gli effetti, quello che normalmente fanno le chitarre, qui decisamente in secondo piano. Di rilievo anche la performance delle keys, capaci di donare un forte pathos all’intero album: basti pensare alla fantastica ariosa apertura posta sul finire di “This Garden These Trees”, che vale da sola l’acquisto del cd. L’avrete già intuito, a me questo cd piace e non poco. Tutti i pezzi hanno qualcosa da donare: “In February” ad esempio è una song estremamente triste, cosi come pure la title track, che vive sul binomio tastiere/basso, su cui finiscono per stagliarsi le urla disumane del vocalist. Decadenti, autunnali, l’ideale colonna sonora dell’autunno che incombe. E io mi lascio avvolgere da queste tiepide sensazioni, come se la musica degli AAFCC, fosse una calda coperta che mi protegge dal freddo, davanti ad uno scoppiettante camino. Ultima citazione per “Uncurable”, una song che porta dentro di sé tutto quel feeling dark di fine anni ’70, che i primissimi The Cure, quelli di “Three Imaginary Boys”, incarnavano. Album estremamente interessante per chi è dotato di ampie vedute. E al traguardo del terzo lavoro, gli An Autumn for Crippled Children passano fortunatamente indenni. Avanti cosi. (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 80

Helllight - Funeral Doom

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Epic, Skepticism
Ragazzi, questa è facile: che genere potranno suonare i brasiliani Helllight con un album intitolato “Funeral Doom”? Beh, se non avete sbirciato la recensione del lavoro precedente (che in realtà rappresenta il lavoro successivo, essendo questa una ristampa dell’album del 2008), credo sia piuttosto intuitivo rispondere. Si, esatto. Questi “solari” Helllight suonano per l’appunto funeral doom, nella sua accezione più cupa ed oscura. Appena infatti ho infilato il cd nel lettore, la luce del sole si è velata sotto l’incombente tenebra della notte, di quelle notti, nere come la pece, senza il bagliore della luna. I 17 minuti di “Deep Siderial Silence” hanno fatto poi tutto il resto, con quel sound lento e soffocante, che non fa altro che confermare quanto di buono già avevo sentito in “…And then, the Light of Consciousness Became Hell…”. Il sound imbastito dai nostri infatti testimonia la classe di cui sono dotati questi quattro loschi individui di San Paolo. Ma ora che una visita l’ho fatta anch’io nella enorme città sudamericana, appurando che in quattro giorni non ha mai smesso di piovere, posso capire da dove possa venire tutta questa tristezza repressa e palesata nelle note di questo doppio cd. Ah si certo non ve l’avevo detto, trattasi di 2 cd, ma parleremo a breve del secondo. La musica degli Helllight, pur essendo più nera delle tenebre, ha comunque il pregio di lanciarsi, in taluni momenti, in splendide riflessive aperture heavy rock, con degli assoli, bridge o break acustici da pelle d’oca. I riferimenti a Thergothon o Skepticism sono sempre ben evidenti nelle note del disco e nelle vocals tetre di Fabio, che trova anche modo di mettersi in mostra per l’utilizzo di vocals più evocative (ricordate “Hammerheart” dei Bathory, ebbene la title track ci regala sprazzi di quel modo di cantare unico di Quorthon). Quello che sicuramente è più difficile da digerire sono le durate: oltre ai 15 minuti di “Funeral Doom” anche “Nexus Alma” ci ammorba per altri dodici agonizzanti minuti che non fanno altro che portarmi al colmo della disperazione. La strumentale “The Diary” mi accompagna per soli quattro minuti in cui è il pianoforte ad essere protagonista. Le altre tre lunghissime song, procedono su questa linea apocalittica, offrendomi un’altra buona mezz’ora di suoni, perfetta colonna sonora per la prossima fine del mondo. Ma passiamo a quello che è il bonus cd, che oltre a racchiudere una traccia inedita (altri 12 minuti di sofferenti ambientazioni da incubo), ci regala invece sei cover. Si parte con l’eterna “Heaven and Hell” dei Black Sabbath e per questo ripenso al buon vecchio Ronnie James Dio (RIP), con quello splendido giro di basso che ancora oggi mi emoziona esageratamente. I nostri la rivisitano un pochino, rendendola un po’ più lenta (tanto per cambiare) e piazzandoci qua e là qualche growl, prima di quello che doveva essere un esplosivo finale, che qui va a rallentatore. Con “How the Gods Kill” andiamo a esplorare i Danzig, per una canzone piuttosto sonnacchiosa a dire il vero. I nostri scomodano addirittura Neil Young con la successiva “Hey Hey My My”, ma il tutto va sempre in slow motion. Slow motion che sembra funzionare alla grande invece con “Confortably Numb” (Pink Floyd), anche se sono le demoniache vocals qui a lasciarmi piuttosto perplesso, anche se l’atmosfera che creano gli Helllight è perfetta, sembra infatti una song cucita su misura per loro. Splendida performance, strumentale, interpretativa che denota una certa personalità dei nostri paulisti. “Man of Iron” palesa l’amore dei nostri per i sopracitati Bathory, nella loro versione più epica. A chiudere il disco ci pensa “The Show Must Go On”, indimenticabile traccia dei Queen, dotata di un pathos incredibile che, magari a livello vocale lascia un po’ a desiderare (Freddie Mercury era un’altra cosa), ma in cui comunque, gli Helllight mettono del loro per regalarci gli ultimi sette emozionanti minuti. Ottimo lavoro, consigliabile non solo agli amanti del funeral, ma di chiunque apprezzi pezzi dotati di un’anima, seppur assai cupa. E ora che calino pure le tenebre… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80

http://www.helllight-doom.com/

domenica 23 settembre 2012

Shoulder of Orion - Lunarborn

#PER CHI AMA: Black Psichedelia, Blut Aus Nord
Cambridge non è solo famosa per essere sede di una delle più antiche università al mondo o fantastico posto dove fare canottaggio, lungo il corso del fiume Cam, da oggi sarà nella mia testa anche la città di provenienza di questa fantomatica band black progressive che risponde al nome di Shoulder of Orion, che negli ultimi 2 anni ha rilasciato ben tre cd, di cui questo “Lunarborn” rappresenta l’ultima fatica. Un lavoro quello del trio britannico che sicuramente farà la gioia di chi, come il sottoscritto, apprezza enormemente i suoni angoscianti, sperimentali e psichedelici di realtà quali Blut Aus Nord o Lunar Aurora. E cosi, ecco squarciarci il nostro animo queste tre malvagie tracce di grim black metal che, complice anche una grezza produzione, vi soffocherà lentamente tra le sue tentacolari braccia. L’album si apre con i 13 minuti abbondanti e aggroviglianti della title track: spettrale ed inquietante, grazie ai suoni di chitarra ribassati e a quel basso, che in background, cavalca che è un piacere, mentre le screaming vocals di David White, passano in secondo piano, quando a sbizzarrirsi sono le tastiere, che ricamano immaginari paesaggi da epopea fantasy. Epici. Vinta la paura iniziale e la presunta feralità della band, è poi semplice abbandonarsi alle personalissime melodie del combo albionico, che nel mezzo del brano ci regalano un bridge che sa molto di rock/blues anni ’70. Un qualcosa di simile ed altrettanto avvincente, l’ho sentito ultimamente in casa Code 666 con i greci Hail Spirit Noir. Andatevi a cercare pure loro, noi andiamo avanti e rimango basito di fronte all’inizio di “Fall to Earth” e alla sua decadente e malinconica aurea, complice anche il flebile utilizzo di clean vocals. I ritmi non sono mai forzati, ma costantemente tenuti sotto controllo da questa band che reputo già matura per un contratto vero e proprio. La traccia, nei suoi avviluppanti 16 minuti, produce un sound unico, che, dipanandosi tra black, post rock, psichedelia, riesce nell’intento di ridurre a brandelli la mia mente. Poi, metteteci anche i continui cambi di tempo, col ritmo incalzante, ascendente, rilassante, crea dei pattern che rimbalzano tra l’ambient, il doom e suoni neoclassici, andando a citare tra le proprie influenze anche il cascadian black degli Agalloch, che irrompe qua e là nella costruzione delle song. A chiudere il disco, ci pensano i finali 16 minuti di “Son of the North”, più orientata verso suoni glaciali, ma comunque di grande impatto ed effetto, che sanciscono l’ingresso nella scena di un’altra band estremamente interessare da tenere sott’occhio. Label avvisate… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80
 

Handwrist - All Flesh is Grass and All its Grace is as the Flower of the Field

#PER CHI AMA: Post Rock, Progressive, Psichedelia
Un titolo più corto era chiedere troppo? Sicuramente i portoghesi Handwrist rischiano di vincere il guiness dei primati per il titolo dell’album più lungo, che in realtà, non è altro che una citazione del Libro di Isaia estrapolato dalla Bibbia Ebraica. Lp di debutto (all’attivo anche un EP) per l’act di Lisbona, che nelle otto tracce a disposizione, crea un qualcosa di onirico, visionario, psichedelico, di non cosi semplice catalogazione. “Sailing Stones” sembra infatti una versione di “The End” dei Doors in preda a degli acidi ancor più pesanti, con una base ritmica che affonda sicuramente le proprie radici in suoni post rock, ma in cui ad assurgere il ruolo di totale protagonista è la chitarra, mentre le vocals, sono relegate in secondo piano. Il sound dei nostri è complesso, avvolgente, ricco di riferimenti biblici (il testo della seconda traccia, “The Tree of Knoledge” pesca infatti dalla Genesi), dall’indole mutevole ed imprevedibile, espressione di un rock settantiano e blues, associati a sonorità moderne. Quello che ne viene fuori ha un che di indomabile, con le harsh vocals che si sovrappongono ad uno space rock; peccato perché vocals più vellutate avrebbero potuto conferire un risultato ben più apprezzabile, ma questa è la musica, quindi largo spazio all’inventiva degli musicisti e questi Handwrist sembrano averne parecchia. Ubriacato dai suoni chitarra e organo, procedo col mio ascolto, sempre più convinto che l’album che ho per le mani sia quello della reincarnazione di Jim Morrison e soci, peccato solo che il buon vecchio Jim non cantasse in growl i suoi brani. Proseguo e la musica di questi portoghesi mi concede tanto spazio alle mie elucubrazioni mentali con un sound cerebrale, a tratti ambient, in altri frammenti di impossibile catalogazione, ma per me questa, è solo manna dal cielo. Ce ne siano di band che abbiano voglia di sperimentare come questi folgorati sulla via di Damasco, che rispondono al nome di Handwrist. Se siete sempre più curiosi di capire come il rock si sposi con growling vocals o come possano finire suoni mediorientali nello space o post rock che sia, potrete scaricare gratuitamente l’album dal sito bandcamp dei nostri e poter godere appieno anche voi della recalcitrante proposta degli Handwrist. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80

mercoledì 19 settembre 2012

Evadne - The Shortest Way

#PER CHI AMA: Death/Doom, Draconian
Ancora Solitude Productions ad allietare quest'ultimo scampolo d'estate, che nonostante i vari Caligola o Nerone, ha ormai assunto i connotati di una gelida stagione invernale. Arrivano questa volta dalla Spagna i nuovi interpreti del death doom europeo, con quello che rappresenta il loro secondo lavoro, “The Shortest Way”. Gli Evadne sono l’ennesima buona band in questo sempre più affollato panorama, in grado di proporre un sound cupo, atmosferico e al contempo epico e maestoso, che vede anche negli svedesi When Nothing Remains, un’altra preziosa e valida alternativa. Anche qui come per i colleghi svedesi, l’influenza principale rimane quella dei Draconian, con un sound sicuramente meno statico, rispetto a quello dei colleghi oltre la ex cortina di ferro, pregno comunque di mestissime melodie, cosi come il genere richiede, ricco delle consuete ed ormai immancabili parti acustiche che creano quelle strazianti atmosfere e dalle ferali e profonde growling vocals, che in taluni casi (l’inizio di “This Complete Solitude” o di “Gloomy Garden”), non disdegnano neppure il cantato pulito, che contribuisce sicuramente a donare ancor più tristezza ad un lavoro che al termine delle sue otto lunghe tracce, non fa che lasciarmi con un tormento nell’animo. Bravi da un punto di vista compositivo, abili come musicisti, intelligenti nel miscelare il death doom più depresso con accelerazioni più death oriented, quasi a ridestarmi dall’ascolto ormai intorpidito e soffocante delle sue tracce, gli Evadne si confermano eccellenti esponenti di una scena in continuo fermento. Però vi prego, ora lasciatemi tornare in spiaggia a lanciarmi nella mia ultima “Macarena” estiva, l’inverno può pure aspettare… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 70

http://www.evadne.es/