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domenica 6 maggio 2012

Marc Rizzo - Colossal Myopia

#PER CHI AMA: Guitar hero, heavy, hard
La Mascot Records si è incaricata di rilasciare il disco di Marc Rizzo che, per chi non lo conoscesse, è il fondatore degli Ill Nino e anche chitarrista eclettico dei Soulfly di Max Cavalera, nonchè Cavalera Conspiracy. In realtà, “Colossal Myopia” è una sorta di riedizione dello stesso lavoro uscito l’anno precedente, però con l’aggiunta di nuovi brani e un nuovo artwork. L’ascolto di questo cd è stata una grande sorpresa per me, che mal digerisco album interamente strumentali. La proposta di Marc è veramente interessante, per il suo elevato tasso tecnico (mi sembra di parlare di un calciatore), per l’eccellente qualità musicale e la varietà con la quale riesce ad assemblare i suoi pezzi, senza tralasciare l’ottima produzione. Ciò che più mi ha impressionato in questo disco, oltre ai virtuosismi di Marc, è la totale amalgama fra le chitarre heavy e il flamenco (ascoltatevi la title track e capirete immediatamente di cosa sto parlando), le bellissime chitarre spagnole, che danno quella sensazione di essere immersi in paradisi tropicali, a gustarsi una gustosa piňa colada sotto le palme e il sole di posti lontani... “Colossal Myopia” è un gran bel disco, suonato bene da ottimi musicisti, che raccoglie dodici tracce per più di un’ora di musica, spaziando da momenti hard in cui si possono ritrovare richiami delle band in cui Marc ha suonato, ad altri più delicati con soffuse melodie che deliziano i nostri palati (ad esempio la bellissima e malinconica “Synapse”); ma poi ci sono anche inserti di jazz, salsa e rimandi al sound solare di Santana, che ci mostrano quanto Marc Rizzo sia un chitarrista versatile, con radici ben salde nella musica metal, ma con una forte passione per il flamenco e per qualsiasi cosa che arriva diretta al cuore. Ragazzi questo è un album che vi farà emozionare, sognare e desiderare spiagge bianche, assolate e piene di bellissime ragazze... Un cd come “Colossal Myopia” mancava nella mia collezione, ora sono sicuramente più felice... (Francesco Scarci)

(Mascot Records)
Voto: 85 

On Broken Wings - It’s All a Long Goodbye

#PER CHI AMA: Deathcore/Metalcore/Swedish Death, Converge
Cosa esce questa volta dal sempre più affollato calderone del death-metalcore “made in USA”? Oggi è il turno degli On Broken Wings di Boston, il cui “It’s All a Long Goodbye” rappresenta il loro secondo lavoro, fuori per una sottoetichetta della Century Media, la Alveran Records. Come per "Some of Us May Never See the World", debut cd del 2003, il quintetto americano propone l’ormai classico hardcore dalle sbiadite tinte swedish death metal. I trademarks sono alla fine sempre quelli: riffoni death/metalcore dai molti cambi di tempo, che alternano con sapienza, momenti speed ad altri molto rallentati ad altri breaks melodici, harsh vocals contrapposte a chorus con voci pulite... sì insomma, niente di più scontato nel panorama musicale americano. Il sound del combo del Massachussets potrebbe essere tranquillamente avvicinabile a quello dei Converge, anche se leggermente più melodico. Le canzoni come sempre si assomigliano un po’ tutte, quindi non riesco ad indicare quelle che più mi hanno colpito. C’è ben poco da aggiungere ad un album che non presenta alcun spunto vincente se non una più che discreta produzione. Oramai, il rischio maggiore per questo genere è che, giunto alla sua saturazione, privi di interesse i fan in giro per il mondo, sarebbe davvero un peccato... Per concludere, gli On Broken Wings si sono rivelati noiosi e anonimi, speriamo che il loro sia proprio “un lungo addio”... (Francesco Scarci)

(Alveran Records)
Voto: 50
 

Manes - Vilosophe

#PER CHI AMA: Avantgarde, Ulver
Mi aspettavo grandi cose dai Manes! Immaginavo che se mai ci fosse stato un seguito di “Under Ein Blodraud Maane”, quell'album avrebbe preso le distanze dal black metal o quanto meno avrebbe sconvolto l'audience "estrema" con delle soluzioni imprevedibili e assolutamente fuori dagli schemi. Sicuramente le mie previsioni sul futuro artistico dei Manes potevano apparire atipiche per un fan di vecchia data del gruppo, ma il desiderio di ascoltare qualcosa di nuovo dal genio di questi norvegesi era troppo forte per potermi accontentare di un sequel in linea con il precedente album o di un lavoro che si affermasse semplicemente come una buona conferma. Non c'è che dire! Ogni personale aspettativa nei confronti di “Vilosophe” è stata pienamente soddisfatta e anche oggi, come in occasione dell'uscita dell'esordio “Under Ein Blodraud Maane”, mi ritrovo ad esultare per un altro capolavoro a nome Manes, un album che, oltre a tagliare definitivamente i ponti con il passato, prende il largo verso un'esplorazione musicale senza ritorno, amalgamando gli elementi stilistici più disparati in una collezione di otto brani veramente straordinari. Ecco allora ritmiche jungle, psichedelia e space rock che si fondono in un corpo unico, quasi ad assumere le sembianze di un appetibile e moderno rock alternativo, ma nascondendo tra le trame di un'apparente ‘normalità’ qualcosa di subdolo e poco rassicurante. È come se in una sorta di continuazione con le atmosfere terrificanti e gelide del loro passato, i Manes ci fissassero sorridendo mellifluamente e sotto le mentite spoglie di una nuova accessibilità covassero i medesimi sentimenti disillusi e cinici di un tempo. Viene quasi naturale l'accostamento dei Manes ai conterranei Ulver, non tanto per il tipo di musica proposto ma per la simile metamorfosi che entrambe le band hanno affrontato in questi anni, passando improvvisamente dal black metal ad una forma musicale estremamente più libera e multiforme. Per il resto, classificare un album come “Vilosophe” risulta talmente arduo da rendere futile ogni tentativo: a giungere in mio aiuto sono allora gli ascolti della band, che vanno da Hawkwind, Pink Floyd e David Bowie fino ad Aphex Twin, Massive Attack e Mogwai, influenze che in “Vilosophe” si disperdono fino ad annullarsi, per poi ricomparire improvvisamente tra l'irruenza delle chitarre, i camaleontici e melodiosi passaggi vocali, le note struggenti di un piano e i ritmi spezzati di drum'n'bass. Cerebrali e sofisticati, eleganti ed irriverenti, poliedrici ed inclassificabili: questi erano i Manes del 2003, una band geniale che sicuramente ha fatto discutere e che probabilmente avrà visto l'insorgere delle solite accuse di "tradimento" da parte dei puristi del black metal. Ho lasciato volentieri certe chiacchiere a chi pensava ancora di aver qualche voce in capitolo sulle scelte musicali di un artista e limitandomi a riconoscere il valore di “Vilosophe”, un album straordinario che ha fatto dell'avanguardia e della libertà artistica una lezione di stile. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 90

sabato 5 maggio 2012

Opera IX - Strix – Maledictae In Aeternum

#PER CHI AMA: Black esoterico
*"Qui la turba malvagia, non paga dei prolungati eccitamenti delle torture, si saziò di sangue innocente. Salva ora la patria, abbattuto ormai il covo del lutto, là dove imperversò la morte rifulgono oggi vita e benessere." Edgar Allan Poe – “Il Pozzo e il Pendolo”.

Sperate di non ricevere mai l'invito per un rituale di magia nera, naturalmente voi non saprete che si tratterà di quello, soprattutto perché l'invito vi giungerà certo da parte di qualcuno di cui vi fidate, ciecamente, da sempre. Di qualcuno per il quale sareste disposti a mettere la mano sul fuoco. Dubitate ancor di più, e soprattutto, se quel qualcuno, di giorno, predica bene. Rimarrete certo sconvolti o ancor peggio morti, a seguito di quel che vi potrebbe accadere, o che sicuramente vedrete accadere, se sarete un po’ più "fortunati", rispetto a qualcun altro. Vi cambierà per sempre. Indietro non potrete più tornare (Requiescat in pace). Sarete volti al male, per sempre. Una sola esitazione, il ripensamento di un attimo, vi condurrà ancor più velocemente alla bara. No. Non ci sarà nessuna bara per voi. La verità è un'altra: sparirete per sempre, all'improvviso, senza lasciare la minima traccia. Di voi parleranno, forse, solo i telegiornali e, se non contate niente, per poco tempo. Vi ho reso partecipi del pensiero vomitato dalla mia mente, evocato per voi dall'ascolto dell'intro "Strix the prologue" degli Opera IX. Ammesso che non abbiate già troppa paura, spero continuerete a sanguinare in mia compagnia, leggendo, perché sarò ben felice di farvi da Polia della situazione e di condurvi, per mano, in questo hypnerotomachico onirico viaggio di "Strix Maledictae in Aeternum", concept album sulla stregoneria. I primi centocinquantaquattro secondi spettano all'intro: un talentuoso artificio di tastiera mi trascina nella più profonda delle ipnosi, un viaggio alla suspiria, senza ritorno, nel tempo, verso il 1313. Mi lascio corteggiare, sedurre, avvolgere, da queste torbide, malsane, atmosfere aiutato anche da una suadente voce femminile. Non ho dubbi, si tratta di una strega: mi sussurra, sbiadita, tra fulmini, saette e canti gregoriani. Parte "1313 (Eradicate the False Idols)", a differenza della prima, è cantata. Uno scream cupo, pieno, che urla come Dio comanda e mi regala un'altra scena: stavolta mi trovo in una piazza e vesto il saio. Si, sono un frate cappuccino dell'Ordo Fratrum Minorum Capuccinorum, ordine che al tempo ancora non esisteva, sarebbe infatti nato poco più di due secoli dopo. Là, proprio di fronte a me, in mezzo ad una folla esaltata, vedo svolgersi la solita pantomima. Una giovane donna, bellissima, dai lunghi capelli neri, seminuda, è stata piantonata ad un palo. Visibilmente malmenata, non mi stupirei se stuprata poco prima dai suoi stessi inquisitori, è sotto lo sguardo crudele della folla assatanata. Tutti gli occhi, iniettati di sangue, sono volti a lei. Sono volti al male. Tutti la additano: Strega! Strega! Loro sono nel giusto, si, perche... credono. Un mefitico substrato di tastiere, come nebbia, si diffonde tra la gente. E' sotto l'influenza di questo malefico manto che la folla si fa’ ancor più violenta, più spavalda. Vi si insinua dentro un vero e proprio empatico odio collettivo. Un assolo di chitarra, come una frusta, sferza uno squarcio alla folla ed eccolo: l'inquisitore, dinanzi a lei, con lo scream che prima vi ho descritto, cita il ben noto versetto del Vangelo di Giovanni (15,6) grazie al quale per secoli, il rogo è stato giustificato: "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi li raccolgono e li gettano nel fuoco e li bruciano." Parti lente concedono, a tratti, qualche intarsio di veloce doppia cassa. Un rullo cadenzato, rende trionfale questa specie di marcia ed anche se con qualche sbavatura, colgo comunque quell'attimo: la fiaccola che viene calata sul rogo, le fiamme che divampano. Con quest'ultima immagine vi proietto nella successiva "Dead Tree Ballad" si parte con una batteria trionfale, da parata. Odo poi ancora quelle tastiere che fanno sesso con batteria di un di gusto che non vi dico perché voglio che lo sentiate voi stessi. Buone ma non ottime le rullate sui tom ma quella tastiera è degna di far da organo nella più meravigliosa delle gotiche cattedrali. Vedo i gargoyles prostrarsi ad essa, idolatrano il tastierista come una sorta di pifferaio magico. La batteria semina qualche peccato qua e là. Ricordo che al tempus fugit, se non si era "sin pecado" si bruciava. Nel complesso, comunque, anche questa track mi è piaciuta, mi ha lasciato qualcosa. Segue un secondo intro, "Vox In Rama (Part 1)". Canti in latino e cembali cui prima non avevo accennato, ma che comunque cadean, ogni tanto, qui è là, come coriandoli e l'atmosfera da oscuro rituale è garantita. Era l'introduzione per la successiva "Vox In Rama (Part 2)" un amalgama di scream e batteria che dapprima lenta, si fa poi più veloce, cadenzata, ma senza eccessi. "Mandragora" parte con un buon solo di chitarra anche se la sviolinata di batteria mi lascia un po’ perplesso. Ancora una volta l'entrata della tastiera mi salva da tutti i mali. Seguono "Eyes in the Wheel" su cui non mi soffermo perché ritroviamo un po’ tutti gli ingredienti di cui già vi ho in precedenza accennato. Con l'attacco di "Earth and Fire", riprendo la storia della strega da dove l'avevo lasciata. Le fiamme che divampano e la folla che urla. Ma le vere urla, strazianti, stavolta provengono dalla strega. Le fiamme infatti cominciano a lambirla, ad accarezzarla. Osservo le sue carni sciogliersi, sotto l'effetto del fuoco, ne intravedo le prime superfici del teschio sotto quei pochi lembi di carne che ancora vi restano adesi. Quello che prima era il suo bel viso, adesso si scioglie e cola sotto i miei occhi. Come una candela, si sfalda e pian piano si raggruma, accesa da un pellegrino nella più tetra e oscura delle cripte. I suoi denti ormai insanguinati brillano rossi e accesi come rubini ardenti e poi cadono, tra le fiamme, che si fanno sempre più fameliche e carnivore. Lasciano il nulla dove prima c'erano quelle sue curve voluttuose. Chitarra e scream vocale mischiati al sangue come in un calderone, marchiano nella mia mente quel suo crepitare. Quegli... scoppi. Quell'odore. Segue un'altro intro, anche questo molto suggestivo e ad effetto: "Ecate - The Ritual (Intro)". Mette una certa ansia, devo ammetterlo, ascoltatevelo al buio, magari da soli, in un posto sinistro e vi assicuro che a più di qualcuno metterà una certa paura. Degno di un Sabbah. E su questa parola mi sovviene un'altra immagine, una vera e propria opera d'arte questa volta. "Il Sabba delle Streghe" di Francisco Goya che Baudelaire, in “Fari” (ne “I Fiori del Male”), descriveva così la sua pittura: "incubo colmo d’arcani senza fine; feti cotti in un sabba, su qualche orrida balza; laide streghe allo specchio; ignude ragazzine che per tentare il diavolo si tiran su la calza.". Queste parole, rendono in modo eccezionale l'idea del rituale. Seguono "Ecate" e "Nemus Tempora Maleficarum". Anche qui non si perde certo l'occasione per descrivere un altro oscuro rito, svolto nella notte di San Giovanni e dedicato agli arcani elementi. Vi si citano persino i pianeti. Spetta ad "Historia Nocturna" dare il giro di boa a questo disco, a chiudere questo diabolico girone infernale che per solo averlo ascoltato, colloca al di là di ogni ragionevole dubbio, la mia anima, se mai una ne ho avuta, nel Cerchio VI, quello degli eretici. Quasi dimenticavo, non vi ho raccontato che fine ha fatto la strega: Riesce, prima di andarsene per sempre, a lanciare il suo ultimo anatema:

"Impia tortorum longos hic turba furores sanguinis innocui, non satiata, aluit. Sospite nunc patria, fracto nunc funeris antro, mors ubi dira fuit vita salusque tenent"*

(Rudi Remelli)

(Agonia Records)
Voto: 80

giovedì 3 maggio 2012

Germ - Wish

#PER CHI AMA: Black, Space Rock, Elettronica, Ewigkeit
Disorientato. Ecco l'effetto infertomi dal primo ascolto del debut album di questa one man band australiana che risponde al nome di Germ, che combina grandi aperture melodiche, con rare ma feroci sfuriate post black, fino a divagazioni dal flavour rock psichedelico. Apertura affidata a “An Overdose on Cosmic Galaxy”, che propone un qualcosa di simile da quanto fatto recentemente dagli svedesi AtomA (ex Slumber), con un sound etereo, arioso, easy listening e forse un po’ ruffiano, rovinato solamente da delle clean vocals fastidiose di Tim Yatras (già in Austere, Nazxul e session dei Woods of Desolation). Ma ecco che a scombinare e disorientarmi del tutto, ci pensa lo screaming efferato del mastermind, che seppur su un tappeto cibernetico assai possente, mi fa piombare nei miei incubi più spaventosi. La seconda traccia continua la sua opera di stordimento: base affidata ad una specie di space rock (ricordate gli Ewigkeit) però con le urla brutali a farsi portavoce della rabbia contenuta nell’animo tempestoso di Tim, che si alternano con un cantato pulito, finalmente all’altezza. L’elemento portante di tutte le song è sicuramente l’elettronica, la cui influenza è da indirizzare al grande Jean Michele Jarre, il che rende la proposta del nostro artista, veramente bizzarra e inedita. Non fosse per alcune galoppate epiche, di sporadici ma veementi stacchi black e delle già menzionate strazianti performance vocali, probabilmente saremo qui a parlare di un qualcosa che ha più connessioni con il rock, piuttosto che con l’ambito estremo. E proprio in questo risiede la forza di questo lavoro, che nella quarta “Breathe in the Sulphur/A Light Meteor Shower” vede il suo apice artistico compositivo, con orchestrazioni da brivido che si stagliano su una base lugubre come se il giorno fosse portato a notte, da un’inquietante eclissi solare, assoluto presagio di morte. Splendida. Seppur alcuni possano storcere il naso per una ridondante ripetizione nelle ritmiche, poco importa, c’è da divertirsi comunque nell’ascolto di questa avvincente opera; sono le ambientazioni depressive, le elucubranti percussioni psichedeliche, la fusione di generi cosi estranei tra loro, a rendere “Wish” il mio più chiaro desiderio di questa primavera. Si prosegue con la follia EBM di “Gravity”, prima che l’aussie man si lanci nuovamente alla carica con una serie di song che, lasciatemelo dire, di metal hanno ben poco. “Flower Bloom and Flower Fall, but I’m Still Wait” si sorregge sull’onnipresente base orchestrale, mettendo in mostra uno splendido assolo, “Infinity” funge da intermezzo allucinogeno prima del feroce attacco finale inferto da “Your Smile Mirrors the Sun”. Insomma un altro signor album che arriva dall’Australia, in attesa di venire catapultati nei fantastici universi di Ne Obliviscaris e Aquilus. Australia, fucina di talenti infinita! (Francesco Scarci)

(Eisenwald)
Voto: 85

Zuriaake - Afterimage of Autumn

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
Pensavo di aver scavato abbondantemente nell’underground, evidentemente mi sbagliavo. Lo testimoniano quest’oggi i cinesi Zuriaake e il loro introvabile album di debutto, edito dalla Pest Productions. “Afterimage of Autumn” è un lavoro un po’ datato, del 2007, che però ci tenevo a recensire, essenzialmente per dare voce a un mondo a me sconosciuto e in secondo luogo, per l’aura magica che lo avvolge sin dalla meravigliosa intro, “Whispering Woods”. Poi, il rumore di un ruscello apre “God Of Scotch Mist” e ben presto, anche le stridule chitarre (e vocals) di chiaro sapore nord europeo, fanno la loro comparsa. Burzum. Si, ancora il suo spettro che si aggira minaccioso anche per le lande infinite dell’estremo oriente. Non c’è nulla da fare, il Conte ha creato un genere che fa proseliti in tutti gli angoli del mondo, compresi questi Zuriaake. Se cosi fosse però, la recensione potrebbe anche terminare in poche righe; quello che mi fa però drizzare le antenne è l’utilizzo delle tastiere, limitato per carità, ma in grado di creare suggestive ambientazioni che sanno molto di cultura cinese. E se cosi, con la seconda traccia, ho come l’impressione di visitare il Palazzo Proibito di Bejing, con le successive song mi sento catapultato in cima alla Muraglia cinese, o al cospetto dell’Esercito di Terracotta, nonché dimenticato nelle povere campagne cinesi. La tradizione di questo popolo, i suoi suoni, i suoi umori, i dolori, le frustrazioni, la sua religione, convogliano tutte nelle tracce di questa interessante release che pur respirando la gelida aria dei boschi norvegesi, non nasconde l’amore per la propria spiritualità. Un po’ come accadde per i coreani Sad Legend, i Chthonic di Taiwan o i giapponesi Tyrant, anche con gli Zuriaake andiamo a scoprire una forma di estremismo sonoro che trae sicuramente spunto dalla musicalità di questo immenso paese. Per amanti del black ambient, ma non solo; anche chi ha voglia di esplorare una nuova cultura musicale, si faccia sicuramente avanti! (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 70

martedì 1 maggio 2012

Deadly Carnage - Sentiero II: Ceneri

#PER CHI AMA: Black Depressive, Shining
La malvagità intrinseca di questo lavoro, mi ha tenuto decisamente incollato nell’ascolto della seconda release degli italiani Deadly Carnage, un concentrato di black metal malato, selvaggio e feroce, che si rifà, senza ombra di dubbio, alla tradizione nordica, ma comunque con un estro riconducibile alla scuola italica. Già la opening track, “Guilt of Discipline”, conferma le mie parole, offrendo un corrosivo e corroborante esempio di musica nera, che trova espressioni di somma eleganza, nei suoi assoli e nelle parti più depressive, che permette all’act romagnolo di trovare una propria strada nell’intricato panorama estremo; le ritmiche serrate del brano infatti, mi avevano fatto temere il peggio, ma poi appunto quell’estro, di cui sopra, permette al quintetto italico, di esprimere la propria personalità. Anche la seconda “Parallels” offre spunti interessanti, per il desiderio dei nostri di spingersi verso lidi più atmosferici nei meandri estremi del black doom, accompagnati da una sofferente quanto mai diabolica voce, che alcuni di voi, vorranno equiparare a quella del leader degli Shining. Il paragone con la band svedese ci potrebbe anche stare, soprattutto quando la band si lancia in aperture più melodiche o drammatiche, mentre non ho trovato cosi piacevoli le parti in cui i nostri abbandonano il black, per far posto a scorribande che puzzano di death metal. L’abilità dei Deadly Carnage risiede comunque nell’alternare parossistiche sfuriate di suoni infernali con piacevoli parti arpeggiate (e il finale di “Parallels” ne è un palese e riuscitissimo esempio), cosi come pure da sottolineare l’eccezionale prova del vocalist nel mutare il proprio registro vocale: growl, blackish, lamentoso, sofferente, sussurrato o pulito (dell’ultima traccia). “Epitaph Part I” devo ammettere non mi è piaciuta granché, per quel suo incedere un po’ piatto e inconcludente; nella sua evoluzione e successiva “Epitaph Part II”, i nostri faticano nel ritrovare la verve che ha contraddistinto le prime due roboanti song. Il finale della seconda parte, fortunatamente, dà modo al combo riminese di ritornare a mostrare fiero il proprio valore. Glaciali alfieri del black oscuro made in Italy, in compagnia dei Frostmoon Eclipse, i Deadly Carnage regalano un altro interessantissimo pezzo, “Growth and New Gods”, esempio di furia evocativa che esplica tutta la propria genialità nel malinconico intermezzo acustico frammisto ad uno straziante solo, che innalza ancora una volta (e di molto), il livello qualitativo di un disco che, forse ha il solo difetto di non mostrare una certa costanza di fondo a livello musicale, perdendosi talvolta più nel desiderio di devastare l’ascoltatore con la sua irruenza, piuttosto che guadagnarne l’attenzione con una proposta davvero originale. A chiudere l’album ci pensa la paranoica “Ceneri”, song cantata in italiano, che sembra trarre ispirazione dai Canaan. “Sentiero II: Ceneri” avrebbe anche meritato di più, se avesse dato meno spazio ad una violenza (death o black che sia) talvolta solo fine a se stessa. Li vorrei pertanto risentire con il terzo e solitamente decisivo lavoro, speranzoso che le asperità di questa release, vengano del tutto limate. Dal sicuro avvenire, se prenderanno le distanze da suoni triti e ritriti. (Francesco Scarci)

(De Tenebrarum Principio)
Voto: 70

Oskoreien - Oskoreien

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Burzum, Agalloch
Una band Americana, che suona viking metal e che viene prodotta da una label cinese? Ecco uno degli esempi più azzeccati della globalizzazione e di quanto anche in ambito musicale, anche la Cina stia emergendo prepotentemente. Gli Oskoreien sono una one man band californiana, guidata da tal Jay Valena, che sembrerebbe essere un grande patito della mitologia nordica, a tal punto da chiamare la propria band come l’orda di anime morte che vagano tra il regno dei vivi e quello dei morti, una sorta di limbo della religione cristiana cattolica. E a fronte di un nome cosi epico, ecco che il nostro tuttofare statunitense, ha rilasciato il proprio debut omonimo che ci guida, un po’ come Virgilio con Dante ne “La Divina Commedia”, in un dimenticato mondo senza tempo. Tra le mani mi trovo un classico esempio di cascadian black metal, quella forma di black naturistico, primitivo, epico e sognante che sta prendendo forma e sostanza nella Western coast grazie, in primis ad act quali Agalloch e Wolves in the Throne Room. E proprio da queste grandi band, gli Oskoreien traggono spunto, arricchendo la propria proposta con sfuriate in stile Burzum, con aperture atmosferiche da capogiro, incursioni acustiche, melodie astrali e ataviche che riempiono con somma gioia il mio cuore pulsante. Cinque splendide tracce, che unendo la furia tipica del black con le chitarre tirate, suonate con l’immancabile tecnica del tremolo, agganciate ad un efferata batteria stracolma di blast beat sin dall’assalto frontale dell’opening track “Illusion Perish” che mette in evidenza immediatamente l’attitudine “wild” dei nostri, complice anche le demoniache screaming vocals del mastermind. Quello che poi solleva l’elementarità della proposta, sono quelle invasioni barbariche, epiche che conferiscono una certa solennità ed un’aura di mistero a questo enigmatico lavoro, dalla copertina alquanto inusuale per un lavoro black. Lampi post rock, accenni di psichedelia e frangenti ambient, completano il quadro di un album che ha il pregio di avere molte cose da dire. Da ricercare accuratamente sul sito della Pest Production, un’etichetta, che certamente ce ne farà sentire delle belle in futuro. Intanto godiamoci appieno questi Oskoreien, godibilissimi! (Francesco Scarci)

(Pest productions)
Voto: 80
 

Mondstille - Seelenwund

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Post Black
Non amo assolutamente il tedesco come lingua, per quella sua mancanza di musicalità, e non me ne vogliano i Mondstille per questo; alla luce però di quanto prodotto dall’act viennese, sinceramente me ne frego e ci passo sopra, in quanto la band austriaca ha rilasciato un signor album, che impreziosisce di molto il panorama black avantgarde, con una gemma da incastonare nell’ormai poco inflazionato mondo del black melodico. Detto fra noi, non conoscevo il quartetto di Vienna e di sicuro andrò a pescare il loro album d’esordio “Am Ende…”, per capire se erano già dei fenomeni all’esordio (datato 2008) o se c’è stata chissà quale evoluzione nel corso di questi anni che li ha fatti diventare cosi evocativi ma soprattutto bravi. Fatto sta, come avrete capito, che “Seelenfreund” è un album che a me piace moltissimo: un lavoro sicuramente estremo da un punto di vista musicale, impreziosito tuttavia da sublimi melodie di violino (grandissimo Ludwig), che si stagliano e susseguono su un tappeto ritmico estremamente serrato, con delle harsh vocals mefistofeliche. “Mein Inner Sturm”, “Im Trauerhain” e “Zeitenwandrer”, una dopo l’altra si esaltano per la furia propulsiva emanata, ma anche per le loro splendide atmosfere, che sembrano trarre ispirazione da una versione estrema dei primi ispiratissimi Skyclad. Sia chiaro però che non siamo al cospetto di una band folk; qui c’è tanta cattiveria, ferocia e brutalità, ma semplicemente è convogliata nel mondo più intelligente possibile, alla ricerca di una magica spiritualità, che si esplica nel corso dell’ascolto del cd. Qualcuno potrà affiancare il nome dei nostri a quello degli Eluveitie, niente di più sbagliato. I Mondstille sono i Mondstille, difficile trovare altre band che possano accostarsi al misticismo della proposta del combo, che tra l’altro in line-up non vede la presenza del batterista bensì l’uso di un drumming sintetico, peccato. Selvaggia anche “Die Seele Frei”, la quinta song, cosi come pure tutte le successive, sebbene in taluni casi, abbiano degli incipit assai romantici che sfociano comunque nella furia nera del black; ci pensa l’incantato suono del violino che si mischia a quello poetico del violoncello a mitigare il sound abrasivo delle chitarre, portandoci ad un’estasi spirituale. “Ich der Pan” ha un inizio da band post rock/folk, prima di abbandonarsi al corrosivo fragore delle chitarre. Il feeling che l’ensemble emana è quello tipico delle band post black e mi vengono in mente, a tal proposito, Deafheaven, Altar of Plagues, Lunar Aurora o la new sensation australiana dei Ne Obliviscaris; a differenza di questi altrettanto validi act, i Mondstille, al pari dei Ne Obliviscaris, hanno una marcia in più, che li vede posizionarsi immediatamente in cima alle mie preferenze in questo genere, con un lavoro del tutto inaspettato e che mi auguro, possa suscitare un certo clamore nella scena estrema. Eccezionali, vanno premiati con la vostra attenzione! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90
 

domenica 29 aprile 2012

The Black Dahlia Murder - Miasma

#PER CHI AMA: Deathcore/Swedish Death, As I Lay Dying, At the Gates
Torna la Metal Blade, ormai identificabile negli ultimi anni, con album di death-metalcore. Ancora una volta lo swedish death metal si fonde con l’hardcore americano e “Miasma” fu l’ennesima dimostrazione di questo trend imperante. La band statunitense formatasi nel 2001 dopo “Unhallowed” registra ai Planet Red Studio di Richmond, “Miasma”, il cui stile riprende quello del suo predecessore: il songwriting è infatti influenzato dalle solite band scandinave, At The Gates e Carnal Forge su tutte, e dalle altre band statunitensi che suonano questo genere. Ormai lo ripeto da mesi/anni, mi trovo spesso in imbarazzo a recensire questo genere di gruppi perchè oramai, i miei commenti finiscono un po’ tutti per assomigliarsi. Quindi anche per i TBDM non è che posso scrivere chissà che: l’approccio è molto familiare ad altri gruppi recensiti in passato, The Red Chord ed As I Lay Dying ad esempio, in altre parole, un sound ben bilanciato fra l’incazzatura del metalcore americano e la melodia del death metal svedese, canzoni brevi e dirette, riffoni di chitarra, una doppia voce schizofrenica, blast beat devastanti e melodici solos. C’è da aggiungere che, nella band proveniente da Detroit, è riscontrabile anche una leggera componente blackish con le vocals di Trevor Strnad più demoniache e caustiche rispetto ai suoi colleghi. Comunque, per concludere, si tratta sempre di deathcore a stelle e strisce, quindi se il genere è di vostro gradimento, direi di non farvi scappare questo ennesimo prodotto. Se poi anche voi siete saturi come me di questo tipo di musica, beh il panorama metallico ha da offrivi un mucchio di alternative... (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Colosseum - Chapter 2: Numquam

#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, Skepticism
Secondo album di questa potentissima band nordica, il terzo se teniamo conto della demo registrata nel 2006, che a me non è affatto piaciuta per i troppi riff ripetitivi, di quelli noiosi, che ti fanno conoscere una canzone dopo i primi quaranta secondi di distorsione. Ma qui, anche se sono passati solo tre anni dall’esordio in sordina, stiamo affrontando qualcosa di differente qualità. “Numquam” è un’opera unica di funeral doom, epica, non eccessivamente lenta e con riff (questa volta si) in evoluzione persino all’interno delle singole tracce. La mia più profonda ammirazione è andata verso la consapevolezza di questa band originalissima, che non teme di affrontare assoli melodici e inoculare atmosfere di speranza all’interno di un’opera doom totalmente nera. Molto sinfonica, a voler essere sinceri, con la presenza ad effetto di flauti e violoncelli che risaltano in un sottofondo di pura oppressione. È una registrazione che abbraccia con la sua tristezza, la sua oscurità, il suo senso di tocco infinito. Mancano quei passaggi depression-style che colpiscono il cuore, ma forse, in questo caso, è meglio così. “Numquam” si apre timidamente con una title track dai forti assoli cosmici, le prime due corde delle chitarre collidono con le ultime due accompagnate dal tormento inquieto di una tastiera che trasmette un forte timore di vana attesa. Epica. “Towards the Infinite” ricorda i padri del genere, Skepticism e Until Death Overtakes Me, amalgamando la lentezza tipica del funeral ad atmosfere maestose di mondi in rovina. Terribilmente desolante. “Demons Swarm by my Side” e “The River” rappresentano le due tracce che più mi hanno fatto apprezzare questa band: riff avvolgenti, poderosi nel loro andamento, assoli dai toni alti che lanciano l’immaginazione verso stati più elevati dell’essere e quell’abbraccio di tristezza che manca nelle altre tracce (“Awaiting the Darkness to Come / Drifting Away… Away…”); di sicuro un momento topico. “Narcosis” funge da collante perfetto tra il doom ‘comune’ delle tracce precedenti a quello più propriamente ‘personale’ dei Colosseum. “Prosperity” è la chiusura perfetta di questo secondo capitolo. Regale. Tenebrosa. Pervasa da un’antica magnificenza di bellezze perdute. Vengono condensate qui tutte le influenze di un gruppo fondamentale per il panorama underground del metal: dall’utilizzo in contrasto di accordi bassi e assoli alti, all’utilizzo di tastiere come mezzo per creare singolarissime atmosfere, agli iperborei momenti evocativi di marce epiche verso il nulla. Ogni strumento risponde perfettamente a sé stesso e comunica solidale con tutti gli altri. Non c’è da aspettarsi nulla da questa band, se non altre sperimentazioni, poiché hanno già scritto quello che dovevano scrivere all’interno della storia del funeral doom. Decisamente poco conosciuti. Nota: “Numquam” è l’ultimo album con Juhani Palomäki alla voce. Nel 2010 il suo spirito ha lasciato questo mondo. (Damiano Benato)

(Firebox)
Voto: 85
 

sabato 28 aprile 2012

The Sect - Initiation

#PER CHI AMA: Black Symph., Emperor, Solefald
Il gruppo francese ci propone questo ambizioso lavoro carico di pathos gothico e oscurità. Figlio del sound nero di Emperor e primi Solefald, si snoda sinfonicamente in un percorso complicato. L'uso delle voci è molto ricercato e le tastiere sono maestose e rendono il suono magico, malinconico e pieno. Le parti più melodiche, con l'uso del piano in uno stile drammatico e classico, aumentano la componente nostalgica della musica, in contraltare troviamo una sezione ritmica volutamente tenuta in sordina per meglio rendere il sound più accessibile, meno impastato e più cristallino, pur mantenendo una buona forza d'urto. Il cd è molto ben fatto e non risulta avere momenti di caduta, infatti sin dall'inizio, si ha l'idea di un lavoro ben studiato e di una band chiaramente al di sopra della media. Tutti i brani permettono all'ascoltatore di entrare in una sorta di “inner circle”, un calderone magico e ancestrale con cori molto evocativi e d'effetto. L'intro, “Invitation”, dura poco più di 1 minuto ma mostra subito il lato romantico e oscuro dell’ensemble, aprendo la strada alla seconda e bellissima traccia, “Altar of the Golden Depravation” e la terza (la mia preferita) “Mitre and Crosier”, evocativa e tesissima, con quei cori pazzeschi che ricordano nientemeno che i “Carmina Burana”! La quarta traccia, “Acceptation” (altro brano da collocare tra i miei preferiti), è estremamente carica d'atmosfera, ha un'aria di pianoforte spaventosamente classica in stile “Satie”, con quel sottofondo di fiati, che ricordano vagamente i lavori di Malher! Questo classicismo crea un perfetto contrasto con la successiva prorompente song dal titolo “Noctum Phantasmatha”, che alterna stati di luce e ombra, con il suo incedere alternato lento/veloce, sottolineato da un cantato pulito e i soliti splendidi cori ispirati, (ricordano tanto i Falkenbach) uniti ad uno screaming veramente diabolico e degno di nota. “Requien of the Unborn” parte con chitarre velenose e tirate, un bridge finale rallentato e molto gothic metal e chiude le danze con l'epicità giusta per rendere il tutto indimenticabile. Alla fine non ci resta che decretare un'unanime sentenza favorevole ai The Sect visto che il loro album “Initiation” risulta ancora oggi dopo quattro anni (il cd è del 2008) portatore di nuove vesti e idee sane per un genere che a volte rischia di cadere nel baratro del ripetitivo o del clone. La nuova canzone “Cosmic Keys to my Creation and Time” del 2009, sul loro myspace, ci fa ben sperare per un loro imminente ritorno in grande stile. Grande album! (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 80
 

domenica 22 aprile 2012

Sunpocrisy - Samaroid Dioramas

#PER CHI AMA: Post Metal, Tool, The Ocean, Isis
Grazie. Grazie per il meraviglioso album che i Sunpocrisy hanno saputo concepire, che va ben oltre le più rosee aspettative che mi ero creato con il precedente Ep. Un grazie a questa band perché, con “Samaroid Dioramas”, ha dimostrato che in Italia abbiamo delle realtà che possono tranquillamente competere con le band americane, svedesi o tedesche che siano. E infine un grazie perché ero stato buon profeta nella recensione del primo Ep, dicendo che la band era da tenere sotto stretto controllo e l’eco che questa uscita ha avuto nel web, è un’ulteriore riprova di quanto scrivevo e della ottima qualità del cui presente lavoro. Ma, andiamo pure con ordine. Avevo lasciato i nostri nel 2010 con “Atman”, un EP di quattro pezzi che mischiava riff death metal ad ambientazioni di “toolliana” memoria, il tutto cosparso di una diffusa psichedelica malinconia. Il nuovo album, oltre ad aprirsi con un atmosfera che sa molto di suoni tribali degli aborigeni australiani, esplode ben presto la propria furia con “Apophenia”, che mette subito in chiaro la direzione musicale intrapresa dal sestetto bresciano. Mi spiace ma ora davvero non ce n’è più per nessuno: non guardo più verso Berlino con invidia per i The Ocean, verso la Western coast degli US per i Tool o la Eastern per gli Isis, o ancora verso nord a Umea, pensando che là ci sono band del calibro di Meshuggah o Cult of Luna; a casa nostra ora abbiamo i Sunpocrisy, che partendo, senza ombra di dubbio dagli insegnamenti dei gods appena citati, sfoderano una prova a dir poco magistrale. I Sunpocrisy hanno fatto il botto e lo dimostrano le mazzate inferte già in “Apophenia”, che miscela suoni rabbiosi, tribali, psichedelici, infarciti da meravigliose, suadenti melodie, che mi mettono subito a mio agio, mi fanno rilassare, anche se il growling poderoso di Jonathan, sbraita come un ossesso e le chitarre “grattano” minacciose con sommo piacere. Ci pensano poi quelle ipnotiche melodie di synth ad insinuarsi nei miei neuroni, scorrere lungo gli assoni fino al terminale nervoso responsabile del rilascio di quei neurotrasmettitori, che mi inducono al piacere sublime. Non so cosa sia successo ai nostri, se siano stati folgorati sulla via di Damasco o cosa, so solo che nelle sette tracce (più intro) qui contenute, se ne sentono di tutti i colori. Tempi dispari di scuola “meshugghiana”, che dimostrano l’ineccepibile qualità tecnica del combo lombardo (arricchitosi tra l’altro di un terzo chitarrista e di un uomo dietro ai sintetizzatori), atmosfere ariose che surclassano di molto la performance del nuovo Ep dei The Ocean; una prova eccezionale del vocalist, abile a passare da un growling efferato a splendide clean vocals. “Φ – Phi” è un ulteriore esempio di quanto il combo sia maturato enormemente nel corso di questi ultimi due anni, dell’abilità in chiave esecutiva raggiunta (da saggiare a breve anche in sede live) e di quanto i nostri si sentano comunque a proprio agio nella gestione di pezzi di lunga durata, con quattro tracce della durata media di 10 minuti e quanto siano eccellenti anche in quelle song che fungono da collante nel cd (“Vertex” o “Trismegistus”). I Sunpocrisy sembrano una band di veterani, che calca la scena da qualche lustro. La maturità della band si saggia anche con lo strepitoso trittico finale di brani, che partendo dalla corrosiva e schizoide “Samaroid”, si spinge verso lidi di raffinatezza esagerata, con la successiva “Samaroid/Dioramas”, in cui l’eco dei Tool è sicuramente forte, ma lo è pure la personalità dei nostri, che emerge prepotente nel corso della traccia, che fa dell’espediente emozionale iniziale, l’elemento catalizzatore, con le vocals sofferte di Jonathan, accompagnate da una ritmica dapprima malinconica, poi furente, ma sempre nostalgica. A chiudere questo capolavoro, che mette in sella i nostri nell’essere indicati come vera e propria sorpresa dell’anno (e a mio avviso anche disco del 2012), ci pensa “Dioramas” che decreta il livello eccelso raggiunto dall’ensemble nostrano, incredibili musicisti in grado di spaziare tra il post metal, un residuo quasi impercettibile di death, la psichedelia onirica dei Pink Floyd, il djent dei Meshuggah, con quelle sue chitarre polifoniche e la componente depressive stile primi Katatonia, che avevo già sottolineato nella prima recensione. Che altro dire, se non che questo “Samaroid Dioramas” è forse l’album perfetto (anche in chiave grafica con un booklet avveneristico) che attendevo da tempo immemore… Guai a voi ora se non vi avvicinerete ai Sunpocrisy. Uomo avvisato… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 95
 

Dumper - Rise of the Mammoth

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Motorhead, Megadeth
Ommadonnasanta... Nel 2012 è ancora possibile trovare in Italia un gruppo che suona in stile Motorhead, probabilmente vive e porta avanti il mito delle belle donne sedute in braccio mentre bevi una birra ghiacciata e racconti l'ultima tua fuga dagli sbirri a bordo della fedele Harley? Fino a ieri avrei detto di no, ma quando ho messo su questo "Rise of the Mammoth", giuro pensavo di essere tornato indietro nel tempo! I tre ragazzotti dal lungo passato musicale che si legge nella punta consunta dei loro stivali, si riversa totalmente nel sound e ha il suo bell' impatto. Le chitarre lente e grosse, la voce di uno che ha qualche sigaretta e whisky alle spalle, insieme ad una ritmica basso-batteria che lavorano come fratelli, faranno godere le vostre fredde orecchie. "The Melting Eye" parte con un bel riff di basso, chitarra e percussioni che lascia spazio alla psichedelia ancestrale, poi il verso di una belva dà il segnale di inizio alle danze. Grande influenza Megadeth per i nostri Dumber, comunque con una discreta dose di personalità. Anche "Drag Me to Hell" inizia con il basso e poi l'entrata dei riff di chitarra vi fanno venir voglia di aprire il gas a manetta e correre per le desertiche highways americane. E' vero che il cliché di un gruppo come i Dumper sarebbe quello di vederli ad un moto raduno di quelli mastodontici, ma l'elevata tecnica strumentale e compositiva li potrebbe scaraventare su qualsiasi palco, magari buttando giù i soliti sovrani dell' ovvio. Degna di nota la cover di “Ticket to Ride” che trasuda stile in ogni corda e forse prende un po’ per il naso i benemeriti scarafaggi. Grandi. Bravi. Vi voglio su un palco mentre la birra scorre giù e toglie la polvere in fondo alla gola, dopo ore passate in sella a bruciare chilometri. (Michele Montanari)

(Buil2kill Records)
Voto: 80