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martedì 18 ottobre 2011

Arcadia - Cold Cold Bodies

#PER CHI AMA: Metalcore, Slipknot, Linea77, Korn, Messhugah
Vi confesso che questo è il mio primo approccio con i vercellesi Arcadia e, dopo aver recuperato i due lavori precedenti, posso giudicarlo come la loro prova più riuscita. Si parte subito con una voce che ci intima di abbassare il volume, cosa che non faccio assolutamente; anzi lo alzo ancora di più (chissà se funziona anche chiedendo soldi...) e vengo ripagato da un’arrabbiatissima “She’s got a Knife”, che lascia già capire la loro buona inclinazione all’assalto sonoro. Così mi rovesciano addosso dodici (non contiamo l’intro) dosi roventi di metalcore scatenato, rivisto, corretto e mescolato con altri stili (death, thrash, industrial), secondo la loro ricetta. Si sentono molto le influenze degli americani Korn e Slipknot, qualcosa dei primi Linea 77 e, sorprendentemente, degli svedesi Messhugah (ad esempio in “It Corrodes the Stars”). Non mancano alcuni punti melodici ma la loro dote risiede nella pesantezza reiterata. Molto ben suonato, si scopre una completa padronanza della tecnica e una buona dose personalità, tuttavia migliorabile. I tappeti sonori non sono scontati, i riffoni, gli stacchi-e-ripartenze, gli assoli e le ritmiche indiavolate fanno bella mostra di se senza appesantire. Anche le diverse influenze si amalgamano bene. Tuttavia qualcosa non è del tutto a posto, manca un quid che renderebbe tutto più equilibrato. Forse c’è troppa carne al fuoco: un po’ di “ordine”, tracce magari più brevi, osare di più su qualcosa di originale, ecco, renderebbero tutto migliore. Sparirebbe quella sensazione di ripetitività che serpeggia nella seconda metà dell’album. Un altro appunto lo muoverei sulla voce del singer: molto versatile, pecca un pochino nelle parti pulite mentre gira molto bene nello scream. Tra le canzoni citerei “Kissing Cyanide” e “Cadavers Under Formalin” come le più riuscite, di notevole impatto anche “ Coagulated Almost Forgotten”. Degno di nota anche il lungo pezzo di chiusura “Of Rust, Needles a Taste of Blood”: ipnotico, estenuante ma, a suo modo, affascinante. Piacevole l’artwork, non mi convince del tutto la produzione che sembra sottotono. Un disco arrembante all’arma bianca, personale, tagliente, con un pregevole carattere violento che pecca un po’ per originalità. Tuttavia, nella mia collezione di dischi metal di difficile classificazione ci sta benissimo! (Alberto Merlotti)

(Valery Records)
Voto 75

domenica 16 ottobre 2011

Scorched Shore - Waves of Oblivion

#PER CHI AMA: Death/Psichedelia, Pink Floyd, Opeth
Ragazzi ecco a voi il nuovo disco dei Pink Floyd, no ma che diavolo sto blaterando? Eppure l’inizio della opening track, nonché title track del cd in questione, mi aveva assolutamente fatto credere di avere fra le mani un nuovo lavoro della storica band britannica. In realtà, quello che sta girando nel mio stereo, è il debut album della one man band statunitense Scorched Shores, guidata dal suo carismatico leader Robert Curzon, qui aiutato da una serie di session musicians. La opening track dicevo è affidata proprio a “Waves of Oblivion”, che nei suoi cinque minuti iniziali depista enormemente l’ignaro ascoltatore con melodie psichedeliche, vocals eteree, ritmiche rubate ai già citati gods inglesi; sono totalmente disorientato, commosso, estasiato da questa musicalità quanto mai inattesa. Nel suo contorto evolversi (e la traccia dura più di 11 minuti), il brano viene turbato da inserti tecno death, un po’ come se i Nocturnus violentassero il sound dei Pink Floyd stessi; difficile a credersi lo so, eppure è realmente quanto racchiuso nei solchi di questo cd, che probabilmente ha il solo difetto di non avere una produzione cristallina adeguata. Però è incredibile fin dal suo incipit, la proposta offerta dal polistrumentista di Santa Cruz. La band californiana, non si ferma certo qui, se pensate che le tracce sono ben dodici, e continua a stupire anche con la successiva “Break These Chains”, che ancora una volta sembra estrapolata da uno dei dischi ubriacanti dei primi Pink Floyd, prima di far eruttare il growling perverso di Erik Peabody, e stralunarci con questo impensabile ibrido death psichedelico, fatto di ritmiche mai sostenute, clean vocals assai particolari, parti ritmate, sostenute da tastiere lisergiche, improvvise accelerazioni schiacciasassi. Mio Dio dove mi trovo, è forse il paradiso questo? Non so cosa rispondere, tuttavia continuo ad essere ammaliato dalla proposta di questo act statunitense che stravolge, alla stregua degli ultimi Opeth, il concetto di musica estrema. Si perché qui di estremo non c’è dopo tutto granché, se escludiamo qualche vomitata nel microfono o qualche frangente in cui il doppio pedale della grancassa tocca apici tipici del death puro. Per il resto nel dinamico procedere di “Waves of Oblivion”, la band americana farà più la gioia di chi ama melodie più rilassate o chi in questo periodo apprezza maggiormente il filone dello shoegaze o del post rock. In ogni caso, gli Scorched Shores, portano a modo loro, una ventata di novità (o forse meglio parlare di un ritorno alle origini e alle sonorità di fine anni ’60) che a mio parere non dovrebbe passare inosservata. Deboli da un punto di vista distributivo, vi invito ad andare sul loro sito, provare a gustare le loro melodie, i piacevoli assoli (splendida oltre a quello della title track anche il solo di “Peaceful Glazed”), abbandonarvi alle loro oniriche atmosfere, lasciarvi sviare la mente dalla inusuale proposta (ma che genere è quello contenuto in “A Forgotten Past”?) di una band in grado di rimescolare le regole del gioco. Certamente consigliato a chi ha la mente e il cuore aperto alle novità, all’imprevedibile, ai mix tra musica incazzata ed eterea. Per chi è un puro da un punto di vista musicale, sarà ben più difficile avvicinarsi ad un prodotto che potrebbe in realtà essere offerto alle masse (per lo meno a chi ama Led Zeppelin o Pink Floyd), ma che per quei suoi inserti growl o sfuriate brutal cibernetiche (“Nocturnal Calls” o “The Curse of Azrael” ad esempio), rischia alla fine di relegarlo ad un genere di nicchia. Sarebbe un vero peccato però. Il voto è più basso di mezzo punto solo per la registrazione non all’altezza e di un altro mezzo punto per la voce granitica, non troppo convincente dell’ospite Erik. Forza Robert, stupiscimi ancora di più la prossima volta! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80

http://scorchedshore.com/

sabato 15 ottobre 2011

Bloodshed - Inhabitants of Dis

#PER CHI AMA: Black Death, Dissection
Se vi piace il black-death svedese e non siete ancora sazi di queste sonorità i Bloodshed fanno per voi! La band proviene appunto dalla Svezia ed ha già all'attivo un mcd pubblicato nel 2001 per la Code666, dal titolo "Skullcrusher", che poneva in evidenza la passione del quintetto per il suono di formazioni quali Merciless e Marduk. Nel debutto "Inhabitants of Dis" le influenze citate sono ancora presenti ma i brani contenuti nel cd respirano di una freschezza compositiva che prende le distanze dalla "monotematicità" delle ultime prove in studio dei Marduk e ricorda maggiormente alcuni passaggi dei Dissection. I Bloodshed non riescono di certo ad eguagliare la classe della storica band svedese e i loro pezzi, oltre ad essere più brutali, sono caratterizzati da una maggiore velocità, ma numerosi sono gli elementi che rimandano alla band di Jon Nödtveidt, come i perfetti cambi di tempo, i riff circolari e cadenzati nelle parti più rallentate e gli sporadici intermezzi di chitarra acustica. A queste caratteristiche si aggiunge un drumming ultra-veloce e preciso che segue il lavoro tagliente e ferino delle chitarre e una voce che passa alternativamente dalle urla arcigne ad un growl soffocato e gutturale. In definitiva, un lavoro non fondamentale ma degno di attenzione. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 65

The Denial - Claws

#PER CHI AMA: Death, At the Gates, Hypocrisy
Grande è il vuoto lasciato dai Death, con la morte del suo leader carismatico, Chuck Schuldiner, grande uomo e grande artista. È bello vedere però, che nel mondo il ricordo per quella band e per quei suoni, non si è mai spento e riecheggerà per l’eternità. Innumerevoli anche i tentativi di riprendere quel sound e riproporlo con un minimo di personalità: è la volta dei pugliesi The Denial, che forti di una produzione agli Underground Studios in Svezia (con Pelle Saether dietro la consolle) e di una distribuzione da parte della Season of Mist, rilasciano questo validissimo lavoro, “Claws”. Il combo di Altamura ci regala nove tracce di sano e ispirato death metal di stampo americano, influenzato tuttavia da sonorità swedish, ma non solo: l’ausilio infatti di impercettibili (ma utilissime) tastiere, sulla scia dei primi Fear Factory, rendono il risultato assai godibile e meno banale. Ottima la preparazione tecnica dei musicisti, cosi come pure notevole è il gusto per le melodie che la band produce. Ritmiche incalzanti, ipnotiche e grooveggianti, smuovono band del calibro di Meshuggah o Nocturnus; le chitarre al vetriolo marciano di gran carriera, pesanti al punto giusto e con dinamici assoli. Un plauso speciale va poi alla voce di Giuseppe Falcicchio, che in taluni frangenti cerca di rimembrare quella del buon vecchio Chuck o di John Tardy degli Obituary; comunque Giuseppe mostra grandi doti canore e questo va sottolineato, perché se il risultato di “Claws” è a dir poco positivo, lo si deve anche alla sua performance dietro al microfono. Interessanti infine, le ultime due track dell’album: “Soundtrack of Apocalyptic Visions” è un brano strumentale che viaggia su un mid-tempo melodico, mentre l’ultima “Nanoman” è la cover, ben suonata, dei monumentali Voivod. Sperando in un po’ di fortuna, il destino di questa band, è già scritto… (Francesco Scarci)

(Hurricane Entertainment)
Voto: 80

Exence - Hystrionic

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Nevermore, Death, Anacrusis, Atheist
Guardando la il booklet di “Hystrionic” avrei scommesso 100 euro, che quello che avevo fra le mani era un cd di musica progressive... niente di più sbagliato o quasi! Potete ben immaginare la mia sorpresa, quando il genere che usciva dalle casse del mio stereo, in realtà era un thrash/death ultra tecnico e assai incazzato. La gioia maggiore è stata poi nello scoprire che la band in questione è italiana e ci ha impiegato ben 16 mesi di lavoro (dico 16!) per comporre e registrare questo istrionico debutto (tra l’altro registrato ai Not Quiet Studios di Helsingborg, in compagnia di Klas Ideberg e Peter Wildoer dei Darkane). Ho strabuzzato infine gli occhi, leggendo nella biografia della band, che i nostri hanno fatto da supporto ai Cynic. Insomma le carte in regola per fare bene ci sono tutte, bisogna dare ora un ascolto più approfondito al quartetto, guidato dal talentuoso chitarrista dei Vision Divine, Federico Puleri. I 50 minuti di “Hystrionic” si aprono con un pezzo abbastanza convenzionale di thrash metal che richiama vagamente i Nevermore, ma con la voce di Massimiliano Pasciuto (forse unico punto debole della band), stridula e un po’ fastidiosa, La song, dopo questo stentato avvio, prende a poco a poco il volo, deliziandoci con passaggi alla Death e le vocals di Max alla costante ricerca (purtroppo non riuscita) di emulare il buon caro Chuck Schuldiner. Si prosegue con “In Eternal Dynamics”, molto più ritmata ma che comunque dimostra l’ottima tecnica dei nostri e l’amore viscerale per il techno death che trova nella terza “Shaman” il proprio picco, con una serie di assoli dalle forti tinte power-progressive. Accanto agli ottimi solos di Federico, c’è da annotare una ritmica non brillantissima: è forse un po’ da rivedere a livello di suoni di batteria e potenza delle chitarre, sempre e comunque ben affilate. Il disco prosegue attestandosi su un livello medio alto dei brani, che mostrano la vena assai ispirata dell’act italico, passando con estrema disinvoltura da pezzi ispirati ritmicamente ai Pantera ad altri più complicati in pieno stile Death. “In Loving Memory” è un pezzo strumentale che ci dà modo di prendere un attimo il respiro e ripartire poi ancora più forti con la successiva debordante e palesemente “deathiana”, “Primal Mystic Substance”. Peccato, peccato solo per la non convincente prova a livello vocale di Max: se solo si fosse potuto prediligere un cantato più espressivo, il voto sarebbe stato più alto, ma comunque, come debutto non è poi cosi male. Da tenere quindi, costantemente monitorati, perché il capolavoro si nasconde dietro l’angolo. (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 75
 

mercoledì 12 ottobre 2011

Alverg - Elde

#PER CHI AMA: Black Old School, Immortal
Della serie “a volte ritornano”: la Soulseller Records ha riesumato band scomparse da tempo dal panorama metal. Dopo aver rispolverato alla grande gli svedesi Thornium, ecco ricomparire dall’oltretomba gli sconosciuti norvegesi Alverg, che dopo sei anni dal loro demo di debutto, nel 2009 tornano a calcare la scena, proponendo finalmente il loro debut sulla lunga distanza, dopo un susseguirsi di sfortunate circostanze. La proposta dell’enigmatico duo di Arendal è un inno alla maestosa natura della propria nazione, almeno cosi si evince dalle note biografiche della band, dato che l’intero album è cantato con liriche in lingua madre, comunque ispirate alle montagne, i fiordi e cascate norvegesi. Il sound della band poi riprende il filone old school di metà anni ’90, che aveva in Immortal, In the Woods ed Enslaved, i maggiori esponenti. Peccato che nel sound dei nostri non ci sia un granello di quella genialità che ha caratterizzato le band succitate. Non basta infatti creare pezzi che giocano sull’alternanza tra furia black e mid tempos doom, con le grim vocals di Lóge a decantare tutto il proprio amore per la natura. Neppure le epiche cavalcate in stile Burzum, le malinconiche (e banali) incursioni col piano, l’alone misterioso conferito dalla bassa registrazione (di volume intendo) o le deprimenti distorsioni chitarristiche, riescono a rendere “Elde” un pregevole prodotto; si scade purtroppo più volte nel classico già sentito. Tengo comunque a precisare, che il debut degli Alverg non è che sia brutto, però non è nemmeno questo gran capolavoro: è un lavoro che galleggia sulla sufficienza e niente più, quindi esclusivamente consigliato a chi ha nostalgia per questa tipologia di sonorità. Speriamo di non dover aspettare altri sei anni ora… (Francesco Scarci)

(Soulseller Records)
Voto: 60

We Made God - As We Sleep

#PER CHI AMA: Post Metal, Shoegaze
Li avevamo apprezzati enormemente a inizio estate con il loro nuovo album targato Avantgarde Records, “It’s Getting Colder“; ora quello che ho fra le mani è in realtà il loro primo lavoro che risale al 2008, un six-tracks, che mise in luce fin da subito le enormi potenzialità della band islandese e del particolare post metal, influenzato dalle sonorità di Sigur Ros e deviato da forti richiami shoegaze. Lo si deduce sin dall’iniziale “Gizmo”, song che viaggia sulle stesse coordinate stilistiche dei transalpini Alcest: melodie altamente introspettive, squarciate dal riffing mai troppo violento della band, con le vocals di Magnus sempre lamentose e poste in background. Una chitarra pesantemente malinconica, apre ”Bathwater”, sorretta da un basso pulsante e da un drumming sempre ben bilanciato. Ancora una volta è il lamento di Magnus a prendere le redini della partita, ma questa volta si sdoppia tra uno screaming selvaggio, di chiara matrice hardcore, e titubanti clean vocals, mentre il riffing post punk, seppur si mostri ancora un po’ acerbo, lascia già intravedere la strada, che il quartetto nordico avrebbe preso in futuro. Oscure ambientazioni esaltano il lavoro dei nostri in “Deir Yassin”, la mia song preferita, anche per l’accurato lavoro chitarristico e per l’uso del basso, alla fine vera e propria anima pulsante del sound dei We Made God, come dimostrato anche nell’incipit di “Theory Of Progress”, traccia che poi si dipana tra melodie assai ruvide. Menzione finale per i presunti sedici minuti (in realtà ne dura sei) conclusivi di “The Color”, in cui si notano ancora lacune in fase di canto pulito, ma che comunque incorpora tutte gli aspetti di un ensemble dalle grandi prospettive: linee di chitarra psichedeliche, toni drammatici, un’aura malinconica che ammanta l’intera song. Poi solo silenzio, prima della sorpresa finale, la tanto (anche se un po' scontata) attesa ghost track, un pezzo strumentale che non fa altro che confermare le eccelse qualità dei nostri. Audaci! (Francesco Scarci)

(Maybe Records)
Voto: 70
 

sabato 8 ottobre 2011

Sacratus - The Doomed to Loneliness

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Anathema, Saturnus
Ditemi voi, cosa può racchiudere un album di una band chiamata Sacratus, che nel titolo del proprio album di debutto riporta le parole doom e solitudine e la cui casa discografica si chiama “Disperazione Infinita”? Facile no, funeral doom penserete voi, come ha fatto d’altro canto il sottoscritto ancor prima di infilare il cd nel lettore. Facile cadere in tranelli di questo tipo, perché in realtà la band russa propone un death doom estremamente dinamico (strano a dirsi) ma che comunque, pur cedendo alle scontatissime influenze di My Dying Bride, primi Paradise Lost, ma soprattutto degli Anathema di “The Silent Enigma”, convince inizialmente per la vivacità della propria proposta, pur spingendosi con i propri brani a delle durate al limite del sopportabile (oltre i dieci minuti per brano, per una durata complessiva di settantanove sfiancanti minuti). Affrontare le prime tracce mi è sembrata infatti una passeggiata di salute e immergermi nelle calde melodie di “Blackeyes” o “Interlace”, dove gli echi dei fratelli Cavanagh di metà anni ’90 sono forti più che mai, è stato assai piacevole; mano a mano che si procede con l’ascolto dell’album, s’inizia a sentire la fatica, nemmeno stessimo affrontando il Passo del Mortirolo durante il Giro d’Italia. I toni si fanno più cupi e drammatici, il ritmo rallenta paurosamente, scadendo in riff triti e ritriti all’interno del genere, e provocando un improvviso calo di interesse. Non bastano infatti le tastiere (o qualche effetto) a destare un maggiore interesse nella proposta del quintetto di Cherkessk: “Madness” è aperta da un’intro felina e “Sub Hokhi” da un belligerante incipit, la musica dei Sacratus non convince appieno, complici se volete le lunghe durate dei brani, il cui immediato effetto è quello di skippare al brano successivo, alla ricerca di qualcosa di più accattivante. Certo non mancano alcuni spunti che hanno il marginale ruolo di risollevare le sorti della band russa: alcuni riff effettati di chitarra catturano l’attenzione ma è solo questione di qualche secondo, dopo di che il rischio di distrarsi si fa largo lungo gli infiniti 80 minuti, fino alla conclusiva strumentale “Melancholy”. Un plauso particolare però va alla voce di Serge che muovendosi tra un growling mai troppo pesante, sulla scia dei Cemetary of Scream e qualche episodio clean, contribuisce a salvare un lavoro che forse avrebbe rischiato una forte stroncatura. Per ora il consiglio è di lavorare duramente per prendere le distanze dalle vecchie glorie del passato ed acquisire una propria definita identità. Non vorrei mai che il death doom, da fenomeno dell’anno possa diventare la rottura di palle dell’anno, mi dispiacerebbe molto, perché è un genere che ha ancora un sacco di cose da dire. Esortando i nostri a dare di più, rimango curioso e in attesa di ascoltare il nuovo cd. (Francesco Scarci)

(Endless Desperation)
Voto: 65