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sabato 20 agosto 2011

Memories of Pain - .rewind

#PER CHI AMA: Black Symph., Dimmu Borgir, Emperor, Aborym
Ancora Italia e sempre più Italia in questo mercato discografico brulicante di bands spesso inutili. Però oggi sono fiero di presentarvi una band, che per quanto giovanissima e in taluni frangenti mostri ancora un po’ di immaturità, farà ben presto parlare di sé. Si tratta dei pugliesi Memories of Pain, capaci nel corso di queste 11 tracce, di sorprenderci con linee melodiche e soluzioni musicali assai interessanti. Si parte con la solita intro e poi già da “Absentia Mentis” è chiaro che i nostri non siano assolutamente degli sprovveduti. Chitarre in pieno stile Dimmu Borgir schizzano via veloci come la luce: si stagliano su di esse meravigliose partiture tastieristiche che vanno ad intersecarsi con improvvisi stop’n go e altri effetti in grado di stordirmi e sorprendermi non poco, che di questo periodo è cosa assai rara. Dopo gli otto minuti e più della seconda traccia, ecco arrivare “Impera, Aeterna Roma” dove fanno la comparsa le liriche in italiano in pieno stile Aborym (da sottolineare che in “The Last Portrait” compariranno addirittura versi tratti dall’Inferno di Dante). Lo spettro degli Emperor aleggia in tutti i 70 minuti e passa di questo lavoro, ma sinceramente me ne frego. Se la musica è ben suonata, ricca di idee ed imprevedibilità (ascoltate l’orientaleggiante “Black Queen” per capire), per quanto possa richiamare alla mente mostri sacri del passato, sarò ben lieto di propagandarla al mondo. E devo ammettere che “.rewind” è un album con le palle, cosi come questi giovani ragazzi di Acquaviva delle Fonti mostrano un grado di maturità che talune band, cosiddette veterane, neppure se la sognano. Non è da tutti comporre pezzi lunghi (che si assestano sui 7-8 minuti), altamente strutturati e caratterizzati da un tasso tecnico assai elevato, senza annoiare; i Memories of Pain centrano in pieno l’obiettivo sfoderando una prova intelligente che riesce a coniugare il black sinfonico norvegese con certe sonorità death progressive, vero punto di forza di questa release. Qualche accorgimento deve ancora messo appunto: migliorerei le growling vocals ed eviterei il più possibile l’uso dei blast beat assestando il sound più su mid-tempos piuttosto che su ritmiche serrate, però sono certo che se saranno seguiti da vicino da persone competenti, il quintetto italico mostrerà la propria bravura al mondo intero. Avanti cosi! (FrancescoScarci)

(Self)
Voto: 75

Solution .45 - For Aeons Past

#PER CHI AMA: Melodic Death, Soilwork, The Few Against Many
Frequentando varie testate di settore e webzine, un dato di fatto salta subito all’occhio: “For Aeons Past” è un album che ha diviso la critica in giudizi nettamente contrastanti. Per questo motivo pare quasi d’obbligo un invito a ridimensionare i miei toni entusiastici a chi non prova grande sintonia con il filone melodico del death, genere che in passato ha visto come precursori i Soilwork, autori di almeno una tripletta di album assolutamente riusciti. Chi invece rimane ancora legato a tali sonorità e prova dunque nostalgia per l’energia di lavori come “Natural Born Chaos” o “Stabbing the Drama” potrà trovare nei Solution .45 materia di assoluto appagamento. Il paragone insistente con i Soilwork trova fondamento in alcune tangibili peculiarità che accomunano le due formazioni svedesi, dagli intrecci melodici di gran classe, all’alternanza continua tra il canonico growl ed i ritornelli di voce pulita di facile appiglio. Tuttavia, il contenuto di “For Aeons Past” non deve essere scambiato per uno sterile surrogato di quanto già proposto dai cugini di Helsingborg. I Solution .45 puntano ad un approccio piuttosto personale al genere, giocando su contrasti nettamente più marcati tra la brutalità del death e momenti di un lirismo quasi “pop”. Complice di quest’attitudine tra l’estremo e l’accessibile non è solo la complessa ossatura ritmica dei brani, ma anche l’eccelso contributo vocale di Christian Älvestam, fino al 2008 tra le fila degli Scar Symmetry ed ora attivo anche in band quali Miseration e The Few Against Many. Älvestam è superbo nel modulare le parti di voce pulita su registri che per molti altri cantanti del genere risulterebbero impervi e risulta ugualmente convincente nelle esplosioni rabbiose di growl, quando deve sostenere i passaggi più violenti. E di violenza in “For Aeons Past” ce n’è parecchia, stemperata unicamente in un paio di episodi come “Lethean Tears” e “Into Shadow”, che assumono il ruolo di vere e proprie ballad. In realtà quasi tutti i brani dell’album potrebbero fungere da “radio-hit-single”, ma mi limito a citare “Gravitational Lensing”, forse perché scelta dal gruppo per la realizzazione di un videoclip ultra-professionale o forse perché riassume in poco meno di cinque minuti tutte le caratteristiche che rendono i Solution .45 un gruppo d’alta caratura: una spruzzata di tastiere mai invadente che dona all’insieme un tocco di modernità assolutamente efficace, l’apporto di Älvestam che, come ampiamente sottolineato, è il vero punto di forza della band ed infine un lavoro di chitarre che vede gli “axeman” Jani Stefanovic e Tom Gardiner rincorrersi in una serie di virtuosismi da capogiro. Un’ultima nota di servizio va spesa per la partecipazione di Mikael Stanne dei Dark Tranquillity, che oltre ad aver preso parte alla scrittura di quasi tutti i testi, appare attivamente in veste di guest vocalist in "Bladed Vaults" e "On Embered Fields Adust". Cosa chiedere di più? (Roberto Alba)

(AFM Records)
Voto: 80
 

giovedì 21 luglio 2011

Collateral Damage - Collateral Damage

#PER CHI AMA: Heavy Thrash, Iron Maiden, Judas Priest
Chiudo gli occhi, schiaccio play e mi sembra di essere tornato negli anni ’80, vi giuro. Ho i jeans grigi strappati, il giubbino in jeans senza maniche (ovviamente strappate) e la fascia di spugna sulla fronte. E mi lancio in un selvaggio headbanger per la stanza (intanto, faccio anche un po’ di air guitar). Bravi questi Collateral Damage, ottimi musicisti. Mi piace questo lavoro del quintetto viterbese. Di primo acchito, mi scapperebbe di dire che si rifanno quasi completamente al classic heavy metal, tipo Iron Maiden e Judas Priest, giusto per citarne un paio. Questo il filone dove inserirei il disco, però, dopo un ascolto più attento, in realtà non mancano spunti di altro tipo. Riffoni thrash metal molto anni ’90, un certo qualcosa di selvaggio dell’hair metal e altre influenze sono dietro l’angolo. Prendiamo l’inizio della open track “The Sin Flower”: ecco io ci trovo qualcosa delle atmosfere dei The Cult. Giurerei di sentire all’inizio di “Drunk in Bloody Rain” una citazione musicale, peraltro molto azzeccata, della scena finale del film “Blade Runner” (“Io... ne ho viste cose...” tanto per chiarire). Nulla da dire sulla parte musicale e della produzione: le grandi capacità del combo si sentono davvero benissimo. Apprezzabili in particolare le chitarre, molto ordinate, con accordi e assoli puliti, potenti. Notevole il cantante, tiene molto bene tutto l’album e sciorina un gamma vocale niente male. L’album mostra una certa coerenza nello stile compositivo; le tracce sono tirate come si deve e, sebbene non ci siano grandi innovazioni, non stancano e anzi tutto gira liscio che è un piacere. Non manca (come potrebbe?) la power ballad: in “Light in the Dark Side” si dispiega tutta la capacità melodica del gruppo (notare gli accordi di violino) e non è niente male. Segnalo inoltre la finale “Man of Brain”, molto particolare per il ritmo più veloce rispetto alle precedenti canzoni. Se non si fosse capito, sono rimasto colpito da questo platter. Ascoltatevelo fiduciosi. Bravi, bravi, bravi. (Alberto Merlotti)

(Alkemist Fanatix Europe)
Voto: 80
 

Meshuggah - Catch Thirty-Three

#PER CHI AMA: Djent, Techno Death
Avevo 16 anni, quando acquistai nell’estate del 1991, il primo Lp dei Meshuggah, “Contradictions Collapse”, album pesantemente influenzato dai primi lavori dei Metallica. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti fino a condurre il combo svedese a rappresentare una delle più importanti e influenti band in ambito estremo. Oggi ripeschiamo “Catch Thirty-Three”, che rappresenta una delle tappe che hanno portato alla consacrazione definitiva il quintetto scandinavo, anche se tuttavia questo lavoro non è uno dei più brillanti fin qui partoriti. Di primo acchito, ci si rende subito conto che per assimilare i 47 minuti che compongono l’album, servono ripetuti e ripetuti ascolti. La musica non differisce più di tanto dalle precedenti release: si rende solo più arzigogolata e schizzata, talvolta snervante al punto tale da farmi spegnere lo stereo e riprendere fiato; e ancora, in altri frangenti (quando la band si ferma, e per 5 minuti si intestardisce a ripetere gli stessi 3 accordi) risulta noiosa e prolissa. Sicuramente questo è l’album più sperimentale dei 5 ragazzi di Stoccolma: allucinati riff di chitarra in primo piano (chitarre a 8 corde, accordate bassissime - downtuning) sorreggono una batteria totalmente impazzita (ottimo come sempre l’apporto di Tomas Haake dietro le pelli, a conferma del fatto che sia uno dei migliori batteristi in circolazione), e poi i classici controtempi su controtempi tipici dei Meshuggah, con i ritmi dispari, spezzati, e il cantato urlato di Jens Kidman sopra. Concludendo, “Catch Thirty-Three” rappresenta una tappa di avvicinamento al grandissimo "Obzen"; mi aspettavo qualcosina in più... Comunque, lo sapete anche voi, i Meshuggah o si amano o si odiano, voi da che parte state? (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast)
Voto: 70
 

Confusion Gods - At the Gates of Confusion

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Il nome scelto da questa band italiana si identifica perfettamente con le sonorità che l’album stesso prova a ricercare nella sua evoluzione. Confusione… si… e di confusione ce n’è molta, ve lo posso garantire, nelle 6 tracce che andrete ad affrontare. Dal thrash sporco degli eighties inviato all’ascoltatore come un pacchetto anonimo, al rimando atipico (mai come in questo caso) della scuola black dei primi nineties, con una sosta al genere atmosferico senza diritto di cittadinanza. Lo screaming è violato alternativamente da sussurri e da un growl death che fatica a raggiungere tonalità profonde (non si possono forzare troppo le corde vocali, se non ci si è portati). Nichilistica e corrotta, la voce mi riporta agli esordi dei blasfemi Enthroned, e a mio avviso la band si doveva mantenere su questa precisa direttrice. Facendo le veci del critico stronzo che cerca il cosiddetto ‘pelo nell’uovo’ (scusate, oggi mi ci sento costretto) posso dire che i Confusion Gods hanno una buonissima conoscenza della tradizione black più semplice e statica. Per intenderci: quella delle registrazioni veloci e poco ricercate. Manca quel personalissimo valore spirituale del nord più freddo, ammesso che questa componente non sia stata evitata volontariamente nel lavoro di creazione delle canzoni. Se d’altronde manca la componente armonica dei riff ritmici, i passaggi melodici da una sezione all’altra delle tracce risultano al contrario molto ricercati. È questo che intendo con ‘confusione’ musicale.Davvero non comprendo l’obiettivo della band. Un piccolissimo bagliore di personalità emerge dalle mie cuffie quando li ascolto; nulla più. Indubbiamente è un buon album, certo, e ci sono tutti gli elementi per poter confidare in futuro in qualcosa di più ragionato. Ma per adesso, purtroppo a malincuore, le orecchie del mio spirito blackster-doom non provano che un minimo sussulto. Album adatto a chi vuole ascoltare un po’ di thrash-black senza tanti fronzoli. (Damiano Benato)

(Self/Necrotorture)
Voto: 65

Fangtooth - Fangtooth

#PER CHI AMA: Heavy Doom, Ozzy Osbourne, Tristitia, Cathedral
Se amate le tonalità heavy doom dei Cathedral o i riff del primo Ozzy potenziati all’estremo (Ozzy da solista) non potete lasciarvi scappare questo prezioso album dei Fangtooth. I pezzi sono davvero possenti, pesanti in sonorità, melodici negli assoli, a tratti epici. Ampio l'uso della batteria e dei piatti annessi (avete presente i Cathedral di “Electric Grave”?). La voce presenta diverse gradazioni di tono, ma risulta comunque pulita e omaggia la follia ironica del buon vecchio Osbourne. Al di là di tendenze musicali più estreme, e ce ne sono, il gruppo a cui più si possono rapportare i Fangtooth, giusto per dare un’indicazione di stile, sono i Tristitia di Luis Galvez. Magnifici gli esempi di chitarra doom dai toni compressi, arpeggi melodici profondi e graffianti. Magari ce li vedo solo io, ma gli innesti della southern school Down e BLS mi sembrano più che voluti. È un lavoro che combina moltissime influenze in un insieme compatto e coerente, davvero molto piacevole da ascoltare. L’andamento dei ritornelli acquista come una valenza cerimoniale, plasmata su una voce che funge da litania. Le liriche utilizzano tematiche care al doom: il rapporto dell’uomo con la divinità, le colpe e le condanne di una vita vissuta nel bene e nel male, la futura distruzione dei popoli corrotti, aspetti occulti e rimandi alla stregoneria e alla mitologia. L’ultima canzone si intitola “Cry of the Nephilim”, l’antica razza semidivina che avrebbe avuto uno stretto rapporto con l’evoluzione della razza umana. Vi cito un paio di versi della track “Martyr”, poiché riassumono in toto l’ideologia della band: “Now / I’m going to die / No fear inside my heart / The light embrace my soul”. È questo l’apogeo e il mistero della bestia Fangtooth (in senso positivo) celato in poche righe. Un gruppo da seguire obbligatoriamente nel suo evolvere. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 85

http://www.myspace.com/fangtoothdoom  

Aamunkajo - Avaruuden Tyhjyydessä

#PER CHI AMA: Black Funeral Doom
Signori miei, questo è puro funeral doom. L’effetto ipnotico sui sensi è garantito. Lo stacco da una canzone all’altra, infatti, appare nel complesso innaturale: toglie all’armonia un suono che pretende essere di infinito, perennemente in attesa come il cosmo. Anche in questo album l’alternanza di voce pulita a growl-screaming, funge da collante per i lenti riff. Efficacissimo l’uso di tastiere, che più che creare una loro melodia fungono da irreale sfondo. Per quaranta minuti sarete inghiottiti in un abisso vasto e profondo, dominati dal senso spasmodico di una perdita continua. Aamunkajo ci introduce in questa desolazione con la simbolica “Seinättömässä Talossa Kanssasi”, ovvero “In a Wall-less House with You”, facendoci capire fin da subito che da questo momento in poi non esisteremo altro che noi e lui, nell’universo conosciuto. Esatto: universo ‘conosciuto’… perché il titolo dell’album ha evidentemente a che fare con il senso di vuoto buio ed eterno, inneggiando a quella solitudine cosmica tanto esplorata da Lovecraft (“Avaruuden Tyhjyydessä” significa precisamente “In the Emptiness of Space”). Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, tutte le canzoni, se non contiamo l’ultima di 8 minuti, durano attorno ai 5-6 minuti. È davvero un peccato, perché questo genere necessita di tempo, non di una toccata e fuga. Si sente l’influenza di Burzum, prevalentemente in quelle parti che alternano voce sofferente ad una gutturalità decisa. Citazioni alla lontana di “Until Death Overtakes Me”. Fantastiche anche le chitarre, che lasciano graffiare senza ritegno le loro corde, lente e dure, accompagnandoci per mano attraverso la vacuità della rovina. Il cantato è totalmente (a quanto sembra) in finlandese, lingua madre dell’autore (eh già, one man band nella più consueta tradizione funeral). Questa è realmente musica nera, senza alcun rimando ad emozioni. Doom del più buio, dove la melodia esiste solo per evitare la perpetrazione di uno slow più tetro. Per precisazione si dovrebbe parlare più di un black metal rivisto in chiave doom (è l’impossibilità di una definizione che crea la qualità). L’ultima traccia, “Graves” è la più angosciante, l’alchimia tormentata dell’intero album. Da ascoltare evocando lovecraftiane creature, ad altitudini estreme, persi tra i boschi notturni, quando le ombre che temevate da piccoli iniziano la loro processione verso oscuri antri di anfratti antichi, i cui snodi conducono a recessi insondabili. (Damiano Benato)

(Satanarsa Records)
Voto: 90
 

martedì 19 luglio 2011

Shadow Man - Dark Tales

#PER CHI AMA: Doom/Gothic, Candlemass, Solitude Aeternus
Gli Shadow Man sono una one man band formatasi ad Aachen, Germania, che ha pubblicato il primo lavoro nel 2010 (da li in poi ne sono susseguiti altri tre, da gennaio a giugno 2011, con cadenza bi/trimestrale). Come visione d’insieme, si può dire che "Dark Tales" sia un album a tratti noioso, senza alcuna emozione se non fosse per gli incipit di stampo orrorifico. Si parte con "At the Gates of Trigania”, la prima traccia puramente strumentale: l’intro è misterioso, l’ambientazione che ne esce potrebbe far parte di un film thriller; degne di nota poi possono essere la terza traccia, “I Am Not” - in cui i suoni sono duri e cadenzati (con un forte rimando ai Candlemass) con la voce che si alterna tra quella di Messiah Marcolin e dei sussurri nel buio - e “The Human Factor” – che con un inizio in pieno stile Metallica, in cui in primo piano viene messa la chitarra, prova a rifarsi poi alla tradizione doom americana. Proseguendo nell'ascolto, sebbene l’inizio prometta bene, non vi sono altre tracce che possano dare particolari emozioni. Andando per ordine i commenti sono più o meno uguali. “Anachronisma” e “Black Swan Dying” sono pressoché identiche nel loro ritmo, con l’unica differenza nella voce cantata (poco incisiva, monotona e a tratti lamentosa). Da notificare il fatto che 7 minuti poi per un brano strumentale sono esagerati, per il forte rischio di cadere nella narcolessia profonda. "Bitter Sweet” e “Still Silent” sono accomunate dal fatto di essere entrambe acustiche, mentre il cantato si rivela piatto, monotono e sofferente (addirittura sembra di sentire David Bowie cantare “depressive metal”, anziché gothic metal, con risultati terribili): il nostro "uomo oscuro" tende ad inserire un po’ di cattiveria nei brani, ma manca la convinzione di base. “Fear” e “The Inner Path” sono definitivamente orfane di ispirazione e della sopraccitata cattiveria, ingredienti base perchè una canzone che possa far parlare di sé. Se mai si fosse alla ricerca di un brano strumentale buono per un videogioco di ruolo, “Life in the Shadows” potrebbe essere l’ideale. Suoni campionati e nulla più, ma almeno diventa orecchiabile. L’apice del “depressive metal” (è la definizione che più si adatta, in quanto mi ha messo di cattivo umore) è “Eternal Winter” dove si possono ascoltare gli stessi insieme di note trovate nei brani precedenti, il che ha reso arduo l’ascolto fino in fondo (dettato più dalla speranza di trovare qualche sorpresa che mi possa ridestare dal buio in cui sono piombata, piuttosto che dal piacere di ascoltare l’album). La sorpresa di cui parlavo poco fa l’ho trovata invece in “Cold Silence”, anche se tanto distante dall’essere una traccia entusiasmante e viva. Se l'uomo nero provasse a modificare un po’ la voce, magari tentando altre tonalità, il commento potrebbe anche essere diverso. Fortunatamente tutto il lavoro si conclude con una nota positiva: non per il fatto che “Zar’rah” si distingua dalle altre canzoni perché diversa, migliore o ricca di sonorità, ma perché dura pochissimo (rispetto ai 6 minuti di lunghezza media, ne dura 2,45): un collage di riff di chitarra elettrica (ovviamente identici gli uni con gli altri) messi assieme con la saliva, che non convince nemmeno un passante casuale. Concludo dicendo che questo cd andrà nell’angolo buio della scrivania, quasi nel dimenticatoio, con la richiesta che il quinto album (che magari starà producendo ora) possa avvalersi della collaborazione di qualche musicista di talento, in modo da diventare di maggior piacevole ascolto. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 55
 

Mortal Form - Taste the Blood

#PER CHI AMA: Death, Arch Enemy, Death, Kreator, Over Kill
Sono un po’ perplesso perché di solito i ragazzi della My Kingdom Music difficilmente sbagliano un colpo nello scegliere le band da inserire nel proprio roster eppure non riesco ancora a capire, dopo vari ascolti, cosa abbiano trovato di cosi interessante negli olandesi Mortal Form. Con questo non voglio dire che il combo dei Paesi Bassi non sia valido, ma di band che suonano questo genere (e forse meglio), su cui puntare in Italia, ce ne sono una infinità, e mi viene da pensare ad esempio ai napoletani Symbolyc. Veniamo comunque al quintetto di Arnhem/Duiven: la band propone un suono dal primo impatto decisamente roccioso, che non può che riportarci indietro nel tempo di quasi vent’anni, per quel suo stile vicino agli Over Kill o al sound ruvido di stampo teutonico. Il thrash e il death metal delle ritmiche si fondono con gli influssi dell’heavy classico, riscontrabili negli assoli di chiara scuola maideniana, ad opera dei 2 axemen Vince e Teun. Il suono si presenta bello solido, compatto, una sorta di tanker schiaccia sassi, brutale e melodico al tempo stesso che però, a causa della sua scarsa originalità, ci porta a spasso nel mondo, riecheggiando nelle nostre menti gli act storici che hanno reso grande questo genere: Kreator, Morbid Angel, Death e In Flames, si ritrovano infatti nelle note di questo “Taste the Blood”, album che per forza di cose, non può avere grandi pretese, se non piacere agli amanti di questo genere di sonorità, peraltro andate evolvendosi, lungo gli anni. Growling vocals e blast beat completano il quadro di un disco dal suono non troppo ricercato, ma bello diretto e adrenalinico; se è questo quello che cercate, l’album dei Mortal Form, può fare al caso vostro, altrimenti è meglio girarci alla larga, rischiereste di stancarvi alla velocità della luce… (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 65
 

domenica 17 luglio 2011

Eternal Tragedy - Forever

#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse, Bloodbath
Gli Eternal Tragedy sono il progetto di Stefania Ponzilacqua, virtuosa chitarrista che con l’aiuto di Enrico Francescato, brutal vocalist dei Soulpit ed Emilio Dattolo, ultratecnico bassista degli Illogistic, ha concepito questo cd nel 2006, rilasciato poi nel 2008 via GEMA. Mettiamo subito in chiaro che il sound proposto non è decisamente di facile approccio: si tratta infatti di un death bello incazzoso, in pieno stile americano, “floridiano” per l’esattezza (sarà un caso ma Stefania vive in Florida), ricco di cambi tempo, stop’n go, killer riffs e meravigliosi assoli. Premesso che amo questo genere di musica, “Forever” si presenta invece difficile da digerire, forse talvolta troppo pretenzioso o in alcuni passaggi troppo prolisso, con una serie di virtuosismi che non fanno altro che annoiare l’ascoltatore. Il cd, nei suoi lunghi otto pezzi, risulta davvero troppo granitico nel suo incedere, grazie alla devastante sezione ritmica e un po’ povero di aperture melodiche, che lo fa quindi di sovente scadere nel già sentito. Ciò che poi più non mi piace di questo cd è il suo suono, molto old style, abbastanza grezzo, che non consente di godere di quei particolari, che solo suoni puri e cristallini, sono in grado di trasmettere in album di questo tipo. La matrice di fondo è troppo impastata, talvolta confusa, la tecnica e l’estro di Emilio e Stefania per quanto ineccepibili, non sono sufficienti a far decollare l’album che si perde spesso in inutili scorribande brutali. Devo poi ammettere di non gradire molto il modo di cantare di Enrico, troppo piatto e convenzionale: per carità stiamo parlando di death metal e non sono richiesti certo vocalizzi raffinati, però se ripenso al buon vecchio Chuck Schuldiner, lui di classe sopraffina ne aveva da vendere. Il lavoro sicuramente potrà piacere agli amanti del techno death, ma sono convinto, conoscendo le potenzialità della sua leader, che gli Eternal Tragedy, siano in grado di fare molto di più, migliorando da subito la produzione (curandola decisamente più nei minimi dettagli) e rendendo il sound meno inquadrato in schemi predefiniti. Della serie “son bravi ma non si applicano a sufficienza”. (Francesco Scarci)

(GEMA)
Voto: 65

Ava Inferi - Onyx

#PER CHI AMA: Gothic Metal, The 3rd and the Mortal, Aenima
A passo lento, attraverso un cammino in salita, scandito dalla pubblicazione di quattro album, gli Ava Inferi, hanno infine raggiunto la vetta. Sin dall’esordio “Burdens” del 2006, il duo composto dalla portoghese Carmen Susana Simões e dal norvegese Rune Eriksen aveva dato prova di possedere un gusto insolito e mai banale per la melodia, eppure nelle prime produzioni in studio stentavano ad emergere slanci creativi che fossero di concreto risalto, tant’è che i primi due lavori risultano tutt’ora un po’ ostici ed appesantiti da un’eccessiva staticità. Se con il terzo album “Blood of Bacchus” le timide intuizioni degli esordi cominciavano finalmente ad aprirsi ad una scrittura più consapevole ed emozionante, è solo con “Onyx” che si può parlare di un vero e proprio rigoglio artistico. “Onyx” ha il profumo di un giglio in piena fioritura, il colore intenso di un frutto maturo, la grazia di forme femminee scolpite nel marmo lucente. Le note attingono sempre dalle suggestioni malinconiche del gothic metal, ma gli Ava Inferi dimostrano di non avere maestri ispiratori e di non cogliere nulla dalla “tradizione”, offrendo invece una variante tutt’altro che canonica del genere. Il contributo di Carmen è fondamentale per la riuscita dell’opera, semplicemente perché possiede un’ugola divina, adatta a confrontarsi con qualsiasi cambiamento d’umore dei brani, mentre l’apporto di Rune si rivela di immenso spessore, soprattutto dopo ripetuti ascolti, confermando che la struttura ed il valore dell’album non si appoggiano solamente sulle doti canore della compagna. E’ curioso poter ammirare la versatilità di Rune come compositore, un tempo abilissimo ad immortalare riff crudi e dissonanti per i Mayhem ed oggi ugualmente a suo agio nel costruire intricati e imponenti passaggi di chitarre che tratteggiano atmosfere continuamente mutevoli, da quelle tetre e solenni della splendida “The Living End” a quelle più vitali ed energiche di “Majesty”. Vanno assolutamente citate anche “The Heathen Island”, che ci regala un assolo di ammirevole fattura, la spettrale traccia d’apertura che dà il titolo all’album e “By Candlelight & Mirrors”, che stupisce per il registro improvvisamente solare e leggiadro, quasi a testimoniare che gli Ava Inferi riescono a muoversi con abilità ed eleganza su qualsiasi terreno. Impeccabili. (Roberto Alba)

(Season of Mist)
Voto: 90

venerdì 15 luglio 2011

*Shels - Plains of the Purple Buffalo

#PER CHI AMA: Post Rock, Progressive, Tool, Isis, Mogway
Li attendevo al varco, non lo nascondo; gli *Shels sono di sicuro una delle più interessanti realtà in ambito post rock mondiale e con questo “Plains of the Purple Buffalo”, giungono brillantemente al traguardo del secondo cd, dopo le eccellenti prove di “Sea of The Dying Dhow” e del fantastico EP “Laurentian's Atoll”, per non parlare dell’introvabile “Wings for their Smiles”. Si insomma, parto un po’ troppo poco imparziale, me ne rendo conto, ma quando sento certe sonorità echeggiare nelle casse del mio stereo, non sto proprio più nella pelle e sento il dovere di dire al mondo intero, che si sta perdendo qualcosa di bello, si bello, parola quanto mai banale, ma qui di sicuro impatto. Il nuovo cd di questi pazzi (anglo)californiani racchiude pura poesia nelle sue note e i 76 minuti contenuti in questa release, vi catapulteranno in un altro pianeta, un mondo celato fin dalla meravigliosa cover del cd, dove un branco di bufali viola, corre su uno sfondo stilizzato; geniali, non trovo altre parole per definire la proposta a tutto tondo della band statunitense. E la musica vi chiederete voi, dal momento che continuo a scrivere di tutto e di più, tralasciando la parte più importante di questo prodotto, com’è? Vibrante fin dalle iniziali note di “Journey to the Plains”, che apre il viaggio nei sogni tinti di viola, di questi ragazzi. E poi, un crescendo di emozioni, una progressione di suoni che partendo dalla tradizione post rock di mostri sacri quali Godspeed You! Black Emperor, snoda la propria proposta attraverso 13 capitoli succulenti, che consacrano gli *Shels, tra le entità musicali di più spiccata personalità e originalità. La musica, come negli altri lavori, fa la parte del leone, con lunghe, talvolta lunghissime cavalcate, in cui la psichedelia si fonde col post rock (di derivazione ‘70s), per esplodere raramente, in una qualche sfuriata più metallica, dove anche la voce più selvaggia riesce a trovare spazio. Ma ben presto, un intermezzo ambient o un pezzo acustico, vi darà modo di riprendere fiato, di riadagiarvi sulla vostra poltrona e tornare a rilassarvi con i suoni tipici del genere, qui costantemente di notevole spessore, tanto da spingermi cosi in alto con il voto. Se le vostre menti sono dotate di una buona flessibilità musicale, dovete accaparrarvi questa perla rara, che rischierebbe altrimenti di confondersi nel marasma delle inutili uscite discografiche che sta distruggendo il pianeta. Rinunciate all’acquisto di un disco thrash o di quello death del mese e per una volta, mettetevi in gioco, mettete in gioco i vostri gusti musicali, le vostre credenze e abbandonatevi alla soggiogante creatività di questo collettivo straordinario di artisti, non ne resterete delusi, che voi ascoltiate black metal, progressive, thrash o gothic. Il contenuto di "Plains of the Purple Buffalo" è qualcosa che va oltre la normale concezione di musica, e solo i grandi artisti sono in grado di concepire. Volendo fare un paragone con la precedente proposta del combo, il sound dei nostri, mantiene la sua solidità di fondo, abbandonando però quelle inutili fughe nel metalcore; qui troverete solo tanta classe cristallina, un quantitativo industriale di parti strumentali, dove la voce è lasciata ai singoli strumenti (e per uno come me che non ama particolarmente l’assenza di voce, vi garantisco che è stata una grande sorpresa), ottime performance vocali. Difficile poi descrivere una canzone piuttosto che un’altra, vorrei dirvi che mi piacciono tutte, dalla folle title track (part 2) alla malinconica “Vision Quest”, il lavoro si presenta super curato nei dettagli, negli arrangiamenti, nella perizia tecnica, nel gusto per le melodie, nelle parti oniriche e per quelle più oscure e arrabbiate. *Shels, la ventata d’aria fresca che stavo aspettando, una scossa per il mondo metal intrappolato nelle sabbie mobili, una spallata a tutti i trend inutili del momento, un viaggio incredibile in un territorio ancora inesplorato della musica rock. Unici e inimitabili! (Francesco Scarci)

(Shels Music)
Voto: 90

Dead End - Stain of Disgrace

#PER CHI AMA: Death/Dark, Dark the Suns, Black Sun Aeon
Eccola l’aria fresca del nord che arriva puntuale a pungere il mio viso e a portare un po’ di sollievo a questa calura estiva. E cosa meglio di una band finlandese ci può portare questo giovamento? (talvolta sono scandaloso, neppure stessi facendo la pubblicità ad una famosa bibita dissentante). Va bene, dopo questa digressione pubblicitaria, torniamo ai nostri finlandesi Dead End, che mi hanno spedito questo “Stain of Grace” che rappresenta il debutto del giovane terzetto di Helsinki. Nonostante l’inesperienza, le origini del combo non si possono smentire, e come detto più volte, quando un lavoro giunge dalla Terra dei Mille Laghi, non può che essere di buona fattura. Non si smentiscono, manco a farlo apposta, neppure i Dead End, che su una base di suoni massivi, ci piazzano il tocco magico della persuasione. Eh si perché, come abili venditori, i nostri ragazzi, combinano elementi che provengono dagli ambiti più disparati, dal punk al pop (bestemmia!!), mantenendo comunque come filo portante il death metal, quello più darkeggiante e melodico, se vogliamo che richiama i Dark the Suns o i Black Sun Aeon. Questo paragone non vuole assolutamente sminuire la prova dell’act della capitale lappone, ma anzi vuole già porre la presente performance al livello delle ottime band sopra menzionate. Apertura affidata a “My Fate”, mid tempo melodico, in cui la voce di Mikko Virtanen, sia in formato growl che in un inusuale stampo clean, conferisce il primo punto a favore dei Dead End. Le sonorità graffianti costantemente sorrette dal riffing corposo in chiave ritmica di Santtu Rosen, accompagnato dalle indispensabili keys, creano song dal forte sapore grooveggiante, con brani che intaccano istantaneamente la nostra memoria uditiva, grazie all’utilizzo di chorus, cavalcate melodiche che possono richiamare un po’ la ruffianeria di Scar Symmetry o Children of Bodom, ma che comunque hanno come effetto finale, quello di indurre ad un costante headbanging. Briosa, “Nothing Left to Bleed”, cosi come pure la title track che conferma lo stile sbarazzino dei nostri. “Fields of Silence” apre con piglio oscuro, con la doppia cassa di Miska Rajasuo a battere come un’indemoniata. Breve intermezzo con “Riot” e poi esplosione con la thrasheggiante “Sinner’s Day” dove il drumming preciso e funambolico di Miska, ci conferma che i tre musicisti non sono proprio dei pivellini. Intro tastieristico e via con “Cry for Innoncence” e ho un leggero deja vu con qualcosa dei Dark Tranquillity che rimbomba nella mia mente; non ho il tempo di andare in cerca di questo eco nel cervello perché poi una certa “sconnessione” di fondo all’interno del brano, mi lascia del tutto disorientato, e alla fine opto per farmi travolgere dalle funamboliche ritmiche, che mi spingono ad eleggere questa come la mia song preferita del cd, forse perché è l’unica che prova a prendere le distanze in modo più drastico dalle influenze della band. L’altro punto a favore dell’ensemble finlandese è quello di proporre brani estremamente diretti e dalle durate che non superano mai i quattro minuti. Dopo l’anonima “Face the Enemy”, ecco l’ultima “Betrayed” in cui Mikko apre con la sua calda voce pulita per poi lasciar posto all’alternanza growling/clean in una song che puzza come una sorta di semi ballad. Di cose da sistemare ce ne sono ancora un po’, ma decisamente siamo sulla buona strada per vedere un altro fenomeno finlandese emergere ben presto. Nel frattempo dategli un ascolto, vi piaceranno… (Francesco Scarci)


giovedì 14 luglio 2011

Sole Remedy - Apopotosis

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Porcupine Tree, Katatonia
L'ho sempre detto, per dare una svolta alla mia vita musicale dovrei fare un anno sabbatico in Scandinavia. In questo territorio, la musica ha avuto uno sviluppo unico nel suo genere, isolato dal resto del mondo ma nello stesso momento a passo con i tempi, spesso anticipandoli di brutto, segnando la retta via per il resto dei gruppi. I Sole Remedy sono un quartetto finlandese e non smentiscono affatto le loro origini, infatti con questo secondo cd "Apoptosis", pubblicato dalla Aftermath Music, entrano di prepotenza nel mondo dei grandi. Anticipo solo una cosa: a mio parere è un album geniale, dal sound ricercatissimo e sotto certi aspetti anche innovativo. Ora vediamo in dettaglio cosa i Sole Remedy ci propongono. "Comatose" apre le dieci tracce con dei suoni puliti, un ritmo non convenzionale per il post rock e la voce del frontman che accompagna le note librandosi nell' aria. "Present Remorse" cambia subito faccia all'intro dell'album e ci catapulta in pochi secondi nelle atmosfere del combo finlandese. Chitarre distorte incalzanti, ritmica veloce e il growl di Jukka Salovaara che si alterna non appesantendo troppo il brano. La malinconia riverbera in altri pezzi senza mai essere troppo eccessiva, infatti i Sole Remedy sono molto bravi ad intervallare i riff più duri con stacchi più tecnici, quasi prog. La quarta traccia, "The Burten", è a mio avviso un capolavoro, sia a livello di arrangiamento che di composizione. Le chitarre sono fantastiche, forse perché richiamano il sound dei Katatonia e trovare un gruppo che le reinterpreta così bene, è un orgasmo musicale. Tutti gli altri strumenti fanno il loro sporco lavoro, la tecnica è a livelli molto alti (NdR, il core del gruppo suona insieme dal 1998) e la voce di Jukka è quanto di meglio ci si possa aspettare per interpretare questo stile. "Wolf in Me" è il pezzo più rappresentativo dell’ensemble: infatti in questi otto minuti, la band sfrutta al meglio tutte le proprie doti regalandoci un piccolo capolavoro che richiama le sonorità dei mitici Opeth. E poi le chitarre, scusate ma dopo tanta mediocrità ascoltata nell'ultimo periodo, ecco finalmente una luce in fondo al tunnel. Lo stacco acustico a metà della traccia regala poi un'emozione vera di riscatto e purezza, cosi come le note cristalline della chitarra acustica, che viene poi ad essere incorniciato da un assolo di quelli da lenti ma azzeccati. Il cd si chiude con "Past Decay", che riprende la struttura dei precedenti pezzi, giocando sempre sulle sonorità che si avvicendano ad hoc. Ritorna la ritmica di "Comatose", come fosse una citazione, non una mancanza di estro artistico. Devo dire che è stato fatto un grosso lavoro di composizione e ancora meglio di arrangiamento, sicuramente il supporto dell' etichetta ha permesso poi ai Sole Remedy di raggiungere il loro traguardo ma sotto c'è un gruppo di quelli granitici, che non si lascia impaurire dal mercato musicale molto affollato. Quei gruppi che lavorano duro per anni senza demordere e di cui la scena musicale ha estremamente bisogno. Grazie Sole Remedy, avete regalato a noi mortali una perla da custodire per i tempi duri che verranno. (Michele Montanari)