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lunedì 9 maggio 2011

Exhale - Blind

#PER CHI AMA: Death/Grind, Nasum, Napalm Death
Eccole qui, mi mancavano le schegge di fottutissimo grind a perforare le mie orecchie e ci pensano gli svedesi Exhale, col loro secondo lavoro, a trapanarmi il cervello con queste 15 crivellanti tracce di furioso grind in pieno stile Nasum. Che dire, non sono proprio un grande estimatore del genere anche se ho amato i primi Napalm Death ma qui siamo al cospetto di una formazione che fa della violenza suprema il proprio punto di forza, anche se poi si assiste a dei rallentamenti di chiaro stampo death metal (Entombed era “Clandestine” tanto per capirci). Questo per dirvi che non ci troviamo di fronte a una band di purissimo grind, come i bravi maestri inglesi erano in grado di fare, ma c’è un mix di brutalità, data dall’annichilente sezione ritmica del quintetto scandinavo che viaggia costantemente a livelli di velocità doppi a quelli della luce e qualche sporadico inserto death. Gli Exhale sono sicuramente una band dotata di buona tecnica (incredibile il batterista che si conferma mostruoso dietro le pelli), con il vocalist Peter Andersson che alterna lo screaming a del cavernoso growling. L’unico problema di “Blind” è la noia che affiora dopo pochi minuti, in quanto, come spesso accade per questo genere, la sensazione è quella di ascoltare la stessa canzone per una trentina di minuti. Peccato, se solo si fosse in grado di dosare sapientemente le forze, sono convinto che anche questo tipo di grind avrebbe un maggiore successo. Osare è il verbo che più prediligo, ma anche l’invito che faccio anche a questi cattivi scandinavi! (Francesco Scarci)

(Dark Balance Records)
Voto: 60

Axen - Scream of Desperation

#PER CHI AMA: Thrash Old School, Exodus, Testament, Pantera
Una terrificante intro apre questo MCD di 5 pezzi degli inesperti Axen. Formatisi infatti nel 2009, mostrano in questo lavoro tutta la loro inesperienza, sebbene provengano da altre precedenti esperienze. A partire dalla pessima produzione, che penalizza enormemente il suono della batteria (ricordate “St. Anger” dei Metallica?), il combo siciliano prova a miscelare il thrash anni ’80 con i suoi acuminati riffs di chitarra e le pesanti ritmiche (qui assenti) con il death metal. Il risultato però è ancora distante da poter essere definito sufficiente: mi è sembrato di fare un bel salto nel passato di vent’anni quando le band che seguivo, Alligator o IN.SI.DIA, cercavano di fare il verso ai godz americani, Metallica, Testament o Over Kill, ma l’esito era sempre lontano anni luce dalla proposta d’oltreoaceano. L’interpretazione del thrash metal da parte delle band italiane non ha mai riscosso grandi consensi dal sottoscritto, e questi Axen purtroppo non sono immuni dalla mia falce assassina. A parte la title track, cè’ ben poco da salvare in questi brani, se non qualche bell’assolo qua e là che risolleva per un attimo l’umore di una canzone. La performance del vocalist è poi tutta da dimenticare, per la sua indecisione o voluta scelta, di non usare una voce growl, ma neppure una pulita, bensì optando per uno sporco mix che alla fine finisce col mostrare solo la precarietà qualitativa dell’ensemble italico. Rimandati fino a nuovo ordine: chissà se l’album che stanno scrivendo stia smussando i lati negativi della loro proposta, me lo auguro proprio... (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 55

Nowhere - M.O.U.W.

#PER CHI AMA: Crossover, Funk
Quante volte mi avrete sentito dire qualcosa del tipo “Sì, niente male ma un po’ troppo ripetitivi...”? No, fermi lì! Non andate a contarle. Sappiate solo che questa volta non lo dirò. Sì perché le cinque tracce di questo “M.O.U.W.” sono maledettamente eclettiche e, a parte una catalogazione un po’ generale nel genere metal, faccio fatica a darne una definizione. Direi vicino al crossover, ma con una certa libertà. I “Nowhere” mi hanno colpito molto positivamente; il gruppo rodigino riesce a creare un album dal suono relativamente meticcio, mantenendo una forza concussiva sonora niente male. A proposito: non fatevi prendere dalla tentazione di considerare la traccia di apertura, “No Song”, come metro dell’energia del disco. Risulta più tranquilla delle altre grazie a un passaggio raggamuffin’ azzeccato, ma orecchio alle linee di chitarra: già si sentono le loro intenzioni per il seguito. Ecco infatti la più tetra, incalzante e aggressiva “Arbeit Makt Sklaven”, il cui incipit la rende leggermente straniante.Veloce, diretta “Lula Pop” potrebbe sembrarvi subito scontata, ma i variopinti innesti (dal growl e a certi cantati che mi ricordano Elvis) evitano decisamente di annoiarsi. La seguente “Meaning of Unspoken Word” mi pare la più interessante del mazzo, ricca di spunti derivanti da diverse influenze. Qui ritorna in maniera più preponderante il raggamuffin, è un cavalcata tra percussioni martellanti, cambi e un cantato dalle metriche vertiginose (se devo essere sincero non ci ho capito granché, ma va bene lo stesso). Chiude l’album, introdotta da cornamuse su un ritmo da marcetta, “Indelible” la canzone più cruenta del platter. Grazie al featuring di Christian, dei Fear Flames, i nostri ci regalano quattro minuti durissimi, velocissimi fortemente improntati al core.Una parola va spesa assolutamente per l’ironica immagine usata per la copertina del ciddì. Un buon lavoro, personale, non scontato e, mi pare, con una buona dose di autoironia di fondo. (Alberto Merlotti)

(Akom Production)
Voto: 70

venerdì 6 maggio 2011

Facebreaker - Infected

#PER CHI AMA: Crusty Death Old School, Dismember, Grave
Non faccio nemmeno in tempo per riprendermi dalla mazzata nei denti infertami dagli svedesi Evocation, che mi ritrovo sparato nel mio lettore cd, la nuova fatica dei Facebreaker, che riprendendo i vecchi discorsi iniziati nei precedenti lavori, non esitano ad infliggermi il colpo di grazia, forti del loro death metal old school che riprende il crusty death svedese (quello delle chitarre dello studio di Tomas Skogsberg per capirci che ha regalato il successo a Entombed, Dismember e Grave) miscelandolo con un mid tempo di scuola inglese (Bolt Thrower su tutti). Il risultato? È un’altra mazzata nello stomaco che decisamente questo mese riesce a piegarmi sulle ginocchia, buttandomi quasi al tappeto, finendo ko. Ma ho fisico e so che posso rialzarmi e affrontare a viso aperto questi montanti, diretti, ganci che provano a colpire il mio volto. Scariche feroci di rabbia, sostenute da l’ennesimo selvaggio muro ritmico che non può non richiamare anche gli Edge of Sanity degli esordi (“Nothing but Death Remains” e non la vena più melodica di Dan Swano e soci): un uno-due vincente, efficace nel suo incedere, che dimostra l’abilità dei nostri di costruire song che fanno della semplicità il proprio credo. Crudi, brutali, graffianti, i Facebreaker vi riempiranno di cazzotti ben assestati, ma alla fine capirete che ne sarà valsa la pena; brutalità ed energia allo stato puro! (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire)
Voto: 65

giovedì 5 maggio 2011

Mirror of Deception - A Smouldering Fire

#PER CHI AMA: Doom, Solitude Aeternus, Candlemass
Attesissimi da più parti (non di certo dal sottoscritto), tornano i doomsters tedeschi Mirror of Deception, con un album che mi ha lasciato del tutto basito per la pochezza di idee proposte. Conoscevo la band teutonica e sinceramente mi aspettavo qualcosa di più da questo lavoro, considerato anche il fatto che erano passati diversi anni dalla precedente release. “A Smouldering Fire” si presenta subito di difficile impatto con songs che faticano ad entrare nella testa e con un vocalist che di sicuro non rimarrà negli annali. La band prova subito a partire ripescando il sound dei mostri sacri Candlemass, ma ben presto mi rendo conto che è la noia ad avere il sopravvento. Le tracce si rivelano estremamente semplici e prive di quel feeling epico che da sempre contraddistingue invece la band svedese. Non so che dire, che cosa pensare, sono quasi spiazzato da una proposta che mi aspettavo di tutt’altro livello anzichenò. L’acustica “Heroes of the Atom Age” apre a quella che forse è la migliore traccia dell’album, “Bellwethers in Mist”, song che richiama anche qualcosa di “Hammerheart” dei Bathory, forse un po’ più potente ed epica delle precedenti, ma che comunque non porta la band germanica oltre ad una sufficienza striminzita. La successiva “Unforeseen” infatti si rivela uno strazio per le mie orecchie che continuano a considerare i veri alfieri del doom le band provenienti dall’est Europa. Un altro pezzo acustico e si arriva a “Lauernder Schmerz” song peraltro cantata in tedesco e quindi non potete immaginare il mio fastidio. L’album scivola via nell’anonimato più totale, con pezzi abbastanza altalenanti che ben presto, fortunatamente, si dissolveranno del tutto dalla mia mente. Se siete dei fan della band invece sappiate che la prima stampa dell’album vedrà la luce in un doppio cd con rarità e demo tracks. Inutile per chi non ama il genere, già di per sé difficile da digerire, se poi fatto non proprio con tutti i sacri crismi, può diventare un supplizio non indifferente! (Francesco Scarci)

Voto: 60

Curiosando sul loro sito ufficiale, sono rimasta incuriosita dalla definizione che danno alla loro musica: “unorthodox doom metal”. Formatisi in Germania nel 1990, iniziano a lavorare al loro album di debutto verso dicembre 1997 (dopo tre demo), album che vedrà la luce solo nel 2001, con tanto di tour promozionale. Dopo 3 album usciti in 9 anni, e svariati cambi di line-up (di nuovo), mi accingo ad ascoltare il loro quarto album, “A smouldering fire”, uscito nell'ottobre 2010. "Isle of Horror" si apre con un riff di chitarra pesante e grave, che già pregusta alle atmosfere cupe e alla voce tendente al solenne (sembra più una filastrocca che un canto vero e proprio). I riff di chitarra e batteria tendono a ripetersi, mentre la voce tende ad essere un po' lagnosa. "The Riven Tree" ricalca in parte le atmosfere precedenti, modificando la voce: più melodica, che ricorda vagamente Serj Tankian. Il brano si avvicina così più allo stile alternative metal, lasciando in disparte la vena doom. "Heroes of the Atom Age" è strumentale, caratterizzata dalla sola chitarra suonata lentamente, dando una sensazione di malinconia. "Bellwether in Mist" desta da subito, grazie anche alla voce che parte all'inizio accompagnata da batteria e chitarra: riprende il ritmo di “The Riven Tree”, dove la chitarra si amalgama alla voce, creando un brano molto melodico e non troppo invadente: si posso anche udire i cori del batterista nel ritornello. Con "Unforseen" si fa più sul serio, tornando alle atmosfere cupe della opening track e facendo largo uso di note di basso, specialmente nella parte più lenta. La voce rimane sempre sul pulito, accompagnata anche da cori. Solo da metà in poi il ritmo si fa un po' più serrato, la rabbia emerge, per concludersi con un ritmo che nuovamente cambia, fino a rallentare del tutto. "December", prettamente strumentale, posta a metà dell'album, continua sulla stessa linea della precedente mentre "Lauernder Schmerz" è l'unico brano cantato in madrelingua (il titolo si può tradurre come “il dolore che attende con impazienza”). In "Walking Through the Clouds" le cose cambiano: la voce si arricchisce anche di frasi parlate (e non solo cantate), e la musica lascia in disparte la vena malinconica: a mio avviso questo è il brano più bello di tutto l'album. Con "Leguano" abbiamo la terza e ultima traccia strumentale, dove la chitarra si avvale della collaborazione di maracas. "Sojourner" presenta un cantato tendente all'acuto: qui la batteria è picchiata con forza, mentre la chitarra è portata al limite più profondo, fino quasi a fondersi con il basso. Ascoltati i primi secondi di "The Flood and the Horses", mi è saltato alla mente un paragone a dir poco assurdo: i Placebo. C'entrano ben poco, a dir la verità, ma il fatto di cantare con una tonalità medio-alta, i riff che si avvicinano più al rock che al metal, una refrain che porta la testa a ondeggiare avanti e indietro, mi ha colpito non poco. Con la conclusiva "Voyage Obscure" si arriva alla fine di questo viaggio: la band ci lascia una buona impressione, con un lavoro ricco di sonorità (anche se a volte gli accordi si ripetono) che spaziano nelle più varie sfumature dell'alternative metal. Hanno sicuramente sfatato il mito che “Germania = industrial metal”, dimostrando quanto la scena teutonica possa sfornare musiche per ogni palato. (Samantha Pigozzo)

(Cyclone Empire) 
Voto: 75

Evocation - Apocalyptic

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dismember, Edge of Sanity, At the Gates
Con grande titubanza mi avvicino all’ascolto di questo cd, dando per scontato che si tratti dell’ennesimo anonimo gruppo che vuole fare il verso ai gods del passato, ma con grossa sorpresa mi devo ricredere della qualità di questi svedesoni già dai primi giri di chitarra. Non che ci troviamo di fronte chissà quali geni della musica, però la genuinità dei nostri, abbinata ad una furia melodica di fondo, sorprende per il risultato finale. Eh si, perché quello che ci troviamo fra le mani è qualcosa che scotta e che fa male per quelle sue rasoiate che penetrano profondamente la nostra pelle. Immaginate dunque un ipotetico mix tra Edge of Sanity, Unanimated e Dismember e forse potrete capire di che cosa sto parlando: gli Evocation affondano infatti le proprie radici nel puro death metal svedese, sporcandolo con la vivacità di chitarre crusty (ricordate i primi irraggiungibili Entombed?), dal flavour vagamente melodico, contraddistinte da una malvagità di fondo tipica del black di matrice svedese (i Dissection vi dicono niente?), con una ritmica spesso serrata, ma talvolta capace anche di proporre visioni “apocalittiche”, come accade per esempio in “Reunion in War” o nella successiva “Psychosis Warfare”, dove anche cenni dei Dark Tranquillity più ruvidi finiscono per intromettersi nel sound dei nostri. Si ve l’ho detto, non c’è nulla di originale in questo cd, visti i richiami ad una intera generazione di band che hanno dato vita ad un genere musicale, ma che volete che vi dica, per un nostalgico che è cresciuto con queste sonorità, “Apocalyptic” non può che essere un buon esempio di come si dovrebbe fare metal senza fronzoli nel 2010. Gli Evocation mi hanno convinto appieno e mi sento di poterli suggerire a chi ama questo tipo di sonorità brutali. Un cenno anche alla copertina in bianco e nero, opera dell’artista polacco Xaay, responsabile delle cover art di Behemoth e Nile che amplifica enormemente questo senso di fine del mondo. Bravi! (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire)
Voto: 70

Syn Ze Sase Tri - Intre Doua Lumi

#PER CHI AMA: Black Symph, Dimmu Borgir, Old Man's Child
Ritornano i Negura Bunget, ops pardon ma che cosa diavolo sto dicendo, sarà forse che l’intro “Profetie” (molto vampiresco e narrato in lingua madre), mi aveva quasi spinto a credere di avere fra le mani un nuovo prodotto della band rumena. In realtà dei punti di contatto con i Negura ci sono eccome, visto che i 2 chitarristi, Spin e Corb, facevano ultimamente parte della ciurma dell’act di Timisoara. Il sound dei nostri invece, prende totalmente le distanze dal black etnico degli autori del brillantissimo “Vîrstele Pamîntului”, proponendo invece un black sinfonico che trae largo spunto dalle produzione meno eccitanti dei Dimmu Borgir, quelli più atmosferici e melodici ma anche tuttavia più piatti, affidando alle tastiere il ruolo di massimi interpreti nell’economia della band; tutto questo per dire che le keys risultano essere l’elemento più preponderante rispetto a tutto il resto. Se “Ziua Din Urmă” e “Făuritorul Lumiisi” si confermano riuscitissime song di musica estrema-sinfonica, con delle aperture degne di nota, ma sempre estremamente derivative, con i successivi brani l’act rumeno perde un po’ di brio e le song finiscono col somigliarsi tutte e avere ben poco da dire di nuovo, complice inoltre una produzione poco potente e convincente (il sound bombastico è d’obbligo quando si vuole fare questo tipo di musica), che sulla lunga distanza, rischia solo di annoiare. Manca la giusta verve, quella cattiveria bucolica abbinata alle geniali intuizioni che solo i Negura Bunget possiedono; certo sono convinto che la Code 666 non stesse cercando una band clone dei nostri eroi, autori dei più interessanti album degli ultimi anni in ambito estremo, però forse un pensierino l’avranno anche fatto. Troppo poco però per poter pensare, di poter sostituire i defezionari gods rumeni con questi impronunciabili e impossibili da memorizzare Syn Ze Sase Tri. Mi spiace per una volta non poter spendere ottime parole per una band dell’etichetta nostrana, che da sempre si contraddistingue per le scelte estremamente oculate delle band del proprio rooster. Il quintetto est europeo non aggiunge nulla di nuovo ad una scena in costante declino, che ormai tolti i soliti nomi, ha ormai ben poco da proporre di innovativo. Un vero peccato per chi come me è maturato con questo genere e lo apprezza enormemente da sempre: sia ben chiaro che non tutto è da buttare in questo “Intre Doua Lumi”, cd tra l’altro caratterizzato da una grafica accattivante nel suo formato lussuoso digipack. Se siete alla ricerca di una band di black sinfonico, magari Spin e soci potrebbero fare al caso vostro, grazie al loro sound orchestrale, ma ancora non del tutto personale e definito. C’è da crescere e lavorare parecchio, ma resto fiducioso per il futuro. (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 65

martedì 3 maggio 2011

The Deadist - Time Without Light

#PER CHI AMA: Sludge, Doom, Entombed, High on Fire
Difficile non capire fin dalle prime note di questo “Time Without Light” l’origine dei The Deadist, perché fin dal riffone portante della prima “Woven”, è chiaro che la compagine arriva dalla Svezia e che i nostri si presentano come una sorta di emuli dei ben più blasonati Entombed. Forti della produzione della sempre attenta Slow Burn Records, il quintetto di Gotheburg, ci confezione queste 5 tracce (a cui si aggiunge una traccia fantasma, che non è altro che la riproposizione di “Blizzard of Nails”) che si rifà appunto al sound più ruvido e sporco dei già citati Entombed, con bei riff di chitarra super ribassati che prendono un po’ spunto dallo sludge americano, con dei ritmi mai troppo frenetici, ma costantemente tenuti sotto controllo, grazie anche all’utilizzo di passaggi doom e fuori programma al limite della psichedelia. Se dovessi scegliere lo strumento che più mi ha impressionato in questa release, non esiterei a citare il basso palpitante di Paul Freeman, sempre in primo piano con i suoi giri che talvolta rievocano anche i suoni grooveggianti dei Kyuss, nonché il pachidermico, ossessivo e pesante sound dei primi Black Sabbath. Si, insomma se siete amanti di questo genere di sonorità, sicuramente “Time Without Light” farà al caso vostro. Chi non è abituato a questa tipologia di suoni, meglio gettarsi all’ascolto dei ben più rinomati ed originali Neurosis. Comunque da tenere sotto controllo. (Francesco Scarci)

(SlowBurn Records)
Voto: 65

The Death of Her Money - You Are Loved

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, Isis, Neurosis
Eccomi di ritorno dopo una pausa e di nuovo fedele servitore del Pozzo dei Dannati. Riprendiamo quindi con i The Death of Her Money (THoHM), trio inglese di Wales in opera dal 2006, anno in cui hanno rilasciato il loro primo EP Scandinavian Accent (NdP. esclusivamente su vinile, scelta coraggiosa) per poi produrre altri lavori fino a questo LP "You Are Loved" prodotto dalla sempre più attiva russa Slowburn Records. Questo LP contiene 7 tracce per quasi cinquanta minuti di heavy music, come gli stessi The Death of Her Money amano definire il loro genere. Se vogliamo dire qualcosa in più è un metal sludge con qualche influenza post stoner rock. Dopo la dovuta introduzione, passiamo alle canzoni e vediamo cosa ci aspetta. Entrando nel tetro mondo dei THoHM con "Held Hands", capiamo subito che i pesanti riff distorti sono l' elemento portante del loro sound, con la tanto inflazionata voce scream che conferma il taglio sludge metal della band. Canzone con qualche buon riff ma di per sé monotona e pesante (in negativo). La terza traccia si intitola "Missing Time" e per otto minuti abbondati non si discosta molto dalle precedenti. Lunghi riff incalzanti, qualche break e pochissimo testo urlato. Ma arriviamo all' opera magna "Truth", dieci minuti di lenta potenza intervallata da pause e riprese di ritmo. Effettivamente il pezzo più vario e se vogliamo, addirittura con qualche sprazzo di creatività. Certo, i campionamenti non cambiano il destino di una canzone, ma almeno bisogna provarci. "New Bodily Functions" è un breve sperimento di sludge ambient fatto di chitarre pulite e riverberi spinti che creano un' atmosfera cupa che sposa ottimamente lo stile THoHM. Concludo spendendo poche parole di valutazione perchè gli altri pezzi si possono considerare molto simili a quelli precedentemente discussi. I THoHM sono già sulla scena rock da qualche anno, alcuni miglioramenti sono reali ma come sempre la creatività non viene solo dal duro lavoro. C'è o non c'è. Per i THoHM probabilmente serve ancora del tempo per produrre un album degno di nota, oppure non accadrà mai, vedremo. (Michele Montanari)

(SlowBurn Records)
Voto: 60

lunedì 2 maggio 2011

Routasielu - Pimeys

#PER CHI AMA: Opeth, Amorphis, In Mourning
Evitando tediosi preamboli o acrobazie lessicali, si può affermare senza indugi che i Routasielu sono la rivelazione del 2011 in campo death metal. Sono comunque d'obbligo alcune precisazioni, perché se è vero che il suono di “Pimeys” è di chiara derivazione death, vi sono diversi elementi che concorrono ad ampliare le prospettive del genere verso un’espressione più complessa e poliedrica. Progressivo è quindi il termine che più si addice alla proposta di questi esordienti finlandesi, che si accostano ad una formula musicale prossima ad Opeth, Amorphis e In Mourning, ma con una dose di freschezza francamente inaspettata. Se è vero inoltre che le parti vocali rispettano la tradizione “growl”, numerose sono le concessioni al cantato pulito, senza dimenticare che la peculiarità più intrigante di “Pimeys” è la scelta dei testi, scritti ed interpretati integralmente in lingua madre. Forse è per questo motivo che alcuni brani sono contaminati da suggestioni vagamente folk, anche se il termine non deve trarre in inganno, perché i Routasielu, per fortuna, non indossano imbarazzanti elmi vichinghi, né si applicano posticce orecchie da elfo. L’inizio dell’album è a dire il vero piuttosto tiepido e non lascia trapelare nulla di entusiasmante, ma già con la terza traccia, “Sukuhautasi”, si entra nel vivo di un sound robusto, dai riff convincenti, con una perfetta integrazione della melodia in un costrutto ritmico che travolge. La successiva “M.E.V.” ripropone a grandi linee la stessa ricetta, ma amplificando il contributo della voce pulita, a delineare la natura più autentica ed enfatica del gruppo. Violenza e dinamismo esplodono invece in “Soturi”, mantenendo comunque salda la coesione con episodi vocali di una drammaticità emozionante e mai troppo opprimente. “Pimeys” scorre con un sound compatto e coerente anche nei brani successivi, amalgamando la durezza del death a squarci armonici che denotano un notevole gusto e che svelano il lato più accessibile del gruppo nelle tastiere progressive di “Kaipaus”. L’apice viene infine raggiunto con “Loppu” e la struggente “Ystävä”, poste in chiusura di un debutto sorprendente, che pare riuscito in ogni suo punto, mettendo in luce le doti straordinarie di una band sconosciuta e ancora in erba. (Roberto Alba)

(Spinefarm Records)
Voto: 90

mercoledì 27 aprile 2011

Between the Buried and Me - The Parallax: Hypersleep Dialogues

#PER CHI AMA: Post Metal, The Dillinger Escape Plan, TesseracT
Ecco ci risiamo, lo sapevo, me lo sentivo: ogni volta che arriva un cd nuovo dei Between the Buried and Me, un mix di tensione, entusiasmo e angoscia mi attanaglia lo stomaco e ancora una volta, la band di Greensboro, fresca di un nuovo contratto con il colosso Metal Blade, sfodera l’ennesima brillante prova, con un sound che, rispetto all’eccezionale precedente “The Great Misdirect”, non cambia di una virgola il proprio mood, proponendo un solido extreme progressive foolish metal (ascoltare l’epilogo folk di “Augment of Rebirth” per capire qual è il quantitativo di follia insito nella band statunitense). In questo nuovo cd, ci sono solo tre pezzi, per un totale di 30 minuti di musica che fanno dell’improvvisazione il loro dogma; e la musica rimane quella di sempre, con una base violenta, articolata, psicotica, mai scontata, in costante evoluzione, brutale, sulla quale si riescono ad incastonare dei piccoli gioielli preziosi, che solo pochissime band ad oggi, sono in grado di proporre. Con i Between the Buried and Me, il mathcore si fonde con atmosfere rock progressive alla Pink Floyd, gli schizzatissimi cambi di ritmo si amalgamano alla perfezione con atmosfere rilassate, quasi sognanti e assai melodiche; serratissime scorribande in territori vagamente grind si esaltano con le bellissime clean vocals di Tommy Rogers, abile a proporsi come sempre anche in una veste ben più aspra. Difficile descrivere nel dettaglio i tre brani qui proposti, tante e tali sono le sensazioni che vi si possono percepire. Alla fine del cd, sono talmente stordito dalla perfezione di questa release (e stupefatto dalla precisione chirurgica a livello tecnico della band), che sento la necessità di ricominciare daccapo e rituffarmi in un vigoroso e vertiginoso vortice di emozioni spaventose. Mostruosi come sempre, graditissima conferma! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 80

martedì 26 aprile 2011

Progeny - Insanity

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Pantera, Death
È sempre difficile dare una valutazione completa di un lavoro costituito da 3 pezzi e i 14 minuti di questo MCD non sono a mio avviso sufficienti a capire le potenzialità di questi Progeny, band comunque in giro da un bel po’ di anni (2004). Si inizia subito con la rutilante “Devourer of Worlds”, dove a dominare sono delle chitarre belle toste, sostenute da un ottimo lavoro dietro alle pelli di Luca, da un basso che disegna linee ipnotiche e un vocalist dotato di una discreta personalità, capace di graffiare con la sua impostazione vocale, mostrando di essere un buon cantante. Le coordinate stilistiche su cui si muovono i nostri, se non l’aveste già capito, sono molto vicine ai grandissimi Pantera, anche se una certa matrice di fondo techno death, tenda a spostare la proposta musicale dei nostri, verso lidi più estremi e death oriented, andando a scomodare, come paragone qualcosa dei Death o dei Morbid Angel, il che è più udibile nella seconda articolata e complessa “Disciples of Sufferings”, song che comunque non si lascia mai andare alla brutalità fine a se stessa. È forse con la conclusiva “Black Sun of Inhumanity” che i nostri provano ad accelerare leggermente la propria proposta musicale, che comunque tende ad assestarsi su un mid tempo ragionato e mai fuori controllo, caratterizzato da una ricerca di un proprio stile in grado di prendere le distanze dai filoni tanto di moda in questo periodo. Peccato ancora una volta per la breve durata di questo demo cd, altrimenti il giudizio avrebbe potuto essere più elevato. Visto che “Insanity” è abbastanza datato, mi aspetto di sentire quanto prima qualcosa di nuovo e fresco, da questa potenziale interessante band. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

lunedì 25 aprile 2011

Dynabyte - 2KX

#PER CHI AMA: Electro Death, Cyber, Industrial
Sono sempre stato un grande fan di Cadaveria e quando lasciò gli Opera IX, produsse un vuoto incolmabile nella band di Vercelli, nonché nella mia. Fortunatamente in seguito, la nostra carismatica e brava singer è tornata con il suo progetto omonimo e questi Dynabyte, dove poter dar sfogo alle proprie attitudini più sperimentali, tra l’altro con grandi risultati fin dall’esordio, “Extreme Mental Piercing”, di cui custodisco preziosamente la mia copia. Con questo nuovo “2KX”, il cui significato sarebbe 2010, il trio Cadaveria; L.J. Dusk e l’inossidabile John, non si pongono limiti e si spingono verso lidi probabilmente mai esplorati fino ad ora. Gelidi suoni cibernetici si fondono con break di chiaro rimando techno, con appendici industrial che poggiano su un solido background di musica estrema, ma in questa nuova schizoide release, tutto alla fine si rivelerà estremo. “Equilibrium” apre le danze con la litania pulita di Cadaveria alle vocals che si alterna con il suo growling feroce, sopra un tappeto ritmico contraddistinto da ritmiche assassine create da un riffing dinamico e un pesante intervento di di drum machine e synths. Il marchio di fabbrica si ripete anche nella successiva “F.T.L.” caratterizzata da suoni disturbanti posti ad aprire la traccia, soavi e melodici vocalizzi della nostra lei e un impianto elettronico che fa dell’ossessività il suo punto di forza, non temendo mai di spingere cosi forte sull’acceleratore. I Fear Factory più industriali si fondono con i The Kovenant più elettronici in un arrembante miscela di suoni coinvolgenti, talvolta danzerecci (sempre di pogo stiamo parlando sia chiaro), frenetiche percussioni tribali che penetrano le nostre menti già per conto loro disturbate da una società al limite dello sfacelo. E in questo contesto si pone il tema delle lyrics della release, ossia sul rapporto uomo-macchina, tema già affrontato da diverse altre band nell’ultimo periodo. Intanto il cd scorre via senza un attimo di esitazione, con la voce di Cadaveria (e tonnellate di sintetizzatori) a far la differenza con qualsiasi altra proposta di questo tipo, ad alternare suadenti clean vocals, growling periodo Opera IX e striduli vocalizzi degni del miglior King Diamond. “Cold Wind of Fear”, la psicotica “Speed”, l’inquietante “I’m not Scared” fino alla conclusiva enigmatica “Blinded by my Light” sono solo alcuni degli ottimi esempi di cyber music inclusi in questa nuova release targata Dynabyte, che ha il suo tocco conclusivo di difformità nella scelta di produrre il tutto su una chiavetta USB assai ricca di contenuti multimediali. Nel 2011, i Dynabyte sono decisamente al passo con i tempi, anzi ho come l’impressione che li stiano anticipando in un qualche modo… (Francesco Scarci)

(WormHoleDeath)
Voto: 80

Ritual of Rebirth - Of Tides and Desert

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Testament, The Haunted
Inizio la recensione di questo disco dei Ritual of Rebirth partendo dal fondo questa volta, ossia cari amici metallari, sappiate che il disco è uscito con licenza CreativeCommons ed è quindi già in download gratuito e, soprattutto legale, sul seguente sito: www.jamendo.com/it/artist/ritual_of_rebirth. Detto questo, vi invito proprio a scaricare la musica autoprodotta dall’act italico e a dargli una chance, una grossa chance. Sebbene l’album sia autoprodotto, il contenuto è sicuramente di ottima fattura, fin dal suo aspetto esteriore, andandosi a collocare musicalmente in un ambito non proprio thrash, ma neppure propriamente death metal. La musica dei nostri si piazza infatti a metà strada tra i due generi andandoli tuttavia a centrifugare con aperture che sanno più di heavy metal classico nel senso del termine, piuttosto che di musica estrema, anche se fa dell’aggressività e della violenza il suo credo principale. Si parte forti con la title track, ma è già la sorprendente seconda traccia, “Skep.Tic” a dimostrarci quanto la band sia in piena forma: un treno in fase di deragliamento ci investe subito con il suo locomotore impazzito, pregno di potenza, fornito dal tandem di macchinisti, Tommy Talamanca (mastering) e Fabio Palombi (produzione), senza dimenticarci ovviamente del resto della band che ci prende a martellate furenti con feroci frustrate nel costato. Frustrate che proseguono anche con la successiva, “All is Blank”, song nervosa e stizzosa, caratterizzata da percussioni tribali a metà pezzo, mentre il drumming ossessivo affonda con estremo piacere, insieme ai fendenti (un po’ brevi a dire il vero) offerti dai solos. Questo sicuramente non è un lavoro che fa dei virtuosismi il suo punto di forza, ma è la violenza che gronda dagli strumenti dei nostri a fare la differenza, spingendoci senza ombra di dubbio in un vortice di headbanging impazzito, anche se la maggior parte dei pezzi, alterna sfuriate death/thrash con mid tempos ragionati e dove la voce del buon Alessandro Gorla, impreziosisce con il suo cantato sporco e cattivo la proposta dei cinque ragazzi genovesi. Un bel basso slappato apre “Sick Shylock” prima di concedersi ad una variazione al tema con un bridge che profuma un po’ di techno death, per poi riprendere il tema portante di sonorità thrasheggianti, contaminate da sane dosi di groove e una strizzatina di occhi a sonorità un po’ più post (fighissima la parte conclusiva del pezzo, che elevo a mia traccia preferita). Un mosh frenetico apre “Zebra Stripes” con la voce di Gorla costantemente corrosiva e le ritmiche frenetiche che richiamano ad un che degli Arch Enemy. Ancora mazzate sulla faccia con la settima “Hell to Pay” e con la lunga conclusiva “The Blind Watchmaker”, decisamente la traccia più elaborata (e un po’ più progressive), forse il primo passo alla ricerca di un sound molto più definito e personale, che deve essere in grado di elevare la band ligure sulle altre. Le potenzialità ci sono tutte e "Of Tides and Desert" ne è la palese dimostrazione: sound al passo con i tempi, furia in abbondanza, melodia un po’ col contagocce ma tanta energia da vendere… al miglior offerente! Si attendono ora le migliori offerte… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75