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sabato 15 gennaio 2011

Nauthisuruz - Visions


Ed eccomi a riprendere in mano il capitolo Nauthisuruz, questo duo russo sperimentale e fantasioso: mi accingo a dedicare il mio udito a “Visions”, dopo aver ascoltato da poco il capitolo “State of Mind”. Si inizia con la pacata intro “Voice from the Dephts”: gli archi lasciano spazio al piano, contornato da una delicata chitarra elettrica, che aiuta a dare un senso di pace e di preparazione mentalmente ad un lungo viaggio, nei meandri della mente libera dai pensieri. “Invisible is Obvious” è un inno al silenzio e alla mente lontana dalle sensazioni negative: è caratterizzata dalla voce roca e profonda, con la chitarra elettrica che, veloce e sbrigativa, aumenta un senso di inquietudine, con l’aggiunta di qualche inserto elettronico che contribuisce a rendere il tutto più industrial che black metal. “Apathy”, altro brano orche-strumentale, si avvale molto dell’aiuto della drum machine nella prima parte, mentre nella seconda l’aria si fa più pesante e il pianoforte contribuisce a dare man forte. “Life in Magic”, vero tripudio di suoni contorti, riprende l’argomento silenzio e il rumore che esso fa, il tutto sottolineato da una voce roca e disperata, il tutto tremendamente permeato da un’aurea malinconica. “Dreaming”, seguendo la scaletta del brano cantato seguito dal brano strumentale, presenta suoni elettronici, con la drum machine ridotta al minimo accompagnata da soavi note di flauto, che portano la mente a ancora più lontano. Si incontra poi “Ode for a Man”, in cui il tema di fondo è la vita terrena perduta, e la strada per diventare divinità: mentre il corpo si disintegra, l’unica cosa che rimane è la coscienza. Tutto questo è caratterizzato da un’aria solenne, grandiosa, elettronica, dove le chitarre sono magnificamente accoppiate a suoni elettronici, e fanno da sfondo per vocals forti e cattive. “Lost Feelings” riprende le atmosfere di “Apathy”, creando un ambiente freddo e insensibile, ma molto profondo. “My Apocalypse” apre con un’intro prettamente orchestrale, che ha il ruolo di aumentarne la tensione: tutto il brano lascia trasparire angoscianti sensazioni di malinconia e rassegnazione: l’utilizzo di toccanti note di pianoforte enfatizza molto queste sensazioni, grazie anche al tono di voce profondo. Con l’outro “With no Thoughts”, la spirale di tristezza fortunatamente termina, lasciando la mente in balìa dei pensieri ma con un piccolo spiraglio di luce, che infonde più fiducia e quiete, rasserenando l’animo. “Internal Fight”, la prima delle due bonus track, riprende lo stile della seconda traccia, con un ritmo veloce ed accattivante, e con un solo di chitarra, delizia per le mie orecchie. Con “Innominatus” si arriva alla fine di questo viaggio: l’atmosfera si fa più orchestrale, differenziandosi totalmente dalla precedente song, grazie anche al parlato e al ritmo serrato, veloce, oserei dire geniale. Come perla, vi è anche un coro di voci femminili. Per concludere, quest’opera si rivela più varia rispetto a “State of Mind”: moderatamente “heavy”, come annunciato anche sul loro sito ufficiale, “Visions” ha bisogno di un ascolto attento, non troppo impegnativo e soprattutto ne consiglio l’ascolto ad occhi chiusi, comodi, dove più aggrada, in modo tale da assaporare ogni singola venatura e particolarità. Magico! (Samantha Pigozzo)

(Haarbn Prod.)
Voto: 85

Sworn Enemy - Maniacal


A distanza di un anno da “The Beginning of the End”, torna il quintetto hardcore di New York degli Sworn Enemy. Balza subito all'orecchio una differenza rispetto agli esordi della band, ossia l'allontanamento quasi totale dal genere che li aveva lanciati, l'hardcore, con una propensione a proporre invece suoni decisamente più “classici”, più thrash orientati, propri di band quali Slayer o Nuclear Assault, che già magari si erano intravisti nel lavoro dello scorso anno. Messe da parte quindi tutte le componenti “core”, la band di Brooklyn si lancia in un nuovo (e breve) lavoro, un assalto thrash metal di 33 minuti che darà nuova carica a chi come me è cresciuto a pane e thrash metal. Dieci tracce che si assestano sui tre minuti di durata ognuna e i cui ingredienti principali sono le tradizionali cavalcate in stile Bay Area, con chitarre taglienti, ritmiche galoppanti e vocals vetrioliche, con qualche buon assolo a chiudere i brani. “Maniacal” non sarà certo garanzia di musica originale o raffinata, ma se avete voglia di una serata energica con gli amici, beh potrebbe anche fare al caso vostro... (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 60

The Grieving Process - Assimilated Deformation


Mi spiace sempre castigare le band agli esordi, ma quando sento certe boiate, non resisto proprio al desiderio di stroncare un disco, perché mi rendo conto che avrei potuto registrarlo pure io. Chiamatela invidia o in qualsiasi altro modo, ma il debut degli statunitensi The Grievance Process, non lo regalerei neppure al mio peggior nemico. È un album così convenzionale, banale e suonato per giunta male, che non riesco ad accettare che tali prodotti affollino un mercato già di per sé saturo. Il genere che propone il quintetto americano è un brutal death privo di qualsiasi spunto personale, che tra l'altro mostra un suono di batteria tra i più orridi che abbia mai sentito in circolazione. Una violentissima ritmica e delle brutal vocals completano la frittata di un album chiaramente orribile... (Francesco Scarci)

(Anticulture)
Voto: 40

Pain Principle - Waiting for the Flies


I Pain Principle? Una band fra tante... Ve lo domanderete anche voi, dopo aver messo il cd nel vostro stereo e ascoltato l'intro e la seconda “Body Farm”, per quale motivo la maggior parte delle testate internazionali osannino questa band, che non fa altro che andare ad affollare il calderone death metal. La band di Orlando, che sinceramente non conoscevo e scopro solo oggi che esiste dal lontano 1993 (mi chiedo solo dove sono stati nascosti fino ad ora), rientrano nell'immensa distesa di gruppi che hanno ben poco da dire di nuovo. Questa è la loro terza fatica, un album di discreto e onesto death/thrash metal, con riffs pesanti, quanto mai convenzionali, ritmiche belle tirate e le vocals di Kevin Bullock incazzate quanto basta, sullo stile di Chuck Schuldiner. L'unica cosa su cui mi soffermerei invece, sono gli ottimi assoli di John Sutton, abbastanza melodici e assai ricercati, insomma una vera ascia alla chitarra. Quindi nessuna grossa novità proveniente dagli States, siamo sempre fermi a suoni di una decina di anni fa... Ottima la produzione infine di Eric Rutan (Hate Eternal e Cannibal Corpse), con suoni puliti, troppo poco però per elevare a capolavoro “Waiting for the Flies”. (Francesco Scarci)

(Blind Prophecy Records)
Voto: 65

Scarpoint - The Silence We Deserve


Una inquietante ma stupenda intro, apre l'album d'esordio degli svedesi Scarpoint. Poi l'attacco del quintetto svedese, capitanato dai fondatori Henrik Englund e Zoran Kukulji, viene sferrato con “Disorder”, brano che fa intravedere le grandi potenzialità del giovane combo scandinavo. Prodotti egregiamente da Mr. Daniel Bergstrand (Meshuggah e In Flames), “The Silence We Deserve” si rivela ben presto album assai interessante con una serie di pezzi vincenti che, seppur non inventando nulla di nuovo, fondono certe sonorità martellanti care ai Darkane, con alcuni passaggi claustrofobici tipici dei Meshuggah (ascoltatevi “Terminal Treachery” o la title track con quei suoi giri ripetuti di chitarra). Le canzoni viaggiano su ritmi non troppo veloci, assai ritmate, con gli immancabili breakdown e con il classico riffing di matrice svedese. Le brutal vocals di Henrik e giusto quel pizzico di melodia che non guasta mai, completano un quadro che trova la sua summa in “Oblivion”, la song più varia dell'album. Credo che gli Scarpoint possano rivelarsi band vincente, perchè in grado di catturare l'attenzione di tutti gli amanti di sonorità estreme. Un ascolto è per lo meno dovuto... (Francesco Scarci)

(Blind Prophecy Records)
Voto: 70

lunedì 10 gennaio 2011

Immortal Remains - Everlasting Night


La My Kingdom Music ancora una volta va a scovare nel sottobosco underground, nella speranza di imbroccare la band giusta da aggiungere al proprio rooster, già di per sé ricco di band dalle grandi speranze. Però se i crucconi Immortal Remains, dopo 3 album erano ancora nell’anonimato, un perché forse c’è e sarebbe stato lecito chiederselo, per non rischiare un buco nell’acqua. Sia ben chiaro che il quintetto teutonico, in giro ormai dal 2000, non è che sia proprio pessimo: propone infatti un black death atmosferico, dai forti contorni horror-vampiristici, come il buon vecchio Dani e i suoi Cradle of Filth sono in grado di fare. Purtroppo però qui di musica brillante non ce n’è poi molta: dopo la consueta intro, si parte con “Xeper” e “The Hunting”, due tracce abbastanza piatte che viaggiano su ritmiche death tirate con un tappeto tastieristico a creare un’ambientazione gotica, con le gracchianti vocals di Andreas Hohwieler che si contrappongono al grunt di Guido Dürr. Si prosegue con la title track, contrassegnata da un inizio atmosferico che poi comunque sfocia ancora una volta in suoni quanto mai banali e scevri di qualsiasi spunto personale. “Everlasting Night” scivola via cosi, nell’anonimato più triste con una serie di brani, dove sono le strazianti, nevrotiche e fastidiose vocals ad essere ricordate. Un peccato che si sia deciso di puntare sui tedeschi Immortal Remains, quando in Italia abbiamo band come i Riul Doamnei (ancor prive di contratto), che proponendo un genere molto simile, sono in grado di unire un'elevata qualità a una bella dose di personalità. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 50

Kadavar - Kadavar


La Punishment 18 continua a fare incetta di band dedite ad un brutale death metal e i Kadavar non esulano di certo da questa proposta. Finalmente la giovane band milanese, dopo un demo e un Ep autoprodotti, rilascia il proprio incendiario debutto omonimo. Nove violentissimi brani di death ferale e distruttivo che trae ispirazione dalle “linee guida” americane di Morbid Angel e soci, conferendogli poi quel tocco di originalità “made in Italy”, che non fa mai male. Ne viene fuori un lavoro onesto, che non brilla certo per la sua ricercatezza di suoni raffinati o mai sentiti: il quartetto sciorina cataste di riffs grondanti sangue, intrisi di rabbia e adrenalina. Il sound si rivela potente e ruvido quanto basta: la band costruisce ritmiche talvolta contorte che si dipanano attraverso interessanti cambi di tempo e solos melodici. Le vocals al vetriolo di Lorenzo (il secondo chitarrista) e Luka (bassista) sono molto buone e riescono a conferire quel pizzico di personalità all’intero lavoro. In evidenza poi, come già detto, la chitarra solista che, nella maggior parte dei casi, riesce a smussare la brutalità della proposta, con un tocco di melodia che non guasta per niente. “Behind the Storm”, “Towards the Abyss” e “Morbid Sense of Weakness” sono i miei pezzi preferiti, per la tecnica espressa, l’efferatezza musicale (sempre controllata) messa in luce e un certo gusto estetico da non sottovalutare. Gli altri brani viaggiano più o meno sulle stesse coordinate stilistiche, mostrando ancora qualche lacuna dal punto di vista compositivo, che presto i nostri saranno in grado di sopperire, grazie all’esperienza e alla maturità: d’altro canto i Kadavar sono ancora molto giovani, quindi le premesse per fare ancora meglio con i prossimi lavori, ci sono tutte. In bocca al lupo ragazzi! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 65

Angel of Anger - Angel of Anger


Quattro tracce più intro per i bolognesi Angel of Anger, che fanno uscire questo seminale Mcd omonimo che odora un po’ di stantio, per quei suoi suoni abbastanza obsoleti. La cosa infatti che subito balza all’orecchio, ascoltando “Wake up Spirits”, è la sua vicinanza alle sonorità dei primi Necrodeath, ma anche agli esordi dei vercellesi Opera IX: chitarre thrash black assai selvagge, screaming vocals maligne e un’aura funerea, ammantano l’intero lavoro. Un delicato arpeggio e l’angelica voce di Andred (in pieno stile Cadaveria) aprono “Angelic Pain”; poi traendo nuovamente spunto dagli Opera IX di “The Call of the Woods”, la song scivola via su un death black orrorifico, con la voce di Andred ad alternarsi tra lo screaming più selvaggio e uno stile pulito. Con gli oltre dieci minuti della lunghissima “My Grave”, i nostri si vanno ad incuneare in percorsi death doom, alla ricerca di un proprio stile, che faticano a trovare. Però chi, come me ha amato le sonorità gotico-vampiresche di Cadaveria e soci, non potrà non apprezzare questa song che, nel suo apocalittico incedere, si snoda fra sfuriate death, cambi di tempo e tetre ambientazioni invernali. Peccato per la registrazione non proprio all’altezza e per una superficiale cura degli arrangiamenti (chissà forse voluta), ma sono convinto che una produzione migliore avrebbe giovato non poco, sull’esito finale di questo debutto autoprodotto, che chiude i battenti con la conclusiva “The Only Certainty”, altro pezzo di otto minuti e passa, che continua a proporre suoni mid-tempo dal vago sapore horror, tinto da linee di chitarra melodiche e assai malinconiche, dai vaghi richiami svedesi nella sua parte conclusiva. C’è da lavorare ancora molto alla ricerca di una propria identità ben definita, ma sicuramente la band è sulla strada giusta… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

lunedì 3 gennaio 2011

Dol Ammad - Winds of the Sun


Domenica pomeriggio: mentre il sole tramonta e le tenebre invernali si impossessano del cielo, mi arriva la richiesta di recensire il nuovo EP di una band greca (composta da ben 19 elementi, 5 facenti parte della band e 14 come chorus), la cui musica viene definita da Encyclopaedia Metallum “Progressive/Symphonic/Operatic Metal with Electronic music influences” (meno parole per definirla non credo ce ne siano/Ndr). Si tratta dei Dol Ammad, act ellenico proveniente da Thessaloniki, formatosi ben 11 anni fa e con all'attivo due full lenght. La title track, prima traccia dell'album, è dedicata all'astrochimico Carl Sagan, uno dei fondatori del progetto per la ricerca delle intelligenze extraterrestri (come spiegato nel loro sito ufficiale); qui la band, come vocalist, si avvale della partecipazione di DC Cooper (Silent Force ed ex Royal Hunt). Tutta la canzone è orchestrale, con la voce in primo piano, epica e portata ai limiti possibili: la song sarebbe perfetta come colonna sonora per un viaggio interspaziale verso le costellazioni più remote, cosi come descritto nel testo. La seconda traccia è la cover di “Black Winter Day” degli Amorphis, in versione decisamente più elettronica e ritmata, ma di bell'effetto, anche se è un po' strano, devo ammetterlo, sentire inizialmente un chorus (stile Therion) e poi una voce femminile cantarla, così soave se paragonata con la profonda tonalità di Tomi Koivusaari, tuttavia risulta una piacevole sorpresa. La terza song, “Theeta Dominion”, pesca dall'electro rock anni '80, quasi si trattasse di una versione rockettara dei Depeche Mode: il risultato è un pezzo ricco di sperimentazioni che ben si accompagnano alla voce dell'Europa Choir, che conferiscono più solennità alla componente elettronica. La prima parte della canzone è strumentale, con synth, chitarre e cornamusa; si aggiunge poi una voce femminile che contribuisce a rendere ancora più armonioso il brano, in un crescendo di emozioni. Velocemente filiamo alla quarta, “Aquatic Majesty (choral remix)”: si tratta del remix di una vecchia canzone della band, contenuta nel precedente “Ocean Dynamics”, dove è più enfatizzata la parte corale (e qui i 14 elementi, 7 uomini e 7 donne, danno il meglio di sé), e dove la parte strumentale appare posta in secondo piano. Per quanto particolare, il pezzo risulta piacevole e magico, intenso e maestoso. Con “Birth of a Dream” si arriva ahimè alla fine dell'EP: brano quasi interamente strumentale (c’è qualche sussurro qua e là di una eterea voce femminile), ipnotico e destabilizzante, in cui il combo greco si è avvalso principalmente del solo sintetizzatore mentre da metà brano fa la sua comparsa un'ululante chitarra elettrica. Con "La Nascita di un Sogno", i nostri hanno voluto verosimilmente enfatizzare al massimo il rumore dell'universo (un consiglio: usare l'album per qualche speciale sull'universo? Qualcuno avvisi l'ISS per favore) e allo stesso tempo rilassare le nostre menti, in un lungo viaggio nello spazio sconfinato attorno a noi. Per concludere, oltre a dire che questo EP mi ha stupito e piacevolmente sorpreso (la mente ha girovagato realmente per spazi intergalattici), ne consiglio l’acquisto a tutti: grazie a Thanasis, leader della band che ne ha permesso la diffusione digitale e grazie alla “Terra degli Dei” che ci ha portato questa eccitante perla di sperimentazione musicale. (Samantha Pigozzo)

(Electronicartmetal Records)
Voto: 85

sabato 1 gennaio 2011

Astral Sleep - Angel


Roboanti riffs di chitarra aprono questo strano EP di tre pezzi (ma di oltre mezz’ora di musica) dei finlandesi Astral Sleep: ho scritto strano in quanto il lavoro consta del medesimo testo, la cui musica è stata scritta separatamente da 3 dei membri della band. Veniamo alla prima versione quindi di “Angel”: ritmica martellante iniziale dicevo, super rallentamento con vocals sabbatiche e improvvise accelerazioni death che si stagliano su un tappeto doom atmosferico, con la voce di Markus Heinonen, che grazie alla sua notevole versatilità, si diletta nelle sue scorribande dal growling più oscuro ad uno screaming feroce, passando attraverso le cleaning vocals in stile Black Sabbath, sopra citate. Il risultato non è affatto malvagio, e la curiosità di ascoltare il medesimo testo riletto in chiave totalmente differente diventa sempre più forte: “2nd Angel” inizia infatti molto più rallentata col tipico rifferama del funeral doom. Si tratta di una song più ragionata, funeraria nel suo incedere, dotata di un breve intermezzo acustico nella parte centrale che la rende assai interessante e di una delirante cavalcata sul finire, che ne fanno la mia song preferita della release. “Il Terzo Angelo” attacca in modo ancor più sinistro rispetto alle precedenti con il testo “You are an Angel…” declamato in modo diabolico dal sempre bravo Markus, vero punto di forza della band. Sembra quasi di ascoltare una versione funeral doom dei Massive Attack, strano a dirsi, ma devo ammettere che il risultato finale mi piace molto, seppur manchi un po’ di dinamicità e io non sia certo un grandissimo cultore del genere. Chitarre dal vago sapore seventies emergono dagli inferi di “3rd Angel” e non solo perché anche una bella accelerata thrash fa la sua comparsa sul finire della song, nella spettrale fortezza degli Astral Sleep, dominata da un inquietante basso e da malati vocalizzi. Intriganti, squilibrati e maledettamente originali, d’altro canto dalla Finlandia è lecito aspettarsi qualsiasi cosa... (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 75

Letargy Dream - Heliopolis


Mmm, mi sa che questo giro quello che ho fra le mani è qualcosa di veramente strano anche per me, che viene dalle lande sperdute della Russia. Prima di tutto la lunghezza forse esagerata dei 4 pezzi, poi devo riuscire a vincere la mia avversione al cantato in lingua madre russo, più che altro nelle vocals pulite, però questo “Heliopolis” scotta parecchio per i suoi contenuti estremamente particolari. L’album, concettualmente basato sulla letteratura distopica del 20° secolo (per intenderci la letteratura che ipotizzando che attraverso la tecnologia e il controllo sociale si possa davvero creare il mondo "perfetto"), si apre con “Saturn”, song assai complessa e affascinante, che partendo da sonorità doom avanguadistiche simili a quelle dei connazionali Rakoth, esplora in modo più profondo il genere, arricchendolo di aperture progressive (si stile Porcupine Tree, avete capito bene), tenendoci incollati allo stereo anche per qualche sconfinamento in territori un po’ più estremi (più che altro solo per l’uso di vocals più corrosive e decisamente accettabili dal sottoscritto). Il sound del quartetto est europeo è davvero caleidoscopico, perché si passa con estrema disinvoltura da un genere all’altro; ne è un palese esempio il cambio di ritmo nella parte centrale di “We’ll Die Smiling Broadly” dove da un’apertura quasi folk rock si passa ad attacco frontale black anche se della durata di pochi secondi, per poi far ritorno in modo quasi frastornante, verso sentieri psichedelici, tribali, progressive in un vorticoso turbinio ritmico che non può che lasciarmi spiazzato, cosi come non può che lasciarmi spiazzato o a dir poco basito, l’inserimento del “Pink Panther Theme” nella title track, song che inizia con una melodia darkeggiante, le solite insopportabili liriche in russo (solo questa cosa mi costringe a tener relativamente basso il mio voto), melodie orientaleggianti e poi la follia, la pazza imprevedibilità, quello che non ti aspetti, l’inserimento appunto del tema della Pantera Rosa. I nostri fanno un po’ tutto quello che passa loro per la testa e lo fanno con estrema intelligenza e gusto, fregandosene di etichette, di opinioni di stupidi recensori o testate giornalistiche. I Letargy Dream stupiscono per la loro bravura, la loro intensità, per la capacità di farci cogliere i loro umori, le emozioni e le percezioni e saperle incanalare attraverso un ubriacante viaggio in un mondo incantato fatto di colori inimmaginabili, suoni spettacolari e orchestrazioni da brivido. Peccato solo per quel maledettissimo modo di cantare che proprio non riesco a tollerare, e che altera notevolmente il mio ascolto attento del pezzo, altrimenti l’album avrebbe potuto ricavare molto di più. Se si vuole far breccia nel cuore (meglio nell’orecchio) dell’ascoltatore europeo, meglio lasciar perdere le liriche in russo e iniziare a fare un bel corso di inglese, in modo da potersi aprire ad un pubblico più vasto. Da rivedere decisamente in futuro questa debolezza, mentre musicalmente ci siamo, eccome… Provare per credere! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

Amia Venera Landscape - The Long Procession


Pensavo che i botti di fine anno avessero raggiunto i loro apice alla mezzanotte del 1° gennaio 2011, ma invece eccomi qui, con un nuovo cd inserito nel mio stereo, a lasciarmi investire dalla scoppiettante miscela di post hardcore, sludge e ambient degli italianissimi (e lo dico con estremo orgoglio) Amia Venera Landscape, vero e proprio fulmine a ciel sereno di questo inizio anno. Dopo l’ottima prova degli At the Soundawn, un’altra eccellente band italica si appresta quindi a competere a testa alta con i maestri del genere, se non addirittura a superarli. Sono rimasto impressionato fin dal primo ascolto di questa “Lunga Processione”, in primis per l’eccelsa qualità dei suoni, potenti, corposi e avvolgenti, che mi hanno fin da subito conquistato. Come non citare successivamente la grafica, abbastanza minimalista, ma quanto mai intrigante, del booklet, completo delle liriche e di bellissime fotografie. E poi la musica, si, la cosa più importante dopotutto: accennavo al fatto che i nostri suonano principalmente un post hardcore, ma non limitiamoci superficialmente a quest’etichetta o allo stereotipo che può suscitare la parola hardcore, perché dentro alle note di “The Long Procession” si nasconde poesia, rabbia, furore, inattesa dolcezza, intrigo e mistero, il tutto suonato con estrema passione, intelligenza e imprevedibilità. Il sestetto veneto apre le danze con la vulcanica “Empire”, condensato di ferocia hardcore miscelato con ambientazioni oscure; rimango immediatamente basito di fronte a cotanta classe e già non vedo l’ora di ascoltare le song successive. “A New Aurora” è un brano meraviglioso dove accanto alla sempre presente componente brutale e graffiante del combo di Belluno, si pone un’alternanza di ritmi mozzafiato, stop’n go, atmosfere post rock, con le voci (un growling furibondo e clean vocals in pieno stile Klimt 1918) che si incrociano, si incalzano e giocano in un ascendente climax che raggiungerà la sua perfezione al termine degli oltre 7 minuti di musica eccitante e travolgente di questa release targata Amia Venera Landscape, che già ho inserito tra i migliori album del 2010. Un pugno in faccia improvvisamente mi tramortisce e stende, ma in realtà si tratta di “My Hands Will Burn First”, poi la quiete: mi gira la testa, ronzano le mie orecchie, un roboante sibilo penetra nel mio cervello, ma è solo l’incedere tramortente di “Ascending”, che forse ha il suo difetto nell’essere un po’ troppo prolissa. Ancora momenti di pacatissima quiete con “Glances (Part I)” (avrei evitato di mettere 2 pezzi puramente ambient contigui) e riecco esplodere la seconda parte di “Glances” dove i nostri si confermano band di assoluto valore e tecnica, squisita raffinatezza e senza dubbio di grande innovazione e sperimentazione. Incorporati alla velocità della luce i dettami del genere (la band nasce nel 2007) dai mostri sacri Cult of Luna, The Ocean e Dillinger Escape Plan, gli Amia Venera Landscape hanno intrapreso la propria strada con una propria spiccata e forte personalità ed ecco rilasciare questo esplosivo lavoro. Non lasciamoci scappare poi un commento per i quasi 14 minuti di “Marasm”, la song più complessa, articolata e particolare delle 10 racchiuse in questo gioiello: inizio rilassato, decisamente ambientale, poi esplosione di roboanti chitarre (ce ne sono ben 3 in formazione) seguite da frammenti di post rock malinconico, e poi ecco all’improvviso scatenarsi nelle casse del mio stereo schegge impazzite di math a “disturbarmi” il cervello come solo i Dillinger sanno fare. Non c’è traccia di vocals in questo schizoide brano ma molto meglio cosi, lo si gode tutto di un fiato e il lungo minutaggio svanisce in un batter di ciglia. Nemmeno un attimo di godersi un po’ di pace e “Nicholas” irrompe con i suoi 8 minuti e passa, a dimostrarci che la band si trova a proprio agio nella gestione di brani a lungo minutaggio denotando ancora una volta una maturità degna di veterani. “Infinite Sunset of the Sleepless Man” ci dà il tempo di ricaricare le batterie prima della conclusiva ”The Traitors’ March” che mi conferma che una nuova realtà italiana è pronta e in grado di sconquassare il mondo, con il proprio sound, questo nuovo anno. Eccezionali! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90