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giovedì 30 dicembre 2010

Fading Waves & Starchitect - Fading Waves/Starchitect


Leggeri tocchi di pianoforte aprono questo lavoro, esordio discografico per la neonata Slow Burn Records, sub-label dedita al post metal/hardcore della sempre più potente e prolifica Solitude Productions, e quale esordio mi viene da dire. Si tratta dello split cd di due band, Fading Waves (in realtà one man band) e Starchitect; ma iniziamo dalla prima. Accennavo all’intro “Rush Hour” affidata al pianoforte, che lascia ben presto lo spazio alla bellissima “Megapolis Depression”, song strumentale tipicamente post metal, contraddistinta da un esplosivo e travolgente ritmo. L’esplosività iniziale sfuma nelle atmosfere compassate di “Lights on Water”, dove finalmente fanno capolino (nel senso che si fa un po’ fatica a sentirle) le vocals di Alexey Morgunov, guest star in questo lavoro: vocalizzi gutturali, mai troppo cattivi si stagliano su un tappeto post rock moderno e sludge. Si ragazzi, echi di Isis e Cult of Luna riverberano nelle note di questi brillanti Fading Waves, vera e propria rivelazione per il sottoscritto. Spinto da curiosità mi avvio ad ascoltare anche le successive canzoni per verificare se ci troviamo di fronte ad un fuoco di paglia o realmente la band di Rostov sul Don ha realmente enormi potenzialità da sfruttare. Un breve intermezzo e poi i sette minuti abbondanti di “No Way Home” a confermarmi che quello che ho fra le mani è un piccolo gioiellino di rara bellezza e che Mr. Fading Waves è dotato di una forte personalità con idee originali; non potete immaginare il mio stupore nel godermi questo strabiliante quanto mai inatteso debutto. Ancora una song, “Flows” e l’outro “Waiting for End” a confermarmi che dall’Est Europa soffia un forte vento di innovazione e originalità e che in futuro ne sentiremo davvero delle belle. Ancora rapito dalle soavi melodie dei Fading Waves, esplode nelle mie orecchie il fragore del sound ruvido e corrosivo degli ucraini Starchitect, band dedita a sonorità più tipicamente hardcore che ha il difetto di riportarmi immediatamente sulla terra dopo essermi immerso in cotanta bellezza. Tuttavia il duo si sforza nel mettere insieme qualcosa di interessante, basti ascoltare l’inizio quasi blueseggiante di “No It”, e l’estenuante ricerca di proporre atmosfere post metal, ma siamo ancora lontani anni luce dai primi, anche perché quando le vocals irrompono, col loro fare vetriolico, il risultato è che la song si rovini. Stacchetto con “Home” poi i nostri ci riprovano con “Triumph (The Right Way)” dove c’è una bella quanto arrogante voce femminile ad aprire, salvo poi rovinare il tutto con quelle strazianti vocals. Chiude l’ipnotica “Things, Happenings, People, Sadness” sempre contraddistinta da questi fastidiosi vocalizzi: pazienza, vorrà dire che la media del voto finale sarà a discapito dei Fading Waves, che avrebbero meritato molto di più; agli Starchitect un unico consiglio: smetterla di cantare in quel modo cosi sgraziato! Disco da avere comunque. (Francesco Scarci)


(Slow Burn Records)
Voto: 75 (85 Fading Waves, 65 Starchitect)

The Sullen Route - Madness of My Own Design


Il freddo gelido dell’inverno sferza ancora il mio viso con questa release targata Solitude Productions. Questa volta si tratta dei russi The Sullen Route e del loro melodico death doom che ne segna il debutto. A differenza di altri act dell’etichetta d’oltre cortina, questo quintetto, che vede tra l’altro al basso una bellissima ragazza bionda, si dimostra abbastanza acerbo e con idee ancora del tutto da sviluppare, ma sono fiducioso per il loro futuro. Il sound dei ragazzi di Volgograd, formatisi nel 2008, trae spunto ancora una volta dai maestri del genere, My Dying Bride e Mourning Beloveth su tutti. Già dall’iniziale “Dagon”, l’ensemble dà sfoggio della loro forte propensione per melodie malinconie, pesanti e rarefatte, mancando però di quel pizzico di sfrontatezza, intraprendenza e personalità che solitamente contraddistingue tutte le band della label di Orel. La seconda traccia, “Gates” è già un po’ meglio, pescando un po’ alla rinfusa dalle produzioni di Saturnus, Officium Triste e dalla discografia della già citata band irlandese ma nonostante il tentativo di seguire le orme dei maestri del genere, il disco continua a stentare a decollare, risultando troppo spesso ripetitivo nel proporre determinati schemi musicali. Insomma, serve un po’ più di verve o qualche altra trovata per cercare di rinvigorire un sound che talvolta puzza fin troppo di stantio. I nostri ci provano cercando la soluzione in una qualche parte arpeggiata, come accade in “I Come with the Rain” o in una qualche ambientazione notturna o simil autunnale, ma per il momento la classe risiede ahimè da qualche altra parte. Il sound continua a patire la propria pesantezza come quella di un pachiderma seduto incapace di camminare. La musica procede lentamente nel suo incedere anche nelle successive songs, con il growling profondo di Elijah a sostenere il funereo death doom di questo, ahimè poco dinamico, “Madness of my Own Design”. Ci prova la title track a regalare qualche momento di vivacità col suo suono elementare ma efficace e il risultato è più che soddisfacente. L’album prosegue nel suo torpore fino alla conclusiva “One Way for Burning”, forse la song più originale e atmosferica del lotto (senza dubbio la più lunga con i suoi 10 minuti e passa). La band dovrebbe scrollarsi di dosso un po’ delle pesanti influenze che ne contraddistinguono il sound e cercare di articolare un po’ più le proprie composizioni per poter catturare al meglio l’ascoltatore altrimenti il fortissimo rischio è quello di nausearsi velocemente della loro proposta. Da rivalutare al prossimo lavoro. Comunque promossi. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 65

Revelations of Rain - Hemanation of Hatred


Quest’inverno lo ricorderò senza ombra di dubbio per le malinconiche release che hanno sconquassato la mia esistenza e ringrazierò sicuramente il roaster Solitude Production per esser stato il maggior artefice della mia disperazione, malinconia e voglia di suicidio. Fatta questa dovuta premessa, posso passare alla recensione del terzo lavoro dei russi Revelations of Rain e del profondo senso di angoscia che permea l’intera release fin dalle sue note iniziali che alla fine si infiltrerà all’interno di noi stessi lasciandoci con un senso di impotenza addosso. “Time“ apre il disco ed entra nella mia pelle, nella mia testa e nel mio cuore e incutendomi un senso di inquietudine; strugge, divora l’anima come se avessimo perso la persona amata, grazie a quelle sue incredibili tormentate melodie. Non bastano neppure le accelerazioni death sul finale per farmi riprendere, nel mio cervello risuonano costantemente le disperate linee di chitarra che dominano il brano. Non faccio in tempo a destarmi che la successiva “Our Cathedral” risuona come un lutto, un lutto inatteso nelle nostre vita: la voce growling di Vladimir Andreev vomita tutta la propria disperazione, mentre la pesantezza pachidermica delle ritmiche annuncia la fine di tutto, lo spegnimento delle luci, la calata del sipario. Il sound dei nostri è opprimente, sofferente, pesante come un macigno che preme sul nostro petto. Il sound di “Emanation of Hatred” si articola in modo complesso attraverso i suoi lunghi pezzi, sbriciolando le poche certezze che abbiamo all’interno di noi stessi. Pur non presentando nulla di innovativo, ma seguendo un percorso musicale già calcato in passato da band come Officium Triste, Evoken o Mourning Beloveth, l’act russo sviscera ogni emozione lungo le sue sette tracce, lasciandoci inevitabilmente in uno stato di disperata malinconia. Ottimo il songwriting, eccellente la produzione, ben bilanciato il suono, notevoli e ricchi di pathos i pezzi, i Revelations  of Rain hanno tutte le carte in regola per conquistare il pubblico con il loro sound avvolgente, pregno di emozioni, intriso di malinconia e desolazione. Un graditissimo come back che ci riconsegna una band in forma e con una grande voglia di stupire. Commoventi! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80

Cebren-Khal - A Mass of Despair


L’etichetta russa BadMoodMan Music non perde un colpo, cogliendo ancora una volta l’occasione di mettere sotto contratto una sconosciuta band underground di assoluto valore. Questo giro tocca ai francesi Cebren-Khal saper stupire gli ascoltatori con questa release, che pur non rappresentando nulla di particolarmente originale, ha senza dubbio il pregio di saperci conquistare fin dal primo ascolto. La musica proposta dal quartetto transalpino è riconducibile ad un death doom che si rifà ai dettami classici di primi Anathema e My Dying Bride, quindi capirete bene che chi ama questo genere di sonorità deve far proprio questo lavoro, in modo da tuffarsi in meravigliose malinconiche atmosfere ormai dimenticate. Il combo di Rennes, nelle cinque tracce proposte (per un totale di 37 minuti), passa con estrema disinvoltura dalle sonorità doom della opening track, “Mortshaped”, ad assalti al limite del black con la successiva “Act 1: The Parcae’s Nigh is Sleepless”, primo atto della suite “The Lunar Tragedy”. La lunga composizione si snoda in realtà attraverso momenti di oscure ambientazioni gotiche e sfuriate black vampiresche sulla scia dei Cradle of Filth più atmosferici, con un cantato che si alterna tra parte lamentose meditabonde e scream malvagi. Il secondo atto prosegue con una vena molto più melodica, richiamando ancora una volta il sound dei maestri di sempre, My Dying Bride e con la voce di Yves che fa molto spesso il verso di Aaron, con quel suo modo di esprimersi sofferto, disperato e lamentoso. Tocchi di pianoforte accompagnati da roboanti ruggiti di chitarra e melodie struggenti, riescono nel difficile compito di sapermi toccare il cuore, infondendomi emozioni che da tempo non percepivo ascoltando un cd. Il terzo atto apre con un nuovo assalto frontale, interrotto da un ispirato arpeggio di chitarra e ancora dalla voce di Yves a giocare un ruolo fondamentale nell’economia della band, grazie alla sua brillante ecletticità nel passare dal growling profondo allo screaming black attraverso un cantato declamatorio niente male. L’ultima lunghissima traccia, “Where all Faith is Lost”, chiude degnamente un disco esaltante che se fosse durato una ventina di minuti in più avrebbe sicuramente stancato ma l’intelligenza dei nostri li ha spinti a propendere per musica di qualità piuttosto che di quantità. Melodie azzeccatissime, riffoni pesantissimi, aperture orchestrali, arricchite da una registrazione potente e impeccabile dall’inizio alla fine, chiudono questo inatteso quanto mai interessante lavoro dei francesi Cebren-Khal, new sensation in casa BadMoodMan Music. Semplicemente emozionanti! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 80

mercoledì 29 dicembre 2010

To a Skylark - To a Skylark


Quando meno te lo aspetti, ecco un fulmine a squarciare un orizzonte terso, sgombro da ogni nuvola e con un sole accecante che si staglia lassù, nel cielo azzurro. Questo è l’effetto che ha suscitato in me l’ascolto dell’album di debutto dei talentuosi vicentini To a Skylark. Già il nome della band rievoca la bellissima poesia di Percy B. Shelley, la bravura e la sensibilità poi di questi cinque ragazzi (che ho avuto anche il piacere di conoscere e vedere dal vivo), fa’ il resto. La band, formatasi nel 2003, rilascia un album eccezionale, che l’occhio lungo e vigile della Worm Hole Death (sottoetichetta della Aural Music) non si è lasciata scappare. Dopo la breve intro, si parte alla grande con “Icarus’ Redemption”, lunga traccia (di poco più di 10 minuti) che rappresenta un po’ la sintesi della musica dei nostri: ritmiche non troppo sostenute, arricchite da melodie fluttuanti, parti atmosferiche/acustiche, qualche sfuriata death, una prova eccellente dei singoli (con un plauso particolare al batterista e alla strepitosa prova di Alessandro alle vocals, con uno stile vocale, sia nel clean che nel growling molto vicino al cantante degli spagnoli Nahemah), non fanno che garantire 45 minuti di musica di gran classe. Non ho già più parole per descrivere le emozioni che questo sound è in grado di trasmettermi. Si prosegue con il breve sognante intermezzo “Hic et Nunc” che finisce per esplodere in “At Dusk, by Lake Walden”, dove è sempre la batteria a dettare i tempi mentre i due chitarristi disegnano trame allo stesso modo di come Picasso pennellava, in modo geniale, le sue tele: suoni progressive si amalgamano alla perfezione con visioni lisergiche di “Pink Floydiana” memoria, lo sludge claustrofobico alla Isis si unisce alla ripetitività ipnotica dei Meshuggah, impressionante è l’esito finale di questo brillante lavoro. Che piacere sentire musica ben suonata, capace di travolgerci con la sua elevata carica emotiva, musica che parte e arriva diretta al cuore. Si prosegue con la brutale “The Aftermath” (forse il pezzo meno eccelso del lotto) e con un secondo angelico intermezzo che apre alla lunghissima “The Fading Process”, la perfetta sintesi dei suoni di Porcupine Tree, ultimi Katatonia e Opeth, song che sancisce la grandezza di una band che per quanto giovane sia, mi auguro possa raggiungere un successo straordinario. “To a Skylark” è un lavoro meraviglioso (supportato anche da un’ottima produzione ai West Link Studios di Pisa) che tutti gli amanti di sonorità metal (non solo estreme sia ben chiaro, ma anche avantgarde, progressive, gothic, black) dovrebbero far loro. Ripetersi sarà veramente difficile, ma quanto sentito in sede live promette altri fulmini in quel bellissimo cielo azzurro… (Francesco Scarci)

(Worm Hole Death)
Voto: 85

Infected Malignity - Re:bel


Un inizio arpeggiato e melodico mi lascia presagire che, quello che ho fra le mani, deve essere uno di quei dischi sludge psichedelici che tanto vanno di moda oggi. Mi basta poco per capire che il quartetto giapponese degli Infected Malignity è in realtà, un combo dedito al brutal death, di quelli tra l'altro, più ferali e marciulenti. Dalla seconda “Fictitious Follower (And Conceit Man)” infatti, la band di Kouhei Watanabe (vocalist niente male, per altro), ci stordisce con il loro sound spaccaossa e tritabudelle, fatto di chitarre violentissime, talvolta soffocanti, ma dalla ritmica ben strutturata e varia. Anche se vario è una parola grossa in questo genere, la band del Sol Levante si destreggia bene attraverso i sette brani contenuti in “Re:bel”, costruendo songs veloci, ma contraddistinte anche da qualche oscuro e intelligente rallentamento, che ci dà giusto il tempo di rifiatare; i brani comunque rimangono ben impressi nel cervello e in grado di scatenare un violentissimo pogo. Ineccepibile da un punto di vista tecnico, l'act giapponese, nonostante la giovane età, dimostra di avere una discreta personalità e qualche buona idea, che se sfruttata bene, potrebbe ridare nuova linfa alla scena. Interessanti, da risentire molto presto... (Francesco Scarci)

(Anticulture)
Voto: 65

Drivhell - A Journey as a Life


"A Journey as a life" è il terzo album dei lecchesi Drivhell, formazione progressive metal dallo spessore artistico e tecnico degno di nota. Il sestetto nasce nel 1998 e ha affinato un sound di tutto rispetto negli anni e devo dire che questo album racchiude il duro lavoro fatto da musicisti per passione che oramai non sono più ragazzini. E la maturita c'è tutta, dal primo pezzo "Pictures on a Score", classico prog metal, passando per "A Journey as a Life", impreziosito da un ottimo sitar introduttivo che accarezza e lascia subito il posto a potenti chitarre e tastiere. Proprio quest'ultime (plurale perchè i tastieristi sono due/Ndr) generano dei veri e propri "tappeti" musicali che aumentano l'atmosfera dell concept album e regalano melodie mai banali. Concept album perchè i stessi autori lo dichiarano apertamente ispirato a " Le Città Invisibili" di Italo Calvino. Tutto è ben bilanciato, batteria da manuale e un vocalist con il giusto appeal per il sound dei Drivhell. Unica pecca forse la timbrica tipicamente dei gruppi vecchi di quarant'anni, ma ovviamente è un opinione puramente personale. Probabilmente a tanti piace così com'è. Quindi ottimo cd dei Drivhell a cui auguro di continuare a suonare e cercare quel qualcosa di personale che potrebbe renderli eccellenti. (Michele Montanari)

(Casket Music)
Voto: 80

martedì 28 dicembre 2010

Fear Factory - Obsolete


La guerra tra macchine e umani continua! Ricordo che quando ho avuto il cd fra le mie mani, ero scettico. Dopo “Soul of a New Machine” e “Demanufacture”, mi sono detto: “mmm... mi sa che questo concept non mi piacerà come gli altri due”. Ho guardato l’artwork del grandissimo Dave McKean in copertina e mi sono deciso ad ascoltarlo. Ha girato subito bene, i Fear Factory avevano sfornato (ricordo che era il 1998) un nuovo album fedele al loro stile, ma non uno pseudo-clone. Idealmente una release che chiudeva una trilogia con i due precedenti, quindi ne segue il solco, tuttavia mostrando una sua personalità. Mi sbilancio: una sua originalità. Procede con una sua linea e le canzoni si alternano piacevolmente dando una sensazione di non ripetitività, non semplicissimo considerando il genere. Undici tracce di un eclettico industrial metal con forti infiltrazioni elettroniche, tra cui si alternano pezzi molto duri (“Hi-tech Hate”, “Edgecrusher”) a pezzi più melodici (“Descent”). Interessante l’evoluzione del cantante Burton C. Bell, che riesce ad alternare sempre più parti growl ad altre più pulite in maniera efficace. Gli altri componenti rimangono a ottimi livelli di esecuzione, forse meno tirati che nei lavori precedenti: non fraintendete, spaccano lo stesso. La chitarra di Dino Cazares, in particolare, suona più bassa del solito. La finezza dell’album risiede nella commistione sempre più profonda con i suoni elettronici: davvero più ricercati che nei lavori precedenti. Il risultato migliore di tale miscela si può trovare nella bella (ma non velocissima) “Resurrection”: davvero si ha la sensazione di perdersi e ritrovarsi. I testi sono coerenti con il concept dell’album: la guerra tra macchine e umani. Sebbene già presente in precedenza, in questo lavoro si concretizza e si dispiega completamente in tracce come “Securitron”, “Smasher/Devourer” e “Obsolete”. Quest’ultima davvero manifesto di questo lavoro. Da notare la finale “Cars”, cover dell’omonimo pezzo del 1979 di Gary Numan che partecipa anche a questa interpretazione. Come riportato all’inizio, menzione speciale per tutto l’artwork di quest’album, veramente coerente con la parte musicale ma per nulla scontato. Confermatissimi! (Alberto Merlotti)

(Roadrunner)
Voto: 75