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giovedì 30 dicembre 2010

Fading Waves & Starchitect - Fading Waves/Starchitect


Leggeri tocchi di pianoforte aprono questo lavoro, esordio discografico per la neonata Slow Burn Records, sub-label dedita al post metal/hardcore della sempre più potente e prolifica Solitude Productions, e quale esordio mi viene da dire. Si tratta dello split cd di due band, Fading Waves (in realtà one man band) e Starchitect; ma iniziamo dalla prima. Accennavo all’intro “Rush Hour” affidata al pianoforte, che lascia ben presto lo spazio alla bellissima “Megapolis Depression”, song strumentale tipicamente post metal, contraddistinta da un esplosivo e travolgente ritmo. L’esplosività iniziale sfuma nelle atmosfere compassate di “Lights on Water”, dove finalmente fanno capolino (nel senso che si fa un po’ fatica a sentirle) le vocals di Alexey Morgunov, guest star in questo lavoro: vocalizzi gutturali, mai troppo cattivi si stagliano su un tappeto post rock moderno e sludge. Si ragazzi, echi di Isis e Cult of Luna riverberano nelle note di questi brillanti Fading Waves, vera e propria rivelazione per il sottoscritto. Spinto da curiosità mi avvio ad ascoltare anche le successive canzoni per verificare se ci troviamo di fronte ad un fuoco di paglia o realmente la band di Rostov sul Don ha realmente enormi potenzialità da sfruttare. Un breve intermezzo e poi i sette minuti abbondanti di “No Way Home” a confermarmi che quello che ho fra le mani è un piccolo gioiellino di rara bellezza e che Mr. Fading Waves è dotato di una forte personalità con idee originali; non potete immaginare il mio stupore nel godermi questo strabiliante quanto mai inatteso debutto. Ancora una song, “Flows” e l’outro “Waiting for End” a confermarmi che dall’Est Europa soffia un forte vento di innovazione e originalità e che in futuro ne sentiremo davvero delle belle. Ancora rapito dalle soavi melodie dei Fading Waves, esplode nelle mie orecchie il fragore del sound ruvido e corrosivo degli ucraini Starchitect, band dedita a sonorità più tipicamente hardcore che ha il difetto di riportarmi immediatamente sulla terra dopo essermi immerso in cotanta bellezza. Tuttavia il duo si sforza nel mettere insieme qualcosa di interessante, basti ascoltare l’inizio quasi blueseggiante di “No It”, e l’estenuante ricerca di proporre atmosfere post metal, ma siamo ancora lontani anni luce dai primi, anche perché quando le vocals irrompono, col loro fare vetriolico, il risultato è che la song si rovini. Stacchetto con “Home” poi i nostri ci riprovano con “Triumph (The Right Way)” dove c’è una bella quanto arrogante voce femminile ad aprire, salvo poi rovinare il tutto con quelle strazianti vocals. Chiude l’ipnotica “Things, Happenings, People, Sadness” sempre contraddistinta da questi fastidiosi vocalizzi: pazienza, vorrà dire che la media del voto finale sarà a discapito dei Fading Waves, che avrebbero meritato molto di più; agli Starchitect un unico consiglio: smetterla di cantare in quel modo cosi sgraziato! Disco da avere comunque. (Francesco Scarci)


(Slow Burn Records)
Voto: 75 (85 Fading Waves, 65 Starchitect)

The Sullen Route - Madness of My Own Design


Il freddo gelido dell’inverno sferza ancora il mio viso con questa release targata Solitude Productions. Questa volta si tratta dei russi The Sullen Route e del loro melodico death doom che ne segna il debutto. A differenza di altri act dell’etichetta d’oltre cortina, questo quintetto, che vede tra l’altro al basso una bellissima ragazza bionda, si dimostra abbastanza acerbo e con idee ancora del tutto da sviluppare, ma sono fiducioso per il loro futuro. Il sound dei ragazzi di Volgograd, formatisi nel 2008, trae spunto ancora una volta dai maestri del genere, My Dying Bride e Mourning Beloveth su tutti. Già dall’iniziale “Dagon”, l’ensemble dà sfoggio della loro forte propensione per melodie malinconie, pesanti e rarefatte, mancando però di quel pizzico di sfrontatezza, intraprendenza e personalità che solitamente contraddistingue tutte le band della label di Orel. La seconda traccia, “Gates” è già un po’ meglio, pescando un po’ alla rinfusa dalle produzioni di Saturnus, Officium Triste e dalla discografia della già citata band irlandese ma nonostante il tentativo di seguire le orme dei maestri del genere, il disco continua a stentare a decollare, risultando troppo spesso ripetitivo nel proporre determinati schemi musicali. Insomma, serve un po’ più di verve o qualche altra trovata per cercare di rinvigorire un sound che talvolta puzza fin troppo di stantio. I nostri ci provano cercando la soluzione in una qualche parte arpeggiata, come accade in “I Come with the Rain” o in una qualche ambientazione notturna o simil autunnale, ma per il momento la classe risiede ahimè da qualche altra parte. Il sound continua a patire la propria pesantezza come quella di un pachiderma seduto incapace di camminare. La musica procede lentamente nel suo incedere anche nelle successive songs, con il growling profondo di Elijah a sostenere il funereo death doom di questo, ahimè poco dinamico, “Madness of my Own Design”. Ci prova la title track a regalare qualche momento di vivacità col suo suono elementare ma efficace e il risultato è più che soddisfacente. L’album prosegue nel suo torpore fino alla conclusiva “One Way for Burning”, forse la song più originale e atmosferica del lotto (senza dubbio la più lunga con i suoi 10 minuti e passa). La band dovrebbe scrollarsi di dosso un po’ delle pesanti influenze che ne contraddistinguono il sound e cercare di articolare un po’ più le proprie composizioni per poter catturare al meglio l’ascoltatore altrimenti il fortissimo rischio è quello di nausearsi velocemente della loro proposta. Da rivalutare al prossimo lavoro. Comunque promossi. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 65

Revelations of Rain - Hemanation of Hatred


Quest’inverno lo ricorderò senza ombra di dubbio per le malinconiche release che hanno sconquassato la mia esistenza e ringrazierò sicuramente il roaster Solitude Production per esser stato il maggior artefice della mia disperazione, malinconia e voglia di suicidio. Fatta questa dovuta premessa, posso passare alla recensione del terzo lavoro dei russi Revelations of Rain e del profondo senso di angoscia che permea l’intera release fin dalle sue note iniziali che alla fine si infiltrerà all’interno di noi stessi lasciandoci con un senso di impotenza addosso. “Time“ apre il disco ed entra nella mia pelle, nella mia testa e nel mio cuore e incutendomi un senso di inquietudine; strugge, divora l’anima come se avessimo perso la persona amata, grazie a quelle sue incredibili tormentate melodie. Non bastano neppure le accelerazioni death sul finale per farmi riprendere, nel mio cervello risuonano costantemente le disperate linee di chitarra che dominano il brano. Non faccio in tempo a destarmi che la successiva “Our Cathedral” risuona come un lutto, un lutto inatteso nelle nostre vita: la voce growling di Vladimir Andreev vomita tutta la propria disperazione, mentre la pesantezza pachidermica delle ritmiche annuncia la fine di tutto, lo spegnimento delle luci, la calata del sipario. Il sound dei nostri è opprimente, sofferente, pesante come un macigno che preme sul nostro petto. Il sound di “Emanation of Hatred” si articola in modo complesso attraverso i suoi lunghi pezzi, sbriciolando le poche certezze che abbiamo all’interno di noi stessi. Pur non presentando nulla di innovativo, ma seguendo un percorso musicale già calcato in passato da band come Officium Triste, Evoken o Mourning Beloveth, l’act russo sviscera ogni emozione lungo le sue sette tracce, lasciandoci inevitabilmente in uno stato di disperata malinconia. Ottimo il songwriting, eccellente la produzione, ben bilanciato il suono, notevoli e ricchi di pathos i pezzi, i Revelations  of Rain hanno tutte le carte in regola per conquistare il pubblico con il loro sound avvolgente, pregno di emozioni, intriso di malinconia e desolazione. Un graditissimo come back che ci riconsegna una band in forma e con una grande voglia di stupire. Commoventi! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80

Cebren-Khal - A Mass of Despair


L’etichetta russa BadMoodMan Music non perde un colpo, cogliendo ancora una volta l’occasione di mettere sotto contratto una sconosciuta band underground di assoluto valore. Questo giro tocca ai francesi Cebren-Khal saper stupire gli ascoltatori con questa release, che pur non rappresentando nulla di particolarmente originale, ha senza dubbio il pregio di saperci conquistare fin dal primo ascolto. La musica proposta dal quartetto transalpino è riconducibile ad un death doom che si rifà ai dettami classici di primi Anathema e My Dying Bride, quindi capirete bene che chi ama questo genere di sonorità deve far proprio questo lavoro, in modo da tuffarsi in meravigliose malinconiche atmosfere ormai dimenticate. Il combo di Rennes, nelle cinque tracce proposte (per un totale di 37 minuti), passa con estrema disinvoltura dalle sonorità doom della opening track, “Mortshaped”, ad assalti al limite del black con la successiva “Act 1: The Parcae’s Nigh is Sleepless”, primo atto della suite “The Lunar Tragedy”. La lunga composizione si snoda in realtà attraverso momenti di oscure ambientazioni gotiche e sfuriate black vampiresche sulla scia dei Cradle of Filth più atmosferici, con un cantato che si alterna tra parte lamentose meditabonde e scream malvagi. Il secondo atto prosegue con una vena molto più melodica, richiamando ancora una volta il sound dei maestri di sempre, My Dying Bride e con la voce di Yves che fa molto spesso il verso di Aaron, con quel suo modo di esprimersi sofferto, disperato e lamentoso. Tocchi di pianoforte accompagnati da roboanti ruggiti di chitarra e melodie struggenti, riescono nel difficile compito di sapermi toccare il cuore, infondendomi emozioni che da tempo non percepivo ascoltando un cd. Il terzo atto apre con un nuovo assalto frontale, interrotto da un ispirato arpeggio di chitarra e ancora dalla voce di Yves a giocare un ruolo fondamentale nell’economia della band, grazie alla sua brillante ecletticità nel passare dal growling profondo allo screaming black attraverso un cantato declamatorio niente male. L’ultima lunghissima traccia, “Where all Faith is Lost”, chiude degnamente un disco esaltante che se fosse durato una ventina di minuti in più avrebbe sicuramente stancato ma l’intelligenza dei nostri li ha spinti a propendere per musica di qualità piuttosto che di quantità. Melodie azzeccatissime, riffoni pesantissimi, aperture orchestrali, arricchite da una registrazione potente e impeccabile dall’inizio alla fine, chiudono questo inatteso quanto mai interessante lavoro dei francesi Cebren-Khal, new sensation in casa BadMoodMan Music. Semplicemente emozionanti! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 80

mercoledì 29 dicembre 2010

To a Skylark - To a Skylark


Quando meno te lo aspetti, ecco un fulmine a squarciare un orizzonte terso, sgombro da ogni nuvola e con un sole accecante che si staglia lassù, nel cielo azzurro. Questo è l’effetto che ha suscitato in me l’ascolto dell’album di debutto dei talentuosi vicentini To a Skylark. Già il nome della band rievoca la bellissima poesia di Percy B. Shelley, la bravura e la sensibilità poi di questi cinque ragazzi (che ho avuto anche il piacere di conoscere e vedere dal vivo), fa’ il resto. La band, formatasi nel 2003, rilascia un album eccezionale, che l’occhio lungo e vigile della Worm Hole Death (sottoetichetta della Aural Music) non si è lasciata scappare. Dopo la breve intro, si parte alla grande con “Icarus’ Redemption”, lunga traccia (di poco più di 10 minuti) che rappresenta un po’ la sintesi della musica dei nostri: ritmiche non troppo sostenute, arricchite da melodie fluttuanti, parti atmosferiche/acustiche, qualche sfuriata death, una prova eccellente dei singoli (con un plauso particolare al batterista e alla strepitosa prova di Alessandro alle vocals, con uno stile vocale, sia nel clean che nel growling molto vicino al cantante degli spagnoli Nahemah), non fanno che garantire 45 minuti di musica di gran classe. Non ho già più parole per descrivere le emozioni che questo sound è in grado di trasmettermi. Si prosegue con il breve sognante intermezzo “Hic et Nunc” che finisce per esplodere in “At Dusk, by Lake Walden”, dove è sempre la batteria a dettare i tempi mentre i due chitarristi disegnano trame allo stesso modo di come Picasso pennellava, in modo geniale, le sue tele: suoni progressive si amalgamano alla perfezione con visioni lisergiche di “Pink Floydiana” memoria, lo sludge claustrofobico alla Isis si unisce alla ripetitività ipnotica dei Meshuggah, impressionante è l’esito finale di questo brillante lavoro. Che piacere sentire musica ben suonata, capace di travolgerci con la sua elevata carica emotiva, musica che parte e arriva diretta al cuore. Si prosegue con la brutale “The Aftermath” (forse il pezzo meno eccelso del lotto) e con un secondo angelico intermezzo che apre alla lunghissima “The Fading Process”, la perfetta sintesi dei suoni di Porcupine Tree, ultimi Katatonia e Opeth, song che sancisce la grandezza di una band che per quanto giovane sia, mi auguro possa raggiungere un successo straordinario. “To a Skylark” è un lavoro meraviglioso (supportato anche da un’ottima produzione ai West Link Studios di Pisa) che tutti gli amanti di sonorità metal (non solo estreme sia ben chiaro, ma anche avantgarde, progressive, gothic, black) dovrebbero far loro. Ripetersi sarà veramente difficile, ma quanto sentito in sede live promette altri fulmini in quel bellissimo cielo azzurro… (Francesco Scarci)

(Worm Hole Death)
Voto: 85

Infected Malignity - Re:bel


Un inizio arpeggiato e melodico mi lascia presagire che, quello che ho fra le mani, deve essere uno di quei dischi sludge psichedelici che tanto vanno di moda oggi. Mi basta poco per capire che il quartetto giapponese degli Infected Malignity è in realtà, un combo dedito al brutal death, di quelli tra l'altro, più ferali e marciulenti. Dalla seconda “Fictitious Follower (And Conceit Man)” infatti, la band di Kouhei Watanabe (vocalist niente male, per altro), ci stordisce con il loro sound spaccaossa e tritabudelle, fatto di chitarre violentissime, talvolta soffocanti, ma dalla ritmica ben strutturata e varia. Anche se vario è una parola grossa in questo genere, la band del Sol Levante si destreggia bene attraverso i sette brani contenuti in “Re:bel”, costruendo songs veloci, ma contraddistinte anche da qualche oscuro e intelligente rallentamento, che ci dà giusto il tempo di rifiatare; i brani comunque rimangono ben impressi nel cervello e in grado di scatenare un violentissimo pogo. Ineccepibile da un punto di vista tecnico, l'act giapponese, nonostante la giovane età, dimostra di avere una discreta personalità e qualche buona idea, che se sfruttata bene, potrebbe ridare nuova linfa alla scena. Interessanti, da risentire molto presto... (Francesco Scarci)

(Anticulture)
Voto: 65

Drivhell - A Journey as a Life


"A Journey as a life" è il terzo album dei lecchesi Drivhell, formazione progressive metal dallo spessore artistico e tecnico degno di nota. Il sestetto nasce nel 1998 e ha affinato un sound di tutto rispetto negli anni e devo dire che questo album racchiude il duro lavoro fatto da musicisti per passione che oramai non sono più ragazzini. E la maturita c'è tutta, dal primo pezzo "Pictures on a Score", classico prog metal, passando per "A Journey as a Life", impreziosito da un ottimo sitar introduttivo che accarezza e lascia subito il posto a potenti chitarre e tastiere. Proprio quest'ultime (plurale perchè i tastieristi sono due/Ndr) generano dei veri e propri "tappeti" musicali che aumentano l'atmosfera dell concept album e regalano melodie mai banali. Concept album perchè i stessi autori lo dichiarano apertamente ispirato a " Le Città Invisibili" di Italo Calvino. Tutto è ben bilanciato, batteria da manuale e un vocalist con il giusto appeal per il sound dei Drivhell. Unica pecca forse la timbrica tipicamente dei gruppi vecchi di quarant'anni, ma ovviamente è un opinione puramente personale. Probabilmente a tanti piace così com'è. Quindi ottimo cd dei Drivhell a cui auguro di continuare a suonare e cercare quel qualcosa di personale che potrebbe renderli eccellenti. (Michele Montanari)

(Casket Music)
Voto: 80

martedì 28 dicembre 2010

Fear Factory - Obsolete


La guerra tra macchine e umani continua! Ricordo che quando ho avuto il cd fra le mie mani, ero scettico. Dopo “Soul of a New Machine” e “Demanufacture”, mi sono detto: “mmm... mi sa che questo concept non mi piacerà come gli altri due”. Ho guardato l’artwork del grandissimo Dave McKean in copertina e mi sono deciso ad ascoltarlo. Ha girato subito bene, i Fear Factory avevano sfornato (ricordo che era il 1998) un nuovo album fedele al loro stile, ma non uno pseudo-clone. Idealmente una release che chiudeva una trilogia con i due precedenti, quindi ne segue il solco, tuttavia mostrando una sua personalità. Mi sbilancio: una sua originalità. Procede con una sua linea e le canzoni si alternano piacevolmente dando una sensazione di non ripetitività, non semplicissimo considerando il genere. Undici tracce di un eclettico industrial metal con forti infiltrazioni elettroniche, tra cui si alternano pezzi molto duri (“Hi-tech Hate”, “Edgecrusher”) a pezzi più melodici (“Descent”). Interessante l’evoluzione del cantante Burton C. Bell, che riesce ad alternare sempre più parti growl ad altre più pulite in maniera efficace. Gli altri componenti rimangono a ottimi livelli di esecuzione, forse meno tirati che nei lavori precedenti: non fraintendete, spaccano lo stesso. La chitarra di Dino Cazares, in particolare, suona più bassa del solito. La finezza dell’album risiede nella commistione sempre più profonda con i suoni elettronici: davvero più ricercati che nei lavori precedenti. Il risultato migliore di tale miscela si può trovare nella bella (ma non velocissima) “Resurrection”: davvero si ha la sensazione di perdersi e ritrovarsi. I testi sono coerenti con il concept dell’album: la guerra tra macchine e umani. Sebbene già presente in precedenza, in questo lavoro si concretizza e si dispiega completamente in tracce come “Securitron”, “Smasher/Devourer” e “Obsolete”. Quest’ultima davvero manifesto di questo lavoro. Da notare la finale “Cars”, cover dell’omonimo pezzo del 1979 di Gary Numan che partecipa anche a questa interpretazione. Come riportato all’inizio, menzione speciale per tutto l’artwork di quest’album, veramente coerente con la parte musicale ma per nulla scontato. Confermatissimi! (Alberto Merlotti)

(Roadrunner)
Voto: 75

The Dark Shine - Last Chance


Adesso mi ricordo cosa odiavo delle band anni ’90 tipo “Elastica”. E pensare che avevo rimosso. Qui siamo alla clonazione, o giù di lì. Parto con tutta la buona volontà, sono italiani, vicino alle mie parti (bergamaschi) e hanno una cantante che suona la chitarra. L’adolescente che è in me si risveglia! Dopo due minuti, l’adolescente saluta tutti e va vedersi un film di Edwige Fenech e Lino Banfi (senza offesa). Il primo lavoro di ampio respiro di questo gruppo non ha niente di originale: tutto già sentito, voce femminile da ragazzina tipo Avril Lavigne, con qualcosa di più ambiguo anche se ci prova con qualche acuto, specie nella quasi punk “Haunting”. In altre songs la vocalist esagera e scopre tutti i propri limiti. Sonorità un po’ buttate lì, accordi semplici che, purtroppo, non hanno il pregio di incastrarsi nella mente. Il pentolame è in linea col resto delle sonorità, semplice lineare, anonimo. Discorso simile per gli assoli di chitarra, messi quasi come una foglia di fico, anche nelle canzoni più tirate (vedi “Redrum”). Da dire che alcune volte funzionano, ad esempio nel lentone “Cries Cries”, dove tuttavia le linee di chitarra non nobilitano la canzone più di tanto. Meglio nella più intimista “City” dove alcuni giri sono azzeccati. Schema compositivo classico, che funziona da scheletro da canzoni altrimenti destinate all’amorfismo ameboide totale. Cosa si può salvare? Bé, diciamo che sono coerenti, nel senso che lo stile quello è, e quello rimane per tutto il lavoro: ne consegue che se a uno piace il genere, è a posto per tutto il CD. Ascoltate anche la ghost track in italiano in coda alla traccia dieci. Ecco cosa potrebbero esplorare: un ritmo più classico, suoni più caldi e meno arrabbiati. Come dite? Vi ricorda vagamente “Down by Law” dei SuperB? Anche a me. La produzione è buona, rispetto a lavori che sembrano registrati in una grotta (non volutamente), qui tutto si sente decentemente. Le liriche passano come acqua. Un “ni” per l’artwork e il packaging: qualcosina di buono colpisce, ma poco. Spero che il titolo “Last Chance” non sia profetico: cioè, se questa era la loro ultima possibilità, mi sa che se la sono giocata. Forse può essere utilizzato per una festina tra ragazzini... adesso provo con i figli dei miei vicini... (Alberto Merlotti)

(Hurricane Shiva)
Voto: 40

Lord Agheros - As a Sin


Decisamente uno dei prodotti più affascinanti usciti nel 2008 quello di Evangelou Gerassimos, mastermind polistrumentista dei catanesi Lord Agheros. Dopo l’esordio del 2007, “Hymn”, la My Kingdom Music ha messo gli occhi su uno dei talenti italiani, a mio avviso, più promettenti. Ne è uscito “As a Sin”, viaggio suggestivo e intimistico, attraverso nove tracce ricche di feeling, pathos e molto mistero, capaci di spingerci con la mente in oscure epoche medievali, bagnate da un tiepido sole autunnale. Dopo l’intro “Drama Begins”, si aprono le danze con un trittico di meravigliosi brani, dove classiche ambientazioni si fondono a vocalizzi black (l’unica parte da migliorare) e spunti etnico-tribali (ascoltare “Sacrilegium” per godere di una appassionante musica araba). Romantico, epico, struggente e talvolta folkloristico, “As a Sin” è un caleidoscopico viaggio nel tempo: potremo prendere come punto di riferimento il capolavoro “Kveldsfanger” degli Ulver e renderlo un po’ più elettrico nel suo incedere, con una vasta gamma di sperimentazione avanguardistiche (techno-noise) di prima classe. Non c’è niente da fare, questo disco l’ho ascoltato e riascoltato, apprezzandone di volta in volta le mille sfaccettature che ogni suo ascolto è in grado di offrire. Mettetevi le cuffie e lasciatevi cullare dalla musica di Gerassimos, in un commovente turbinio di emozioni, ne resterete ammaliati. Una inattesa piacevole sorpresa. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 80

Ecnephias - Haereticus

#PER CHI AMA: Death/Black atmosferico, Rotting Christ, Septic Flesh
A distanza di poco più di un anno da “Dominium Noctis”, ritornano gli Ecnephias, portabandiera di un magistrale death/black, dalle forti tinte horror sinfoniche. Questo “Haereticus” non è un vero e proprio full lenght, ma un Ep di 7 pezzi della durata di 26 minuti. Dopo la declamazione in latino della breve intro “De Natura Deorum”, attacca selvaggiamente la title track, il pezzo, a mio avviso, migliore dell’album, capace di alternare la furia black death dei nostri, con orchestrazioni granguignolesche, ideali per un film di Dario Argento: spettacolare è infatti l’epicità della parte centrale del pezzo, con una bellissima e teatrale invocazione mista di latino e italiano; da pelle d’oca direi. Segue poi la maestosa “Deviations”, dove i nostri confermano essere, oltre ad abili esecutori, anche musicisti dotati di una eccellente creatività: tenebrose atmosfere, notturne evocazioni ed epici cori, fanno di questa traccia e in generale di “Haereticus”, un lavoro interessantissimo che potrà di certo piacere ai fan del black metal in toto e non solo ai patiti del sound sinfonico e gotico a la Cradle of Filth. Le orchestrazioni simili ai primi Limbonic Art, certe atmosfere che richiamano il death ellenico dei primi Rotting Christ o Septic Flesh, la sempre magnifica voce di Mancan, con il suo alternarsi tra il growling più cupo (che richiama però in certi frangenti Dani Filth) e le parti più pulite (cantate in italiano o declamate in latino), confermano la bontà di un lavoro che deve essere assolutamente ascoltato dagli amanti di sonorità estreme. L’intermezzo “Eterno Silenzio”, dove compare la suadente voce di una gentil donzella, preparare l’ascoltatore a “A Darkened Room”, la canzone più brutale del cd, quella che più richiama i Rotting Christ di “Thriarchy of the Lost Lovers”. “Hills on a Desert” sesta traccia del cd, è un mid tempos melodico e ragionato, che si chiude con un enigmatico assolo. “Ave Maestro” infine, celebra con oscuri versi, la degna chiusura di un’opera che non fa altro che aumentare la mia attesa, per l’ascolto del nuovo full lenght degli Ecnephias. Se il buon giorno si vede dal mattino, il nuovo album sarà sicuramente un capolavoro… (Francesco Scarci)

(Nekromantik Records)
Voto: 75

http://www.ecnephias.com/

Symbolyc - Engraved Flesh


Bombastico!!! Questo è il suono che esplode nelle casse del mio stereo, non appena premo il tasto play su “Engraved Flesh”, primo full lenght dei napoletani Symbolyc. Già a partire dalla cover del cd, si capisce che il quintetto partenopeo ha voluto fare le cose in grande e inizialmente privi di qualsiasi supporto di etichetta (ora con My Kingdom Music), ha sfoderato un’ottima prova collettiva. Nati come cover band di Sepultura, Slayer e Metallica, i Symbolyc hanno saputo evolvere e virare il proprio sound verso le sonorità tipiche del death metal polacco, che ha dato la fama a band del calibro di Vader, Behemoth e degli sfortunatissimi Decapitated. Partiamo quindi dal tipo di sound: brutale, ipertecnico, con le chitarre a innalzare montagne di riffs e la batteria a cercare di abbattere questi muri insormontabili. Il death che ne esce fuori è monolitico, diretto e scevro di ogni tipo di sperimentazione, ma estremamente efficace. Dopo l’ascolto di ogni traccia, mi ritrovo col fiatone, tanta è l’energia in grado di trasmettere questo lavoro. Le ottime growling vocals di Diego Latino richiamano, per stile di canto, il vocalist dei Vader; gli assoli ci rimandano invece ad un brutal death di stampo americano, stile Monstrosity: precisi, taglienti ma sempre melodici. Trovano spazio, in taluni frangenti, anche mid tempos più ragionati (vedi “Suffering”), dove i nostri sembrano quasi spingerci sull’orlo del burrone, per poi affossarci con una mortale spallata. Violenti, adrenalinici, energici, potenti (complice anche la registrazione strepitosa ai 16th Cellar Studios), i Symbolyc ci regalano una eccellente prova di sapiente e brutale death metal iper tecnico, a dimostrare ancora una volta che la penisola italiana è in grado di offrire band di eccellente livello, che possono tranquillamente tenere il passo dei gruppi internazionali, ma ahimè ancora una volta, mostra l’insufficienza, che regna sovrana, nel supportare valide realtà italiane, ancora prive di contratto… Un peccato se non raggiungessero il successo che meritano (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 75

Lapsus - Moments of Aberration


Sembra il suono di un carrion quello ad aprire il cd dei Lapsus, ensemble italico già in giro da un lustro, che dopo un demo cd e una serie di fortunati concerti (culminati con il “Gods of Metal” del 2007), giunge finalmente al tanto agognato full lenght, dopo aver coltol’interesse di diverse webzine e case discografiche. La cover del cd e il look dei 5 ragazzi di Torino, non so per quale motivo, ma mi richiamano i Darkane; la musica che esce dalle mie casse non vai poi cosi tanto distante dalla proposta dei godz svedesi. Il sound del quintetto piemontese infatti è una sorta di thrash stile Bay Area, “sporcato“ dal classico rifferama swedish death e da alcune soluzioni ritmico e vocali tipiche della scena italiana. Una ritmica sincopata contraddistingue tutto il lavoro dei nostri che, per caratteristica del sound, mi ricorda il debut cd dei marchigiani Edenshade, non raggiungendo ahimè le loro inarrivabili vette di genialità. Tuttavia, la musica che salta fuori nelle 11 tracce qui proposte non è niente male, per quel suo suono moderno, a tratti violento e veloce, ma il più delle volte estremamente melodico e di classica impostazione (Iron Maiden docet). Insomma, non vi è ancora chiara l’idea di cosa suonino i Lapsus? A dire il vero è abbastanza disorientante anche per me per certi versi, comunque immaginate una sorta di Soilwork molto melodici, con qualche giro di chitarra alla Darkane, soluzioni vocali vicine agli Edenshade, contaminazioni thrash di chiara ispirazione americana, cosi come pure qualche rimando ad altri gods (i Korn) è percebile nelle note di questo “Moments of Aberration”. L’abilità dei nostri sta nel far convivere tutte queste influenze in un unico lavoro senza snaturare la propria identità, e senza offrire alla fine un cd che suoni cosi particolarmente eterogeneo. Anzi proprio qui sta il pregio dei Lapsus, convogliare una serie di affluenti/influenze in un unico fiume di passione e vivacità che rendono assai appetibile questo lavoro, che forse vi terrà incollati allo stereo per qualche tempo, per poi ahimè stancarvi, all’uscita dell’ennesimo lavoro di questo stampo (vera spina del fianco di questo genere). Forza e coraggio, sperimentando qualcosina in più, si possono ottenere ottimi risultati… (Francesco Scarci)

(Uk Division Records)
Voto: 70

Nerve - Hate Parade


Si, si e ancora si, promossi a pieni voti! L’ho deciso non appena ho inserito il cd nel mio lettore e le devastanti ritmiche hanno invaso, attraverso le cuffie, il mio cervello penetrandomi e trapanandomi, con la propria furia demolente, la mia povera mente. Eccoli tornati i Nerve, con il loro secondo strabordante “Hate Parade”, la loro personale sfilata dell’odio, che si manifesta attraverso queste violentissime tracce, prodotte egregiamente ai Nadir Music Studios dal grande Tommy Talamanca (mostro sacro e creatura mitologica dei Sadist). Forse anche grazie alla genialità del buon Tommy, quello che ho fra le mani, risulta essere uno dei lavori più interessanti usciti negli ultimi tempi dal nostro paese, ma non solo: ne è una testimonianza “Mescaline” per quel suo break centrale in mezzo a tanta rabbia, tale da scomodare mostri sacri come Atheist o Cynic. La terza incendiaria “Shelter” pone in evidenza l’evoluzione sonora del combo genovese, che prese le distanze dal death groove un po’ superficiale degli esordi, si mostra mostruoso e virtuoso nel sapere miscelare passaggi veramente estremi ed enfatizzati da una super pomposa produzione, con passaggi più ragionati e di classe sopraffina. Urla disumane, vocals schizofreniche (Infernal Poetry docet), chitarre iper distorte e ribassate, cavalcate che annichiliscono il povero ascoltatore, cambi di tempo e rallentamenti da paura, assoli al vetriolo e una ritmica paralizzante, contraddistinguono “My Inferno” vera e propria perla, che rappresenta tutto ciò che dovrebbe avere una canzone estrema per definirsi tale. Incredibili, incredibili e ancora incredibili: non ho parole per descrivere l’assalto delle prime quattro strabilianti songs di questa inattesa release. Si prende un po’ di respiro con la non tiratissima “Black Fades” (si fa per dire) ma con “Fake Deaf” si riprende ancora una volta a far del male, palesando sempre una intelligenza musicale fuori dal comune che trova conferma anche nell’esplosiva title track. Tecnica ineccepibile, idee brillanti (altro break centrale da brividi), vocals che si alternano tra un growling feroce e rare aperture melo-clean. Compatti, dinamici, intraprendenti, sprezzanti del pericolo, strafottenti e a ragione, perché in tavola ci sono le carte giuste per fare il colpaccio dell’anno e aver sfornato uno dei più bei lavori di death ultra incazzato, ma comunque pur sempre ricco di groove e intuizioni geniali. Che sia o no il disco dell’anno a poco importa ora come ora, quel che è certo è che la band ha raggiunto una piena maturità e una consapevolezza nei propri enormi mezzi, che mi spinge a definire i Nerve come una sorta di Darkane italiani, anche se a differenza dei colleghi svedesi, i ragazzi di Genova fanno molto più male e probabilmente sono più geniali, forse anche per qualche riferimento ai maestri Sadist (era “Tribe”) piazzato qua e là. Che altro dire, ce ne fossero di band capaci di sparare proiettili in questo modo, sfoderando cosi tanta personalità e svuotando le mie membra di litri di adrenalina. Selvaggi! (Francesco Scarci)

(Nadir Music)
Voto: 80

Sin of Lot - My First Word


Facciamo subito una premessa: se state cercando qualcosa di originale, lasciate perdere immediatamente, qui probabilmente non troverete niente che possa soddisfare le vostre esigenti orecchie, chissà che in un futuro non debba ricredermi... Però se anche voi avete voglia di distrarvi per un po’ con delle ritmiche belle cazzute e incazzate, caricarvi di adrenalina a manetta, beh magari un ascolto a questi ragazzi forse sarà proprio il caso di darlo. Nati per gioco ad un concerto dei Black Dahlia Murder (cosi come riportato in biografia), il quartetto genovese, ci investe con la propria aggressività già dall’iniziale “Everything is Word”, song ben strutturata, melodica ma non esageratamente, con le vocals di Cisco che non sono niente male; tuttavia nulla di nuovo all’orizzonte, però direi che la song si lascia ascoltare e si rivela ottima per scatenare un pogo assassino. È con la successiva “Evolution” che ho una sensazione di deja vu, perché gli articolati e ultra tecnici giri di chitarra ultracompressa (grande Riky, ex ascia dei Nerve), e le linee di basso nel pezzo centrale della song, muovono dentro di me emozioni provate in passato solo con sua santità Chuck Schuldiner e soci. Che mazzata ragazzi e che tecnica, peccato solo che manchi la genialità dei Death, altrimenti sicuramente il voto sarebbe stato un altro. Anche la terza traccia, “Cage” stupisce, soprattutto per il lavoro dietro alle pelli di Fabio (anche lui di casa nei Nerve), mostruoso nella sua preparazione e nel suo modo di suonare assai fantasioso e strabordante, una vera e propria macchina da guerra. “Through Thousand People”, ultimo pezzo di questo breve EP, ci stordisce ancora una volta per la tecnica palesata dai 4 ragazzi liguri e per il loro amore viscerale nei confronti del sound dei Death, per quella ricerca costante nel cambio di tempo o nella commistione di melodia e brutalità. Spiace solo che la durata sia cosi esigua, perché sono sicuro che ne avremo sentito delle belle. Da attendere al varco… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

Vulture Industries - The Malefactor’s Bloody Register


E’ stato un piacere per me aver ascoltato questo gruppo norvegese che ha le sue origini in Bergen, una sorpresa davvero. Il gruppo si chiama Vulture Industries, e questo è il loro secondo cd completo dal nome “The Malefactor’s Bloody Register” prodotto dalla Dark Essence Records. Il cd è composto da 8 tracce una più bella, strana e particolare dell’altra, dove di certo nell’ascolto non vi annoierete nemmeno un secondo e nei momenti di silenzio non vedrete l‘ora che inizi la track successiva, ve lo posso garantire. Il cd si apre con una breve intro “Crooks & Sinners”, un’apertura di tastiera stile lunapark macabro ma che fa da perfetto apripista alla genialità di questo cd. La seconda traccia “Race for the Gallows”, si presenta con un’alternarsi di clean vocals a voci distorte con le chitarre cupe e violente e la batteria rutilante nel suo incedere. Menzione particolare alla voce, davvero interessante nel suo modo di cantare, che va da linee vocali prettamente metal, poi pulite fino a raggiungere linee sinfoniche, che dire fantastica. Quello che colpisce in tutto il cd è la particolarità quasi esasperata di ricerca di suoni originali e accattivanti seppur chiaramente derivanti dall'avantgarde o dal post rock. In tutto il cd ritroviamo questi giochi di ritmi di batteria violenti, cupi e brutali che poi diventano rallentano nella loro progressione per poi riesplodere ancora una volta con brutalità e controtempi imprevedibili. La stessa cosa la possiamo ritrovare nel riffing delle chitarre, che spaziano tra ritmi quasi compulsivi, sincopati, brutali, cattivi, per poi bloccarsi o andare controtempo con tempi e ritmiche più tranquille. Musicalmente il cd suona davvero bene, e strano, dubito infatti che avrete nell’ascoltarlo, in mente la tipica frase “questo pezzo mi sembra di averlo già sentito”. In questo cd infatti ogni song ha una sua storia e vita e così ogni pezzo ci conduce a sensazioni diverse, una sorta di viaggio lucidamente folle e dannatamente creativo. E’ davvero un piacere poter godere della follia creativa di questi ragazzi norvegesi .La quarta traccia “The Bolted Door”, è davvero un chiaro esempio di quello che sto cercando di spiegarvi: un altalenarsi di riff violenti, brutali sostenuti da una batteria trascinante, cupa e cattiva, oltre ad essere assai complessa e articolata con il surplus dell’aggiunta del sax. Per chi come me ama la ricercatezza, l’osare e la creativa folle, faccia suo questo album senza ombra di dubbioUltima menzione per “This Cursed Flesh”: questo brano rappresenta la sintesi della violenza e della cattiveria, nonché della genialità contenuta in “The Malefactor’s Bloody Register”. Che dire, senza dubbio cari Vulture avete preso la strada giusta ed innovativa, per cui vi seguiremo con molto interesse! Bravi ragazzi, andate avanti così, musicalmente siete molto ispirati e a mio avviso i degni eredi dei grandissimi Arcturus. (PanDaemonAeon)

(Dark Essence Records)
Voto: 80

Inner Logic - Parallel Reality


Ricevere EP con poche tracce comincia a diventare un' abitudine, quindi affrontiamo anche gli Inner Logic con il loro "Parallel Reality" e le relative 4 canzoni. Bustina di plastica, due fogli volanti come cover ed un artwork abbastanza curato, anche se la qualità di stampa è da quattro in pagella. La forse fresca (non sono molte le infomarzioni rintracciabili sul gruppo da Internet/Ndr) band scozzese attacca con un sound che non nasconde niente, un punk hardcore abbastanza semplice e già sentito per molti frangenti. Sonorità strumentali che a volte richiamano i Lostprophets (cori compresi) e un vocalist che, almeno nel cd, non brilla per la sua versatilità. Per fortuna qualche passaggio risulta azzeccato, come in "Nations Apart", dove trova spazio anche qualche contaminazione metal che viene però subito accantonata. Che le doti strumentali dei musicisti ci siano non abbiamo dubbi, ma questo non fa un buon un buon disco quindi mi ritrovo a dare un voto insufficiente. Questo per stimolare gli Inner Logic a produrre magari un cd completo, cercando di proporre un prodotto di qualità superiore. Si può fare. (Michele Montanari)

(Alkemist Fanatix)
Voto: 55

mercoledì 15 dicembre 2010

Sideris Noctem - Wait Till The Time Is R.I.P.


Il cd posto alla nostra attenzione questa volta, è di una band emergente proveniente dall’Ucraina e si chiama Sideris Noctem. Questo è il loro primo lavoro completo, prodotto dalla sempre presente e attenta BadMoodMan Music. Il cd è composto da 9 track, 8 delle quali inediti del gruppo e un pezzo è una cover degli immensi Katatonia. Dopo questo preambolo, andiamo ad ascoltare il lavoro di questi ragazzi dell’est Europa. Il cd viene aperto da “First Day”, un intro prettamente strumentale, in cui veniamo accolti da una batteria con un rullante molto militare, quasi marziale. Il pezzo si evolve con una piacevole e melodica parte classica fatta di violini e con la batteria a scandire il tempo. Dopo poco meno di un minuto di intro, parte la seconda traccia che dà il nome al cd: questo pezzo entra con un riff di chitarra veemente e duro, che si amalgama perfettamente ad un bel sottofondo di tastiere che rendono il tutto interessante all’ascolto. La ritmica di questo pezzo è sostenuta, ma mai eccessiva e ben suonata. Le voci si alternano tra il growling distorto di Pavel e i classici eterei gorgheggi femminili del soprano Anastasia, che rendono il tutto un po’ più angelico e dolce, arricchendo la performance dei nostri. I riffs delle chitarre si susseguono tra ritmi lenti, poi veloci e violenti che sembrano fare un gioco sonoro atto a rincorrersi. La terza “Binary”, viene scandita all’inizio con dei bei tocchi di pianoforte, che suona dolce, rilassante, entrano poi le chitarre, con riff armoniosi, tranquilli e altrettanto rilassanti, che suonano come una tipica “ballata” metal. Il pezzo scorre via come era iniziato rilassante, ben eseguito con le vocals pulite di Pavel pregne di un pathos estremamente malinconico. Le voci continuano a mescolarsi tra clean, distorsioni e cori femminili. Il pezzo, con i suoi forti richiami ai gods My Dying Bride, non sfocia mai nella violenza; la batteria non segna ritmi esasperati, ma sembra quasi cullare ritmicamente gli altri strumenti. Inizia la quarta traccia “Behind the Mirror of the Winter’s Fall“, e qui i ritmi si fanno un po’ più vivaci, con i riff di chitarra che dipingono malinconici affreschi autunnali. Anche qui le vocals e del resto in tutto il cd, si alternano in un dualismo growl-soprano che alla fine rischia un po’ di stancare. In tutto il pezzo, quello che emerge è il tentativo delle ritmiche di essere più violente violenti, cattive, aggressive, ma mai esageratamente estreme grazie al bilanciamento dato da riff di una seconda chitarra che esegue parti più ritmate. Il pezzo ha un intermezzo tranquillo, rilassante dove il pianoforte con il suo suono morbido sembra cullare l’ascoltatore. La settima song è una graditissima sorpresa: si tratta infatti della cover dei Katatonia “ Without God”, risalente addirittura al primo mitico “Dance of December Souls”. Eseguita decentemente, si fa notare subito la doppia cassa di batteria che fa da sfondo ai riffs maligni black doom. La voce è cupa e oscura. Il tutto viene arricchito dal supporto delle tastiere, certo è che l’originale è tutta un’altra cosa. Si può dire che in tutto il cd, la band ucraina si sforza nel proporre un sound elegante, ma non sempre quello che ne viene fuori è del tutto buono. C’è ancora molto da lavorare, tuttavia noi vi seguiremo! (PanDaemonAeon)

(BadMoodMan Music)
Voto: 70

sabato 11 dicembre 2010

Vidres a La Sang - Som


Fanno ritorno sulla scena metal dopo quasi tre anni, i blacksters spagnoli Vidres a La Sang con quello che è il loro terzo lavoro, forse quello della consacrazione chissà, ma di sicuro è l’album che chiude la trilogia iniziata nel 2004 con l’album omonimo e proseguita poi con “Endins” fino a quest’ultimo “Som”. La cosa che balza subito all’occhio del quartetto iberico, sfogliando il libretto del cd, è quello di cantare in catalano, questo forse per ribadire la coscienza e la fierezza delle proprie origini, quindi mi fa specie trovare nel booklet interno, le liriche tradotte prima in castigliano e poi in inglese. Musicalmente parlando, la band prosegue quanto iniziato con i precedenti lavori, continuando quindi nella proposizione di un mix brutale di black death oldschool, contaminato tuttavia da suoni moderni ed epiche atmosfere. Pur non mostrando alcunché di innovativo, il combo si muove con diligenza ed in estrema libertà, all’interno delle strutture tipiche del genere, palesando una certa agiatezza, che solo le band di una certa esperienza possono avere. Ad aprire il disco ci pensa la title track, song pregna di orgoglio e speranza a livello di testi, song brutale, che tuttavia nel suo incedere, manifesta divagazioni doomeggianti assai apprezzabili, e che raggiunge il suo culmine nel melodico assolo conclusivo. La successiva “Policromia” (ispirata ad una novella di Hermann Hesse) prosegue sulla stessa scia dell’opener track, con velocità mai troppo sostenute, mostrando una certa predilezione per mid tempos ragionati, dove ad emergere è la qualità tecnica espressa dai singoli dell’ensemble spagnolo. Ciò che apprezzo maggiormente è la tipologia degli assoli di derivazione assolutamente classica, cosi come pure la tecnica sopraffina del nuovo batterista Carles Olivè, che ha sostituito il defezionario Alfred Berengena. La terza e lunghissima “Esclause de la Modernitat” (con i suoi dieci minuti e passa) è una song assai complessa nella sua architettura, con diversi cambi di tempo, feroci accelerazioni e la voce, talvolta monocorde di Eloi, a trasportare in musica la poesia dello scomparso poeta Miquel Martí. Il cd procede su questi binari per tutta la sua durata (oltre i 50 minuti), arrivando ahimè, un po’ stancamente al termine del sesto pezzo. Forse la band avrebbe dovuto osare maggiormente e sperimentare qualcosa che le permettesse di staccarsi definitivamente dalla massa delle death black metal bands; siamo sulla strada giusta e una song molto come “Al’Ombra” dimostra i progressi che i nostri potranno compiere nel prossimo disco, se sceglieranno di intraprendere un sound più atmosferico e ben orchestrato. Per chi ha apprezzato sin qui il loro cammino, il consiglio è quello di far vostra anche questa release e abbandonarsi nel disperato mondo dei Vidres a la Sang… (Francesco Scarci) 

(Xtreem Music)
Voto: 65

Morphema - 5th Rebirth


Ma da dove salta fuori questa band? Finlandia? No. Svezia? Mi sembra di no. Forse Germania? No, non ci siamo: incredibile ma vero, i Morphema arrivano da Novara e dire che ascoltando la prima song avrei scommesso che fossero amici degli Insomnium o degli In Flames. Eh già, bella sorpresa poi trovare nelle note biografiche che il quartetto è della nostra benamata penisola italica. Ad ogni modo, a prescindere dalla provenienza, avrete senz’altro capito le coordinate stilistiche dei nostri: un bel death melodico che l’iniziale “To the Void”, cosi ricca di verve e groove, mi richiama alla mente qualcosa degli Edge of Sanity più melodici o addirittura il progetto solista Dan Swano. Linee di chitarra ultra lineari, melodia da fischiettare e 4 minuti che volano via alla velocità della luce. Segue l’altrettanto breve “Behold this Man” e già accanto alle influenze swedish, emerge forte una componente legata al sound degli immortali Iron Maiden, mentre la terza “Seventh Day” lascia spazio ad un thrash dall’incedere molto “Bay Area oriented” anche se la voce di Federico Bosco, mantiene comunque la sua timbrica growl. A chiudere questo EP di quattro pezzi ci pensa la lunga “Persis”, forse la song più atipica del lotto, che abbandonate le velleità heavy/thrash delle tracce iniziali, si abbandona in ritmiche più death oriented, e forse un po’ più banalotte, pur sottolineando comunque la bontà tecnica dell’ensemble piemontese. Il consiglio che posso dare è di proseguire la strada intrapresa con “To the Void”, perché sono quasi convinto che qualcosa di originale potrebbe presto saltare fuori. Sono curioso di vedere se il cambio di line-up consentirà ai nostri di maturare quel tanto per rilasciare finalmente un vero e proprio full lenght. Li aspetto… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

mercoledì 8 dicembre 2010

Impaled - The Last Gasp


Tornano i deathsters statunitensi Impaled con un nuovo malvagio lavoro. Non cambiando più di tanto dai precedenti album (resta tuttavia inarrivabile “Mondo Medicale” del 2002), il combo americano prosegue imperterrito nel proprio percorso di distruzione del mondo. “The Last Gasp” fondamentalmente è un album senza grosse pretese, indicato per chi è un fan della band o chi è in cerca di un sound all'insegna dello splatter-gore (lo si deduca anche da una copertina che presto cadrà vittima della censura). Il quartetto d'oltreoceano comunque, nonostante un avvio violentissimo, disegna insospettabili melodie nella terza “The Visible Man”, song che sembra pescare largamente dagli esordi dei britannici Carcass. Dalla successiva “You are the Dead”, i “patologi” di St. Julien tornano a far male con un sound più truce e in linea col passato, un death-grind dalle vaghe tinte punk-hardcore, con la solita doppia voce, lo screaming di Sean Mcgrath e le vocals gutturali di Ross Sewage. I brani scorrono via anche piacevolmente alternando mid-tempos in pieno stile “carcassiano” con qualche venatura rock (“Masters of Ordure” e “Right to Die”, per esempio), alle classiche sfuriate brutal. Un gradito ritorno dopo qualche anno d'assenza delle scene... (Francesco Scarci)

(Candlelight)
Voto: 65

Mechanical God Creation - Cell XIII


Avete presente la copertina di “Vulgar Display of Power” dei Pantera? Quella con l’uomo che si prende un pugno in faccia? Togliete il pugno e metteteci una mazza ferrata. Questo per descrivere la sensazione di violenza e orrore che mi ha evocato quest’album. Un disco veloce, adrenalinico, dominato dal growl e dal ritmo del doppio pedale. La melodia è roba per altri gruppi, così come la calma. Se siete deboli di stomaco, se siete in una fase un po’ depressa, se non siete sicuri di voi stessi... lasciate perdere. Pena: incubi. Io vi avevo avvertito. E anche lo band lo fa con l’incipit del disco. Fidatevi. Primo 45 giri per il combo milanese, il quintetto ci spara nelle orecchie, senza remore, senza pietà, quello che sanno fare. Nove tracce, nove note di sofferenza che tendono a confondersi, uno scotto da pagare per questo genere musicale. Appare una certa sensazione di violenza musicale fine a sé stessa, ma bisogna dire che, qua e là, qualche variazione, qualche accenno a cambiamenti compositivo-stilistici appaiono. Bravi, non è facile farli “sentire” in questi casi. Un esempio, l’attacco e l’evolversi della conclusiva “Death Business”. Prima cosa che colpisce: la voce androgina della cantante Lucy (già “Art of Mutilation”). Bravissima, mostruosa (artisticamente parlando, ci mancherebbe) poche donne cantano in gruppi simili. Lei lo fa in maniera molto convincente, sfoggiando una gamma di cantati terrificanti, da rimanerci di stucco. Riesce a mettere in secondo piano il growl dell’altro singer (anche chitarrista) della band Simo. Molto solido, ispirato, tirato, il lavoro del bassista Veon: fondamentale per l’aria insalubre di questo cd. Si stempera la buona fattura delle chitarre, forse un po’ ripetitive, ma potenti, continue, prive di fronzoli. Sono perfette per l’atmosfera grand-guignolesca. Ascoltate con attenzione “Divinity” a riguardo. Batteria, ecco la batteria, suonata a ritmi ultraveloci, dominata dall’uso del doppio pedale... forse risulta troppo piatta. Chiariamoci: non che addormenti, anzi. Non che manchi la tecnica, tutt’altro (prendete l’inizio di “2012”). Credo che in questo tipo di lavori, la parte ritmica dovrebbe cercare di dare dei cambi, dei punti di stacco marcati; così da spezzare una continuità, che potrebbe risultare indigesta verso la fine. Il platter gira via liscio e le songs non sono troppo lunghe (bravi). In generale si può trovare un buon equilibrio tra le parti cantate e quelle solo strumentali, non solo nella traccia singola, ma in tutto il lavoro. Minimalista l’artwork del booklet, ma con un’aura sinistra, giusto complemento a questo viaggio nell’orrore. Da notare l’interessante featuring dell’italica horror band Cadaveria in “I Shall Remain Unforgiven”. Grazie per averci regalato questa terrificante odissea, suonata in modo davvero convincente (e anche per aver reso insonni le notti di chi non ha seguito il mio monito iniziale). (Alberto Merlotti)

(Worm Hole Death)
Voto:75

martedì 7 dicembre 2010

Necroart - The Suicidal Elite


A distanza di cinque anni dal precedente “The Opium Visions”, tornano sulle scene gli italiani Necroart, che io seguo fin dal loro acerbo e furente esordio in cassetta intitolato “Let the Carnage Begin”. Era il 2000 e da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e il sound dei nostri ha subito evoluzioni mai pensate prima di inserire il presente cd nel mio lettore e mettermi all’ascolto di questo piccolo gioiellino. “The Suicidal Elite” apre con una song strumentale che ci fa capire già da subito la vena avantgarde/progressive che permea il sound dei nostri. È tempo della seconda traccia, “…And to Remember Forever” e posso farmi una vaga idea di quello che il combo pavese ha da dire: si tratta di una song lunga, articolata che si snoda attraverso emozioni più o meno forti calpestando territori impervi come quello del doom gotico (stile My Dying Bride), passando attraverso sfuriate death black (un mix tra Rotting Christ e primi Opera IX). Sono ancora disorientato che un arpeggio apre la malinconica “The River”, capace di palesare tutte le buone qualità della band di casa nostra: una bella epica cavalcata accompagnata dalle stralunate keys di Davide Quaroni e dalla voce corrosiva di Massimo Finotello che, non so per quale arcano motivo, ha uno stile che mi ricorda vagamente quello di Darren J. White, primo storico vocals degli Anathema (periodo “Pentecost III” – The Blood Divine), anche se qui siamo ancora in presenza di vetrioliche timbriche che talvolta si fanno pulite e suadenti o addirittura vengono affiancate da eteree vocals femminili. Il cd prosegue con questo stile, con brani lunghi e complessi, ma che rimangono senza ombra di dubbio stampati immediatamente nella mia testa. “The Suicidal Elite” mi prende, mi prende sempre di più, pur non essendo un lavoro cosi facile da digerire, ma la band ha classe e si sente e lo dimostra anche la title track che, nel suo inquietante alternarsi di emozioni, ci regala parti di black death contrapposte ad una bellissima parte di musica classica nella sua parte centrale (con tanto di violini e pianoforte), da brividi;bellissima e darkeggiante la parte finale con il vocalist che si esibisce cantando in italiano. Messo al muro da cotanta intelligenza musicale e fiero che finalmente anche band di casa nostra possano esprimersi su questi elevati livelli, mi appresto nell’ascolto curioso della seconda parte del cd, dove i pezzi migliori si rivelano “The Funeral Within” per quel suo incedere tetro e angosciante che sfocia in una dirompente parte finale, lascia passare per la veloce e furente “Demonwitch”. Forti di una eccellente produzione ai Bunkker Studios, nel sound dell’act lombardo convergono tutta una serie di influenze che hanno contaminato non poco i miei ascolti in ambito estremo: partendo dal black death ellenico/scandinavo al progressive degli Opeth, passando attraverso il death doom dei primi anni ‘90 dei mostri sacri inglesi Anathema, Paradise Lost e My Dying Bride (ascoltare “Love’s Deadly Weapons” per capire). Graditissimo ritorno per una band che può ambire a ottenere una consacrazione a livello europeo se sarà ben supportata dalla propria sconosciuta etichetta discografica. Io vi invito intanto a visitare il sito myspace della band e a richiedere il cd in questione che saprà catturarvi dopo diversi ascolti e non vi mollerà più. Eleganti e raffinati, complimenti! (Francesco Scarci)

(Orquestra de Muerte)
Voto: 80

domenica 5 dicembre 2010

Rotten Sound - Cycles


Vi premetto già che questo è uno di quei lavori che non vi darà modo di respirare un solo secondo: il come back dei finlandesi Rotten Sound, è un attacco ferale senza compromessi. 18 killer songs vi braccheranno nel buio della vostra stanza, creandovi incubi inimmaginabili. L'attacco della macchina bellica finnica è affidata ai taglienti, quanto mai magnifici crusty riffs (con la distorsione delle chitarre dal tono più abbassato, di chiara scuola primissimi Entombed), con la batteria (dal ritmo disumano) a martellare che è un piacere e le vocals vetrioliche a urlare tutta la propria frustrazione. Difficile dare una descrizione delle varie tracce perché, alla fine tendono ad assomigliarsi un po' tutte. Tuttavia il ritmo infernale, ma anche un'inaspettata serie di passaggi di ispirazione southern rock, mi fanno apprezzare questa fatica del quartetto lappone. Inquietante infine la cover dell'album, che ritrae un uomo in stato di decomposizione, tema portante di “Cycles”, che “celebra” il declino dell'uomo, a causa della sua innata stupidità. Feroci, incazzati, forse politicamente scorretti, un ascolto ai Rotten Sound lo darei comunque... (Francesco Scarci)

(Spinefarm)
Voto: 65

The Ocean - Precambrian


2007: ragazzi carta e penna per favore perché questa volta la Metal Blade ha fatto il botto! Escono per la label tedesca infatti, i berlinesi The Ocean, con questo strepitoso “Precambrian”, concept album sulle eree geologiche, suddiviso in due distinti capitoli: il full lenght “Proterozoic” e il mini-cd “Hadean/Archaean”. La band tedesca, ha rilasciato un lavoro veramente interessante, che riprende il discorso interrotto col precedente “Aeolian” e lo elabora e amplifica ulteriormente, sfruttando l'aiuto di alcune guest star come Caleb Scofield (Cave In, Zozobra), Nate Newton (Converge) ed Erik Kalsbeek (Textures), nonché avvalendosi dell'apporto eccezionale ai fini del risultato, dell'Orchestra Filarmonica di Berlino. Non c'è quindi da stupirsi se dopo sei mesi di duro lavoro, nel vostro lettore cd, potrete gustarvi 15 entusiasmanti tracce di musica introspettiva, avvolgente e delirante. Nei suoi quasi 90 minuti di lunghezza, la band vi prenderà per mano, accompagnandovi nell'esplorazione di territori in grado di miscelare il rozzo hardcore (più che altro nelle vocals urlate, le clean vocals sono fantastiche!) a straripanti orchestrazioni, che ruotano attorno al tema comune del disco, ossia i primi giorni della formazione della terra; la sperimentazione non si ferma qui, perché in “Proterozoic” trovano posto certe sonorità post rock, jazz ed elettronica. Però mentre il mini-cd si rivela più violento, più in linea con il precedente lavoro, brutale e al tempo stesso assai complesso negli arrangiamenti, è “Proterozoic” a regalarci le emozioni più profonde, mostrandoci il lato più intimista dell'act teutonico, contraddistinto da momenti rilassati, altri estremamente elaborati ed imponenti grazie al notevole contributo della Berliner Philharmoniker Orchestra, capace di dare quel tocco di classe, che forse finalmente permetterà alla band di fare il grande salto di qualità. Le songs sono lunghe, dotate di una notevole drammaticità grazie alle sapienti orchestrazioni, l'estrema varietà della proposta del combo germanico, consente tuttavia una “facile” assimilazione del cd anche per chi non è del tutto avvezzo a questo genere di sonorità. Tecnicamente ineccepibili, emozionalmente imprevedibili, “Precambrian” è entrato nella mia personale top ten nel 2007. Immensi! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 90

sabato 4 dicembre 2010

Ancestral Legacy - Trapped Within the Words


Una band norvegese con una cantante messicana? Beh, non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte ad una simile situazione, con la brava Isadora Cortina che ha lasciato il caldo tropicale per le fredde lande nordiche, bel coraggio ha avuto, andando a sostituire la defezionaria Elin che ha deciso di abbandonare i propri compagni dopo un tremendo incidente automobilistico occorsole nell’autunno 2007. L’ensemble scandinavo, sconosciuto ai più ma comunque già in giro da diversi anni, propone un sound non certo originalissimo, ma che comunque ha ancora un vasto seguito nella scena metal, complice sicuramente i successi dei nostrani Lacuna Coil in primis, Tristania e Sirenia a seguire. Avrete dunque capito che il genere dei nostri si barcamena all’interno della scena gothic death e questo “Trapped Within the Words” rappresenta un prelibato antipasto (5 tracce per 28 minuti di musica) di quello che sarà il nuovo album schedulato per l’inizio del 2010. La band infatti ha già pronte 15 tracce scritte nel corso degli ultimi due anni e questo Ep fa da apripista con 4 nuove songs (di cui una strumentale) più la riedizione di “Atrapada en Pesadillas”, (che sarà presente in una differente versione nell’album “Nightmare Diaries”), dove appunto, in veste di ospite compare Isadora (ora fissa nella band). Il sound dei nostri dicevo, è un piacevole mix di metal aggressivo, costruito su lineari riff di chitarra, qualche arpeggio, growling vocals e gli eterei vocalizzi (non proprio eccelsi a dir la verità) della già citata Elin. “Trapped Within the Words” si apre con la ruvida “Forsaken” che mostra immediatamente il lato più violento del quintetto di Aust/Agder: riffs belli tosti, sound corposo, interrotto solamente dal canto di Elin che prova ad imitare l’ugola della nostra Cristina Scabbia, non raggiungendo tuttavia i risultati della brava vocalist italiana. Buona la seconda “Wordless History”, song potente e tirata ma pur sempre melodica, un mix dei primi Dismal Euphony e degli Enslavement of Beauty, carica di atmosfere grondanti malinconia e disperazione. La già citata “Atrapada…”, una sorta di ballad spagnola, ci fa conoscere la promettente voce di Isadora, speriamo bene nel nuovo lavoro. La dinamica “Disclosed” riprende l’incedere arrembante di “Wordless History”, ma ahimè sono sempre le female vocals a non convincere appieno, mentre il growling di Eddie ricorda vagamente Shagrath dei Dimmu Borgir. A chiudere ci pensa la strumentale e acustica “Glimmer” song che nasconde nel suo finale una ghost track, dove un pianoforte accompagna per mano la malinconica voce di Elin. Interessanti, suadenti e intriganti, da riscoprire assolutamente con la nuova vocalist nell’imminente nuovo album. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

Sacram - Far Away


Giunge con notevole ritardo sulla mia scrivania (ben 2 anni dopo la sua uscita), questo mcd di quattro pezzi dei greci Sacram: si tratta di un assalto all’arma bianca di chiara matrice swedish death. Il cd si apre con l’arpeggio malinconico di “Despair” e il profondo basso di Michalis in primo piano: poi esplode il rifferama tipico nord europeo, con chitarre melodiche di base e una batteria serrata a dettarne i ritmi, con la voce acida di Paschalis a urlare tutto il suo dissapore. La song è assai breve (2 minuti e mezzo) e lascia ben presto spazio alla lunga title track, un mid tempo controllato nel suo incedere iniziale, ma che nella sua parte centrale mostra le pregevoli doti dell’act ateniese con inframmezzi acustici, parti atmosferiche e raffinati assoli (l’ultimo forse un po’ scopiazzato da “Skydancer” dei Dark Tranquillity) ad opera della coppia di asce John e Simos. È tuttavia la terza traccia, “Family”, ad esaltarmi maggiormente per la sua variegata struttura: attacco risonante di batteria, un breve accenno melodico di chitarra e poi via, al galoppo con le classiche cavalcate tipiche del sound svedese; sorpresa finale con qualche momento di personalissima improvvisazione, arditi i ragazzi... La conclusiva “Everything Splinters” chiude con le sue autunnali melodie ed un fantastico assolo conclusivo, un discreto mcd che mi prepara con trepidazione alla imminente uscita del nuovo full lenght. Da tener d’occhio, perché il combo ellenico si dimostra parecchio interessante. (Francesco Scarci) 

(Self)
Voto: 70

Kenos - X-Torsion


Devo essere sincero, i Kenos non sono mai rientrati tra i miei ascolti preferiti, pur avendoli seguiti fin dai loro esordi a livello di demo, con il famoso “Rigor Mortis”. A distanza di tre anni dal precedente “The Craving”, mi avvicino ancora una volta con titubanza alla loro proposta musicale per recensirli, ma dopo aver infilato il loro cd nel lettore, mi trovo nella situazione di dover verificare se effettivamente quelli che sto ascoltando siano realmente i Kenos. Già dall’iniziale “Room Sexteen” infatti, il quintetto mi stupisce per la modernità dei suoni, la freschezza della proposta, l’utilizzo di female vocals e di ritornelli accattivanti, ma che diavolo è successo? Per carità sono felicissimo, mi ritrovo addirittura a fischiettare le magnifiche melodie della opening track. L’inizio di “2012 Omega Assimilation” mi richiama per le sue vocals i Cradle of Filth, ma poi l’impianto musicale è più propriamente thrasheggiante, (anche se dentro di me vorrei dire rockeggiante) nel suo incedere iniziale, per poi esplodere in un susseguirsi di emozioni, con le vocals di Alessio Giudice che si alternano tra il lugubre (Dani Filth docet), il clean, il growl e l’evocativo, mentre le ritmiche si rincorrono impazzite in un intricata mistura di rock schizofrenico, supportato da arrangiamenti orchestrali, direi magistrali. Non so cosa sia successo alla band ma il risultato è a dir poco sorprendente. La terza “Encounter” fa un po’ il verso ai godz svedesi Meshuggah, pur mostrando qualche segno di cibernetica provenienza. Una piccola pausa con “I Remember” ed ecco i nostri tornare a segnare il passo con la title track e incendiare l’aria. “X-Torsion” è un altro esempio di come i nostri siano stati in grado di evolvere il proprio sound nel corso di questi anni e della loro innata capacità di saper miscelare la furia del death con i tecnicismi del prog e decine di altre contaminazioni derivanti dalla musica elettronica, come pure dal classic metal (“in “Bitchswitch” i nostri giocano a fare un po’ gli Iron Maiden di turno, song che rientra tra le mie favorite) o al cyber stile Fear Factory. Finalmente, la band ha fatto il colpo gobbo e questa volta il loro cd non è da lasciarselo scappare in alcun modo. Ritmiche assassine alternate a riff raffinati, momenti atmosferici, giravolte progressive, sfuriate black, ballad acustiche, rock’n roll, schegge elettroniche e tanto sano groove, convivono tutti insieme in questo interessantissimo lavoro, che finalmente consacra una band dalle grandi potenzialità, mai completamente esplose a mio avviso, ma che con questo “X-Torsion” centra finalmente l’obiettivo. Bravi, graditissimo come back! (Francesco Scarci) 

(My Kingdom Music)
Voto: 75

Laeta Mors - Deafening Silence


Un look anni ’80, un sound veramente old school e un artwork tipico del brutal death degli anni ’90, contraddistinguono un po’ questo lavoro dal sapore cosi retrò, dei nostrani Laeta Mors. Non so quanto di positivo trovare in tutto questo in quanto a mio avviso, il quartetto italico (anche se nella foto interna del booklet sono in tre) incappa in una proposta quanto mai scontata e di scarso valore, se non per gli amanti di un genere, un thrash death d’annata, che potrebbero consolarsi in questo momento con uscite di ben altra caratura. Mi spiace sempre stroncare gli album, soprattutto quando provengono dal nostro paese, ma cosa volete che vi dica, in giro ci sono cosi tante proposte musicali ben più brillanti di questa che non riescono a trovare uno straccio di contratto, che mi sembrerebbe un bestiale insulto accogliere positivamente questa release. “Deafening Silence” è un concentrato dinamitardo di death thrash grezzissimo, con ritmiche sostenute, batteria stile contraerea (complice l’utilizzo della drum machine), harsh vocals e poco di più, per non parlare poi di una produzione a dir poco superiore alla sufficienza. Fortunatamente non tutto è da buttare di questo cd, ma qualche bel (seppur brevissimo assolo) fa la sua comparsa nella mezz’ora noiosa di questo inutile lavoro (“Fatal Thoughts of Suicide”, “My Life is Your Defeat” e la title track, tanto per citare qualche esempio). Pur ricevendolo ora, questo cd è datato 2007, quindi auspico che i nostri abbiamo potuto migliorare il proprio sound in questi tre anni. Per il momento mi spiace, ma si parla di rimandatura a settembre (giusto per rimanere in tema col passato). (Francesco Scarci) 
(Cimitero Records)
Voto: 55

mercoledì 1 dicembre 2010

GID - Saturnine

 

Recensire un cd di tre pezzi non è mai facile, tanto meno trovare notizie sui GID, ma alla fine ci sono riuscito. I GID non sono altro che un progetto solista di tal Michaël Ball (UK) che di balle (passatemi la battuta facile) ne ha e si sente in questo EP. Tre tracce per un totale di 12 minuti oscuri e pregni di atmosfera. Il buon Michaël infatti subisce le influenze doom ed ambient degli ultimi anni, miscelando neanche tanto male il tutto. Dopotutto lui stesso nel blog confessa l' abuso di Isis e Novembre. Chitarre semplici ma personali, suoni puliti ricchi di riverberi e delay, distorsioni possenti ma per certi versi delicate e malinconiche. Il resto accompagna il tutto facendo il suo dovere. Addirittura il basso di "The Aching dark" fa da strumento trainante per gran parte della traccia... sublime! Il mio pezzo preferito è l' ultimo, "A Burning Star", lento ma che va dritto al lato del cervello che recepisce le sfumature dark e gothic. Piccolo dettaglio: si tratta di un progetto puramente strumentale. Di solito non apprezzo questi lavori ma devo dire che "Saturnine" ha scavato una piccola nicchia nel cuore di un purista come me. Sarà che mentre ascoltavo i pezzi mi immaginavo una voce tipo Steven Wilson riecheggiare nelle mie orecchie. Consigliato... (Michele Montanari)

EP Scaricabile gratuitamente da http://gidmusic.bandcamp.com/album/saturnine.

(Self)
Voto: 70

Mondayish - Nothing to Say


Ed eccomi con il cd "Nothing to say" dei milanesi Mondayish. Allora, questi fannulloni con nessuna voglia di lavorare dopo il week-end hanno veramente niente da dire? Sicuramente la copertina farebbe intuire di si, ma non fermiamoci alle apparenze e andiamo a scavare a fondo per lo meno dando un'ascolto alle tracce prima di giudicare frettolosamente. "Milkweed" inizia rockeggiando basso e allunga a tratti, richiamando i buon vecchi Nirvana e affini. Ottima voce per il genere, calda e rozza, il tutto condito da un buon intreccio chitarra-basso-batteria tipico delle rock band a tre elementi. Tutto diventa più intimo e la sintonia è più facile da trovare. E si sente. "Cannibal" è un buona ballad, come pure "Paper Wings", malinconiche al punto giusto per fare un break durante questo potente "Nothing to say". Si passa anche attraverso l'ottima title track, dove la banda di Washington ha lasciato un segno pesante, quasi indelebile, negli animi dei Mondayish. Lati negativi di chi ascolta? Ovvio, tanti passaggi e soluzioni musicali sono sicuramente già sentite, dopotutto del Grunge è stato detto e fatto quasi tutto. Di positivo invece c'è il resto, basta approcciare i Mondayish per quello che sono, un ottimo gruppo che vuole suonare divertendosi e suscitando la stessa emozione in chi li ascolta. Per qualcosa di innovativo ci sono tanti altri gruppi. Personalmente se suoneranno in zona non mancherò, cercando il posto più vicino alle casse perchè dopo tutto diciamolo, questo rock va ascoltato saltando e godendo. Senza pretese. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 70

sabato 27 novembre 2010

Frailty - Frailty EP


Voi non avete idea di quanto sia fiero ogni volta che mi capita in mano un cd a tiratura limitata numerato a mano… è il caso dei lettoni Frailty che escono con questo Ep di cinque pezzi, che in realtà non sono altro che vecchio materiale della band baltica, mai rilasciato prima del full lenght “Lost Lifeless Lights”, uscito lo scorso anno. Sapete già della mia forte simpatia per le band dell’ex blocco sovietico, perché sono convinto che abbiano veramente un sacco di cose interessanti da trasmettere con la loro musica pregna di vibrazioni e i Frailty non sono certo l’eccezione. I nostri partono subito alla grande con una song di otto minuti abbondanti, “Silent Winter” e già dal primo ascolto sono in grado di solleticare il mio palato e miei sensi, con il loro death doomeggiante, ricco di pathos e malinconia. Immediatamente torna a riecheggiare nella mia mente “Serenades” degli Anathema: le atmosfere angoscianti presenti in ogni traccia, quei riff di chitarra carichi di pesantezza, plumbee nuvole portatrici di pioggia, disperate melodie e un growling profondo caratterizzano questo lavoro di 5 pezzi e poco più di mezz’ora di durata. Della prima traccia mi piace tutto, in più c’è quel suo riff accattivante di chitarra che fa capolino qua e là e ti si pianta nella testa, continuando a risuonare nella la mia mente. Si, mi piace l’andatura dei combo proveniente dalla piccola Lettonia: c’è classe, eleganza, cattiveria al punto giusto, sono convinto che i nostri possano essere in grado di far parecchia strada. “Black Phoenix”, “Scarlet Prophecy” sono ottimi esempi di come si possa fare death doom al giorno d’oggi, senza inventare nulla di nuovo, ma solo dando ascolto al proprio cuore e alle note contenute nel suo interno. È cosi che mi sento io oggi, come “The Shining”, la song più deprimente del lotto: quel suo incedere pachidermico, quelle sue ancestrali atmosfere alla “Gothic” dei Paradise Lost, con il growling mischiato allo screaming e un profondo senso di solitudine, vuoto e malessere ad avvolgere le nostre membra. La conclusiva “A Flower In The Dark Tide” partendo dalle ultime evoluzioni dei danesi Saturnus, mostra tutto l’amore del sestetto di Riga per questo genere musicale e per gli ultimi feroci My Dying Bride, e io non posso che esserne felice. Ho trovato un’altra band in grado di donarmi emozioni, una band capace di miscelare nel proprio sound death black heavy e funeral doom. Che volete di più dalla vita? Io un nuovo cd dei Frailty... (Francesco Scarci) 

(Self)
Voto: 75

Heinrichreich - Druid


Non mi sento di salvare proprio nulla di questo “disco” anzi, questa parola: nulladefinisce la vera essenza ovvero l’inesistente sostanza di queste tracce, buttate lì, in qualche maniera. Non a caso ho usato la parola tracce perché le canzoni, quelle vere, sono basate sull’armonia, fattore di cui “Druid” è ahimè del tutto privo. L’intro di apertura “Cill and Disirt”, pezzo strumentale, non erige quell’atmosfera in cui un intro dovrebbe saperci calare e non riesce a condurci per mano tra le successive canzoni. Come ho detto prima, però, di canzoni non ve ne sono ed infatti eccoci or ora trascinati, ma che dico, stuprati con “The Legend of the Banshee”: è questo il modo di violentare una batteria? Non era più semplice e “melodico” campionare una raffica di mitra? Il risultato sarebbe stato certo migliore. Con “Blood and Soil”lecosesembrano apparentementemigliorareanche se qua e là qualche sbavatura vocale si fa notare. Quella del sangue comunque era solo un’illusione, infatti eccoci ancora una volta maltrattati con “Castles in Neslusa Forest” che scorre via, senza troppo farsi notare non aggiungendo nulla al disco. A questo punto cosa dire di “Samhain”? Un altro fiasco, ovvio. Quanto banale e fuori luogo sono quelle tastiere. Con “Slavic Feast” si tocca veramente il fondo ma non solo: si cerca addirittura di raschiare! Ancora una volta non ci siamo: qui sono le corde a prostrarsi chiedendo pietà. Analogamente con la successiva “Immortal March” mi sento di richiamare un’altra volta all’ordine Jorg, il factotum dellaband e fautore di questo tremendo supplizio. Altro che immortale, questo è il colpo tanto lesivo quanto letale per il druido. La sua magia non basta a salvarlo. Mi chiedo invece: di magia ne ha mai posseduta? Non sono sufficienti pause ad effetto o raddoppi e dimezzi del tempo per definire “tecnica” una canzone; i tempi dispari lasciamoli pure ai Dream Theater! La canzone strumentale “An Gorta Mor”, song che nella concezione del disco doveva forse solo fare da contorno a tutto il resto, risulta invece essere un sostanzioso primo piatto, assai semplice ma in grado di trasmettere emozioni, ideale come ottimo intro o outro per un buon disco. L’inizio di “Dying Emotions” sarebbe il proseguio perfetto della precedente song, ma ben presto tradisce la sua vera essenza: banale, scontata, pesante ma non nel senso “metallaro” del termine. L’ultima traccia “Green Fields of Hibernia”, lascia finire il disco con l’amaro in bocca anziché deliziare il palato come un dessert dovrebbe fare. In definitiva, quindi, il nome di un gruppo abbastanza noto mi sovviene per battezzare liturgicamente questo “lavoraccio”: quello degli Zero Assoluto. Lasciatemi riposare in pace, riavvito il coperchio della mia bara e non azzardatevi mai più a disturbare la mia anima irrequieta ivi prigioniera che si rigira, con simili e sterili litanie. (Rudi Remelli) 

(Self)
Voto: 45

Solerrain - Album Demo


Si sa quanto l’Est Europa sia un importante bacino dove andare a pescare le band più interessanti in ambito metal. Russia, Ucraina e paesi Baltici rappresentano poi i luoghi dove evidentemente si cresce a pane e metal, perché questi Solerrain sono una realtà estremamente interessante che le case discografiche non dovrebbero lasciarsi sfuggire. Inizialmente influenzati dal sound dei Children of Bodom, il quintetto di San Pietroburgo, il cui nome deriva dalla combinazione delle parole “Solitary” e “Terrain” (quindi terra abbandonata), ci deliziano i timpani con questo demo cd di (ahimè) solo tre pezzi, cercando di combinare gli insegnamenti dei maestri, con una propria distinta personalità. La prima cosa che balza all’orecchio è sicuramente la pulizia e la freschezza dei suoni, la potenza che alimenta un frenetico headbanging già dall’iniziale “Your Hell”, song ricca di cambi di tempo, parti estremamente melodiche e aggressive al tempo stesso e con i classici giri di chitarra che hanno reso celebri i “figli di Bodom” (forse l’unica pecca di cui i nostri dovranno liberarsi al più presto). Si passa alla successiva “The Promise”, che mette in luce le capacità tecnico-compositive del combo russo, rendendoli a mio avviso migliori e per lo meno più vari dei già succitati colleghi finlandesi. Il death melodico si miscela alla perfeziona con l’heavy metal puro alla Iron Maiden, per ciò che riguarda l’epicità delle ritmiche. La voce di Pavel è perfetta per questo genere, mantenendosi sempre in secondo piano rispetto alle ritmiche. La terza e ultima “The Curse” chiude con rammarico questo demo cd, perché sinceramente mi stavo divertendo nell’ascoltare questa band dotata di grandi potenzialità. Che meraviglia potersi guardare intorno e vedere che ci sono decine di band interessanti (e sconosciute) a cui prestare il nostro ascolto, i Solerrain sono una di queste… (Francesco Scarci) 

(Self)
voto: 75