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mercoledì 25 marzo 2020

Goatwhore - A Haunting Curse

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Hardcore, Darkthrone, Soilent Green
Era il 2006 quando la Metal Blade rilasciò un concentrato dinamitardo di brutal metal a cura dei Goatwhore, combo di New Orleans, che con questo 'A Haunting Curse' giungeva al terzo album, una band peraltro dove militavano il vocalist dei Soilent, Green Ben Falgoust e il chitarrista dei Crowbar, Sammy Duet. Dopo essere scampati alla ferocia dell’uragano del 2005 e ad altre innumerevoli sfighe, la band statunitense è tornata più tosta e decisa che mai: undici tiratissime songs di un feroce mix death-black, partorite ai Mana Studios di Erik Rutan. I Goatwhore con la loro musica, ci scagliano addosso violenti scariche adrenaliniche, massacrando il nostro cervello con un sound tritabudelle che prende in prestito un po’ di rabbia dal brutal death e un po’ di malvagità da un black metal old school. Potete ben immaginare il risultato che ne viene fuori: nessun accenno alla melodia, nessun momento atmosferico, nessuna pausa, nessuna voce angelica, solo rabbia, furia cieca, frustrazione all’ennesima potenza che si traducono in scariche elettriche, montagne di riff di chitarra che costruiscono un muro sonoro inespugnabile, impazziti blast-beat che devastano ogni singolo neurone sopravvissuto nei nostri emisferi encefalici. La voce di Ben vomita tutta la cattiveria che imperversa nell’animo di questi quattro ragazzi. Difficile trovare un termine di paragone per questa band, perchè poche erano le band in giro a suonare questo improbabile ibrido black-hardcore: un po' come se i Darkthrone suonassero alla Soilent Green. Questi i Goatwhore 2006: veloci, ferali, oscuri, brutali, malvagi; è proprio vero il detto “ciò che non uccide fortifica”... (Francesco Scarci)

Bernays Propaganda – Vtora Mladost, Treta Svetska Vojna

#PER CHI AMA: Punk/Indie/New Wave
Tornano dopo tre anni i Bernays Propaganda, band macedone di cui abbiamo seguito i passi fin dall’esplosivo 'Zabraneta Planeta' del 2013, passando per quel 'Politika' che già nel 2016, e sempre per la meritoria etichetta slovena Moonlee Records, aveva lasciato intravedere una svolta verso sonorità più dance-punk, con un uso piu massiccio di drum machine e chitarre più affilate che selvagge. Oggi, in 'Vtora Mladost, Treta Svetska Vojn' (seconda gioventù, terza guerra mondiale), la sterzata è completata in modo netto e deciso, tanto che la prima domanda che ci si fa è dove siano finite, le chitarre. L’evoluzione dallo street punk-wave tutto feedback e Gang of Four di 'Zabraneta Planeta' si è completata in favore di una decina di brani pop declinati mescolando influenze new wave più o meno “morbide” ed elettronica vintage e arriva a lambire interessanti contaminazioni con la musica balcanica e perfino certe strutture tradizionali africane. Il disco è basato sull’incastro e l’interazione tra ritmiche pulsanti, groove elettronici, linee di basso essenziali e un massiccio utilizzo di synth, con una scaletta attenta a bilanciare pezzi prettamente danzerecci e momenti più pensosi ed eleganti. In generale 'Vtora Mladost, Treta Svetska Vojna ' è un lavoro piuttosto stratificato e complesso, a dispetto di un’apparente semplicità e linearità, che richiede diversi ascolti per essere apprezzato al meglio nelle sue non poche sfaccettature Da segnalare la presenza del grande Mike Watt (dei leggendari Minutemen, e poi Firehouse, Stogees e tanto altro) al basso in “Ništo Nema da nè Razdeli”. Spiazzante ma godibile. (Mauro Catena)

lunedì 23 marzo 2020

Pyrior - Fusion

#PER CHI AMA: Stoner/Psych Rock strumentale
Terminata la trilogia iniziata con 'Oceanus Procellarum' e conclusasi con 'Portal', per i teutonici Pyrior è tempo di accedere ad un nuovo domani che comincia proprio da questa nuova release intitolata 'Fusion'. A distanza di quattro anni dal precedente lavoro, ecco che tornano i nostri musici berlinesi amanti di sonorità space rock che si sposano alla grande con stoner e psichedelia, il tutto rigorosamente proposto in forma strumentale. Le influenze stoner si palesano già con "Hellevator", la seconda traccia che segue la breve intro ("Guanine") di questo lavoro. L'inizio tribaleggiante (che tornerà con qualche similitudine anche nella monolitica "Norfair") lascia immediatamente posto ad un riffing roccioso, che si dimena in modo nevrotico tra cambi di tempo e melodie sghembe, che nelle porzioni soliste offrono forti rimandi classic rock. Tempo di un altro breve intermezzo desossiribonucleico ("Adenine" - una delle basi azotate insieme a Guanina e Citosina che formano il DNA e che ritroveremo come brani nel corso dell'album; probabilmente c'è un errore invece con la Timidina - doveva essere Timina per coerenza - nel suo utilizzo come titolo del pezzo acustico "Thymidine") e si riparte a rockeggiare con "Splicer" (non so se anche qui ci siano riferimenti alla biologia molecolare visto l'esistente processo di splicing), una scorribanda rock'n roll dove una bella voce roca avrebbe fatto certamente la sua porca figura. E invece no, giusto mantenersi coerenti alla propria idea di strumentalità fino alla fine? Mah, ho i miei dubbi. E allora andiamo a goderci "X", song dall'intro blues rock ma dalla successiva ritmica bella tosta e ostica da digerire, non proprio il mio pezzo preferito a dirla tutta. Molto meglio invece la title track, cosi sfrontata e visionaria, un calcio in culo per chiunque si metta all'ascolto di 'Fusion' e finalmente una song con carisma che ha modo di ammiccare anche ad un certo post-rock notturno. A chiudere il disco, ecco l'ambient onirico di "Cytosine", un pezzo delicato che sancisce la fine delle ostilità stoner proposte dai Pyrior. Francamente, mi aspettavo qualcosa di più, 'Fusion' mi sembra più un disco di transizioni per nuovi futuri viaggi interspaziali. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2020)
Voto: 64

https://pyrior.bandcamp.com

domenica 22 marzo 2020

Selenite - Mahasamadhi

#FOR FANS OF: Funeral Doom
From the second half of the '90s, funeral doom has seen a constant growth of new bands which defined the core elements of a quite extreme genre. Slowness, abysmal vocals and super heavy riffs are a constant in a quite rigid genre, though it still leaves a little room for the bands that try to add their own touch. Anyway, it is quite difficult to stand out from the rest and many bands sound too similar between them. This initial difficulty wasn´t however an impediment for the Austrian musician Stefan Traunmüller to create a new project called Selenite, back in 2015. If anything has to be remarked about Stefan is that he is a super active musician, as he is involved in several projects, being some of them especially interesting bands like Rauhnåcht or The Negative Bias, among the others. Thanks to his different musical approaches in those projects, it is quite clear that he has enough talent and many ideas to create a funeral doom metal project, which could be reasonably interesting.

'Mahasamadhi' is the result of his four years working and it is indeed an album which doesn´t escape from the core sound of the genre, though it has enough elements to make it interesting. First of all, the concept of the lyryics has a strong Eastern influence, trying to avoid the quite typical lyrics of the genre. Still, the atmosphere is gloomy and dark as anyone could expect when you listen to a funeral doom metal album. Thankfully, Selenite is a band which tries to add plenty of atmospheric touches, making the album more interesting. Stefan manages to avoid the monolithic and sometimes quite boring compositions of some bands that sorely focus on repetitive riffs, without adding anything special. The songs have, unsurprisingly, a very slow pace where the ultra heavy riffs and the expected growls have a constant presence. Anyway, from the very beginning, Selenite creates a quite special atmosphere with, for example, some chants with a ritualistic touch, like it occurs in the album opener "Chanelling Chants From Beyond". Moreover, the background keys have also an important presence in their form of church-esque organs or eerie keys, which enhance the mystic atmosphere wraping the songs. Vocally, the album has the aforementioned growls, which sound quite good, though they don´t reach the level of deepness of another purely funeral doom metal projects. Apart from that, Stefan introduces some clean vocals, which try to sound evocative, like it happens in the mainly instrumental track "Hidden Presence". As another enriching element, we can hear some female vocals, which have a quite relevant presence in the track "Final Reckoning". All these efforts are used in order to widen the musical spectrum of the album and make it more varied. With regards to the guitars, the cavernous riffs have a major role, though Selenite tries to add some melodic riffs, which are quite good and also help to create songs easier to keep in mind. Heaviness and memorable melodies are not incompatible and its balance always helps to forge a more enjoyable work.

All in all, Selenites’s debut album 'Mahasamadhi' is a pretty good effort of funeral doom with a strong atmospheric and a ritualistic approach. This touch helps to make the album a quite enjoyable listen. 'Mahasamadhi' may appeal the fans of the genre, leaving us waiting what this project can offer in the future. (Alain González Artola)

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sabato 21 marzo 2020

Empire of the Moon - Έκλειψις

#FOR FANS OF: Hellenic Black, Rotting Christ
Twentytwenty is being an interesting year for some veteran Greek bands, which clearly shows that this scene is still healthy both in quality and in quantity. If recently we enjoyed Kawir’s last and their great album ‘Adastreia’, now it is time to taste another fine release coming from the Hellenic country. Empire of the Moon is the project founded by R.W. Draconium and Ouroboros in 1996. This duo became a trio with the incorporation of S.V. Mantus, only two years later. Empire of the Moon has never been a prolific band, as it only released a quite dark and unique demo entitled 'For the Ancient Light of Sin' in 1997. After this seminal work, the band was swallowed by the shadows, where it remained for a long time until the project returned to the first line-up, releasing its long awaited debut in 2014. This debut has some excellent black metal compositions, still reminiscent of its occult and murky initial sound. After that, the band took its time to release a second album, spending six years to get the sophomore album 'Έκλειψις' ('Eclipse' in English).

'Έκλειψις' is undoubtedly a fine example of the trademark style of the Greek black metal bands. Independently if the approach is more aggressive, epic or atmospheric, almost all the Greek bands which I know, have a strong sense of melody in their guitar lines. Empire of the Moon is not an exception and though it plays a more straightforward form of black metal in comparison to Rotting Christ, the songs of this album always have a good degree of melody and atmospheres. Some songs like the third track "Per Aspera Ad Lunae - I. Th Reso" may have a demolishing start, with those speedy drums, crushing guitars and vicious vocals. But as it happens with other tunes, the song evolves to a not so fast section, where the guitars have a greater room to introduce very nice melodies. Furthermore, although this is a guitar oriented album, the atmospheric touches have a good presence here and there, thanks to the work by S.V. Mantus, which introduces occasional keys and choirs, which increase the ambience of the songs. The next track shows a pure Hellenic guitar riff, which inevitably reminds me some old classic Rotting Christ songs. The song shows a quite fluctuating pace, which makes it interesting. The guitar work is again excellent with magnificently executed riffs and a very nice solo. One of strongest points of this album is that the previously mentioned remarkable characteristics become increasingly present in the later part of 'Έκλειψις'. This is because the final part of the album contains the longest tracks, which usually means a greater room to create compositions with a more different structure. However, this makes more difficult to keep the interest and inspiration alive through the whole songs. Fortunately, Empire of the Moon has worked hard to compose tracks full of excellent riffs, well structured compositions and interesting atmospheric tweaks. This tasteful mix makes you feel that the occult and mysticism related to lyrics have their proper sonic representation. As a summary and a great farewell of this album, we have the closer "Per Aspera Ad Lunae - IV Son of Fire", which is an excellent and maybe the most epic song of this album, breathing grandiosity, thanks to the majestic riffs and sticky melodies. The track flows between atmospheric parts, with some calmer sections and the most powerful ones, with easiness and inspiration. This song is without any doubt the end that the album deserved.

Good thing may take a longer time to enjoy them, but when the quality is so great, the wait is worth of our time, as it has happened with Empire of the Moon’s second album. This is an excellent work of Greek occult black metal, equally balanced in aggressiveness, melody and atmosphere. (Alain González Artola)


The Spacelords - Spaceflowers

#PER CHI AMA: Psych/Space Rock, Cosmic Letdown
Solo tre pezzi è poco per valutare l'ultimo lavoro dei teutonici The Spacelords? Dai, non scherziamo, dal momento che 'Spaceflowers' sfiora i 50 minuti di durata. Eh si, il terzetto psych rock germanico ci propone infatti tre brani dalle lunghezze piuttosto impegnative. Si parte dalla fluttuante ed eterea title track, che offre, con i suoi suoni pulsanti e magnetici, cosi affascinanti e sognanti, il classico trip da sostanze lisergiche, ove abbandonarsi a luci soffuse, armonie accattivanti e atmosfere sfocate, in una sorta di danza che potrebbe ricordare il buon Jim Morrison sul palco durante i concerti dei The Doors. Tutto ciò non fa che confermare l'eccellente stato di forma di una band, ormai in giro dal 2008, e con un bagaglio artistico, musicale e culturale alle spalle davvero senza precedenti, considerate le esperienze dei vari membri della band in giro per il mondo, a conoscere ritmi ed etnie, dall'Africa all'India, facendo tappa anche in Russia. La song dura quasi 14 minuti, che i nostri sembrano gestire in punta di fioretto, senza mai affondare il colpo, ma inoculando melliflue melodie che sembrano trovare un po' più di robustenza solamente negli ultimi tre minuti della traccia. Con "Frau Kuhnkes Kosmos", il ritmo sembra più frenetico, comunque sempre all'insegna di una certa ridondanza dei suoni che donano quell'aspetto di turbamento mentale che tanto mi affascina in questo genere, nonostante la natura strumentale del trio. I ricami delle chitarre infatti celano la mancanza di un vocalist, mentre il drumming tribale evoca nella mia mente balli africani in una sorta di vortice cosmico vibrante che mi avvicina in un qualche modo alla divinità, in un estatico movimento di grande emozione. Molto più tiepida invece "Cosmic Trip", una monolitica traccia di oltre 24 minuti, in cui se si perde il filo al minuto quattro, lo si recupera tranquillamente al nono, questo per spiegare quella ridondanza sonora che menzionavo poco sopra. Fortunatamente al decimo giro d'orologio convergono nel flusso sonoro dei nostri melodie orientali, forse indiane che ci riconducono alle influenze ancestrali della band. Inoltre, ascoltando le melodie della traccia, mi sovviene alla memoria un'altra release che ho apprezzato molto negli ultimi anni, e che risente di melodie orientali, ossia 'In the Caves' dei Cosmic Letdown. La song comunque si avvita e srotola su se stessa una moltitudine di volte, rilasciando ottime melodie e vibranti emozioni, in una specie di rivisitazione della lunga parte strumentale di "Light my Fire" dei The Doors. Insomma, 'Spaceflowers' è un graditissimo ritorno per una band sempre sulla cresta dell'onda con il suo inossidabile concentrato di psych rock dalle tinte cosmiche. (Francesco Scarci)

mercoledì 18 marzo 2020

Pulcinella - Ça

#PER CHI AMA: Avantgarde/Jazz/Prog Rock
Cosa potrei mai dire per parlar male di una band che compone e suona in maniera egregia, che salta schemi a piè pari, che usa le basi del tango per distruggerne la tradizione con composizioni contorte e frizzanti e che in alcun modo può essere catalogata. Potrei dire solo, che il nome non si addice a questa band francese, poiché la quantità di colori espressi in musica potrebbe ricordare meglio un Arlecchino ed il suo abito, non certo il vestito bianco e pallido di Pulcinella. Comunque, qualcosa c'è in comune con la maschera partenopea, una certa verve mediterranea che contraddistingue il sound del quartetto transalpino, un calore avvolgente ed una vivacità coinvolgente. Provate ad immaginare il jazz, il moderno jazz impartito dal trio geniale di Medeski, Martin e Wood, calato in un bosco di suoni magici, esotici, tra cui il tango. Pensate poi agli accenti psicotici di Edgar Varese, al dark jazz stile Dale Cooper Quartet & the Dictaphones e ancora, a movimenti progressivi, atmosfere da colonna sonora di vecchi film romantici, o all'ombra immancabile del Zorn più compulsivo, per finire in digressioni etniche ed esperimenti rock vagamente psichedelici, in ricordo dei seminali Material. Tutto questo per avere una vaga idea del suono dei Pulcinella. Un cofanetto di musiche ricche d'atmosfere e situazioni imprevedibili, schegge impazzite, lampi di luce e meteore sonore che piovono per tutte le dieci tracce, di media, lunga o corta durata, poco importa, poichè il divertimento è assicurato visto che, la qualità d'esecuzione e la produzione sono altissime. 'Ça' è alla fine un album godibile, un disco candidato a divenire un ascolto obbligatorio, il classico must per tutti gli amanti del jazz contaminato, a volte composto, altre volte impazzito. Come resistere ad un brano destabilizzante qual è "Ta Mère Te Regarde"? Perchè non abbandonarsi alla cadenza notturna della desolata melodia di "Ici Hélas" con quelle sue pause mozzafiato? O perdersi nelle note folli di "Salut Ça Va", dove ritmi acid jazz vengono trafitti da carrellate di suoni elettronici rivisti, dalla Bubblegum music o rubati alla new wave dei D.A.F. del 1981? Inutile fuggire da questo gioiellino, inutile scappare dal talento di questa compagine di Tolosa, che dal 2006 ad oggi, ha già realizzato sei album, uno più bello ed interessante dell'altro. 'Ça' è un'imperdibile release, siete avvisati. (Bob Stoner)

(Budapest Music Center Records - 2019)
Voto: 80

https://pulcinellamusic.bandcamp.com/album/a

martedì 17 marzo 2020

Salmagündi - Rose Marries Braen (A Soup Opera)

#PER CHI AMA: Avantgarde/Krautrock/Noise Jazz
Ottima seconda uscita per questa band proveniente dalla provincia di Teramo che ci inebria con un album dal contenuto eclettico e variegato, classificabile solo con la dicitura avantgarde. Provate ad immaginare suoni new wave, sintetici e astratti a la The Residents mescolati all'ultra psichedelia rock dei 500 Ft. of Pipe, un sarcasmo zappiano, un post punk trasversale con una voce salmodiante a metà tra Jim Morrison ed il canto gotico dei Bauhaus, dei synth cosmici, krautrock e follie soniche alla Mike Patton e i suoi Mr. Bungle, per avere lontanamente idea del miscuglio ben generato e ragionato e con effetto molotov di questi Salmagündi, band raccomandata per appassionati di musica cerebrale, schizoide, senza confini nè limiti. I riferimenti sonori sono molteplici e ci si diverte parecchio durante l'ascolto di 'Rose Marries Braen (A Soup Opera)' nel cercare le connessioni con le varie influenze. Detto questo, bisogna ammettere che la band abruzzese, nelle sue evoluzioni strutturali progressive, ha un potenziale di originalità assai elevato e, a discapito di altre band sperimentali, i Salmagündi (il cui significato la dice lunga sulle intenzioni della band - trattasi infatti di una ricetta gastronomica franco-inglese, il salmigondis, che prevede un miscuglio o un mix di ingredienti eterogenei), nonostante la complessità dei brani, si lasciano ascoltare con facilità ed un certo interesse in quanto sono atipici e fantasiosi (l'organico è composto da un synth, due bassi, batteria) e con composizioni storte e intelligenti, mai improntate sul mero virtuosismo, semmai atte a sguinzagliare l'estro creativo dei musicisti, che ripeto, sono assolutamente senza barriere e confini strumentali. Il quartetto si sposta infatti in continuazione tra le note di un brano e l'altro, facendo apparire l'album come un viaggio multicolore, stralunato e folle, per raccontare la storia del pazzo mondo di Braen (un personaggio da Carosello, quel vecchio programma televisivo in onda tra il '57 ed il '77), arrivando a toccare vette di noise-jazz istrionico, come in "Cheese Fake" o "Cockayne". In altre composizioni invece, i nostri assumono tempi lenti e funebri, con il jazz di matrice zappiana, il rock in opposition e quella gradevole goliardica verve teatrale che ritroviamo anche nel disco capolavoro, 'Primus & the Chocolate Factory With the Fungi Ensemble" e che consentono ai nostri di scardinare definitivamente la supposizione che quest'ottimo gruppo rientri nella normalità. Un ascolto obbligato, per veri intenditori! (Bob Stoner)

domenica 15 marzo 2020

Bloody Souls - The Devil's Hole

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Candlemass, Black Sabbath
Tralasciando il fatto che la scena stoner internazionale sia immobile da tempo immemore e che sia popolata da una miriade di band bravissime ma tutte uguali o alla meglio, simili tra loro, che hanno perso progressivamente, dalle origini ad oggi, caratteristiche e meraviglie psichedeliche che hanno reso questo genere una musica di culto, ci avventuriamo alla scoperta di questa band abruzzese al suo debutto (pubblicato e distribuito dalla (R)esisto). I Bloody Souls suonano molto bene ma non fanno eccezione, non inventano niente di nuovo, hanno un sound retrò e ricalcano i versi e le costruzioni classiche, dai Black Sabbath ai Candlemass, attingendo anche a quell'oscura influenza che fu il diavolo secondo i Death SS, e aggiungendo un po' di quel fervore metal anni '80. Nonostante tutto, i nostri riescono a regalarci comunque un ottimo disco. Splendido nel suo essere discepolo dei grandi maestri, (mai come in questo caso, ho apprezzato tanto la chiusura ferrea, tra le fila di un genere, di un disco) diviso tra stoner rock cavalcante, oscure dottrine e doom/sludge dal retrogusto hard rock di matrice 70's di scuola Down e Saint Vitus. La bella voce di Johnny Hell (anche alla chitarra) è il collante giusto, aggressiva, diabolica, (con uno "Yeah!" spettacolare nell'ingresso con annessa risata malefica alla James Hetfield sul brano "Madhouse") per un sound scarno, pesante e potente, ribassato, con diverse suggestioni del passato e perfino un bel tiro alla Corrosion of Conformity di "No Cross No Crown" (il video promozionale di 'Devil's Hole' lo potete vedere in rete su youtube). "Solve et Coagula" ha un ritornello assai interessante che ricorda il prog italiano degli anni settanta, che evoca le più oscure invocazioni al maligno, mentre "Living in Darkness" si abbandona all'orecchiabilità mentre l'oscurità scende nella sabbathiana "Demon's March", una marcia funebre dai toni foschi e lugubri. La mia preferita rimane però l'omonima "Bloody Souls", che appare macabra e mastodontica, che incalza in poco meno di quattro minuti, i vari riferimenti musicali utilizzati dalla band per la composizione dell'intero disco. Quindi nessun miracolo, evoluzioni già sentite ma tanta cupa energia sonora, oscura espressività sputata in faccia senza alcuna remora, per un album dall'umore nero come la pece, travolgente, piacevole all'ascolto e trascinante al punto giusto. Un ottimo biglietto da visita.(Bob Stoner)

((R)esisto Distribuzione - 2020)
Voto: 74

https://www.facebook.com/bloodysoulsband/

sabato 14 marzo 2020

Karmatik - Unlimited Energy

#PER CHI AMA: Prog Death, Cynic
Nel mio costante scandagliare l'underground metallico, questa volta mi sono fermato in Canada, nello stato del Quebec, per dare un ascolto alla seconda prova di questi melo deathsters che rispondono al nome di Karmatik. La loro ultima release, 'Unlimited Energy', è uscita nel 2019 a distanza di sei anni dal loro debut album, 'Humani-T'. Perchè soffermarmi sulla proposta di questo quartetto di canadese? Perchè sono interessanti interpreti di un sound che coniuga il melo death con prog e techno death. Lo dimostrano subito con i fatti e l'opener "Universal Life", una traccia che mette in luce la caratura tecnica del combo, una certa ricerca per il gusto, e questo loro combinare riffoni death, sempre pregni di melodia sia chiaro, con rallentamenti più sofisticati che mi hanno evocato i Cynic. E la band di Paul Masvidal e soci torna anche nell'incipit di "Tsunami Sanguinaire", con quei rallentamenti acustici da brividi, prima che la band ingrani la marcia e riparta con un rifferama compato, carico di groove, ma pur sempre bello incazzato, ove la voce di Carol Gagné trova modo di sfogare tutta la propria rabbia grazie al suo possente growl. Poi è solo tanto piacere grazie a quei break sopraffini di chitarra e basso, per non parlare dell'eccellente apparato solistico che ci delizia con ottimi giri di chitarra. Diamine, 'Unlimited Energy' è un signor album allora? Si, per certi versi rischia di essere un masterpiece, per altri mi viene da dire che l'album è ancora fortemente ancorato a vecchi stilemi di un death metal di cui si potrebbe anche fare a meno. Perchè dico questo? Semplicemente perchè quando i nostri si adoperano nel classico sporco lavoro death old school, finiscono nel calderone del già sentito. Questo capita con "Black Sheep... Be Yourself", una song che ha il suo primo sussulto solo sul finire del brano. E allora l'invito è cercare di essere un po' più fuori dagli schemi anche in quei frangenti più classiconi, altrimenti la possibilità di non farsi notare si acuisce ulteriormente. Il disco è comunque una prova di tutto rispetto che evidenzia luci ed ombre di una band che potrebbe dare molto di più. Vi segnalerei un paio di pezzi ancora che mi hanno entusiasmato più di altri: in assoluto "Transmigration of Souls" che, nonostante la sua natura strumentale, suona come un mix esplosivamente melodico tra i Death e i Cynic. E ancora, vi citerei i giochi di chitarra di "Defeat or Victory" in un contesto comunque deflagrante e la più sperimentale "As Cells of the Universe" per l'utilizzo di vocals meno convenzionali su un tappeto ritmico fortemente influenzato dalla scuola di Chuck Schuldiner. Ben fatto, ottima la prova dei singoli (basso in testa) ma ora mi aspetto il definitivo salto di qualità. (Francesco Scarci)

venerdì 13 marzo 2020

The Roozalepres - S/t

#PER CHI AMA: Punk Rock
Dalla Toscana con furore mi verrebbe da dire, dopo aver ascoltato queste 12 fottute tracce dei The Roozalepres. Trentaquattro minuti di suoni punk rock lanciati a tutta forza. Cori accattivanti annessi ad assoli arroganti ("Rough'n'Roll Rooze 'Em All"), merce rara per il genere e non solo. "Come and Go" è una bella cavalcata punk che mi hanno evocato gli esordi dei Rostok Vampires e di quell'indimenticabile, almeno per il sottoscritto, 'Transilvania Disease'. Ancora chitarre velenose, melodie che inducono ad un bell'headbanging che a quest'età rischia ormai di procurarmi qualche problemino alla cervicale. Ma sapete che penso, me ne fotto e mi lascio trascinare dal sound di questo quartetto che, pur non inventando nulla di nuovo, assembla in quest'album omonimo un mare di influenze che smuovono anche sua maestà Glenn Danzig ai tempi dei Misfits, coniugando quindi dark, punk e rock'n roll, senza dimenticarsi qualche scorribanda in territori hardcore. Inutile stare qui a fare il classico track by track ed elencarvi peculiarità, pregi e difetti di ogni song, molto meglio lanciarsi allora in pogo sfrenato creato dal combo italico e cercare di dimenticare per una mezz'ora abbondante quel frastuono che ci circonda. Il punk rock dei The Roozalepres (ecco sul moniker avrei di che ridire) è sicuramente molto più rumoroso e divertente. Difficile identificare una song piuttosto di un'altra ma dovendo esprimere la mia opinione, devo dire di preferire la band su ritmiche più tirate come "Frankenstein Heart" o "Riding Cosmos", dove i nostri trasmettono grande energia, piuttosto che pezzi più mid-tempo come possono essere "Black Magic Killer" o "Mean Mean World", una song quest'ultima più Ramones oriented. Alla fine, mi sento di consigliare la fatica di quest'oggi a tutti gli amanti di questo genere di sonorità, poco impegnate e scavezzacollo. (Francesco Scarci)

(Go Down Records - 2020)
Voto: 69

https://www.latest.facebook.com/roozalepres

Borgne - Y

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Aborym, Dodheimsgard
Impugnate la vostra matitina e prendete nota di questo disco perchè già oggi si candida ad essere una delle migliori release in ambito estremo di questo tribolato 2020. Gli svizzeri Borgne sono tornati con un lavoro spaventoso per intensità e qualità esecutiva. 'Y' è il loro nono album, e devo ammettere di non aver particolarmente amato i precedenti otto, un disco che propone uno sconfortante concentrato di black metal sporcato da contaminazioni industrial e visioni post apocalittiche (che in questo periodo ci stanno davvero alla grande). Sette le tracce a disposizione dei nostri per 65 minuti di musica malefica che sembra essere uscita direttamente dalle porte dell'Inferno, carica di odio ma anche di una massiccia dose di melodia. Il cd, in splendido formato digipack, si apre con le tonanti melodie di "As Far as My Eyes Can See", un pezzo che irrompe nel mio lettore con la medesima deflagrante violenza che aveva avuto "Disgust and Rage (Sic Transit Gloria Mundi)" pezzo apripista di 'Generator' degli Aborym. Ecco gli Aborym di quell'album potrebbero essere un bel punto di contatto per la nuova release del duo di Losanna. Tuttavia mi verrebbe da pensare anche ai Dodheimsgard e al loro black avanguardistico industriale per descrivere quello che i Borgne sono oggi. Come detto, non sono mai stato un fan della band elvetica, tuttavia mi ritrovo ad infiammarmi ed entusiasmarmi per un disco mastodontico. Ascoltatevi il ritmo incalzante di "Je Deviens Mon Propre Abysse", quasi una traccia dance all'inizio (e anche alla fine) che muta in una violenta melodia che governa un pezzo cosi incredibilmente ricco di pathos e ottime orchestrazioni. Ancora ammiccamenti di matrice industrial-cibernetica per la lunga e sorprendente "A Hypnotizing, Perpetual Movement That Buries Me In Silence", sorprendente per un finale che sembra chiamare in causa addirittura i Depeche Mode (soprattutto a livello vocale). Con "Derrière Les Yeux De La Création" i Borgne sembrano spostarsi invece in territori dark folk, complice quella chitarra acustica in apertura dal sapore cosi bucolico, seguita poi da un'atmosfera quanto mai glaciale e funesta che rende l'aria pesante da respirare anche quando i nostri cercano con spaventose accelerazioni, di mutare quel mood catastrofico che la song si porta dietro, figlia di giorni di sconforto e terrore. Si cambia ancora questa volta con la follia sintetico cerebrale di "Qui Serais-Je Si Je Ne Le Tentais Pas?" e la sua colata di melodie informi che si muovono tra sonorità a rallentatore e altre elettroniche, prima di immergerci nell'ambient malato di "Paraclesium", una pausa di nove minuti in attesa del gran finale affidato a "A Voice In The Land Of Stars". L'ultima song infatti include ben oltre 17 minuti di musica in cui converge tutto quanto creato sin qui dal duo formato da Bornyhake e Lady Kaos: l'inizio è lento ma poi la velocità e l'umore nero della band elvetica, hanno il sopravvento creando un wall of sound orrorifico, complici peraltro le splendide keys gestite dalla bravissima Lady Kaos. Alla fine devo ammettere che 'Y' è un signor album, moderno, sofisticato, alquanto originale a cui sarebbe il caso di dare una grossissima chance. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod - 2020)
Voto: 83

https://ladlo.bandcamp.com/album/y

Sertraline - These Mills are Oceans

#PER CHI AMA: Blackgaze, Agalloch
Sertraline atto terzo, quanti gli EP (solo in digitale ahimè) fatti uscire negli ultimi tre anni dalla band di Buffalo, che prende il nome del generico dell'antidepressivo Zoloft. Ora avrei un desiderio, ossia che l'etichetta canadese Hypnotic Dirge Records che supporta la band, mettesse tutti e tre gli EP su supporto fisico, grazie. Ma veniamo a 'These Mills are Oceans', lo splendido lavoro di oggi. Tre pezzi per venti minuti di musica che combinano post metal, post black atmosferico e depressive con grande maestria ed efficacia per un risultato che ho trovato semplicemente intenso ed emotivamente destabilizzante. Perchè queste mie parole? Ascoltate la malinconicissima "Eyes as Tableau", un pezzo che viaggia su una ritmica post metal che vive di qualche sporadica accelerazione black, ma soprattutto di melodie struggenti su cui poggia il cantato in screaming del frontman Tom Muehlbauer. La seconda "Their Cities" potrebbe essere un mix tra Agalloch, Shining e Cult of Luna, il tutto ovviamente suonato in tremolo picking con una portanza emotiva davvero da applausi, tra rallentamenti in acustico e malefiche sfuriate post black, con la melodia sempre collocata in primo piano. A chiudere il dischetto ecco "Prague": lunga intro ambient con tanto di voci malvagie in sottofondo che cedono il passo ad un estatico intermezzo acustico e clean vocals per passare poi ad una tiepida atmosfera blackgaze con le chitarre che ammiccano qui agli *Shels. L'intensità va salendo e il riffing riprende quota acuendo la propria cattiveria a pari passo con lo screaming arcigno del vocalist, per un risultato finale veramente notevole. A parte desiderare i tre EP in cd, gradirei ora anche uno sforzo da parte della band, ossia un full length. Grazie mille per prendere in considerazione i miei desideri. (Francesco Scarci)