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martedì 28 gennaio 2020

We Hunt Buffalo - Living Ghosts

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Stoner Rock
Scompare, o quasi-scompare la linea drone-fuzz di basso così prominente nell'esordio omonimo, ma i riff dei We Hunt Buffalo in questo 'Living Ghosts' diventano più granitici tipo nella blandamente (black)sabbath/iana e scarsamente ispirata "Back to the River', la ancor più scarsamente ispirata "Prairie Oyster", con un catarroso growl da metallaro asmatico inseguito da una mandria di bufali, e qui decisamente fuori contesto. Se da un lato la band appare intenzionata a rilanciare certe beneamate istanze stoner, divampate e subito accantonate nell'album d'esordio e poi rilanciate nell'EP successivo 'Blood From a Stone' (ma che titolo del CXX, nevvero?), dall'altro lato gli orizzonti paiono ampliarsi e gli skyline a farsi, paradossalmente, più cittadini. È il caso di "Hold On", vagamente collocabile tra le brughiere sonore dei primi U2, oppure di "Ragnarok", la strumentale in apertura, il cui cipiglio epico e subliminalmente morriconiano tende una corda sottile tra le due opposte escrescenze stoner di questa monument (sonic) valley: "Walk Again" e la summenzionata "Prairie Oyster". Percorrendo la quale si ammira un panorama temporale di quelli da mozzare il fiato. Sarà interessante verificare sul campo. (Alberto Calorosi)

(Dine Alone Records - 2015)
Voto: 69

https://wehuntbuffalo.bandcamp.com/album/living-ghosts

lunedì 27 gennaio 2020

Ornamentos del Miedo - Este No Es Tu Hogar

#PER CHI AMA: Funeral Doom, My Dying Bride
Sinergia sempre più serrata quella tra l'armena Funere e la russa Solitude Productions che vanno a pescare la new sensation funeral doom questa volta in Spagna. Ornamentos del Miedo è infatti una one-man-band originaria di Burgos, dove evidentemente, sospesa tra le montagne, non deve arrivare sufficiente sole per aver generato nel suo frontman, Angel Chicote, gli incubi inclusi in questo 'Este No Es Tu Hogar', album di debutto del musicista castigliano. Il disco contiene sei funeree song che coprono oltre un'ora di musica. Si inizia con l'angosciante incedere della title track, una song che non ci fa proprio sprofondare nel più tipico clima funeral, data una certa ariosità (e vi prego di passarmi il termine) delle chitarre che costruiscono melodie sicuramente plumbee e sofferenti ma non cosi catacombali da creare il classico nodo asfissiante alla gola. E per questo, la proposta del buon Angel, peraltro membro di una miriade di band coinvolte in un po' tutti i generi estremi, risulta veramente gradevole da digerire ma soprattutto da ascoltare. Pur le song durando tra gli otto e i dodici minuti, risultano dinamiche (e passatemi vi prego anche quest'altro termine) dato il lavoro eccelso del factotum nel costruire eteree atmosfere che potrebbero per certi versi richiamare i Saturnus o il mood nostalgico dei Paradise Lost di 'Shades of God'. Tale sensazione l'avverto anche nella seconda traccia, "Ornamentos del Miedo", in cui è forse una vena più orientata ai My Dying Bride ad avere la meglio, sebbene quella chitarra ritmica mi ricordi non poco la band di Nick Holmes e soci. Grande spazio è lasciato alla musicalità malinconica del mastermind spagnolo che qua e là ci piazza il suo vociare tormentato. Si continua con "Carne" e qui il riffing sembra apparentemente più ossessivo con la voce di Angel tendente allo screaming, ma il lavoro delle keys rende ancora una volta tutto più abbordabile. E questo è proprio il plus di questo disco che pur muovendosi in territori non proprio pianeggianti, riesce comunque nell'intento di far passare un genere cosi poco affabile come il funeral doom, in una simpatica passeggiata domenicale. Ci pensano infatti "Caminos Perdidos" e "Raíces Podridas" a rallegrarci con le loro autunnali melodie, cosi come pure la conclusiva "Frágil". Quello che penalizza in un certo qual modo il disco è forse un'eccessiva coerenza musicale che da un lato è apprezzabile, dall'altro rende un po' troppo monolitico un lavoro. Certo, quando si parla di funeral doom, la monoliticità dovrebbe essere la caratteristica primaria delle band, ma più volte ho sentito band in questo ambito variare dal funeral al death e viceversa; gli Ornamentos del Miedo invece dall'inizio alla fine propongono un sound piacevolissimo ma senza picchi e senza valli, ma questa rimane la mia opinione e il mio gusto personale. Comunque per essere un debut album, di un artista comunque assai scafato, il voto non può che essere super positivo. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Funere - 2019)
Voto: 74

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/este-no-es-tu-hogar

Intervista con A New Tomorrow

Segui il link per sapere molto di più sulla band italo-inglese A New Tomorrow:

 

Trail of Tears - Free Fall Into Fear

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Symph Black, Dimmu Borgir, Tristania
"Che fine ha fatto Catherine Paulsen, ma soprattutto che ci fa Kjetil Nordhus, cantante dei Green Carnation, nei Trail of Tears", questo è ciò che pensai al tempo dell'uscita di questo 'Free Fall Into Fear', quarto album per i norvegesi. Queste anche le novità sostanziali della band che, scaricata la bella e brava cantante per le solite divergenze stilistiche, pensò bene di assoldare, per le clean vocals, il vocalist della band di Tchort e soci. La musica dei nostri ha quindi subito una notevole sterzata stilistica, prendendo le distanze da quel filone death/gothic che vedeva in Tristania e Within Temptation i maggiori esecutori, e proiettando i nsotri verso lidi leggermente più black metal. Rispetto al precedente e ottimo 'A New Dimension of Might' si può infatti notare una leggera diminuzione della melodia, causata anche dall’assenza della bellissima voce di Catherine, e un incremento della cattiveria, sorretta da un feeling maligno spesso presente ma ben bilanciato da break tastieristici ed inserti melodici. Da sempre sono un fan della band, li ho seguiti dai tempi del primo 'Disclosure in Red', quindi devo essere sincero su una cosa: al primo ascolto di questo lavoro sono rimasto spiazzato e un po’ deluso. Tuttavia ai successivi passaggi, ho potuto apprezzare il nuovo taglio dei sette norvegesi, coadiuvati peraltro dalle ottime vocals di Kjetil che entrò in pianta stabile nelle file della band. 'Free Fall Into Fear' alla fine è un album che si avvicina, se mi passate il paragone, al tanto contestato 'Spiritual Black Dimension' dei Dimmu Borgir, anche se qui la voce di Ronny Thorsen è più gutturale rispetto a quella del suo collega Shagrath, la base ritmica è potente, veloce e melodica. Ascoltandolo e riascoltandolo mi è venuto in mente anche il bellissimo e sottovalutato 'The Shepherd and the Hounds of Hell' degli ottimi Obtained Enslavement, e anche qualcosina degli Arcturus. Sì insomma, a me quest’album è piaciuto perché riesce a coniugare violenza sonora e melodia. Il voto non è più alto solo per un paio di pezzi non all’altezza. (Francesco Scarci)

(Napalm Records - 2005)
Voto: 74

https://www.facebook.com/trailoftearsofficial/

domenica 26 gennaio 2020

Omnianthropy - Therion

#PER CHI AMA: Symph Death, Fleshgod Apocalypse
Una manciata di minuti a disposizione dei messicani Omnianthropy per farsi conoscere oltre i confini nazionali. 'Therion' è infatti un EP di tre pezzi che a distanza di un anno dal loro debut su lunga distanza, fa approdare nuovamente il trio della capitale sui virtuali scaffali del web. Non conoscevo assolutamente la band prima di oggi, però questo lavoro ha captato in un qualche modo la mia attenzione col suo potente death sinfonico. La title track esplode alla grande nel mio stereo con i suoi ritmi tirati, ma anche con le sue orchestrazioni bombastiche che per un attimo mi riportano al death sinfonico della band di cui oggi l'EP ha preso il titolo, ossia i Therion di Christofer Johnsson. Pomposi, melodici, orchestrali e cattivi al punto giusto, la proposta degli Omnianthropy potrebbe essere un mix tra 'Lepaca Kliffoth' e 'Theli' dei gods svedesi, miscelato con le ultime cose dei nostrani Fleshgod Apocalypse. Lo testimonia anche la seconda galoppata, "Claroscuro", tra ritmiche tese, growling vocals, montagne di tastiere, sublimi orchestrazioni, ma anche clean vocals evocative che mi convincono abbondantemente della bontà della proposta dei nostri. L'ultima traccia, "Designis", conferma le qualità dei nostri, in una traccia ancora più nevrotica, in cui sono le keys ad avere il ruolo da leone e in cui sottolinerei uno spettacolare assolo conclusivo nella migliore tradizione heavy classico. Bella scoperta questa, spero ora di ascoltare un Lp più lungo e strutturato. (Francesco Scarci)

Bob Seger - I Knew You When

#PER CHI AMA: Rock, ZZ Top
Aperto da "Gracile", un robusitissimo southern da catene ai polsi, programmaticamente intento a dipanare eventuali (e legittimi) dubbi sulla odierna rocchettosità di questo barbuto ultrasettantenne versione anni duemila-quasi-20, l'album gigioneggia tra ballatonze reggisen-springsteeniane ("I'll Remember You", la title track e "Blue Ridge") ipodermicamente sintonizzate con certe suggestioni eigties. Date un ascolto all'electro-boogie di evidente ZZ-derivazione ottantiana ("Runaway Train" potrebbe provenire ciuffciuffetttando direttamente da "Like a Rock" o "The Fire Inside"), certi lancinanti soli di sassofono che "Careless Whispers" a confronto vi sembrerà una roba dei Jane's Addiction (uno solo, in realtà: quello di "Something More"), confortevoli tastiere Alan-Parsons-iane (la altrettanto robustissima "The Highway"). "The Sea Inside" è una bitorzoluta crasi tra "Black Moon" di Emerson Lake & Palmer e "Kashmir" nella versione con Puff Daddy, mentre la cover di "Democracy" (Leonard Cohen, 1992) vi sembrerà una roba tipo degli U2 in mutande collocati nella hall di una sala massaggi tailandesi. Nonostante gli intenti ammirevoli, l'attenzione si affievolisce mano a mano che l'album digrada lentamente, giù, fino alla scialba "Glenn Song", dedicata al compiato Glenn Frey. (Alberto Calorosi)

(Capitol Records - 2017)
Voto: 63

http://www.bobseger.com/

Dan Auerbach - Waiting on a Song

#PER CHI AMA: Blues/Folk Rock
Più che lo sbandierato omaggio alla adottiva Nashville, dove D-A vivachia da quasi 10 anni al pari dell'intero nu-establishment musicale americano e di conseguenza mondiale, l'album sembra più una specie di caricatura lomografica di quel sunglass-folk californiano anni sessanta visto attraverso quegli occhialetti a raggi X per vedere le donne nude che avete sempre sognato di acquistare da bambini. Stiamo parlando praticamente dell'intero album, da "Waiting on a Song a "Show Me", insolitamente monotono e in questo senso, ammettiamolo, scarsamente auerbach/iano. Costituiscono (blanda) eccezione un paio di auerbaccanali disco-funky in Key musicale assolutamente Black ("Undertow" e "Malibu Man" che sarebbe una mocking song dedicata all'amico Rick Rubin - esiste forse qualcuno al mondo che non è amico di Richettone Dollarone?) e "Shine on Me", un misurato e astuto omaggio a certo roots disimpegnato anni '80 (cfr. il Tom Petty dei Travelling Wilburys) con tanto di ospitata celebre (un praticamente impercettibile Mark Knopfler), non a caso scelto come singolo trainante del dischetto. In un'intervista D-A racconta che la sua giornata tipo consiste nel preparare la colazione per la figlioletta e poi chiudersi in studio fino a sera. Non sorprende che il disco parlotti con discutibile ispirazione di quanto sia bello starsene lì ad aspettare che arrivi l'ispirazione ('Waiting on a Song') e di quanto scarsamente accessibile appaia il mondo esterno ("King of a One Horse Town", ma anche "Never in My Wildest Dreams"), specialmente guardandolo dalla finestra dello studio di registrazione. Ma il rock ahimé è dove è sempre stato, vale a dire là fuori, caro D-A. In bocca al lupo. (Alberto Calorosi)

(Easy Eye Sound - 2017)
Voto: 55

http://danauerbachmusic.com/

The Pit Tips - Best of 2019

Francesco Scarci

Borknagar - True North
Phlebotomized - Deformation of Humanity
Soldat Hans - Es Taut
Cult Of Luna - A Dawn To Fear
Ultar - Pantheon MMXIX

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Shadowsofthesun

Torche - Admission
Cave In - Final Transmission
Devin Townsend - Empath
Rammstein - Rammstein
Cattle Decapitation - Death Atlas
Tool - Fear Inoculum

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Alain González Artola

Firmament - Nightside Valkyres
Ringarë - Under Pale Moon
Grima - Will of Primordial
Midnight Odyssey - Biolume Part.1: In Tartarean Chains
Alcest - Spiritual Instinct

Life of Agony - Broken Valley

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Crossover/Alternative
I newyorkesi Life of Agony si sono lasciati e ripresi mille volte. Dopo lo scioglimento del 1999, sono tornati prima con un live album, registrato all’Irving Plaza di New York nel gennaio 2003 e poi con questo 'Broken Valley' nel 2005. Il disco, anticipato dal singolo "Love To Let You Down", contiene 12 tracce che ripartono là dove, nel 1997 con 'Soul Searching Sun', la band aveva mollato. E il tempo sembra essersi fermato a otto anni prima e che nulla abbia alla fine turbato il feeling instauratosi all’interno del quartetto guidato da Keith Caputo. Tra le mani ci si ritrova infatti un disco di sano hard rock contaminato dall’hardcore, egregiamente prodotto da Greg Fidelman (Jet, Slipknot), che ha segnato a mio avviso la consacrazione definitiva di una delle band più influenti nella storia di questo genere. Il loro ritorno fu contraddistinto anche dalla presenza della line up originale che rese celebre la band, nella scena di New York, negli anni ‘90. 'Broken Valley' non è però l'album violento che ci saremo aspettati, sembra molto più intimista, meditativo e intenso, con brani permeati di una sottile malinconia. I Life of Agony sono quindi in grado di farci emozionare con un sound talvolta ruvido ma sempre appassionante, intriso ancora di quel grunge che li contaminò durante gli anni ‘90: “Junk Sick” è infatti un omaggio agli Alice in Chains, “The Day He Died” è un pezzo in cui Keith parla della morte del padre, e insieme all’energica “The Calm that Disturbs You”, rappresentano forse i migliori pezzi di questo cd, un album in grado di offrire musica di alto spessore artistico. La splendida voce di Keith ci mostra poi il motivo per cui il singer abbandonò la band per intraprendere la carriera solista. La musica dei Life of Agony è in grado di dipingere un quadro decadente della società americana attraverso linee ed ombre trasportate in note dal quartetto di Brooklyn. (Francesco Scarci)

(Epic Records - 2005)
Voto: 76

https://www.facebook.com/lifeofagonyfamiglia/

Ritual Carnage - I, Infidel

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Death, Exodus, Slayer
Dalla terra del “Sol Levante” (ma con qualche contaminazione americana) ecco i Ritual Carnage, riesumati con il loro quarto e ultimo album (non si sa poi che fine abbiano fatto) partorito per la Osmose Prod. nel 2005. 'I, Infidel' è un 35 minuti di assalti frontali thrash/death di chiara matrice americana, stile Bay Area. C’è da dire subito che se questo lavoro fosse uscito sul finire degli anni ’80, avrebbe ricevuto larghi consensi, mentre vent'anni dopo, il sound proposto dai nostri, sembra abbastanza anacronistico. Dodici brani, per una durata media di tre minuti ciascuno, caratterizzati da una struttura quanto mai scontata: cavalcata thrash, coro, bridge, il classico tagliente assolo dei due chitarristi in pieno stile Exodus/Slayer e infine la chiusura con la ripresa della strofa iniziale. Cosa volete che vi dica di più, gli elementi tipici del genere ci sono tutti e costanti in ogni traccia. Posso solo aggiungere che i nostri sono abili nel maneggiare i loro strumenti, la produzione è buona, però ciò che più conta è che non siamo più nel 1987 quando usciva 'The Legacy' dei Testament. Da rivedere poi la voce, fastidiosa e castrata nelle sue tonalità più basse. I testi si occupano di problematiche sociali: guerra, religione e le altre piaghe che colpiscono il nostro pianeta; in “Room 101” ritroviamo anche riferimenti letterari a “1984” di George Orwell e altri richiami ad Edgar Allan Poe. Insomma, se ci fossero state, oltre alla perizia tecnica, anche le idee, forse non appiopperei a questi quattro ragazzi giapponesi (e all’americano di turno) questa stroncatura. (Francesco Scarci)

giovedì 23 gennaio 2020

Order of the Ebon Hand - VII: The Chariot

#PER CHI AMA: Hellenic Black
L'Attica, la culla della civiltà occidentale con la sua splendida Atene, luogo da cui emerse l'hellenic sound. Il quintetto degli Order of the Ebon Hand arriva proprio da là, forgiando il proprio sound laddove nacque quello di altre divinità greche quali Rotting Christ, Kawir, Thou Art Lord, Zemial, Necromantia, giusto per citarvene alcuni. La band di oggi si riaffaccia col terzo album, 'VII: The Chariot', fuori per la russa Satanath Records, dopo ben 14 anni dal secondo disco, 'XV: The Devil', sebbene nel mezzo siano usciti un paio di split. I pezzi per convincerci della bontà del lavoro di quest'oggi sono otto. L'album si apre con "Dreadnaught", un black mid-tempo che mi colpisce soprattutto in chiave solistica, visto un lungo assolo dai connotati heavy rock da stropicciarsi gli occhi. La song è poi ammantata da una sinistra aura occulta che rende più appetibile il dischetto. La seconda "Μόρες" è decisamente più tirata con un forte orientamento ad un black minimalista; quello che colpisce in questa traccia, oltre alla ferale architettura ritmica, sono delle limitatissime ma orchestrali tastiere di sottofondo che sembrano smorzare la furia incontrollata dei cinque ateniesi. Con "Wings" si prosegue sulla stessa lunghezza d'onda, con i classici suoni neri come la pece, fatti di taglienti melodie di chitarra (in stile Swedish black) e gracchianti vocalizzi. Peccato solo siano scomparse quelle chitarre classiche che mi avevano ben impressionato nell'opener. Si continua infatti a picchiare come forsennati anche nella successiva "Sabnock", song che vede la partecipazione alla voce, in veste di guest star, proprio del buon Sakis dei Rotting Christ, quasi a dare il proprio benestare al lavoro degli Order of the Ebon Hand; e la prova del frontman è come sempre indiscutibile. "Knight of Swords" parte più tranquilla con un arpeggio di un minutino a prepararci alla furia distruttiva di un brano di elevata intensità che mi porta a pensare "che mazzo deve farsi il batterista dei nostri". La grandinata prosegue anche in "Αίαντας" ma sarà cosi fino alla fine: in questa song compaiono delle sofferenti ed epiche voci parlate, mentre in "Bael" il ritmo si fa addirittura più furioso. "The Slow Death Walk" è l'ultimo episodio del disco caratterizzato da un riffing più trattenuto che si muove a braccetto con stralunati e quasi barocchi tocchi di tastiera che mi hanno evocato un'altra band greca, gli Hail Spirit Noir. Quello degli Order of the Ebon Hand è un gradito ritorno anche se un po' troppo derivativo. Speriamo solo che la band si levi un po' di ruggine di dosso e non ci faccia attendere altri tre lustri per un nuovo full length. (Francesco Scarci)

Laethora - March Of The Parasite

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death, Napalm Death, Hate Eternal
Se pensate che il solo fatto di avere tra le proprie fila Niklas Sundin dei Dark Tranquillity e alcuni membri dei The Provenance (band avantgarde svedese), significhi che il sound di questi Laethora possa stare a metà strada tra le due band sopra citate, beh vi sbagliate di grosso. Infatti, per chi non conoscesse la band di Gotheborg, i nostri suonano un death abbastanza feroce ed ispirato più al brutal americano che allo swedish death. Le dieci tracce di 'March of the Parasite', debut album del 2007, partono subito forte con chitarre al fulmicotone, ritmiche violentissime, iper blast-beat e growling vocals, di chiara matrice americana, con fonte d’ispirazione inequivocabile il sound di Morbid Angel e Hate Eternal. La prima sorpresa giunge però alla quinta traccia, “Black Void Remembrance”, dove in mezzo allo scatenarsi del putiferio, spuntano all’improvviso clean vocals (stile Katatonia) a spezzare, per un attimo, il ritmo infernale imposto dal quintetto svedese. Con la successiva “Repulsive”, si rendono chiare altre influenze che lì per lì, mi erano sfuggite nei primi brani, ossia un chiaro riferimento al sound dei Napalm Death (periodo 'Utopia Banished'). In “The Scum of Us All” il ritmo indiavolato dei nostri rallenta di brutto, a livelli quasi doom claustrofobici, per poi ripartire a pestare con la successiva “Y.M.B.”. Chiaramente, non siamo di fronte a nessun tipo di innovazione in campo estremo, tuttavia 'March of the Parasite' rappresentò una bella boccata d’aria fresca in un periodo abbastanza stantio per la scena estrema di metà anni 2000. (Francesco Scarci)

(Osmose Productions - 2007)
Voto: 73

https://www.reverbnation.com/laethora

Mithras - Behind The Shadows Lie Madness

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Atmospheric Brutal Death, Akercoke, Morbid Angel
Nel 2007, dopo quattro anni di silenzio in cui avevo temuto il peggio pensando che la band si fosse sciolta, sono tornati sulle scene gli inglesi Mithras e il loro brutal death chiaramente influenzato da Morbid Angel e Nile, ma personalizzato da inusuali clean vocals e stralunate soluzioni chitarristiche. La base di partenza dell'allora duo di Rugby è sempre il brutal death “made in USA” ma arricchito, come di consueto - e questo rappresenta la loro forza - da eclettici e complessi arrangiamenti ed evocative parti atmosferico-spaziali, che da sempre mi fanno apprezzare la band. Le dodici tracce di 'Behind the Shadows Lie Madness' vi fanno sussultare dalla sedia, per la violenza e l’intensità profusa dagli strumenti di questi due impavidi musicisti. Mastodontici suoni di chitarra massacreranno di certo i vostri timpani, mentre velocità disumane, dettate dalle furiose ritmiche e dai veloci blast-beat, segneranno il tempo per un frenetico headbanging. Growling vocals, magnifici e tecnici assoli, ammalianti inserti tastieristici, completeranno un lavoro maturo e complesso, per cui valse la pena attendere così tanto tempo. La divinità solare è ha colpito ancora col proprio atmosferico brutal extreme metal. (Francesco Scarci)

lunedì 20 gennaio 2020

Vofa - S/t

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Evoken
Tre sole tracce (di dodici minuti ciascuna) sono sufficienti per gli islandesi Vofa per farci sprofondare nel loro sound cupo e deprimente. "I", "II" e "III" sono i titoli delle suddette song che faranno la gioia sicuramente di tutti coloro che amano il funeral doom nella sua accezione più viscerale ed atmosferica. Gli ingredienti del genere ci sono ovviamente tutti e non possiamo certo parlare di quale miracolo musicale o quant'altro però in una serata in cui la nebbia scivola sinistra attraverso le vie della mia città, una proposta cosi spettrale ci calza giusto a pennello. Le melodie sono dissonanti e stritolanti quasi ci si trovi tra le spire di un serpente a sonagli. La voce cavernosa del frontman è bella arcigna e ben ci sta su quel tappeto ritmico altrettanto aspro e al contempo indolente. Questo per dire che l'ascolto del debut album di questi misteriosi Vofa, band formatasi in Islanda in un non meglio specificato luogo, non è proprio la più facile delle release a cui accostarsi. Le tre tracce sono tutte accumunate dalle medesime caratteristiche strutturali, con una musicalità asfissiante che colpisce ai fianchi fino a farci barcollare, in una vena che può ricordare gli Evoken o gli altrettanto misteriosi EA. Nella seconda traccia sottolineerei la presenza di un cantato pulito spettrale che si affianca al growling ed un lavoro alla batteria quasi tribale che caratterizza il sound dei nostri. La terza track, a parte presentare un intro ambientale, poi si muove sulle medesime coordinate stilistiche, ossia a rallentatore, anche se a metà brano, la proposta sembra movimentarsi un po' di più e con delle voci demoniache a supporto. Insomma, avrete capito che quello dei Vofa non è proprio un album per tutti, quindi la raccomandazione è quella di avvicinarsi con cautela a questo caustico maelstrom sonoro. (Francesco Scarci)