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sabato 12 ottobre 2019

Acid Brains - As Soon as Possible

#PER CHI AMA: Grunge/Punk Rock
Gli Acid Brains sono una storica band toscana, formatasi addirittura nel 1997 e dedita ad un alternative-punk rock, che torna a farsi largo sulla scena con questo nuovo sesto album dal titolo ben chiaro, 'As Soon as Possible'. Appena possibile quindi date un ascolto a questo lavoro che si muove dall'ipnotica opening track, "Our Future", giocata su profonde partiture di basso e voce, a cui segue una bella e potente linea di chitarra. Con "Go Back to Sleep", le carte sul tavolo si sparigliano e si torna a parlare di un classico punk rock, orecchiabile e canticchiabile quanto basta per farci venire voglia di saltare e urlare come pazzi, proprio come lo sguaiato urlo che il frontman riversa verso la fine del pezzo, mentre le ritmiche corrono arrembanti e ci conducono con furia a "Sinners". Il motivetto di chitarra e voce iniziali entrano nella testa e da li non se ne escono grazie a quella graziata ritmica che contraddistingue la song. Suoni leggeri che sfiorano addirittura la psichedelia in "Really Scared", un pezzo che mostra un'apertura quasi di scuola floydiana, prima che la song s'incanali in una linea melodica più lineare rispetto alle precedenti, sicuramente più seriosa e meno scanzonata, quasi a dire che gli Acid Brains vanno presi sul serio. Ma l'eterogeneità è parte del DNA dei nostri e allora in "Not Anymore", eccoli proporre un sound decisamente più roccioso e grunge oriented (penso ai Nirvana più rozzi e cattivi), e non a caso questa sarà anche la mia song preferita del lotto. C'è tempo ancora per un paio di canzoni cantate questa volta in italiano, "Capirai" e "Canzone di Settembre": la prima, nonostante il riffing bello compatto che chiama in causa i System of a Down, perde potenza quando si palesa il cantato in italiano. La seconda, è un esempio di pop rock che ho fatto più fatica a digerire, cosi lontana dai miei canoni sonori, ma ci sta considerata appunto l'ecletticità degli Acid Brains. Discreto ritorno, peccato solo che la durata del cd sia piuttosto risicata, avrei optato almeno per un paio di pezzi in più. (Francesco Scarci)

Solitude in Apathy - S/t

#PER CHI AMA: Dark/New Wave/Gothic
I Solitude in Apathy sono un trio campano formatosi nel 2016 e guidato dalla calda voce di Santina Vasaturo, la cui avvenenza vocale funge da vero driver di questo lavoro omonimo. Si tratta di un EP di quattro pezzi aperti da "Dreaming in Silence", ove a mettersi in mostra, oltre ai tratti vocali della front woman, ci sono pure le partiture post punk/new wave del combo napoletano. Il sound è fumoso e ci porta indietro nel tempo di quasi trent'anni, con quegli ammiccamenti alla scena dark di fine anni '80, affidati al basso tortuoso della stessa Santina ed in generale ad un suono che proprio limpidissimo non è. Ma dopo tutto, sembra non essere nemmeno un difetto nell'economia generale di questi 22 minuti di musica targata Solitude in Apathy. Soprattutto perchè, con la seconda "Nothing Lasts Forever", i nostri virano verso uno shoegaze più meditativo e fortemente malinconico, la classica song atta ad aprire la stagione autunnale, con l'appassire delle foglie, le umide giornate novembrine, i vetri delle finestre bagnati dalla condensa e quei cieli dipinti di un grigio privo di sfumature. È un sound delicato, non certo ricercato, ma che gode di influenze che ci portano anche della sfera del gothic e dell'alternative. "The Other" è la terza traccia, peraltro anche singolo apripista dei nostri: la voce eterea della vocalist poggia suadente in apertura sul suo basso, ricordando le cose più solenni e tranquille di Myrkur (in formato new wave), cosi come un che dei primi vagiti di Kari Rueslåtten, alla guida dei primi The 3rd and the Mortal. Niente di originale sia chiaro, tuttavia non posso negare il fatto che il brano sia comunque piacevole da ascoltare, anche se francamente avrei osato qualcosina in più. L'ultima song è "Ocean", l'ultimo onirico canto della sirena Santina, in una sorta di ninna nanna che avrei utilizzato come chiusura di un full length piuttosto che di un EP. Avrei gradito infatti più ciccia ecco, i due minuti di flebile chitarra sul finale sono un po' pochini per farmi gridare al miracolo. Pertanto, sappiate che attenderò il trio italico al varco di un album più lungo e strutturato prima di dare giudizi conclusivi. Per ora benino, ma si sa, io pretendo il molto bene. (Francesco Scarci)

(Vipchoyo Sound Factory - 2019)
Voto: 66

https://solitudeinapathy.bandcamp.com/releases

Lucy Kruger and the Lost Boys - Sleeping Tapes for Some Girls

#PER CHI AMA: Psych Folk
Il paesaggio rimane immobile, tutto rimane immobile, luminoso, splendente e riflessivo, dopo l'ascolto di questo album edito dalla Unique Records. Tocchi leggeri di chitarra a scandire melodie astrali di una voce incantevole, ritmi leggeri, eterei, appena accennati per introdurre arie di magica seduzione e ipnotica malinconia. Solo così si può spiegare la seconda uscita, 'Sleeping Tapes For Some Girls', di questo splendido progetto della songwriter Lucy Kruger (già voce degli ottimi Medicine Boy) proveniente da Cape Town ma berlinese per la gestazione della sue opere sonore, che suona come Hugo Race & The True Spirit a rallentatore, rievocando la candida psichedelia folk e blues degli Opal, dei primi Low e le atmosfere evanescenti di certi Slowdive (epoca 'Souvlaki') virati al folk con la struggente malinconia acustica dei Cranes più delicati e se non possiamo premiarli col voto massimo all'originalità, poiché il genere intrapreso è ferreo nelle sue caratteristiche estetiche, li premieremo per l'implacabile bellezza di cristallo della Kruger, che in "Digging a Hole" stringe alleanze niente meno che con l'inarrivabile voce della mitica Nico. Brano dopo brano ci si addentra in un universo intimo ed introspettivo, la splendida "Half of a Woman" potrebbe far impallidire o svanire i brani dell'ultimo album di Florence and the Machine, per intensità e profondità espressiva. Il freddo del nord s'impossessa della chiave più intima del caldo verbo folk e sfodera gioielli di raffinata e rara bellezza, come "Cotton Clouds", una canzone così immobile, glaciale e sospesa in aria tanto irreale quanto magnifica. Ecco, da qui in poi il disco, che gode di una sonorità encomiabile, snocciola un gioiello dopo l'altro, accompagnando l'ascoltatore verso la conclusione, con una mistica sensualità destabilizzante, tra rituali e canti dal sapore antico e sciamanico, visioni di paesaggi sconfinati e irraggiungibili, tra Sharron Kraus e gli Hagalaz Runedance in salsa "All Tomorrow's Party (The color of Dirt)", un viaggio incredibile verso il mondo interiore, ove aprire il proprio cuore per aprire la mente attraverso le cerebrali composizioni di questa fantastica cantautrice, dalla spettacolare voce magnetica e seduttiva. (Bob Stoner)

venerdì 11 ottobre 2019

Late Night Venture - Subcosmos

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Ufomammut, Type O Negative
Strano ma vero, la Czar of Crickets Productions ha deciso di varcare i confini nazionali, selezionando una nuova band da inserire nel proprio rooster, andando a pescare in Danimarca. Si avete letto bene, l'intransigente etichetta elvetica si è spinta in nord Europa per selezionare questi Late Night Venture, un quintetto originario di Hovedstaden, che con 'Subcosmos' arriva al traguardo del quarto album (in discografia anche un paio di EP), il terzo peraltro a chiudere una trilogia cosmica sul genere umano, la vita e l'universo. Il genere proposto dai nostri si affida ad un post metal oscuro e asfittico, ma assai melodico, che acchiappa sin dalle note iniziali dell'opener "Fram From the Light", un brano intenso, pesante, ipnotico, in cui ampio risalto viene affidato agli strumenti, un po' meno alla possente e sbraitante voce dei due frontman. Con "Bloodline", la seconda traccia, la marzialità del brano si fa più urgente, con un effetto senza dubbio vincente, e che richiama per certi versi i Cult of Luna. Ma il ventaglio di influenze dei nostri non si ferma ai gods svedesi, va esteso anche ai Neurosis, a cui i nostri strizzeranno l'occhiolino a più riprese nel corso del disco. Il risultato è davvero buono, avendomi spinto ad andare a spulciare la vecchia discografia della band danese per saperne un pochino di più dei nostri che sono riusciti a toccare le mie corde. Poi quando "2630" (per la cronaca, il CAP del sobborgo di Høje-Taastrup dove due dei membri della band sono cresciuti) prende forma nel mio stereo, ecco che si materializza anche lo spettro dei Type O Negative grazie ad un sound doomeggiante e ad una voce baritonale in stile Peter Steele (pace all'anima sua). Ma la song riserva ancora qualche sorpresa grazie a delle contaminazioni elettroniche che si scorgono in background e ad una esaltante frazione conclusiva, all'insegna di un crescendo ritmico da paura. Sempre più interessanti. E l'oscurità va ingurgitandosi ogni forma di luce con la criptica "Desolate Shelter", una song semi-strumentale davvero angosciante che pesca ancora a piene mani da un post metal contaminato da psichedelia, doom e sludge. Il disco, cosi permeato di influenze techno-cibernetiche (penso all'inizio della title track), è una sorta di insano viaggio distopico nella società malata. "No One Fought You" ha un inizio sognante: le influenze di scuola Isis/Cult of Luna si palesano quando l'apparato ritmico va ad ingigantirsi, ma francamente risulta comunque gradevole assaporare la proposta peculiare del combo danese. L'ultima lunga song, "No Burning Ground", ci consegna altri 10 estasianti e cosmici minuti di questo 'Subcosmos', un disco che vede man mano svelare altre più celate influenze, che citano anche Celtic Frost, Yob e Ufomammut, soprattutto nell'epilogo quasi stoner dell'ultima traccia. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets Productions - 2019)
Voto: 77

https://www.facebook.com/latenightventure/

Maïeutiste - Veritas

#PER CHI AMA: Prog Death/Black, primi Opeth
Non sono passati otto anni dal precedente lavoro, ma quattro, eppure ho rischiato fortemente di dimenticarmi di questo ensemble transalpino che avevo positivamente recensito nel 2015. I Maïeutiste tornano col loro secondo album, 'Veritas', mantenendosi fedeli alla label Les Acteurs de L’Ombre Productions ma non troppo al sound claustrofobico che ne aveva caratterizzato il debut omonimo. Quando "Veritas I" emerge infatti dal mio stereo, rimango piacevolmente stupito dalla freschezza e da una maggior ariosità nel sound dei nostri, con un black/death pur sempre violento ma con una dose di epica e solenne melodia di fondo ben più importante ed una ecletticità, la solita direi, con cui il collettivo (otto strumentisti, tra cui sax, violino, viola e violoncello) sembra sentirsi molto più a proprio agio. E noi, come sempre, non possiamo che goderne appieno, respirando a pieni polmoni e ad orecchie completamente stappate, la nuova brillante creatura della compagine di Saint-Étienne. Accanto alle atmosfere ariose dell'opener (con tanto di break acustico centrale), si ritrovano quelle più oscure, ma viranti completamente ad un prog rock di scuola Opeth, della seconda strabiliante "Infinitus", un pezzo da leccarsi i baffi, per quella sua aurea oscura contrappuntata ancora da intermezzi acustici, per il dualismo vocale tra black/growl e clean vocals del frontman, ma in generale, per un approccio votato ad un death progressive assai ricercato che vede i suoi riferimenti nel periodo centrale della band di Mikael Åkerfeldt e soci. State a vedere che abbiamo trovato veramente gli eredi morali dei gods svedesi? Non ne sarei tanto cosi sicuro a dire il vero, conoscendo questi folli francesi, sono quasi certo che nel corso dell'ascolto di 'Veritas' ne sentiremo ancora di tutti i colori. Fatto sta che le prime due tracce sono delle vere bombe che rischiano di veder salire vertiginosamente i Maïeutiste in cima alle mie preferenze di questo 2019. Un breve intermezzo sinfonico, "Suspiramus", ed è la volta di "Universum", un brano ben più ritmato e nervoso nel suo minaccioso incedere, complicato e contorto, ostico quel che basta per spingerci ad una maggiore attenzione nell'ascolto, prima che i nostri decidano di rilassarsi, mollare gli ormeggi e lasciarsi andare in splendide fughe chitarristiche. Rimangono soli due pezzi, "Vocat" e "Veritas II", per una maratona ancora lunga trenta minuti, fatta di suoni intricati, deliranti, obliqui ma intriganti, che vedono la band spingersi in territori più estremi ma dalle atmosfere decisamente più plumbee, in cui le clean vocals riescono a mitigare la durezza di un impianto ritmico dalle tinte fosche, soprattutto nella lunga e lenta seconda parte di "Vocat", quasi del tutto strumentale, prima di un esplosivo epilogo finale. L'inizio di "Veritas II" richiama alla memoria ancora una volta gli Opeth, con i classici arpeggi iniziali di album quali 'Still Life' o 'Blackwater Park'; poi è una furente aggressione black che si stoppa improvvisamente al quarto minuto per lasciare la parola al vento e ad un silenzio che si protrae per oltre otto minuti (di cui avrei fatto a meno perchè interrompe quell'inebriante percorso emotivo intrapreso) fino all'assurdo finale onirico. Gran bell'album, non c'è che dire, che si candida alla mia personale top 3 dell'anno. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions - 2019)
Voto: 84

https://maieutiste.bandcamp.com/releases

martedì 8 ottobre 2019

Daniele Brusaschetto - Flying Stag

#PER CHI AMA: Inustrial/Thrash, Voivod, Godflesh, Fear Factory
Daniele Brusaschetto vive la scena underground da ormai trent’anni e già questo dato dovrebbe bastare a dare un’idea della sua passione per la musica. Rendiamoci conto: tre decadi spese a comporre, provare, riprovare, comprare strumentazione, cercare live, gestire “contatti” (come dicono Sick Boy in 'Trainspotting', i pusher in generale e noi spacciatori di musica brutta nello specifico) che non rispondono mai, litigare coi fonici e con lo spazio sempre insufficiente del bagagliaio dell’auto, girovagare per studi di registrazione e locali. Insomma, una vita di sacrifici (tanti) e soddisfazioni (qualcuna). Non so voi, ma se all’inizio della mia carriera musicale (sigh!) mi avessero chiesto “Come ti vedi tra trent’anni?” io avrei citato (e citerei tuttora) Palahniuk: “Morto”. Daniele invece non si è mai perso d’animo: dopo tutto questo tempo e malgrado tutte le difficoltà, continua a comporre e suonare, ed è grazie a questa determinazione che è arrivato a festeggiare i venticinque anni del proprio progetto solista con il dodicesimo (sì, avete letto bene, 12) album in studio intitolato 'Flying Stag'. Dopo aver saggiato le varie possibilità di un rock elettronico caratterizzato da una vena profondamente cantautorale, minimale ed intimista, il musicista torinese sceglie di tornare alle proprie radici spiccatamente metal, confezionando un album molto più istintivo e rabbioso, quasi a voler celebrare una seconda giovinezza e dare sfogo a sentimenti a cui solo l’irruenza di un sound abrasivo può dare forma. Ecco quindi che in 'Flying Stag', i riff estremi della chitarra distorta accompagnata solo dal cantato pulito, talvolta in growl dello stesso Brusaschetto e dalle puntuali ritmiche di batteria dell’ottimo Andrea Marietta, si prendono tutta la scena, dando vita ad un graffiante lavoro in cui riecheggiano il thrash metal cerebrale dei Voivod, la furia contaminata dei Fear Factory e le destrutturazioni rumoristiche dei Godflesh. Posso solo fare ipotesi sul concetto che sta dietro a questo disco: i cervi volanti del titolo e il triste sole della copertina, stilizzato come lo disegnerebbe un bambino, parlano di chimere ed illusioni, così come i testi delle canzoni trasudano esistenzialismo e critica verso la routine quotidiana imposta da una società alienata ed infelice, impegnata nel perenne inseguimento di traguardi effimeri. Daniele Brusaschetto introduce l’ascoltatore nella sua personale mostra delle atrocità con “Otherwhere”, una sorta di rollercoaster di fraseggi dissonanti che corre tra disturbate visioni oniriche e risvegli in una realtà dai contorni da incubo e prosegue con il vorticoso thrash di “Stag Beetle”, lucida riflessione sulla futilità delle ossessioni contemporanee (“The world has always been more or less the same, big fish eats small fish, we are as we are, we are an alms dish”, “Desires are a world that does not exist”). Ascoltare la pachidermica “Splattering Purple” e la velocissima “The Unreal Skyline” è come sfrecciare in auto tra squallide periferie metropolitane ed inquinati siti industriali in abbandono, mentre appare più introspettiva per contenuti la non meno irruenta e voivodiana “Like When It’s Raining”. Dopo la furibonda cavalcata dall’inequivocabile interpretazione di “Fanculo Mondo”, il disco arriva alla chiusura con la crepuscolare “From the Tight Angle”, una cruda riflessione su come molti prevarichino il prossimo nella sola speranza di apparire più forti e non trovarsi a ricoprire il ruolo di vittima. Uscito grazie all’impegno di etichette indipendenti (Wallace Records, Bandageman Records, Bosco Records e Solchi Sperimentali Discografici), registrato e mixato da una colonna portante dell’underground torinese come Dano Battocchio e masterizzato dallo studio americano Audiosiege, 'Flying Stag' è un album robusto ed essenziale, perfetta sintesi del lunghissimo percorso compiuto da Daniele Brusaschetto, un percorso che sembra averlo riportato al punto di partenza: non è stato un viaggio a vuoto però, perché il musicista mostra una consapevolezza nuova unita all’energia di quel ragazzino che trent’anni fa si sarà sentito chiedere “Come ti vedi tra trent’anni?”. La risposta oggi dovrebbe essere: “Più vivo che mai”. (Shadowsofthesun)

(Wallace/Bandageman/Bosco Rec/Solchi Sperimentali Discografici - 2019)
Voto: 74

http://www.danielebrusaschetto.net/

Into the Moat - The Design

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, Pestilence, Atheist
Gli Into the Moat sono un quintetto di Ft. Lauderdale nato nel 2001 che, dopo aver dato alle stampe nel 2003 ad un EP, hanno registrato presso i Mana Studios di Eric Rutan (Hate Eternal), questo 'The Design'. La musica è un death metal ultra tecnico che si rifà ai mostri sacri del genere, gli ahimè mai troppo compianti Death, Atheist, Pestilence e Cynic, reinterpretandoli però in modo asettico e asfittico. Mentre le band suddette riuscivano, infatti, a trasmettere emozioni forti attraverso un feeling speciale che si instaurava con l’ascoltatore, gli Into the Moat risultano freddi e poco coinvolgenti. Dal punto di vista tecnico la band americana, la cui età media si aggirava all'epoca sui vent’anni, è superlativa: le chitarre tessono trame intricatissime, la batteria è al limite del disumano e la voce si assesta su livelli buoni. È però tutto il complesso che alla fine ne esce penalizzato. Nonostante le idee non siano niente male, il tutto appare come un esercizio di tecnica fine a se stesso dove lo scopo è quello di stupire l’ascoltatore con trovate sempre nuove e originali che, in realtà, alla fine hanno il solo effetto di disorientarci. Fortunatamente questo 'The Design' non dura neppure tanto, però vi garantisco che, per arrivare al termine dei 33 minuti complessivi, è stata una vera faticaccia. Per concludere, i nostri hanno sì svolto il loro compitino raggiungendo la sufficienza risicata, troppo poco però per potermi emozionare ancora come ai bei tempi, quando Chuck Schuldiner e soci dominavano il mondo. (Francesco Scarci)

Uivo Bastardo - Clepsydra

#PER CHI AMA: Death Melodico/Industrial, Supuration
Uivo Bastardo è un progetto parallelo creato da ex membri dei Kronos, Helder Raposo e André Louro, rispettivamente tastiere e voce, il chitarrista João Tiago, e dal produttore, qui anche in veste di batterista stabile in formazione, David Jerónimo (Concealment). Uscito per Ethereal Sound Works nella primavera di quest'anno, 'Clepsydra' è un buon concentrato di metal pesante dalle forti influenze industriali, forzate in ottima maniera da un uso delle tastiere mirato e ricercato, così influente nel sound che arriva a caratterizzarlo positivamente, costruendo insieme al resto della band, composizioni ben strutturate e potenti. Le parti vocali sono molto spinte, quasi sempre urlate e sparate in faccia violentemente, l'impatto è duro e ricorda certe parti gotiche dei Paradise Lost della prima era anche se le ritmiche più squadrate e gli inserti melodici, futuristici, a volte sinfonici, donano ai brani quel tocco tecnologico, claustrofobico, fantascientifico e progressivo che attrae molto l'ascoltatore. Si fatica un po' ad apprezzare la lingua madre del cantato usata dalla band di Lisbona ma dopo alcuni ascolti ci si accorge che le canzoni suonano perfette anche così, ben prodotte, suonate bene, con una buona dose di originalità e mostrano un buon equilibrio tra gothic/industrial e melodic death metal, trovando il suo culmine nella pesante dichiarazione d'intenti di "Tormentòrio", in "Refùgio", brano teso e claustrofobico (il mio preferito) e in "Fuga Mundi", song dai toni bui e drammatici. Le canzoni si ascoltano bene e la durata del disco, che supera di poco la mezz'ora, sottolinea l'intensità e l'urgenza espressiva di un'opera che trae ispirazione dai padri del thrash metal anni '90 e da quelle atmosfere progressive, ricercate e cervellotiche in stile 'The Cube' dei mitici Supuration. Un disco che convince, mai banale e senza cadute, né di stile tanto meno di intensità, il tempo di abituarsi al canto in portoghese e tutto suona poi al punto giusto, belle parti veloci, mai troppo caotiche. Infatti, una delle caratteristiche della band è proprio la capacità di restare aggressivi, pesanti, melodici e tesi costantemente per tutto lo scorrere dell'album, dimostrando di avere trovato la chiave per un suono singolare ed in continua evoluzione. In sostanza un ottimo primo album, una band che ha carattere e la voglia di rinvigorire un tipo di metal abusato, anche in senso commerciale, da tante band prive di idee e talento. Ascolto consigliato! (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 74

https://uivobastardo.bandcamp.com/

domenica 6 ottobre 2019

Wall Of Sleep - Slow But Not Dead

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Doom, Black Sabbath, Pentagram
Anche l’Ungheria ha i suoi “Black Sabbath”, capitanati dall’Ozzy Osbourne locale, Gabor Holdampf, responsabile delle vocals di questo disco uscito ormai nel 2004. Sto parlando dei Wall Of Sleep, compagine formatasi nel dicembre 2001 dalle ceneri dei Mood, la prima vera doom metal band ungherese, autrice di ben quattro album a cavallo degli anni ‘90. Nonostante sia stato registrato nel 2003 e di certo non sia stato agevolato da una buona distribuzione internazionale, fatta da piccole etichette indipendenti, 'Slow But Not Dead' rappresenta il primo full length di sei (l'ultimo uscito nel 2018) realizzato dalla band, dopo l’EP uscito nel 2003, 'Overlook the All' (fuori sempre per la PsycheDOOMelic Records). La musica che i cinque magiari propongono ormai l’avrete già intuita: un doom in pieno stile Black Sabbath con delle vocals degne del miglior Ozzy. Nel corso dei pezzi, vi è un uso piacevole delle chitarre acustiche, delle percussioni, talvolta tribali, e delle tastiere in mezzo a dei mastodontici ed oscuri riff di chitarra. La musica del “Muro del Sonno” paga sicuramente un grosso tributo al complesso di Iommi e soci, che ha scritto la storia di questo genere, ma l’offerta del quintetto ungherese farà la gioia anche di chi adora Pentagram, Trouble, Candlemass o Cathedral. I Wall Of Sleep riprendono il sound tipico del doom cercando di aggiungere elementi heavy, rock e dark per creare deliziose atmosfere in perfetto stile anni ’70. L’album sfoggia poi influenze blues, udibili in un paio d’occasioni, cosi come pure riprende, in taluni frangenti, l’attitudine ruvida di un certo punk rock di fine anni settanta e la coniuga sapientemente con l’hardcore. Pur non essendo un grande amante del genere, ho trovato interessante avvicinarmi ad un gruppo di questo tipo, soprattutto per la loro tendenza a non ripetere pedissequamente gli insegnamenti dei maestri, ma anzi ricercando soluzioni innovative e nuove melodie. (Francesco Scarci)

(PsycheDOOMelic Records - 2004)
Voto: 68

https://www.facebook.com/wallofsleep

Praise the Plague - Antagonist II

#PER CHI AMA: Black Doom, Dissection
A cadenza annuale, tornano i germanici Praise the Plague: era infatti settembre 2018 quando uscì 'Antagonist', l'EP d'esordio della band di Berlino e settembre 2019 vede i nostri tornare con 'Antagonist II', un secondo EP che prosegue sulla scia di quel blackened doom che era stato discretamente apprezzato dalla critica lo scorso anno. Inizio col dire che non vedo/sento grosse differenze con il vecchio lavoro, se non a livello di produzione qui molto più bombastica e che finalmente conferisce maggior risalto a livello di malvagità proposta. Due sole tracce però a disposizione per questo vinile 12" in uscita per la Argonauta. Ecco, mi sarei aspettato qualcosa in più che questa pillola malefica di black che poco si sposa mi pare con il resto del rooster della label nostrana. Comunque sia, "Torment", la prima traccia del lavoro, si apre con il grido del vocalist Robert a cui si accoda la ritmica tagliente in stile Dissection. E proprio il glaciale black svedese credo che rappresenti la fonte di ispirazione per i nostri almeno nelle parti più tirate, questo perchè i nostri tendono a rallentare impietosamente il proprio sound quando si spostando nel versante doomish, creando atmosfere vertiginose interrotte dalle classiche sferzate black. E la bufera annichilente prosegue anche nella seconda "Woe", un pezzo forse più oscuro del lato A del vinile, visto l'incipit che puzza di mefitico e putrefatto funeral doom, con le oscure grim vocals ad ergersi su una ritmica lenta ed opprimente che non concede troppo spazio alla melodia, sia chiaro. È solo a metà brano che le sanguinose e gelide chitarre tornano a soffiare nella loro impetuosa insania. La seconda parte del brano invece sembra ammiccare ad un sludge/post-metal che aumenta il mio interesse per l'ensemble teutonico. Ora sia chiaro, mi aspetto una release più strutturata per meglio giudicare la proposta dei Praise the Plague che per ora si devono accontentare di questo mio voto cosi risicato. (Francesco Scarci)

Rev Rev Rev - Kykeon

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative
I Rev Rev Rev sono una di quelle band difficilmente etichettabili che passano dallo shoegaze all’industrial e alla dark wave, passando per vocalizzi eterei, spigolose dissonanze e molto molto rumore. Una prova convincente questo 'Kykeon', meditativo, denso e completo, all’ascolto godibile e mai scontato, con un’energia trascinante e delle atmosfere personali e accattivanti. “Waiting for Gödel” apre il disco con bordate di rumore guidate da una ritmica marziale e concisa; il rumore poi continua, non ci sono giri distinguibili ma solamente una coltre di suono droneggiante. Sembra di sentire il rumore di una fabbrica immensa dove si producono robot senzienti e assetati di conoscenza e di conquista, un esercito di latta che avanza lentamente ma inesorabilmente e che si insinua in ogni angolo del pianeta. Segue “Clutching the Blade” con i suoi scenari abrasivi e ruvidi, i suoi riff davvero bizzarri, quasi psicopatici, ancora più rumore ancora più lame che tagliano carne, terra e pietra. Degna di nota la parte dove la canzone lascia spazio al rumore, come se fosse in realtà il rumore la canzone e tutto il resto di contorno. Tuttavia nulla urta l’orecchio anzi, le frequenze penetrano insistentemente nel cervello annullando ogni altro pensiero. Anche in “3 Not 3” il pattern è lo stesso, solamente in questo pezzo la voce prende quasi un significato salvifico dal noise macabro ed inarrestabile, l’unica àncora di salvezza in un mare di ignoto ostile che tutto inghiotte. I Rev Rev Rev sono in grado, attraverso gli arrangiamenti finemente pensati e realizzati a regola d’arte, di far stare in piedi i pezzi in modo efficace ed originale; la commistione di dark wave, rumore e voci decadenti non è di certo cosa nuova, ma il modo in cui il quartetto di Modena lo propone è qualcosa di assolutamente personale e unico. A volte mi sembra addirittura di sentire qualche eco lontano dei Black Sabbath, saranno i riff demoniaci, la ripetitività delle parti, non saprei, ma qualcosa mi riporta alla mente anche lo stoner e generi di musica decisamente più estrema, ma come dicevamo, la band non può essere efficacemente relegata in un solo ambito musicale. Ascoltare tutto 'Kykeon' è un’esperienza mistica e totalmente immersiva, il flusso è continuo e denso e non molla mai, inoltre il potenziale pubblico è davvero ampio, mi sento di consigliare infatti questo disco a chiunque abbia voglia di sentire qualcosa di energetico, intenso, rumoroso ma allo stesso tempo leggero, ciclico e orecchiabile, al di là delle etichette di genere, al di là delle etichette in genere. (Matteo Baldi)

giovedì 3 ottobre 2019

Deviate Damaen - In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!

#PER CHI AMA: Avantgarde/Experimental
Con la consueta trasversale genialità, la storica band capitolina rivendica il trono del tempio italico dell'avanguardia metal con un'opera maestosa e inimitabile, poiché da sempre, i Deviate Damaen possono vantarsi di avere uno stile unico, personalissimo, intelligente ed estremo. La novità in questo nuovo 'In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!' (in uscita ad ottobre via Masked Dead Records/Vomit Arcanus Productions/Dvra Crvx), a differenza dell'ottimo predecessore, 'Retro-Marsch Kiss', è la presenza di brani molto più lunghi ed ispirati alla miglior scena doom/black internazionale, quel palcoscenico dove il metal ed il gothic si fondono in un suono ancestrale, diabolico ed eterno che, se messo nelle mani di G/Ab con la collaborazione di D.EVIL 99, assume una forma teatrale spettacolare, profetica e profanatrice, a cui è impossibile resistere. Tutti i suoni e i rumori di sottofondo dell'album sono catturati in ogni dove ed in ogni posto manualmente; la poesia dei testi ed il recitato, il parlato ed il cantato, growl, scream o lirico che sia, in lingua italiana (o addirittura tedesca, come in "Sacre Gesta") cavalcano l'onda metallica. L'ispirazione, tratta dalle visite alla cattedrale di Ratisbona, negli eremi di san Venanzio e di Preci, i canti ecclesiastici, il sarcasmo, i temi oscuri trattati, i rimandi all'odierno panorama politico nazionale, la difesa ad oltranza e l'accusa di decadenza senza fine dell'occidente, la visione gnostica del Lucifero figlio della luce e della saggezza, vero portatore di redenzione, Carlo Magno, la lussuria, l'amore per l'estetica guerriera, la rivendicazione di una Romanitas dimenticata, gli attacchi al clero e la ricerca di un diretto e più reale rapporto tra Dio e l'Uomo, rendono quest'album una meraviglia assoluta, che probabilmente supera in qualità e bellezza gli altri lavori fin qui presentati dalla band nostrana. Musicalmente, come già accennato sopra, ci si aggira intorno ad un doom/black metal, suonato a dovere, con una produzione ricercata e minuziosa, di stampo teatrale, sinfonico ed apocalittico. Brano dopo brano, ci si immerge in un articolato film noir, psicologico ed ostile, dove amare verità ci vengono sbattute in faccia senza alcuna remora. Le composizioni si confermano anche in questo capitolo assai variegate, pur restando sempre all'interno del genere, assestandosi su minutaggi di media o lunga durata. Una traccia in particolare si eleva poi per eleganza e paradisiaca bellezza, ed è l'insuperabile brano intitolato "Aspetterò L'Altrove", un'inaspettata composizione romantica e spettrale, dalle tinte fosche e gotiche con fughe sonore verso il suicide metal ed il death rock dei mitici Christian Death di 'Lacrima Christi' (nella versione cantata in italiano), una vera perla! 'In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!' alla fine è un album impossibile da spiegare, difficile da apprendere, politicamente scorretto e diabolico (come non amare poi la sinfonica "Fratelli D'Occidente, Salviamo Noi Stessi dall'Estinzione!"). Per molti sarà facile e immediato odiarlo, ma se volete addentrarvi nelle viscere di questo introverso capolavoro, bisognerà che vi liberiate da ogni preconcetto sonoro, religioso e politico che sia, guardandolo dritto negli occhi, insultando la normalità ed il moderato, frugando tra i solchi, studiandolo nei particolari, a quel punto non riuscirete più a staccarvelo di dosso. Un disco unico nel suo genere, un lavoro originalissimo d'arte espressiva oscura e sotterranea, per una band che ha carisma e idee estreme da vendere, e che di diritto deve essere annoverata nell'Olimpo del metal d'avanguardia internazionale. Ascolto (e acquisto) obbligato! (Bob Stoner)

(Masked Dead Records/Vomit Arcanus Productions/Dvra Crvx - 2019)
Voto: 90

https://maskedeadrecords.bandcamp.com/album/in-sanctitate-benignitatis-non-miseretur

L'Ombra - S/t

#PER CHI AMA: Progressive Rock
Un tenebroso melting-pot di stili, idee e suggestioni, è ciò che trapela da questo eclettico EP d’esordio della band italo-francese dall'emblematico nome, L’Ombra. Capitanati dalla front-woman piemontese Giulia Romanelli a collocarsi dietro al microfono, il quartetto transalpino si cimenta con maestria nel rappresentare quelle sensazioni eteree ma arcane allo stesso tempo, che vogliono fungere da tratto distintivo di questo progetto altamente sperimentale. Ombra appunto, è sicuramente il sostantivo che più si può accostare alle immagini evocate dalle sonorità dell’ensemble. Essenziali ma ricercate. Di una semplicità solo apparente, indice di un livello di difficoltà ancora maggiore. Ancor più complesso probabilmente è fornire indicazioni che possano categorizzare questo lavoro. L’alone progressivo che lo pervade si snoda fra dark-blues e intrecci quasi fusion, a sostegno della grande potenza espressiva delle linee vocali. Sono loro a farla da padrone, pescando a piene mani da una moltitudine di tecnicismi stilistici, ricche di teatralità ed interpretazione, sempre al posto giusto nel momento giusto. Le liriche si alternano tra italiano e francese, scorrendo fra le quattro tracce (+ bonus) proposte. Un interessante connubio per trasporre il concept proposto dalla band. Ogni brano corrisponde alla trasposizione di un personaggio che ci viene presentato: tra i versi si delineano pertanto quattro personalità diverse, in armonia o contrasto. Come tra i paragrafi di un libro misterioso che ci viene narrato dalla carismatica voce della vocalist piemontese. Senza dubbio siamo di fronte ad un sapiente lavoro di ricerca e di composizione, firmata Romanelli – Judet (bassista de L’Ombra). Compreso ovviamente il successivo arrangiamento all’insegna di quel motivetto spesso citato (anche a sproposito) del “lessisgood”. Utilizzato sicuramente a sproposito anche dal sottoscritto, ma credo sia uno di quei flash che è possibile riportare dopo un primo ascolto di questa uscita del quartetto transalpino. Eclettico ed introspettivo. Ma comunque comunicativo con un lessico musicale tutto suo, a stuzzicare l’immaginazione o quelle sensazioni poco spolverate, anche fra gli ascoltatori più navigati. Questo EP, come l’intero progetto, credo racchiuda appieno l’attitudine camaleontica ed imprevedibile della sua vocalist: una danza costante a spaziare fra mondi distanti, ad esplorare gli anfratti più reconditi di quei sogni vividi, del dormiveglia. L’Ombra: un mondo da scoprire. Questo mini-debut merita davvero parecchi e parecchi ascolti, mano a mano ogni dettaglio si carica di una precisa importanza. Ottimo lavoro per questo giovane progetto, un inizio davvero promettente che, speriamo possa spianare la strada a nuove uscite di tale calibro o anche più! (Emanuele "Norum" Marchesoni)

martedì 1 ottobre 2019

SednA - The Man Behind The Sun

#PER CHI AMA: Cosmic Post Black/Post Metal, Darkspace, Altar of Plagues
È il quinto lavoro che recensisco dei SednA (includendo demo e split), mi sa tanto che avrò più di un problema a trovare nuove parole per descrivere l'inedita fatica della compagine cesenate, da sempre in costante evoluzione musicale. E l'evoluzione anche questa volta parte da lontano, con l'ennesimo cambio di line-up e due nuovi innesti (del combo originario è rimasto il solo frontman Alex) e la scelta di rilasciare una singola traccia di quasi 34 minuti. 'The Man Behind The Sun' ci consegna una band in ottimo stato di forma che ormai ha trovato la propria strada e la calca da dieci anni con grande convinzione. Ma veniamo all'apocalittica song che compone questo lavoro, una traccia che apre con delle desolanti chitarre riverberate, sulle quali poggia la sempre malvagia voce di Alex. Da li in poi è come un incubo ad occhi aperti, tra partiture tribali e oscuri riffoni di derivazione tooliana, dispiegandosi in un post-metal di scuola Cult of Luna che va a fondersi con un suono che sembra provenire dal buio cosmico del nostro Sistema Solare, con la ritmica a farsi ancor più tetra. Stavolta la proposta della compagine italica non mi ricorda più esclusivamente gli Altar of Plagues, da sempre indicati come fonte di ispirazione dei nostri, citerei infatti un'altra band di riferimento, gli svizzeri Darkspace, anche se è più una percezione lontana che altro. I SednA sembra che si siano ritagliati il proprio angolo di inferno, dal quale insidiarci l'anima con accelerazioni improvvise, come quelle che esplodono più o meno ad un terzo del brano e che accanto a blast beat furenti, mantengono comunque quel piglio melodico, elemento fondamentale dell'act romagnolo, che non guasta assolutamente l'andamento del disco. La traccia, come inevitabile che sia vista la considerevole durata, si srotola attraverso molteplici umori, alternando parti atmosferiche (di derivazione post-rock) con le classiche ritmiche cataclismiche di scuola AoP o Wolves in the Throne Room. Poi è uno sprofondare negli abissi dronici dell'oblio, in compagnia della sola ipnotica chitarra e dei piatti del drummer; il suono del vuoto cosmico ed il flebile accompagnamento di una magistrale batteria (qui decisamente il mio strumento preferito) ci avvinghiano la gola, in un interiore moto circadiano che lascia spazio solamente all'immaginazione di ciò che vi pare, l'importante è che sia qualcosa di funesto, triste o decadente. Ma dalle viscere della terra c'è ancora modo e tempo di risalire, di inseguire una luce che per quanto accecante, ci riporti in superficie. Ed è lo screaming mefitico di Alex (che ad un certo punto assumerà sembianze quasi umane) a guidarci nella risalita, mentre le chitarre rieccheggiano nell'aire, rimbombano nello spazio infinito per poi implodere in una sorta di big crunch dell'Universo. Il finale è un crescendo impetuoso di umori che vedono l'ingrossarsi della ritmica, inasprimento dei vocalizzi e della velocità d'esecuzione, il tutto esaltato alla grande dall'apporto alla consolle di Enrico Baraldi degli Ornaments e di Lorenzo Stecconi (Lento e Ufomammut), che rappresentano la classica ciliegina sulla torta di un lavoro che vede in veste di guest star la partecipazione dello stesso Lorenzo a chitarra e synth e di Benjamin Guerry dei The Great Old Ones alla voce, ad impreziosire ulteriormente un album che farà la gioia degli amanti del post-black contaminato. Ah, dimenticavo, con 'The Man Behind The Sun', a livello lirico, i SednA chiudono la storia epico-fantascientifica iniziata con l'omonimo lavoro, e portata avanti attravero 'Eterno'. Chissà cosa ci riserverà il prossimo capitolo. Per ora affidiamoci al viaggio ad astra di 'The Man Behind The Sun'. (Francesco Scarci)