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martedì 8 ottobre 2019

Into the Moat - The Design

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, Pestilence, Atheist
Gli Into the Moat sono un quintetto di Ft. Lauderdale nato nel 2001 che, dopo aver dato alle stampe nel 2003 ad un EP, hanno registrato presso i Mana Studios di Eric Rutan (Hate Eternal), questo 'The Design'. La musica è un death metal ultra tecnico che si rifà ai mostri sacri del genere, gli ahimè mai troppo compianti Death, Atheist, Pestilence e Cynic, reinterpretandoli però in modo asettico e asfittico. Mentre le band suddette riuscivano, infatti, a trasmettere emozioni forti attraverso un feeling speciale che si instaurava con l’ascoltatore, gli Into the Moat risultano freddi e poco coinvolgenti. Dal punto di vista tecnico la band americana, la cui età media si aggirava all'epoca sui vent’anni, è superlativa: le chitarre tessono trame intricatissime, la batteria è al limite del disumano e la voce si assesta su livelli buoni. È però tutto il complesso che alla fine ne esce penalizzato. Nonostante le idee non siano niente male, il tutto appare come un esercizio di tecnica fine a se stesso dove lo scopo è quello di stupire l’ascoltatore con trovate sempre nuove e originali che, in realtà, alla fine hanno il solo effetto di disorientarci. Fortunatamente questo 'The Design' non dura neppure tanto, però vi garantisco che, per arrivare al termine dei 33 minuti complessivi, è stata una vera faticaccia. Per concludere, i nostri hanno sì svolto il loro compitino raggiungendo la sufficienza risicata, troppo poco però per potermi emozionare ancora come ai bei tempi, quando Chuck Schuldiner e soci dominavano il mondo. (Francesco Scarci)

Uivo Bastardo - Clepsydra

#PER CHI AMA: Death Melodico/Industrial, Supuration
Uivo Bastardo è un progetto parallelo creato da ex membri dei Kronos, Helder Raposo e André Louro, rispettivamente tastiere e voce, il chitarrista João Tiago, e dal produttore, qui anche in veste di batterista stabile in formazione, David Jerónimo (Concealment). Uscito per Ethereal Sound Works nella primavera di quest'anno, 'Clepsydra' è un buon concentrato di metal pesante dalle forti influenze industriali, forzate in ottima maniera da un uso delle tastiere mirato e ricercato, così influente nel sound che arriva a caratterizzarlo positivamente, costruendo insieme al resto della band, composizioni ben strutturate e potenti. Le parti vocali sono molto spinte, quasi sempre urlate e sparate in faccia violentemente, l'impatto è duro e ricorda certe parti gotiche dei Paradise Lost della prima era anche se le ritmiche più squadrate e gli inserti melodici, futuristici, a volte sinfonici, donano ai brani quel tocco tecnologico, claustrofobico, fantascientifico e progressivo che attrae molto l'ascoltatore. Si fatica un po' ad apprezzare la lingua madre del cantato usata dalla band di Lisbona ma dopo alcuni ascolti ci si accorge che le canzoni suonano perfette anche così, ben prodotte, suonate bene, con una buona dose di originalità e mostrano un buon equilibrio tra gothic/industrial e melodic death metal, trovando il suo culmine nella pesante dichiarazione d'intenti di "Tormentòrio", in "Refùgio", brano teso e claustrofobico (il mio preferito) e in "Fuga Mundi", song dai toni bui e drammatici. Le canzoni si ascoltano bene e la durata del disco, che supera di poco la mezz'ora, sottolinea l'intensità e l'urgenza espressiva di un'opera che trae ispirazione dai padri del thrash metal anni '90 e da quelle atmosfere progressive, ricercate e cervellotiche in stile 'The Cube' dei mitici Supuration. Un disco che convince, mai banale e senza cadute, né di stile tanto meno di intensità, il tempo di abituarsi al canto in portoghese e tutto suona poi al punto giusto, belle parti veloci, mai troppo caotiche. Infatti, una delle caratteristiche della band è proprio la capacità di restare aggressivi, pesanti, melodici e tesi costantemente per tutto lo scorrere dell'album, dimostrando di avere trovato la chiave per un suono singolare ed in continua evoluzione. In sostanza un ottimo primo album, una band che ha carattere e la voglia di rinvigorire un tipo di metal abusato, anche in senso commerciale, da tante band prive di idee e talento. Ascolto consigliato! (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 74

https://uivobastardo.bandcamp.com/

domenica 6 ottobre 2019

Wall Of Sleep - Slow But Not Dead

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Doom, Black Sabbath, Pentagram
Anche l’Ungheria ha i suoi “Black Sabbath”, capitanati dall’Ozzy Osbourne locale, Gabor Holdampf, responsabile delle vocals di questo disco uscito ormai nel 2004. Sto parlando dei Wall Of Sleep, compagine formatasi nel dicembre 2001 dalle ceneri dei Mood, la prima vera doom metal band ungherese, autrice di ben quattro album a cavallo degli anni ‘90. Nonostante sia stato registrato nel 2003 e di certo non sia stato agevolato da una buona distribuzione internazionale, fatta da piccole etichette indipendenti, 'Slow But Not Dead' rappresenta il primo full length di sei (l'ultimo uscito nel 2018) realizzato dalla band, dopo l’EP uscito nel 2003, 'Overlook the All' (fuori sempre per la PsycheDOOMelic Records). La musica che i cinque magiari propongono ormai l’avrete già intuita: un doom in pieno stile Black Sabbath con delle vocals degne del miglior Ozzy. Nel corso dei pezzi, vi è un uso piacevole delle chitarre acustiche, delle percussioni, talvolta tribali, e delle tastiere in mezzo a dei mastodontici ed oscuri riff di chitarra. La musica del “Muro del Sonno” paga sicuramente un grosso tributo al complesso di Iommi e soci, che ha scritto la storia di questo genere, ma l’offerta del quintetto ungherese farà la gioia anche di chi adora Pentagram, Trouble, Candlemass o Cathedral. I Wall Of Sleep riprendono il sound tipico del doom cercando di aggiungere elementi heavy, rock e dark per creare deliziose atmosfere in perfetto stile anni ’70. L’album sfoggia poi influenze blues, udibili in un paio d’occasioni, cosi come pure riprende, in taluni frangenti, l’attitudine ruvida di un certo punk rock di fine anni settanta e la coniuga sapientemente con l’hardcore. Pur non essendo un grande amante del genere, ho trovato interessante avvicinarmi ad un gruppo di questo tipo, soprattutto per la loro tendenza a non ripetere pedissequamente gli insegnamenti dei maestri, ma anzi ricercando soluzioni innovative e nuove melodie. (Francesco Scarci)

(PsycheDOOMelic Records - 2004)
Voto: 68

https://www.facebook.com/wallofsleep

Praise the Plague - Antagonist II

#PER CHI AMA: Black Doom, Dissection
A cadenza annuale, tornano i germanici Praise the Plague: era infatti settembre 2018 quando uscì 'Antagonist', l'EP d'esordio della band di Berlino e settembre 2019 vede i nostri tornare con 'Antagonist II', un secondo EP che prosegue sulla scia di quel blackened doom che era stato discretamente apprezzato dalla critica lo scorso anno. Inizio col dire che non vedo/sento grosse differenze con il vecchio lavoro, se non a livello di produzione qui molto più bombastica e che finalmente conferisce maggior risalto a livello di malvagità proposta. Due sole tracce però a disposizione per questo vinile 12" in uscita per la Argonauta. Ecco, mi sarei aspettato qualcosa in più che questa pillola malefica di black che poco si sposa mi pare con il resto del rooster della label nostrana. Comunque sia, "Torment", la prima traccia del lavoro, si apre con il grido del vocalist Robert a cui si accoda la ritmica tagliente in stile Dissection. E proprio il glaciale black svedese credo che rappresenti la fonte di ispirazione per i nostri almeno nelle parti più tirate, questo perchè i nostri tendono a rallentare impietosamente il proprio sound quando si spostando nel versante doomish, creando atmosfere vertiginose interrotte dalle classiche sferzate black. E la bufera annichilente prosegue anche nella seconda "Woe", un pezzo forse più oscuro del lato A del vinile, visto l'incipit che puzza di mefitico e putrefatto funeral doom, con le oscure grim vocals ad ergersi su una ritmica lenta ed opprimente che non concede troppo spazio alla melodia, sia chiaro. È solo a metà brano che le sanguinose e gelide chitarre tornano a soffiare nella loro impetuosa insania. La seconda parte del brano invece sembra ammiccare ad un sludge/post-metal che aumenta il mio interesse per l'ensemble teutonico. Ora sia chiaro, mi aspetto una release più strutturata per meglio giudicare la proposta dei Praise the Plague che per ora si devono accontentare di questo mio voto cosi risicato. (Francesco Scarci)

Rev Rev Rev - Kykeon

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative
I Rev Rev Rev sono una di quelle band difficilmente etichettabili che passano dallo shoegaze all’industrial e alla dark wave, passando per vocalizzi eterei, spigolose dissonanze e molto molto rumore. Una prova convincente questo 'Kykeon', meditativo, denso e completo, all’ascolto godibile e mai scontato, con un’energia trascinante e delle atmosfere personali e accattivanti. “Waiting for Gödel” apre il disco con bordate di rumore guidate da una ritmica marziale e concisa; il rumore poi continua, non ci sono giri distinguibili ma solamente una coltre di suono droneggiante. Sembra di sentire il rumore di una fabbrica immensa dove si producono robot senzienti e assetati di conoscenza e di conquista, un esercito di latta che avanza lentamente ma inesorabilmente e che si insinua in ogni angolo del pianeta. Segue “Clutching the Blade” con i suoi scenari abrasivi e ruvidi, i suoi riff davvero bizzarri, quasi psicopatici, ancora più rumore ancora più lame che tagliano carne, terra e pietra. Degna di nota la parte dove la canzone lascia spazio al rumore, come se fosse in realtà il rumore la canzone e tutto il resto di contorno. Tuttavia nulla urta l’orecchio anzi, le frequenze penetrano insistentemente nel cervello annullando ogni altro pensiero. Anche in “3 Not 3” il pattern è lo stesso, solamente in questo pezzo la voce prende quasi un significato salvifico dal noise macabro ed inarrestabile, l’unica àncora di salvezza in un mare di ignoto ostile che tutto inghiotte. I Rev Rev Rev sono in grado, attraverso gli arrangiamenti finemente pensati e realizzati a regola d’arte, di far stare in piedi i pezzi in modo efficace ed originale; la commistione di dark wave, rumore e voci decadenti non è di certo cosa nuova, ma il modo in cui il quartetto di Modena lo propone è qualcosa di assolutamente personale e unico. A volte mi sembra addirittura di sentire qualche eco lontano dei Black Sabbath, saranno i riff demoniaci, la ripetitività delle parti, non saprei, ma qualcosa mi riporta alla mente anche lo stoner e generi di musica decisamente più estrema, ma come dicevamo, la band non può essere efficacemente relegata in un solo ambito musicale. Ascoltare tutto 'Kykeon' è un’esperienza mistica e totalmente immersiva, il flusso è continuo e denso e non molla mai, inoltre il potenziale pubblico è davvero ampio, mi sento di consigliare infatti questo disco a chiunque abbia voglia di sentire qualcosa di energetico, intenso, rumoroso ma allo stesso tempo leggero, ciclico e orecchiabile, al di là delle etichette di genere, al di là delle etichette in genere. (Matteo Baldi)

giovedì 3 ottobre 2019

Deviate Damaen - In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!

#PER CHI AMA: Avantgarde/Experimental
Con la consueta trasversale genialità, la storica band capitolina rivendica il trono del tempio italico dell'avanguardia metal con un'opera maestosa e inimitabile, poiché da sempre, i Deviate Damaen possono vantarsi di avere uno stile unico, personalissimo, intelligente ed estremo. La novità in questo nuovo 'In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!' (in uscita ad ottobre via Masked Dead Records/Vomit Arcanus Productions/Dvra Crvx), a differenza dell'ottimo predecessore, 'Retro-Marsch Kiss', è la presenza di brani molto più lunghi ed ispirati alla miglior scena doom/black internazionale, quel palcoscenico dove il metal ed il gothic si fondono in un suono ancestrale, diabolico ed eterno che, se messo nelle mani di G/Ab con la collaborazione di D.EVIL 99, assume una forma teatrale spettacolare, profetica e profanatrice, a cui è impossibile resistere. Tutti i suoni e i rumori di sottofondo dell'album sono catturati in ogni dove ed in ogni posto manualmente; la poesia dei testi ed il recitato, il parlato ed il cantato, growl, scream o lirico che sia, in lingua italiana (o addirittura tedesca, come in "Sacre Gesta") cavalcano l'onda metallica. L'ispirazione, tratta dalle visite alla cattedrale di Ratisbona, negli eremi di san Venanzio e di Preci, i canti ecclesiastici, il sarcasmo, i temi oscuri trattati, i rimandi all'odierno panorama politico nazionale, la difesa ad oltranza e l'accusa di decadenza senza fine dell'occidente, la visione gnostica del Lucifero figlio della luce e della saggezza, vero portatore di redenzione, Carlo Magno, la lussuria, l'amore per l'estetica guerriera, la rivendicazione di una Romanitas dimenticata, gli attacchi al clero e la ricerca di un diretto e più reale rapporto tra Dio e l'Uomo, rendono quest'album una meraviglia assoluta, che probabilmente supera in qualità e bellezza gli altri lavori fin qui presentati dalla band nostrana. Musicalmente, come già accennato sopra, ci si aggira intorno ad un doom/black metal, suonato a dovere, con una produzione ricercata e minuziosa, di stampo teatrale, sinfonico ed apocalittico. Brano dopo brano, ci si immerge in un articolato film noir, psicologico ed ostile, dove amare verità ci vengono sbattute in faccia senza alcuna remora. Le composizioni si confermano anche in questo capitolo assai variegate, pur restando sempre all'interno del genere, assestandosi su minutaggi di media o lunga durata. Una traccia in particolare si eleva poi per eleganza e paradisiaca bellezza, ed è l'insuperabile brano intitolato "Aspetterò L'Altrove", un'inaspettata composizione romantica e spettrale, dalle tinte fosche e gotiche con fughe sonore verso il suicide metal ed il death rock dei mitici Christian Death di 'Lacrima Christi' (nella versione cantata in italiano), una vera perla! 'In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!' alla fine è un album impossibile da spiegare, difficile da apprendere, politicamente scorretto e diabolico (come non amare poi la sinfonica "Fratelli D'Occidente, Salviamo Noi Stessi dall'Estinzione!"). Per molti sarà facile e immediato odiarlo, ma se volete addentrarvi nelle viscere di questo introverso capolavoro, bisognerà che vi liberiate da ogni preconcetto sonoro, religioso e politico che sia, guardandolo dritto negli occhi, insultando la normalità ed il moderato, frugando tra i solchi, studiandolo nei particolari, a quel punto non riuscirete più a staccarvelo di dosso. Un disco unico nel suo genere, un lavoro originalissimo d'arte espressiva oscura e sotterranea, per una band che ha carisma e idee estreme da vendere, e che di diritto deve essere annoverata nell'Olimpo del metal d'avanguardia internazionale. Ascolto (e acquisto) obbligato! (Bob Stoner)

(Masked Dead Records/Vomit Arcanus Productions/Dvra Crvx - 2019)
Voto: 90

https://maskedeadrecords.bandcamp.com/album/in-sanctitate-benignitatis-non-miseretur

L'Ombra - S/t

#PER CHI AMA: Progressive Rock
Un tenebroso melting-pot di stili, idee e suggestioni, è ciò che trapela da questo eclettico EP d’esordio della band italo-francese dall'emblematico nome, L’Ombra. Capitanati dalla front-woman piemontese Giulia Romanelli a collocarsi dietro al microfono, il quartetto transalpino si cimenta con maestria nel rappresentare quelle sensazioni eteree ma arcane allo stesso tempo, che vogliono fungere da tratto distintivo di questo progetto altamente sperimentale. Ombra appunto, è sicuramente il sostantivo che più si può accostare alle immagini evocate dalle sonorità dell’ensemble. Essenziali ma ricercate. Di una semplicità solo apparente, indice di un livello di difficoltà ancora maggiore. Ancor più complesso probabilmente è fornire indicazioni che possano categorizzare questo lavoro. L’alone progressivo che lo pervade si snoda fra dark-blues e intrecci quasi fusion, a sostegno della grande potenza espressiva delle linee vocali. Sono loro a farla da padrone, pescando a piene mani da una moltitudine di tecnicismi stilistici, ricche di teatralità ed interpretazione, sempre al posto giusto nel momento giusto. Le liriche si alternano tra italiano e francese, scorrendo fra le quattro tracce (+ bonus) proposte. Un interessante connubio per trasporre il concept proposto dalla band. Ogni brano corrisponde alla trasposizione di un personaggio che ci viene presentato: tra i versi si delineano pertanto quattro personalità diverse, in armonia o contrasto. Come tra i paragrafi di un libro misterioso che ci viene narrato dalla carismatica voce della vocalist piemontese. Senza dubbio siamo di fronte ad un sapiente lavoro di ricerca e di composizione, firmata Romanelli – Judet (bassista de L’Ombra). Compreso ovviamente il successivo arrangiamento all’insegna di quel motivetto spesso citato (anche a sproposito) del “lessisgood”. Utilizzato sicuramente a sproposito anche dal sottoscritto, ma credo sia uno di quei flash che è possibile riportare dopo un primo ascolto di questa uscita del quartetto transalpino. Eclettico ed introspettivo. Ma comunque comunicativo con un lessico musicale tutto suo, a stuzzicare l’immaginazione o quelle sensazioni poco spolverate, anche fra gli ascoltatori più navigati. Questo EP, come l’intero progetto, credo racchiuda appieno l’attitudine camaleontica ed imprevedibile della sua vocalist: una danza costante a spaziare fra mondi distanti, ad esplorare gli anfratti più reconditi di quei sogni vividi, del dormiveglia. L’Ombra: un mondo da scoprire. Questo mini-debut merita davvero parecchi e parecchi ascolti, mano a mano ogni dettaglio si carica di una precisa importanza. Ottimo lavoro per questo giovane progetto, un inizio davvero promettente che, speriamo possa spianare la strada a nuove uscite di tale calibro o anche più! (Emanuele "Norum" Marchesoni)

martedì 1 ottobre 2019

SednA - The Man Behind The Sun

#PER CHI AMA: Cosmic Post Black/Post Metal, Darkspace, Altar of Plagues
È il quinto lavoro che recensisco dei SednA (includendo demo e split), mi sa tanto che avrò più di un problema a trovare nuove parole per descrivere l'inedita fatica della compagine cesenate, da sempre in costante evoluzione musicale. E l'evoluzione anche questa volta parte da lontano, con l'ennesimo cambio di line-up e due nuovi innesti (del combo originario è rimasto il solo frontman Alex) e la scelta di rilasciare una singola traccia di quasi 34 minuti. 'The Man Behind The Sun' ci consegna una band in ottimo stato di forma che ormai ha trovato la propria strada e la calca da dieci anni con grande convinzione. Ma veniamo all'apocalittica song che compone questo lavoro, una traccia che apre con delle desolanti chitarre riverberate, sulle quali poggia la sempre malvagia voce di Alex. Da li in poi è come un incubo ad occhi aperti, tra partiture tribali e oscuri riffoni di derivazione tooliana, dispiegandosi in un post-metal di scuola Cult of Luna che va a fondersi con un suono che sembra provenire dal buio cosmico del nostro Sistema Solare, con la ritmica a farsi ancor più tetra. Stavolta la proposta della compagine italica non mi ricorda più esclusivamente gli Altar of Plagues, da sempre indicati come fonte di ispirazione dei nostri, citerei infatti un'altra band di riferimento, gli svizzeri Darkspace, anche se è più una percezione lontana che altro. I SednA sembra che si siano ritagliati il proprio angolo di inferno, dal quale insidiarci l'anima con accelerazioni improvvise, come quelle che esplodono più o meno ad un terzo del brano e che accanto a blast beat furenti, mantengono comunque quel piglio melodico, elemento fondamentale dell'act romagnolo, che non guasta assolutamente l'andamento del disco. La traccia, come inevitabile che sia vista la considerevole durata, si srotola attraverso molteplici umori, alternando parti atmosferiche (di derivazione post-rock) con le classiche ritmiche cataclismiche di scuola AoP o Wolves in the Throne Room. Poi è uno sprofondare negli abissi dronici dell'oblio, in compagnia della sola ipnotica chitarra e dei piatti del drummer; il suono del vuoto cosmico ed il flebile accompagnamento di una magistrale batteria (qui decisamente il mio strumento preferito) ci avvinghiano la gola, in un interiore moto circadiano che lascia spazio solamente all'immaginazione di ciò che vi pare, l'importante è che sia qualcosa di funesto, triste o decadente. Ma dalle viscere della terra c'è ancora modo e tempo di risalire, di inseguire una luce che per quanto accecante, ci riporti in superficie. Ed è lo screaming mefitico di Alex (che ad un certo punto assumerà sembianze quasi umane) a guidarci nella risalita, mentre le chitarre rieccheggiano nell'aire, rimbombano nello spazio infinito per poi implodere in una sorta di big crunch dell'Universo. Il finale è un crescendo impetuoso di umori che vedono l'ingrossarsi della ritmica, inasprimento dei vocalizzi e della velocità d'esecuzione, il tutto esaltato alla grande dall'apporto alla consolle di Enrico Baraldi degli Ornaments e di Lorenzo Stecconi (Lento e Ufomammut), che rappresentano la classica ciliegina sulla torta di un lavoro che vede in veste di guest star la partecipazione dello stesso Lorenzo a chitarra e synth e di Benjamin Guerry dei The Great Old Ones alla voce, ad impreziosire ulteriormente un album che farà la gioia degli amanti del post-black contaminato. Ah, dimenticavo, con 'The Man Behind The Sun', a livello lirico, i SednA chiudono la storia epico-fantascientifica iniziata con l'omonimo lavoro, e portata avanti attravero 'Eterno'. Chissà cosa ci riserverà il prossimo capitolo. Per ora affidiamoci al viaggio ad astra di 'The Man Behind The Sun'. (Francesco Scarci)

lunedì 30 settembre 2019

Dream Death - Back from the Dead

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Doom/Speed
Quando ascolto un cd, la prima cosa che sicuramente mi balza all’orecchio è la qualità del suono: una registrazione perfetta e cristallina darà certamente valore alla musica che vado ad ascoltare; di contro, un’incisione pessima non mi dà modo di apprezzare del tutto il prodotto musicale. Questo preambolo, per dirvi che il cd in questione, 'Back from the Dead', degli statunitensi Dream Death (all'epoca dell'uscita sciolti e poi riformatisi nel 2011), è stato probabilmente registrato con un aratro nel retro bottega di uno dei membri della band, quindi lascio a voi immaginare la qualità del suono. L’album in questione è la release ufficiale (ristampata in vinile nel 2012 grazie alla Svart Records) che riunisce i tre demotapes del combo di Pittsburgh, demotapes risalenti alla seconda metà degli anni ’80, la cui qualità scadente dell’audio non agevola di certo il mio ascolto. Siamo ad ogni modo di fronte ad un lavoro che combina elementi metal, doom e speed, a voci hardcore. Sta di fatto che non ho parole per definire questa fatica; non trovo, infatti, il senso della sua pubblicazione, se non altro perché, alcuni membri della band, hanno poi contribuito a formare i più conosciuti Penance. 80 minuti di martirio per le mie orecchie non giustificano l’ascolto, tanto meno l'acquisto di questo prodotto, a meno che non siate fans sfegatati della band sopraccitata o vi interessi conoscere il doom in una delle sue forme primordiali e più brutali. Su una cosa devo però essere sincero: le tracce di quest’album hanno sicuramente influenzato le generazioni a venire, in ambito death e doom metal, e questo lavoro è probabilmente un riconoscimento al ruolo assunto dai Dream Death nell’aver influito al diffondersi del suono del destino. Qualcuno indica addirittura il presente album, quale sorta di collegamento mancante nell’evoluzione del doom, da quello tradizionale dei Black Sabbath e soci al doom/death metal dei giorni nostri. Il lavoro per quanto mi riguarda è scadente, al di là della sua valenza storica. Anacronistico. (Francesco Scarci)

(PsycheDOOMelic Records - 2005)
Voto: 45

https://www.facebook.com/DreamDeathSludge

Winter Solstice - The Fall of Rome

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, As I Lay Dying
Non ho mai capito la politica della Metal Blade, capace di mettere sotto contratto valide band, ma anche di prendere degli abbagli clamorosi e offrire la possibilità di sfornare album a gruppi mediocri, inflazionando da sempre un mercato musicale sempre più saturo. Polemiche a parte, veniamo ai nostri: i Winter Solstice sono un five piece americano formatosi nel 2000, influenzato da thrash e hardcore che, dopo la solita gavetta, ha dato alle stampe nel 2004 un EP intitolato 'The Pulse is Overrated', prima del gran salto appunto e l’approdo alla Metal Blade con l’uscita di questo 'The Fall of Rome', inteso come una grande metafora storica ad indicare il declino della società, cosi come lo fu per i nostri antenati romani. Potrei iniziare un lungo discorso a riguardo, ma è meglio passare alla musica e qui la nota dolente: l’ostinazione da parte delle case discografiche nello sfruttare un genere che ormai non ha più niente da dire, il death/thrash. Il quintetto americano, infatti, pesca un po’ alla cieca all’interno del calderone death metal mondiale: echi di Meshuggah, Carnal Forge, As I Lay Dying, The Haunted e via dicendo, sono udibili all’interno di questo lavoro. Lavoro che si trascina stancamente per la durata di 40 minuti, attraverso dieci pezzi tutti simili tra loro: le classiche ritmiche serrate, stop’n go, cambi di tempo, voci roche al limite della logorrea, qualche vocals pulita qua e là, insomma troppo poco per giudicare positivamente un prodotto noioso come questo. L’unico sussulto, che mi ha fatto ben sperare, è in occasione della quinta traccia, dove una chitarra acustica introduce le note della title track, ma ahimè si è trattato solamente di un episodio isolato. Special guest Tim Lambesis, vocalist proprio degli As I Lay Dying, che compare nella nona “To the Nines”. Per il resto, ahimè bocciati. (Francesco Scarci)

(Metal Blade Records - 2005)
Voto: 50

https://myspace.com/wintersolstice

sabato 28 settembre 2019

Warmrain - Back Above the Clouds

#PER CHI AMA: Prog Rock, Anathema, Pink Floyd
Non proprio una passeggiata dover affrontare tutto d'un fiato un doppio album di prog rock. Per quanto le atmosfere soffuse e le malinconiche melodie siano gradevoli da ascoltare, 'Back Above the Clouds' è pur sempre uno scoglio di oltre un'ora e mezza di musica che rappresenta il debut album degli inglesi Warmrain. E se penso a Gran Bretagna e a rock progressivo, l'equazione 2+2 mi riporta immediatamente ai precursori del genere, i padri putativi del prog, i Pink Floyd e di riflesso ai figliocci Anathema e Porcupine Tree. Volete una conferma? È presto data dall'opener "Fading Star" che in oltre otto minuti, ci fa saggiare immediatamente le notevoli qualità del quartetto originario dell'Hampshire/Oxfordshire nell'affrontare la loro personale (ma non troppo) visione del genere. Melodie toccanti, ottime vocals e momenti eterei che si ritroveranno un po' ovunque lungo il doppio cd (penso all'arpeggiato della seconda "Absent Friends" o a "I Should be Seeing Stars by Now" e "Live the Dream" nel disco due). E cosi 'Back Above the Clouds' si rivela un delicato flusso emotivo in cui immergersi e lasciarsi avvolgere dal calore delle chitarre, dalla cremosità della voce di Leon J Russell e dai solismi raffinati di Matt Lerwill, responsabile peraltro anche del sitar, dell'ukulele e del mandolino, che nel corso dell'ascolto faranno capolino. I pezzi sono sicuramente interessanti, anche se devo ammettere che avrei omesso quelli che si perdono un po' troppo su giri di chitarra acustica e voce (ad esempio "Running Out of Time" o la più noiosetta "Metamorphosis"), riducendo per questo la durata del disco ad un tempo più umanamente accettabile. I richiami ai Pink Floyd sono udibili un po' ovunque e per questo, ciò che concerne l'aspetto "originalità" del disco, viene un po' a mancare a causa di soluzioni musicali che rischiano di risuonare come già sentite. Un esempio è dato dalla strumentale "Lone in Silent Harmony" o l'oscuro incipit di "New Dawn", ma troverete anche voi facile riscontrare delle similitudini con i mostri sacri Gilmour & Waters. Poco male, ce ne fossero di artisti di questo calibro, il mondo musicale sarebbe molto migliore di quello che è oggi. E cosi la mia lamentela vuole essere solo uno stimolo in più per i quattro ragazzi albionici di far meglio il prossimo giro, di osare e andar fuori dal seminato, cercando di ricercare una propria personalità e prendere le distanze dai maestri di sempre. A chiudere la recensione vi segnalerei quelli che sono stati i miei pezzi preferiti: oltre alle opener dei due dischi, "Fading Star" e "A Hundred Miles High", citerei anche "Flying Dreams" e l'introspettiva ed molto Anathema-oriented, "Luminous Star (More than a Memory)" o la spettacolare conclusiene affidata ad "Equilibrium", probabilmente la mia song preferita. Alla fine, 'Back Above the Clouds' non è un album che passa certo inosservato, considerata anche la presenza della cover degli Eurythmics "Here Comes the Rain Again". Tuttavia, la raccomandazione per il futuro è di snellire la proposta per evitare di ricadere nel clichè del già sentito lungo il disco. (Francesco Scarci)

(Rain Recordings - 2019)
Voto: 75

https://www.facebook.com/warmrainofficial/

The Project Hate MCMXCIX - Armageddon March Eternal (Symphonies of Slit Wrists)

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Cyber Death, ...And Oceans
I Project Hate MCMXCIX sono un gruppo davvero strano per il sottoscritto: premesso che possiedo tutti i loro lavori, e quello recensito oggi rappresenta il loro quarto cd (se escludiamo il live 'Killing Helsinki'), non ho ancora ben capito se mi piacciano oppure no, mi spiego meglio. Trovo che la band abbia in taluni frangenti idee meravigliose e che riesca anche brillantemente a metterle in atto, in altre parti scadono ahimé, in trame già sentite migliaia di volte rendendoli pertanto del tutto anonimi. Il genere proposto sicuramente non è tra i più semplici da interpretare, perchè capace di spaziare da un death feroce a momenti di insospettata atmosfera, con la voce dell’angelica Jo Enckell a rendere il tutto più soave e indecifrabile. La band per chi non lo sapesse, abbraccia tra le sue fila, Jörgen Sandström, già conosciuto per le mortifere vocals sui primi tre album dei Grave e poi bassista di Entombed e anche membro dei Vicious Art; vi è poi il polistrumentista Lord K. Philipson e Petter S. Freed alla seconda chitarra, oltre alla già citata Jo alla voce femminile. Come già accaduto in passato, accanto al crudo cover-artwork o a titoli non proprio ortodossi (quasi da brutal-gore band), si celano invece gradite sorprese nei solchi partoriti da questo stralunato gruppo. Cercherò di chiarire meglio che razza di sound ci propongono i Project Hate: fondamentalmente su riffs e basi tipicamente death metal, si gioca il duello tra la voce eterea di Jo e i latrati di Jörgen, su cui si vanno poi ad inserire una serie di influenze provenienti da un po’ tutti gli ambiti metal. Suoni spaziali cibernetici, sulla scia dei Fear Factory, e breaks elettronici che si amalgamano alla perfezione con atmosfere doom disarmonico/avantguardistiche (simili ai The Provenance), ma non è tutto, in quanto frammenti di black sinfonico alla Dimmu Borgir o echi alla Arcturus, sono captabili in questo eterogeneo e originale lavoro, un vero caleidoscopio di forme, suoni e colori. Vi aggiungo un’altra cosa: la produzione, pulita e potente, è ad opera di Dan Swano nei suoi Square One Studios; il che garantisce una eccezionale resa sonora per i 65 minuti di suoni avvolgenti e bizzarri, la perfetta colonna sonora dell’Armageddon. Ora tutto mi è più chiaro: i The Project Hate MCMXCIX mi piacciono, eccome... (Francesco Scarci)

(Threeman Recordings - 2006)
Voto: 84

https://www.facebook.com/theprojecthate/

The Arcane Order - The Machinery of Oblivion

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Melo Death, Raunchy, In Flames
I The Arcane Order nacquero nel 2005 come valvola di sfogo del chitarrista Flemming C. Lund degli Invocator, qui coadiuvato da Kasper Thomsen (voce dei Raunchy), Boris Tandrup (bassista dei Submission e degli Slugs) e da Morten Løwe Sørensen (batterista dei già citati Submission, Slugs e degli Strangler). La band danese rilascia un anno dopo questo piacevole debutto, 'The Machinery of Oblivion', punto d’incontro tra il metal passato e futuro di quei tempi. Il quartetto scandinavo è bravo infatti nel miscelare sonorità tipicamente death (le ritmiche sono belle toste e incazzate) con le influenze alternative di cui risentiva in quel periodo, complici le derive degli In Flames, lo swedish death (un certo groove di fondo sembra infatti ammorbidire un lavoro che altrimenti risulterebbe troppo monolitico). La Metal Blade ci vede lontano e confeziona un buon cd, da ascoltare tutto d’un fiato, e scatenarsi in mosh frenetici, pogare come assatanati e sbattere come invasati contro le pareti. Se avete amato le uscite di Soilwork, In Flames e Darkane, dovete assolutamente dare un ascolto anche a questo interessante disco. Badate bene, gli ingredienti del cd sono sempre i soliti del genere, però qui ben amalgamati tra loro: chitarre belle potenti disegnano gradevoli linee melodiche, che si inseguono lungo le dieci tracce; la voce di Kasper (già ottimo nei Rauncy) è sinonimo di qualità e anche qui sfoga tutta la sua rabbia repressa; fantastica poi la componente solistica. Comunque sia, il livello tecnico-qualitativo della band è assai elevato; il rischio semmai, in dischi come questi, è che alla fine sia la noia a prevalere per una certa somiglianza di fondo tra i vari brani. A me gli Arcane Order non dispiacciono affatto e ancora oggi a distanza di anni, mi piace potergli dare un ascolto. (Francesco Scarci)

(Metal Blade - 2006)
Voto: 70

https://www.facebook.com/thearcaneorder

venerdì 27 settembre 2019

Rotting Christ/Varathron - Duality of the Unholy Existence

#PER CHI AMA: Hellenic Black Metal
Per tutti i nostalgici del black ellenico e dei vecchi split anni '90, cosa di meglio se non gustarsi un 7", che mette insieme per la prima volta Rotting Christ e Varathron, due delle realtà black metal più rilevanti nate in Grecia? Ci ha pensato la Hells Headbangers Records, label americana che ha confezionato ben 999 copie in vinile (di cui 222 in vinile dorato) di questo 'Duality of the Unholy Existence'. Dieci minuti che faranno sicuramente la gioia dei fan (incluso il sottoscritto), non tanto per saggiare lo stato di forma delle due compagini (quello lo conosciamo già viste le ultime brillanti release per entrambe le band), piuttosto per avere in mano un lavoro che presto diverrà vero oggetto di culto. Le band dicevo, le conosciamo bene: i Rotting Christ ci offrono “Spiritus Sancti”, una song in classico stile Sakis & Co., con la consueta ritmica martellante, su cui si innesta il distinguibilissimo cantato del suo frontman. "Shaytan" è invece un pezzo più ragionato ed elegante, un black atmosferico dotato di ottime melodie di chitarra, venate del tipico suono mediterraneo, vero trademark della band di Ioannina. Insomma niente di nuovo all'orizzonte, se non la gioia di vedere due mostri sacri per la prima volta insieme. Hail to Hellenic sound. (Francesco Scarci)