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sabato 27 luglio 2019

Ordinul Negru - Lifeless

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Hellenic Black Metal, Rotting Christ
L'avevamo anticipato meno di un mese fa, in occasione della recensione di 'Nostalgia of the Full Moon Nights', che quest'anno la Loud Rage Music aveva fatto uscire qualche re-issue dei vecchi album degli Ordinul Negru. Dopo aver quindi tributato quell'album, ci spingiamo un po' più indietro verso le radici della compagine rumena, da sempre guidata dal buon vecchio Fulmineos. Ed eccoci quindi a parlare di 'Lifeless', il quarto disco dei nostri, che vedeva il solo polistrumentista gestire gli Ordinul Negru. E con un album di oltre 60 minuti e undici pezzi, non deve essere stata proprio una passeggiata. Il disco di primo impatto, risente fortemente del black metal ellenico, scuola Rotting Christ, il che, solo per questo, lo rende differente da 'Nostalgia...', che subiva invece una forte influenza norvegese. Interessante pertanto ascoltare le melodie dal sapore mediterraneo dell'opener "Wolves from the Ancient Forest" che pongono la one-man-band rumena molto vicina, per affinità musicali, agli esordi di Sakis e soci, penso a 'Thy Mighty Contract' o ancor prima, all'EP 'Passage to Arcturo'. Un po' fuori tempo massimo qualcuno avrebbe da obiettare, però il sound ellenico è un qualcosa che pare essere rimasto immutato nel corso del tempo attraverso le release dei Rotting Christ stessi ma anche di Necromantia, Varathron, Zemial, Thou Art Lord e molti altri. Allo stesso modo, la musica degli Ordinul Negru sembra possedere in questo 'Lifeless', la stessa insana magia di quei protagonisti che hanno reso illustre la scena. Quello che fa specie alla fine è che il nostro mastermind di oggi non sia greco, per il resto trovo che 'Lifeless', per quanto mostri ancora lacune importanti su più livelli (produzione, mixing, suoni rozzi e primitivi), incarni alla grande l'indomito spirito guerriero mediterraneo, il che si traduce in battagliere, feroci, tiratissime song, quali le brevi "Warewolf", "Eve Tales" o la più atmosferica "The Cold Spirit Arouse from a Forgotten Soul", passando poi per le più strutturate e lunghe (entrambe oltre i nove minuti) "Morbid Prophecy" e "Serpent's Promise" che delineano un black dalle tinte oscure, contraddistinto da un mid-tempo dotato di mistiche atmosfere orrorifiche declamate dalle magnetiche screaming vocals di Fulmineos, uno che vi ricordo aver cantato anche nei mitici Negura Bunget. Un pezzo che ho particolarmente apprezzato, più per le sue trovate tastieristico-sperimentali, è "Snow Covers the Blood of the Warrior", ma in generale è tutto l'album a convincermi, con la consapevolezza che è stato concepito oltre dieci anni fa con tutti i limiti del caso legati anche alle pesanti influenze che subisce. Fatte tutte le dovute premesse, trovo che l'occultismo di cui 'Lifeless' è intriso, lo renda più convincente del suo successore. (Francesco Scarci)

(Banatian Records/Loud Rage Music - 2008/2019)
Voto: 72

https://loudragemusic.bandcamp.com/album/ordinul-negru-lifeless

Halls of Oblivion - Endtime Poetry

#PER CHI AMA: Melo Death/Black
Formatisi addirittura nel 2007, i teutonici Halls of Oblivion si sono presi tutto il tempo necessario per arrivare al debutto sulla lunga distanza e se non è record questo poco ci manca, giusto perchè nel 2015, il quartetto di Stoccarda aveva fatto uscire un EP di sei pezzi. La proposta dei quattro tedesconi racchiude in questo 'Endtime Poetry', nove brani apparentemente devoti ad un guizzante melo death che si lascia ben ascoltare per la sua forte vena creativa. Lo si capisce nel brillante prologo di "Vanishing Woods", un pezzo che mette ben in evidenza tutte le peculiarità dell'act germanico in termini di gusto melodico, cambi di tempo, esplosività, preparazione tecnica e quant'altro, a delineare una prova già di per sè matura e che diventerà via via più convincente nel corso dell'ascolto del disco, dove molteplici altre influenze emergeranno infatti dai solchi di 'Endtime Poetry'. Parlavamo inizialmente di un death melodico, ma in realtà ascoltando "Under the Weeping Willow", potrei accostare la proposta degli Halls of Oblivion all'epicità dei Windir, in un'essenza peraltro davvero ispirata lungo i quasi nove minuti del brano, che mi farà gridare al miracolo più volte. La lunga chiusura semi-acustica del pezzo testimonia poi quanto stia scrivendo sulle capacità intrinseche della band. Nel frattempo mi avvio all'ascolto di "Last Glance Of The Sun". Questo è un brano ricco di groove, carico di melodie che si muove lungo un mid-tempo sognante e rilassato che vede qualche impennata chitarristica e poco altro ma che si lascia ben ascoltare, forte appunto di melodie orecchiabili, clean vocals, ottimi assoli e momenti atmosferici, vicini al gothic dei primi Crematory. "The Servant" prosegue lungo questo binario, premendo poco di più sull'acceleratore, ma preservando le caratteristiche melo-dinamiche della band germanica, dando grande spazio alla componente percussiva e dove a tener banco, rimane la chitarra solista e il growling aspro, visti i continui sconfinamenti nello screaming, del frontman. A me gli Halls of Oblivion francamente piacciono, avendomi catturato con le melodie delle loro chitarre, quell'alternanza frenetica tra pezzi che ammiccano al black metal con altri ben più ragionati e ruffiani, per quanto questa parola abbia qui una valenza totalmente diversa dal suo reale significato, ma con la quale voglio giustificare le melodie più soffuse di un brano come "A Poem of the End", un pezzo vario, più compassato ma davvero azzeccato. Cosi come l'intro patinato, tra acustica ed elettrica, di "Walking Dead" che sembra quasi presa in prestito dagli Amorphis, e che vede il vocalist nuovamente in versione pulita a fare da contraltare al suo più arcigno modo di cantare, in un brano che sembra risentire ancora una volta di quel gothic sound che rese grandi band come i già citati Crematory, Darkseed e in qualche modo gli Atrocity, e che richiama al "Sehnsucht" dello spirito romantico tedesco e a quello stato d'animo legato allo struggimento interiore. Ecco quello che sento (a tratti) nelle note di 'Endtime Poetry' (e penso anche a qualcosa di "A World Falling Apart"), questo perchè poi di sovente, la band cambia registro e ci lancia in pezzi più tirati (ad esempio nelle incendiarie "The Final Regret" e "The Hypocrite", che strizzano l'occhiolino maggiormente al sound svedese dei primi In Flames), uno status nel quale i nostri sembrano trovarsi molto a proprio agio, ma che a mio avviso li spersonalizza un pochino. Per il momento 'Endtime Poetry' a me sembra un ottimo biglietto da visita ove l'invito dell'ascolto deve essere un must per molti. (Francesco Scarci)

Brouillard - S/t

#PER CHI AMA: Depressive Black, Darkspace
Il factotum Brouillard l'avevamo menzionato in occasione dell'uscita di 'Loin Des Hommes' dei J'ai si Froid..., una transitoria distrazione dalla sua band principale. L'artista transalpino torna con un nuovo lavoro intitolato semplicemente come i precedenti tre, ossia 'Brouillard' (il cui significato sta per nebbia). Quattro pezzi intitolati banalmente "Brouillard", giusto per non creare eccessiva confusione anche con tutti i brani precedentemente prodotti e non lasciare il povero ascoltatore in preda ad eventuali dubbi sul ricordare un titolo o un altro della discografia della one-man-band francese, tutto semplice, tutto estremamente spersonalizzato, o forse eccessivamente personalizzato? Mah, ai posteri... Fatto sta che mi lancio all'ascolto del quarto disco dell'eccentrico musicista d'oltralpe e quello che mi trovo tra le mani è fondamentalmente un'altra visione depressive del misterioso mastermind di quest'oggi che rimanda in modo inequivocabile alle precedenti release dello stesso, cosi come pure al suo side-project. E allora le domandi sono molteplici: perchè avere due progetti distinti se poi i generi proposti confluiscono verso un comune depressive black? Ebbene, una risposta certa non so darvela, posso solo dire che gli oltre cinquanta minuti qui contenuti, contengono melodie e ritmiche che sono accostabili a quelle dei J'ai si Froid... o forse è vero il contrario, non lo so. Aspettatevi pertanto quel black fumoso, a tratti atmosferico già descritto nella precedente recensione, con suoni che variano dal marziale al depressive melancolico, scrutando infiniti desolanti, sorretti da piacevoli parti arpeggiate che placano l'irruenza malefica generata dai diabolici vocalizzi del frontman. A differenza del side project però, posso dire che mi sembra di captare una miglior produzione alla consolle, cosi come pure una minor sporcizia in fatto di lavoro alla batteria. Per il resto, gli ingredienti che trovai nel progetto parallelo di Mr. Brouillard, li ritrovo tutti anche in questo nuovo enigmatico capitolo della saga 'Brouillard' sebbene qui meglio curati: e allora adagiatevi su lunghissimi brani (dagli 8.45 dell'opener ai 17 minuti della song di chiusura), dilatate fughe strumentali in tremolo picking, break acustici, assalti black, arcigne grim vocals, parti di derivazione burzumiana (penso al terzo ed oscuro capitolo), epiche e bombastiche percussioni folkloriche (a metà della seconda traccia, la mia preferita), ammiccamenti vari ai Darkspace in quelle partiture cosmiche dai tratti minimalistico-glaciali che in tutta franchezza, mi sono ritrovato alla fine ad amare. E cosi, da un album che avevo ingiustamente etichettato come mero clone di se stesso, mi rendo conto che Brouillard in questo lavoro riesce ad esprimere molto di più di se stesso, delle sue inquietudini, della sua solitudine, delle sue paure, convogliando il tutto in questi fottutissimi 53 minuti di incubi spettrali. (Francesco Scarci)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Fleshgod Apocalypse - Veleno
Advent Sorrow - Kali Yuga Crown
Ultar - Pantheon MMXIX

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Shadowsofthesun

Bull Of Apis Bull Of Bronze - Offerings of Flesh and Gold
Raein - Ogni Nuovo Inizio
C r o w n - Natron

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Alain González Artola

False - Portent
Old Forest - Black Forests of Eternal Doom
Ashbringer - Absolution

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Five_Nails
 

Exhumation - Seas of Eternal Silence
Feradur - Epimetheus
Wormed - Metaportal

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Dominik

Sworn - Dark Stars and Eternity
Acathexis - S/t
Rykers - The Beginning......Doesn’t Know the End

giovedì 25 luglio 2019

Seine - 22

#PER CHI AMA: Experimental Rock, The Mars Volta
Un nome inusuale per un disco, '22' è una cifra che in numerologia pitagorica identifica l’archetipo del creatore, l’attitudine alla creatività e all’innovazione. Di creatività in quest’album ne abbiamo da vendere, una miscela esplosiva di shoegaze, electro pop e trip hop di stampo decisamente atmosferico ma con una base di follia quasi schizofrenica a ricordarmi band come i Deerhoof e i Ponytail. "Novče" con la sua chitarra rock e la sua voce stralunata ai limiti dell’intonazione, descrive un paesaggio squilibrato e assurdo, mi vengono in mente immagini a cartoni animati coloratissimi, come quando si deve rappresentare il trip lisergico di qualche personaggio. Tra nuvole rosa, elefanti verdi e arcobaleni che escono dai cespugli semoventi i Seine tracciano un percorso squisitamente personale, a volte forse troppo esagerato nella bizzarria sonora, ma sempre unico e originale. Interessante "Pitaju", uno dei pochi pezzi con una evidente vena malinconica, dimostrazione di come anche solo con una chitarra e voce si possa essere davvero stravaganti. Fiore all’occhiello di '22' è sicuramente l’attenzione alla ritmica oltre che all’atmosfera altamente inusuale ed eccentrica, il pezzo che lo dimostra meglio secondo me è "Borovnica", il mio pezzo preferito del disco, che si costruisce su una sola nota ostinata seguita da una ritmica ansiotica, claudicante e stordita ma allo stesso tempo molto complessa e dettagliata a ricordare, prendetelo con le pinze, i The Mars Volta e i Flaming Lips. Una prova sicuramente lodevole per il coraggio e per l’originalità, anche se non riesco proprio a capire se sia davvero efficace la scelta dei Seine, in quanto a volte l'eccessiva eccentricità rischia di sfociare nella strampalatezza, con il filo mai del tutto chiaro. Tuttavia in '22' si sente che la volontà è esattamente quella di rendere questa musica, gli arrangiamenti, il songwriting e il concept artistico il risultato di una ricerca e nulla, e che, per quanto strambo e strano sia, sia stato conseguito per caso. (Matteo Baldi)

(Moonlee Records - 2019)
Voto: 69

https://seine.bandcamp.com/album/22

Pando - Negligible Senescence

#FOR FANS OF: Dark/Industrial/Black
'Negligible Senescence' is the 2016 debut release from Industrial Alternative Progressive Rock outfit Pando, recently re-released by Aesthetic Death. On the opening track "Residue", the first strum of the guitar sounds like 1997's "Kiss The Rain" by Billie Myers but doesn't continue as so, leading into a mariachi riff with borderline satanic growling vocals which seem out of place (a common theme throughout the first half the album). Following on from the opener is "Runt", which leads with a funky Rock n Roll riff that the Black Keys would be proud of, however, the vocals again seem like they are disjointed from the music. "Trek Through Utah Desert" has a pleasant sound (in comparison), but throughout the album, there is the inclusion of voice and sound samples that are a mostly meaningless contribution to the sound serving only to elongate the track times in an attempt to make the music seem progressive. Midway into the album, the sound transitions into Industrial Doom Rock, and for the first time the vocal style actually complements the sound. "Allisandrina" is one of the calmer moments of the album, making you feel as if you are stranded at sea whilst your deck hand is uneasily serenading you because of the lack of fish you have caught. The closing track "Ohm" is uninspired atmospheric tosh, that makes you feel like you're sitting in a damp cave, which I'm sorry to say is where this album belongs. Overall, it seems Pando had a bold idea to deliver an album (as the album name suggests) that has no signs of ageing as time goes on, however it fails in it's pursuit, leaving you with a disjointed feeling of dissatisfaction. (Stuart Barber)

Lèche Moi - A6

#PER CHI AMA: Coldwave/Post Punk
Ascoltando “Cold Night”, prima traccia di 'A6', ultima fatica dei francesi Lèche Moi, si ha l’impressione di entrare in un mondo surreale dove le creature citate da Robert Smith in "Hanging Garden", emergono dalla notte delle banlieue parigine inscenando una danza macabra, evocate dal cantato messianico, dalla pulsante ritmica elettronica e dal lugubre sax che animano il pezzo.

I degradati paesaggi post-industriali e le atmosfere impregnate di un romanticismo decadente sono il trait d’union che lega gli undici pezzi di un album tormentato che si sviluppa caoticamente tra pulsioni elettro-dark, divagazioni punk, grunge e persino noise, il tutto condito da battiti marziali e suggesioni ethereal-wave alla Cocteau Twins: insomma, un bel po’ di carne al fuoco e la sfida non indifferente di conciliare il tutto.

A guidarci in questo sorta di crepuscolare saturnalia ci sono Sidonie Dechamps, cantante capace di destreggiarsi tra stili completamente diversi e dare un tocco di carisma a composizioni non sempre convincenti, insieme all’altro ideatore del progetto Mika Pusse: l’interpretazione della prima non può che ricordare le performance infiammate di Siouxsie Sioux, mentre il secondo le fa da contraltare con la sua voce grave alla Nick Cave. Il comparto vocale rappresenta la spina dorsale dell’album ed è posto in grande risalto nel mix, relegando lo stuolo di altri strumenti ed effettistica a mero sottofondo di una specie di oscuro cabaret, cosa evidente in “Burned”, pezzo caratterizzato dal duetto di Sidonie e Mika appoggiato ad un ritmo cadenzato e un’angosciosa melodia che ricorda una versione industrial-rock di "Angel" dei Massive Attack.

La band sembra dare il meglio di sé proprio quando dà liberamente sfogo alla propria anima squisitamente punk senza perdersi in sperimentazioni eccessive: da questo punto di vista “Rage” è il pezzo meglio riuscito dell’album, contraddistinto dal repentino alternarsi di parti lente e sfuriate chitarristiche di grande impatto, ma anche il singolo “Libéra Me” colpisce per l’efficacia nel ricreare un’atmosfera eterea e al tempo stesso luciferina. Belle anche le due composizioni più crepuscolari del mazzo, “Anyway” e “The Letter”, brani romantici e minimali, mentre risulta decisamente più ostico digerire l’unione perversa di post-punk sfrenato alla Juju e noise rock scuola New York che troviamo in “Deep”.

I Lèche Moi non intendono limitarsi al compitino e confezionare il loro lavoro assemblando cliché della darkwave, pertanto sono molti i brani sperimentali e pesantemente contaminati, come la criptica “A Monkey In My Back” e quella sorta di manifesto ribelle che è “Irrécupérable”, in cui il parlato di Sidonie è incastonato in una cacofonia di nervosi effetti elettronici. In chiusura troviamo la lunghissima (11 minuti) “All Is All”, delirio rumoristico in cui si avverte l’eco dei Einstürzende Neubauten, e l’ambient notturno di “Partir Pur Ne Plus Revenir”.

Per quanto questi tentativi di arricchire l’esperienza sonora esplorando tutte le direzioni possibili siano senza dubbio ambiziosi, appaiono però anche sterili e troppo scollegati tra loro, mancando di trasmettere all’ascoltatore un’idea d’insieme e rendendo difficile l’ascolto. Le idee messe sul piatto sono veramente tante e suggestive, ma il loro sviluppo è incostante e capriccioso, proprio come l’anima punk del progetto. Non c’è da stupirsi se molti rimarranno ammaliati dalla sfrontatezza dei Lèche Moi, tuttavia al termine dell’ascolto di 'A6' proviamo una sensazione di incompiutezza e disarmonia, come se nella fretta di finire il puzzle dell’album, la band avesse collocato a forza molti dei tanti tasselli a disposizione. (Shadowsofthesun)
 
 (Atypeek Music - 2019)
Voto: 60

https://leche-moi.bandcamp.com/album/a6

lunedì 22 luglio 2019

Cleisure – Hydrogen Box

#PER CHI AMA: Indie Alternative Rock/Shoegaze
Il primo album dei Cleisure è un concentrato di energia indie che non lascia indifferenti, una bella scarica di adrenalina che fa del pop una virtù e del rock d'oltremanica di scuola Wire, un tocco di classe. Il gruppo di Colin Newman è infatti un'icona da cui i tre musicisti campani traggono la spinta più ruvida del post punk, rendendola una costante compositiva associata al concetto di funk nello stile dei The Rapture che dona molta vitalità al disco. In questo 'Hydrogen Box' convive poi una buona porzione di rock emotivo e spirituale, con spirali shoegaze che escono solo a tratti, ma in generale, è la forza pulsante e ritmica che fa da padrona di casa tra i brani. Il risultato sonoro è un prodotto molto British con somiglianze vicine alla meteora The Music, un'attitudine astratta in stile Kula Shaker (epoca 'Peasants, Pigs & Astronauts') e un richiamo molto rock pari ai primi Stereophonics. Senza dubbio la commistione di tipologie musicali, toccate dai Cleisure, incuriosisce molto ed il fatto che l'album sia stato masterizzato a Boston da Nick Zampiello (al lavoro già con band molto più aggressive come Agnostic Front e As I Laying Dying) è molto particolare. In effetti, il sound di tutti i brani, pur non avendo attitudini hardcore, risulta molto dinamico e presente soprattutto nella sezione ritmica che si mette in bella evidenza costantemente. Le composizioni, tutte cantate in lingua d'Albione da una bella, nasale ed urticante voce maschile, sono fatte per essere ascoltate, ballate e cantate, ma la verve migliore di questa band parte dal quarto brano, "Pollution", che apre veramente le danze, e si estende fino alla fine del disco dove le incursioni punk funkoidi, diciamo da buoni nipotini del Pop Group ("Whay"), si amplificano e si moltiplicano mescolandosi ad un indie più forsennato e psichedelico ("Television is a Trap for Kids") dando tanto colore (e calore) alla musica. Potrebbero essere anche cugini degli Arctic Monkeys in "Mask Attack", mentre a chiudere il box, in dolcezza e melodia, la conclusiva "Across the Stormwalk", che mostra il lato più romantico e meno spinto dei Cleisure. In sostanza, 'Hydrogen Box' è un album variegato e assai ritmico, sospeso tra indie rock e new wave, magari un po' nostalgico ammicante quei gruppi che hanno fatto grandi i 90's britannici risultando alla fine ben fatto, con una produzione pregevole, un artwork a tema, anche se lo avrei reso più accattivante. Le canzoni si prestano ad un ascolto attento e ad alto volume, sfoderando un rock trasversale, ribelle, a tratti tagliente, a volte più cool, mai banale e ben suonato. Forse non saranno perfettamente al passo con le mode musicali attuali ma il trio ha tutta la forza per emergere e far ricordare che la scena alternativa italiana offre tanta musica ben fatta ed intelligente. Ascoltare per credere! (Bob Stoner)

(Overdub Recordings - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Cleisureofficial/

Epitaphe - I

#PER CHI AMA: Death/Doom, Morbid Angel
Non solo black sperimentale dalla Francia, questa volta abbiamo infatti a che fare con gli Epitaphe e il loro oscuro death doom. Editi dalla Aesthetic Death, la band di Claix, minuscolo paesino alle porte di Grenoble, ci propone il proprio debut album, intitolato semplicemente 'I'. Cinque lunghi vagiti che cominciano dal caliginoso sound di "Smouldering Darkness", l'opener che per quasi venti minuti si prende cure delle nostre paturnie con lugubri atmosfere funeral e ben più aspri riffoni di scuola Morbid Angel, che irrompono come carta vetrata nell'incedere angosciante dei quattro transalpini. Il risultato finale ha sicuramente il suo fascino proprio per la varietà della proposta dell'act francese, abile sia nelle porzioni a rallentatore che in quelle più demolenti e death oriented, oltre che in arrangiamenti disarmonici che fungono da legante tra le due componenti della compagine. Martoriati dalla violenza del rifferama degli Epitaphe, ci avviamo all'ascolto della seconda "Embers", una song di più breve durata (ben dieci minuti!) caratterizzata da una pericoloso e orrorifico blackened death che enfatizza l'ansiolitico, oppressivo e nevrotico mood dei nostri. "Rêverie" funge invece da intermezzo acustico tra la prima e la seconda parte del cd, offrendoci 224 secondi di rilassanti e melodici arpeggi che ci preparano alla furia iconoclasta di "The Downward Stream", un'altra sassaiola di quasi dieci minuti all'insegna di un malvagio death sound di scuola floridiana. La song ci spara in faccia riff ferali accompagnati da un basso pulsante e da una voce che si prodiga tra il growl catacombale ed un cantato più comprensibile, in un avanzare che ha modo di offrire anche qualche richiamo agli Absu, oltre che le classiche frenate doom che irrompono qua e là lungo tutto il lavoro. Un lavoro diciamolo subito, che per molti rischierà di risultare a dir poco indigesto; non è infatti per nulla semplice avvicinarsi all'act francese, la cui proposta necessita di svariati ascolti, soprattutto quando ti trovi davanti ai venti insormontabili minuti di "Monolithe", che a questo punto risultano come una vera e propria parete dell'Everest da scalare. Non lasciatevi infatti ingannare dal tiepido inizio ambient del brano, perchè da li a breve, emergerà nuovamente tutta l'essenza malvagia del combo francese. Ancora isterismi estremi saranno infatti lì a dispensare riffoni spaventosi, ritmiche sghembe e vocals diaboliche prima di un break centrale quanto mai inatteso, all'insegna di sprazzi post rock acustici, e di una roboante conclusione death che sancisce la fine delle ostilità targate Epitaphe. Prestate assolutamente attenzione! (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2019)
Voto: 75

https://epitaphe.bandcamp.com/album/i-2

domenica 21 luglio 2019

Old Forest - Black Forests of Eternal Doom

#PER CHI AMA: Black Doom, Agalloch
Ormai la Dusktone è un'etichetta dall'ampio respiro internazionale con nomi di una certa fama consolidata nel proprio roster. Tra gli ultimi a fare ingresso nella label italica, ci sono gli anglo-norvegesi Old Forest che avevo parecchio apprezzato nel precedente cd 'Dagian', uscito nel 2015 sotto l'egida dell'Avantgarde Music. Dopo quattro anni, il terzetto di base a Londra, che per chi non lo sapesse include membri di Ewigkeit (Mr. Fog) e In the Woods (l'ultimo entrato Kobro alla batteria e Mr. Fog stesso), torna con quest'ispiratissimo 'Black Forests of Eternal Doom', contenente sei nuovi pezzi. Si parte dalle ormai consuete atmosferiche melodie di "Subterranean Soul", ove a farla da padrone, oltre ad un chitarrismo epico e nero, sono le vocals del buon Mr. Fog (qui col nome di Kobold), riconoscibilissimo sia nelle parti pulite che nel suo screaming ferale. Le ritmiche sono tirate ma ariose, complici le azzeccate melodie delle tastierone del factotum Kobold che affiancano il nervoso tracciante sostenuto dalla porzione di chitarra/basso di Beleth e dall'estenuante drumming di Kobro, uno che ha suonato anche in Carpathian Forest, Blood Red Throne e Green Carnation, quindi non proprio l'ultimo dei pirla. Le atmosfere si fanno ben più magiche nella seconda "Wastelands of Dejection", sebbene i ritmi siano sempre tesissimi, ma l'abilità dei nostri sta nell'alternare egregiamente momenti veloci, ove a dettar legge c'è lo screaming arcigno di Kobold, con altri decisamente più compassati e atmosferici (al limite del doom), con il frontman a cantare in veste pulita, come fatto nell'ultima release degli In the Woods o nella miriade di band in cui ha militato o di cui è unica mente solista. Il disco mi piace, non c'è che dire, e la forte componente di pathos che aleggia nelle sue corde, non fa che amplificare questo mio godimento interiore. È il caso della terza song, la title track, forse il brano più meditativo del disco, complici quelle sue melodie ipnotiche nella seconda metà, col black relegato totalmente in secondo piano, e con influenze derivanti dal doom e dall'ambient, che lentamente s'insinuano nel sound dei nostri. Difficile etichettare con esattezza la proposta dell'ensemble, visto che si possono riscontrare idee derivanti da act quali Agalloch, Novembers Doom e pure Negura Bunget. Forse per questo li apprezzo, perchè in qualche modo hanno rimpiazzato la mancanza dei primi e degli ultimi, che hanno pensato male di ritirarsi dalle scene. Niente paura, ora ci sono gli Old Forest a riempire le vostre giornate, sperando solo di non dover attendere quattro anni tra un'uscita e l'altra. "Shroud of My Dreams" è un bellissimo pezzo semi acustico che da solo vale per cosi dire il prezzo del biglietto, struggente e malinconico quanto basta. Siamo nei pressi di un black doom con "A Spell upon Thee" che può evocare per certi versi il debut degli In the Woods stessi o qualcosa dei primi Green Carnation, comunque retaggio degli artisti inclusi in questa straordinaria band, che ha ancora nella conclusiva "Hang'ed Man" l'ultima eccellente cartuccia da sparare. Un altro pezzo intimista che richiama il nero e flemmatico folklore degli Agalloch. Bene cosi. (Francesco Scarci)

Desire of Pain - Immensity

#PER CHI AMA: Death Progressive, Ne Obliviscaris
L'Australis Records è un'etichetta cilena che ci sta permettendo di aprire una finestra sulla loro scena locale. Dopo aver da poco recensito i paurosi techno death metallers Target, ecco che facciamo la conoscenza dei Desire of Pain, altra band di Santiago, questa volta focalizzata ad un death più melodico e ricco in sfumature grooveggianti ma anche prog. 'Immensity' è il secondo lp in otto anni per il terzetto, che vede tra le proprie fila, l'ex vocalist dei Clair de Lune Morte, una band doom che alcuni di voi ricorderanno di certo. Ma passiamo ai contenuti di questo disco che si muovono dall'intro melodica di "Everything" al groove ritmato e melodico di "Ascension", una song che ci dice un paio di cose rilevanti dei Desire of Pain: la prima è che i nostri sono degli ottimi musicisti, essendo dotati di un eccellente bagaglio tecnico; la seconda che la band ha una discreta vena creativa che permette loro di suonare ciò che vogliono e con risultati di un certo livello. Quello che di contro mi fa storcere immediatamente il naso è la prova dietro al microfono di Sebastián Silva, probabilmente più a proprio agio nella versione growl che in quella, meno convincente, clean. La musica invece vive di strappi: accelerazioni, stop & go, parti più atmosferiche accanto ad altre più ritmate, giusto per accontentare un po' tutti i palati, anche quelli più sopraffini. "Vertigo" è un pezzo devastante di oltre undici minuti di apocalittico e death metal old school, riletto in chiave moderna. Guizzi ficcanti, ritmiche tritaossa, oscure growls e urlacci più incazzati senza dimenticarsi le voci più pulite, ovviamente il tutto inondato di una bella dose di melodie e di un break ove fa la sua comparsa una tromba che viene utilizzata dai nostri alla stregua di quel violino indiavolato dei Ne Obliviscaris che raddoppia la prova strepitosa di Marcelo Fuenzalida alla chitarra solista. Bravi, non c'è che dire, anche se qualcosina ancora non suona perfettamente fluido, soprattutto nella componente più death doom oriented dei nostri che pare stonare dal resto del contesto musicale. "Eternal" è un pezzo semi acustico che ci introduce a "Trascendence", una traccia che sembra uscita da un qualche disco new wave di metà anni '80 e qui la voce, pulita, gotica e carica del giusto pathos, è perfettamente inserita nel contesto del brano. A chiudere il disco ecco arrivare "Aeon" e i suoi dieci minuti di prog rock fatto di lunghi assoli, atmosfere tiepide e rilassate, ma anche di feroci scorribande death metal che esaltano le eclettiche doti dei nostri. Ben fatto. (Francesco Scarci)

martedì 16 luglio 2019

Welcome Inside the Brain - Queen of the Day Flies

#PER CHI AMA: Psych Rock, The Doors, Iron Butterfly
Per prima cosa mi sono guardato il bel video di "Baptist Preacher", brano d'apertura del nuovo e terzo disco (uscito per la Tonzonen Records) dei tedeschi Welcome Inside the Brain, poi ho osservato la magnifica immagine di copertina, quell'irreale aria oscura e la sua folle, seria, magnificenza regale, cercando di capire come interpretare la musica di questo strano gruppo proveniente da Lipsia. Devo ammettere, che solo alla fine del disco, mentre ascoltavo la canzone di chiusura, "Hometown", ho realizzato quanto questo combo sia bravo, intenso ed artisticamente valido, con un sound ricercato e variegato, delle idee chiare e tanta cultura in campo psichedelico e progressivo. I brani, capitanati dalla voce stupenda di Frank Mühlenberg, psichedelica, istrionica come il signor Morrissey di "Something is Squeezing my Skull" (ascoltatelo in "Call Me a Liar"), glitterata come il miglior Jarvis dei Pulp (epoca del capolavoro 'Freaks') e dalle tastiere, piano e hammond di Johann Fritsche che sovrastano e danno corpo e colore a tutte le composizioni che si snodano attraverso un'infinità di rodati fraseggi e melodie psichedeliche di varie epoche. Ottima produzione e creazioni frizzanti che passano dall'heavy psych degli Iron Butterfly alle incursioni in territori vintage di hard rock blues di scuola Cream, attraversando il prog intellettuale alla Marillion/Echolyn e ultimi Anekdoten fino ad approdare sulle spiagge dell'avanguardia jazz di "zappiana" memoria nella già citata, conclusiva, favolosa "Hometown". Senza mai dimenticare che la band dimostra un'innata capacità di saper unire, grazia e tecnicismo, tanta bravura ed intuizioni progressive di tutto rispetto, un estro pop assai attraente e un'affinità da vera rock band, per un risultato finale pienamente soddisfacente. Sette brani da assaporare appieno, zeppi di sfumature colorate e geniali aperture, che forse talvolta peccano di derivazione ma sono ragionati e sviluppati in maniera molto personale, con una propensione allucinogena, delicata ed avvolgente, che punta all'acido suono dei The Doors quanto quello dei The Charlatans, sfiorando lidi stoner alla On Trial e pop di classe alla Paul Weller. Psichedelia, pop, '70 rock, avanguardia, rock progressivo, jazz rock, il tutto mescolato in una quarantina di minuti emozionanti che non guardano assolutamente alle mode ma solo alle emozioni e al piacere di ascoltare del buon sano sofisticato rock illuminato, dal suono caldo e senza effetti di moderna concezione, buoni solo a distrarre le menti dell'ascoltatore. Bravura, passione, fantasia ed un pizzico di (in)sana follia, ecco il segreto di quest'ottima band. (Bob Stoner)

Oui! The North - Make an O with the Ass of the Glass

#PER CHI AMA: New Wave/Electro Dark, Joy Division, The Cure
'Make an O with the Ass of the Glass' is the debut album by Peschiera del Garda (Verona) based band Oui! The North, from Marco Patrimonio and Marco Vincenzi (previously guitarists in the Italian rock band Le Pistole alla Tempia) with contributions from local musicians including Stefano Bonadiman (former LPAT bassist), Matteo Baldi (from WOWS) and Giorgia Sette, a local singer and songwriter, to name a few. The post New Wave journey begins with "Radio City Hall", which initially is light and uplifting and then descends into electronic darkness paying tribute to the New Wave sounds of the 80's. Following on from the opener we are treated to, what would sound like if Joy Division made a video game soundtrack, with simple heartbreaking lyrics, loaded with meaning, and as soon as the electronics kick in, we are racing towards a subdued Depeche Mode sound. "The Moon Of Tangeri" starts where "Radio City Hall" leaves off and feels like a twisting funky town training montage for the future. "Sermon" follows with it's stomping melody and the contradictory God loving preaching speech along with a funky electro sound that makes you realise, you need to see Oui The North live. "As Sincere As Never Before" has a tranquil Atari game accomplishment vibe, with ocean wave sounds mixed with aggressive jet engine sounds which somehow compliment each other making for a charming piece. "True Love" reminds us that Oui! The North can transition between darkness and tranquility with ease and "A Kind Of Aggression" reminds us just how good of musicians Oui! The North really are with their dark optimism that continues to surprise by never becoming repetitive. 'Make an O with the Ass of the Glass' by Oui! The North is a post New Wave romp, that delivers and is an album you didn't know you needed but definitely do. (Stuart Barber)

Pervy Perkin - Comedia: Inferno

#PER CHI AMA: Experimental Extreme Prog Metal, Devin Townsend, Opeth
"Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant'è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte". Cosi apre il nuovo lavoro degli spagnoli Pervy Perkin, tornati da poco con un nuovo capitolo discografico, 'Comedia: Inferno', che giustifica l'incipit dell'album. Un disco che si apre con "Abandon All Hope", una song che prosegue quel percorso iniziato nel 2016 con lo sperimentale e progressivo '.ToTeM.' e prima ancora da 'Ink'. Le coordinate sulle quali si muove questo terzo lavoro della band di Madrid sono sempre quelle del prog metal, venato da mille altre influenze che passano dalle scorribande death/black/speed/prog dell'opener, al brutal iniziale della seconda "The Tempest" che evolverà in un thrash metal di memoria "sanctuaryana" e successivamente prog rock sulla scia di Riverside e Porcupine Tree, sfoggiando lungo gli iniziali 13 minuti una miriade di atmosfere, influenze e vocals (sia in chiave growl che clean - complice anche la presenza di due guest al microfono, Kheryon degli Eternal Storm e Blue dei Bones of Minerva), da far impallidire. Considerate poi il fatto che più si ascolta il brano e più emergono nuovi dettagli, che ci portano anche all'alternative, al cyber metal e all'avantgarde, in un rincorrersi sonico davvero peculiare. Con "Three Throats" si cambia ancora registro visto che qui le voci sembrano provenire da un ambito blues hard rock, cosi come la musica, qui forse troppo morbida per i miei gusti. Passo oltre, sebbene il pattern musicale negli ultimi 120 secondi subisca un appesantimento importante a livello ritmico e un nuovo cambio di registro, questa volta verso l'elettronica negli ultimi istanti del brano. Eterogeneità, questo è il verbo che dimora nelle corde dei Pervy Perkin. Lo dimostra "All For Gold", un pezzo strano, oscuro, complicato, dove i vocalizzi somigliano a quelli più rochi di Dave Mustaine nei suoi Megadeth, mentre la musica viaggia in un mondo e in un modo davvero tutto suo, dove tutto sembra lasciato all'improvvisazione. Difficile anche star dietro a questi molteplici cambiamenti che confondono non poco l'ascoltatore, ma forse proprio qui risiede il punto di forza, ma qualcuno potrebbe obiettare di debolezza, della band originaria di Murcia. Io trovo che ci sia sicuramente un buon campionario di insana follia e grande creatività, sulla falsariga di Devin Townsend, ma che forse qui talvolta si vada oltre l'umana comprensione con dei cambi di stile davvero spaventosi. Ascoltare un pezzo come "All For Gold", tanto per citarne uno a caso, diventa veramente complicato e faticoso, nonostante i "soli" sette minuti di durata, perché necessita di un'attenzione non indifferente, visti i molteplici cambi di stile. "Row" fortunatamente dura meno e sembra - almeno in apparenza - anche più stabile caratterialmente, visto che da metà brano in poi emergono suoni stralunati e schizoidi, con il tutto che si conclude in un modo del tutto inatteso, quasi doom. "Open Casket" ci rimanda nuovamente al prog rock, ma è lecito attendere l'evolversi delle cose per non essere contraddetti un'altra scarrettata di volte, e faccio bene pure stavolta, visto che il quintetto madrileno parte per la tangente ancora una volta, con dei suoni debitori al free-jazz (ascoltate anche l'apertura di "Cult of Blood" per meglio comprendere, o forse non comprendere ls proposta dei nostri, considerata la vicinanza della band in questa traccia ai Testament). Insomma complicato affrontare sti ragazzi, soprattutto quando poi c'è da affrontare un pezzo di un quarto d'ora ("Malebolge"): quali contromisure adottare, cosa aspettarsi, come combattere il delirio di onnipotenza che sembra avvolgere la band? E i nostri ci rispondono rispolverando un techno death, voci schizoidi, frammenti rock, scorribande black folk, funk, musica classica, prog, campionamenti elettronici, industrial, cyber metal, thrash, che evocano mostri sacri quali Opeth, Leprous, Nine Inch Nails, Megadeth, Primus, Finntroll, Pink Floyd, Hawkwind, Meshuggah, King Crimson, Queensrÿche, Judas Priest, Nevermore, il tutto mischiato in uno spaventoso magico calderone. Sono arrivato al termine di questi settanta minuti di 'Comedia: Inferno' con "Worm Angel" e sapete una cosa? Non c'ho capito davvero nulla, meglio ricominciare daccapo e sperare di carpirne davvero l'essenza al secondo, terzo, milionesimo ascolto di questo delirante lavoro. (Francesco Scarci) 

(Self - 2019)