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domenica 7 luglio 2019

Mercy's Dirge - Live, Raw & Relentless

#PER CHI AMA: Black/Thrash, Celtic Frost, Possessed
Prosegue l'excursus sulle band rumene da parte della Loud Rage Music. Oggi è la volta del debut dei Mercy's Dirge, 'Live, Raw & Relentless', un album uscito autoprodotto nel 2018 e riproposto dall'etichetta di Cluj-Napoca nell'aprile 2019. In realtà, il disco contiene brani contenuti nell'EP uscito lo scorso anno e nei demo di metà anni '90 della band. Si proprio cosi, visto che il sestetto di Suceava aveva fatto uscire un paio di tapes nel 1993 e nel '95 prima di sciogliersi nel '97 e ritornare poi nel 2015. Il disco potrete pertanto immaginarlo come una sorta di bignami di rozze sonorità black/thrash/death di fine anni '80, un po' come mettere sotto lo stesso tetto Venom, Possessed, Celtic Frost, primi Sepultura, Kreator e Bathory, in un disco che francamente mi sento di consigliare solo ai nostalgici del genere. Undici tracce per quasi un'ora di suoni che definirei retrò proprio per non scrivere vintage e che poco ormai hanno da dirmi, avendo vissuto a quel tempo l'ondata di tutti quei mostri sacri. Se poi, siete giovani e non avete mai avuto tempo di approfondire le band di cui sopra, ma sarebbe un vero sacrilegio, allora provate a dare un ascolto anche al nevrotico sound dei Mercy's Dirge, alle architetture ruspanti (quasi punk-hardcore) di "Devilish Wish", ove accanto al cantato urlato, trova addirittura spazio una voce pulita. Tra gli altri brani, mi ha colpito l'epicità occulta di "In the Name of...", cosi evocativa nel suo cantato arcigno che troneggia su quella ispida ritmica sparata sul finire a tutta velocità. Il disco prosegue su questa scia fino alla conclusiva, seminale ed heavy "Senseless Agony", in una sorta di finestra su vista death/punk dei favolosi anni '80. Insomma, praticamente nulla di innovativo, solo un bel salto indietro nel tempo alla riscoperta di vecchi suoni ormai dimenticati nella notte dei tempi. (Francesco Scarci)

Mat Cable - Everyone Just Going Through Something

#PER CHI AMA: Alternative Rock
E questi Mat Cable chi diavolo sono? Leggo la loro biografia che mi riporta all'anno della loro fondazione, il 2013: da allora la band lombarda ha confezionato un paio di EP, fino ad arrivare a questo debutto sulla lunga (ne siamo proprio sicuri?) distanza. Fatto sta che 'Everyone Just Going Through Something' è il nuovo disco del trio italico, che esce per la Alka Record. La musica proposta la indirizzerei in un rock alternativo che da "The Rim" a "Your Fire", ci propina 28 minuti di musica che vede in molteplici influenze, la sorgente musicale per i nostri. Dirmi fan di queste sonorità che pescano un po' dal post-punk revival britannico, dall'indie e dall'alternative rock mi pare un po' eccessivo, però c'è un qualcosa nella musica del terzetto nostrano che talvolta catalizza la mia attenzione. Forse quella melodia di sottofondo dell'opening track che sembra la musica di una giostra infernale o il rock sporco della seconda "June" che s'insinua nella testa con quel suo rifferama arrogante quanto basta per indurci al più classico dell'headbanging. La voce di Raffaelle Ferri poi è sicuramente interessante, mi ricorda qualcuno che francamente non sono riuscito a mettere a fuoco, nonostante i molteplici ascolti. Incendiaria, almeno a livello ritmico la terza "Hey Doc" che vanta più di un qualche punto di contatto con gli Arctic Monkeys. Con "Hair" facciamo un salto temporale indietro nel tempo di 50 anni (accadrà anche con "You Like Me"), là dove mi immagino band sopra un palchetto con pantaloni a zampa di elefante, capelli cotonati, qualche schitarrata di accompagnamento, una voce suadente e il gioco è fatto. Con "Heart of Stone" facciamo un balzetto in avanti con i tempi e arriviamo a proporre un discreto punk rock, ruffiano nel chorus e nelle melodie. Il disco scivola via velocemente, complice la breve durata dei brani, fino ad arrivare a "Terror", scelta dalla band come singolo dell'album insieme a "Your Fire" e anche eletta dal sottoscritto come mia song preferita, forse per quel suo fare più pesante e ammorbande rispetto alle altre track. Dicevamo di "Your Fire", una bella mazzata nei denti che sancisce la fine delle ostilità di questo 'Everyone Just Going Through Something', lavoro interessante ma ancora un pochino acerbo. C'è strada da fare, meglio mettersi in moto dunque. (Francesco Scarci)

(Alka Record Label - 2019)
Voto: 64

https://www.facebook.com/matcablemusic/

Officium Triste/Lapsus Dei - Broken Memories

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi My Dying Bride
Lo scorso anno (2018), l'etichetta cilena Australis Records, ha fatto uscire un signor split album dove a condividere la scena figurano gli olandesi Officium Triste e i Lapsus Dei. Partiamo proprio da quest'ultimi e dalle loro tre song che ci consegnano la personale visione death doom melodica della band di Santiago. E diciamolo subito, "Human" (la mia song preferita), "Faithless" e "The Feeling Remains", sono tre pezzoni dediti ad un sound malinconico che per forza di cose rimandano ai primissimi Paradise Lost e ancor di più ai My Dying Bride, in un incedere costante, melodico e compassato, fatto di chitarre pesanti, atmosfere anguste (soprattutto nella seconda delle tre), contrappuntate da growling cavernosi. Poi ecco approdare gli olandesi di Rotterdam, gli Officium Triste, una vita nel doom, grandi album rilasciati e... tac, eccoli esordire con "The Weight of the World", una cover dei britannici Editors, una song davvero iper malinconica, in cui sei tulipani offrono una versione indie post rock assai vicina a quella originale per non dire ancor più nostalgica ed emozionale. Rimango un po' più dubbioso, dopo aver ascoltato questa perla, trovarmi di fronte alla scelta di accostare questa song alle due successive, "Crossroads of Souls" e "Pathway (of Broken Glass)", due pietre miliari della band qui in modalità live, che ci riconsegnano gli Officium Triste nella versione che già conosciamo, ossia oscuri alfieri di un death doom flemmatico e melodico, drammatico ed emozionale, che nulla aggiunge a quanto già sappiamo, ma che anzi aumentano la trepidante attesa per un comeback discografico che manca oramai dal 2013. Per ora ci si accontenta delle briciole, ma presto, sono certo, sentiremo parlare del ritorno degli Officium Triste, cosi come quello dei Lapsus Dei. (Francesco Scarci)

giovedì 4 luglio 2019

Lustre - Another Time, Another Place (Chapter One)

#FOR FANS OF: Ambient Black, Burzum, Mesarthim
Delving into Lustre's back catalog, 'Another Time, Another Place (Chapter One)' unearths an unreleased EP in the form of 'The Ardour of Autumn' (2013) and blends it into a reissue of the 2009 EP, 'Welcome Winter', to round out a forty minute foray into Lustre's ever-inviting comfort zone.

In a world of shrieking solos and furious drum fills, Lustre's delicate and intimate ambiances can leave a listener feeling as though he is the brutish beast accidentally intruding into a fragile shop brimming with decorative curios. The relaxing sigh of this music fogs the mind with easing endorphins as sprays of guitar foam hush the tinny keyboard resonance at the top, surrounding the space behind this crisp tinkering foreground with fuzzy gravitational waves. Like crossing that small shop's threshold and stepping into world stagnating in its antiquity, Lustre leaves the chaos of a city or the battles across a countryside swarmed by foes behind in order to bounce around Balamb or cast a line from Fisherman's Horizon in a mini-game of metal where its majesty is in its sickly sweet musical menagerie melting across an icy landscape and an even more frigid furrowed brow.

Dim flickering melodies happily bounce shadows away, like tongues of flame inviting company into the comfort of newly-created nostalgia. Holding back the chill of autumn breezes, the newly debuted 'Ardour of Autumn' is choreographed like the coordinated drips of condensation accumulating from stalactites as fingers of time run round the rims of glassy puddles of eternity to hum life into such stoic silence. With a background of weighty guitar grain chased down by hushed snarls, even the most sinister muffled shriek becomes a whisper of distant malevolence as fleeting furies etch their echoes into memory.

The bestial backdrop of “The Ardour of Autumn (Part 1)” swells and shrinks the chest like a cigarette sigh by the fire pit while the rest of the plastered party shakes the property's foundation at the basement battle station. A melancholic turn, as though the happy plodding of those sweatshirt-clad evenings has finally ushered in the first snows of November, heralds the drag of evenings into the wee hours of the morning as alcohol affects emotions and the second wind of the night brings a brain bursting with forlorn thoughts, the blur of guitar rising to more prominence in the mix and the peaceful synth shedding small tears tasting of bygone torments so far away yet lingering as woeful reminiscences of one's past innocence.

There is little jauntiness to these highly-structured tunes, merely a relaxing and mystical, brooding and funerary feel that implores a listener to contemplate not only its own relentless embrace but also the wandering thoughts that such strict structures incubate in a brain craving the chaos of creativity. Still, after the ears are deadened by another session of the metalhead's traditional form of therapy, the intrigue and ambiance of Lustre becomes an almost magical nightcap to an evening of howls and growls. (Five_Nails)


Breach - Kollapse

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Hardcore/Post-Punk
Non ricordo esattamente quando ascoltai 'Kollapse' per la prima volta. Ho iniziato a nutrirmi di post-metal quando mi fu consigliato 'Oceanic' degli Isis nel 2007 e da lì iniziai una caccia a tutto ciò che aveva “post” nell’etichetta, setacciando gruppi dagli elenchi di Wikipedia (sì, sono triste, lo so) o pescando album dai blog e credo di essere inciampato nei Breach così, mentre cercavo roba dei loro “vicini di casa” Cult Of Luna. 'Kollapse' era uscito nel 2001, sempre quell’anno i ragazzi di Luleå avevano capito che oltre era impossibile andare e si erano sciolti. Fu amore al primo ascolto e nel giro di poco tempo mi procurai 'Venom' (2000, altro disco allucinante), mentre solo più tardi avrei apprezzato a ritroso 'It’s Me God' (1997) e 'Friction' (1995). C’è qualcosa di malsano nel furibondo hardcore altamente contaminato dei Breach, un’energia selvaggia e ingovernabile che pochi altri gruppi riescono a trasmettere in modo così tangibile (vedi i Botch, band dal percorso simile): è come un’unione instabile tra forze contrapposte e, benché la loro uscita di scena sia definitiva (reunion lampo nel 2007 conclusa con la distruzione della strumentazione), non stupisce che ancora oggi siano una delle formazioni più influenti per gli amanti della scena post-hardcore e metal. 'Kollapse' è il canto di un cigno malato e incazzato nero per esserlo, un cigno che probabilmente sa di essere prossimo alla dipartita. È quella sottile malinconia che affiora qua e là tra le macerie a rendere questo album unico, straziante a livelli quasi insopportabili e profondamente introspettivo, malgrado quei chitarroni pesanti, le rullate tribali di batteria e quel basso che sembra voler fare tutto a pezzi. Anche la copertina minimal grigia, con l’aereo appena stilizzato e cristallizzato nell’attimo prima dello schianto, trasmette una sensazione di catastrofe imminente ed inevitabile: è facile leggervi tristi presagi relativamente al futuro della nostra società. Basta la traccia di apertura “Big Strong Boss” per farci venire la pelle d’oca: i Breach partono piano, quasi in sordina, lasciando spiazzati chi li aveva lasciati ad evocare demoni in 'Venom'; poi a piccole dosi iniziano a rilasciare gocce sempre più pesanti di disagio e le distorsioni acide a poco a poco, riempiono i precari paesaggi da sogno dell’intro deformandoli in un crescendo di mostruosità da cui non è possibile fuggire. Lo sviluppo dell’album è capriccioso e bipolare: pezzi come “Old Ass Player” e “Alarma” ci riconducono nel pieno delirio dei dischi precedenti e i Breach vi scatenano tutta la loro furia hardcore, o meglio, quel loro particolare hardcore bastardo e contaminato da sludge e da scorie di noise e di rabbia, mentre apprezziamo alla voce un Tomas Hallbom indemoniato più che mai nell’urlare contro un cielo buio e temporalesco. Gli inquieti intermezzi post-rock come “Sphincter Ani”, “Teeth Out” e “Seven”, pur nella loro calma apparente, rappresentano i momenti più disturbanti dell’album, onirici nelle loro atmosfere crepuscolari (in particolare "Teeth Out", in cui fanno capolino persino le delicate note di un glockenspiel), ma rese angoscianti dai nervosi fraseggi di chitarra e pronte a tramutarsi in incubi quando basso e percussioni iniziano ad aumentare di intensità. “Lost Crew” scompagina tutte le carte in tavola: furia punk rock, isteria post-punk e pesantezza metal, influenze mescolate tutte insieme in un cocktail omicida e sparate su un ritmo quasi danzereccio e su cui l’headbanging è obbligatorio. È probabilmente l’apice di un album che si mantiene costantemente su livelli altissimi, soffocandoci nel feroce hardcore di “Breathing Dust”, travolgendoci con la velocissima “Murder Kings And Killer Queens” e facendoci definitivamente impazzire insieme a Tomas, nelle allucinazioni sonore di “Mr. Marshall” (da chi avranno preso spunto i Daughters?). L’album si conclude con la lunga title-track, un pezzo strumentale che per certi versi richiama le sonorità di "Teeth Out", ma che si evolve tra cupi intrecci strumentali e fugaci bagliori di un tramonto lontano, lasciando un tangibile senso di perdita: i Breach si stavano infatti avviando verso l’addio, chiudendo e coronando la loro carriera con questo quadro dai colori stridenti, perfetta espressione di disagio esistenziale e desiderio di ribellione, pessimismo e speranza, emozioni contrastanti sperimentate tutte insieme. (Shadowsofthesun)

(Burning Heart Records - 2001)
Voto: 95

https://www.facebook.com/breachofficial/

Arcane Voidsplitter - Voice of the Stars

#PER CHI AMA: Drone
Oltre un'ora di musica in tre brani strumentali, una super scalata da affrontare con i belgi Arcane Voidsplitter e la loro ostica proposta all'insegna di un drone dalle tinte funeral. 'Voice of the Stars' è il titolo del secondo album della one-man-band fiamminga, capitana da Stijn van Cauter, uno che suona, tra gli altri, in Until Death Overtakes Me, The NULL Collective e The Ethereal, tutte band che conosciamo bene qui nel Pozzo dei Dannati. Le danze si aprono con le tastiere cosmiche di "Arcturus", un brano che ci porta inevitabilmente verso l'infinito astrale, immersi in mille pensieri esistenzialisti e a quel concetto di finitezza umana di fronte all'immensità dell'Universo. Le melodie soffuse quasi ipnotiche dell'opener m'inducono a questo, a scollegarmi dal mero materialismo e collegarmi di contro ad una spiritualità superiore in un enigmatico flusso dronico che mi spinge a riflettere anche su un altro quesito della scienza "siamo davvero soli nell'Universo?". No, non lo credo, mi piace pensare che ci sia cosi tanto spazio a disposizione là fuori da contenere cosi tante forme di vita che nemmeno immaginiamo. Pensieri, mille quesiti, poche certezze si dipanano nella mia testa mentre scorrono le melodie droniche ancestrali dell'opening track e della successiva "Betelgeuse" che ci catapulta immediatamente sulla stella supergigante rossa che brilla nella costellazione di Orione. Le pulsazioni sonico ambientali che si scorgono in questo angolo della galassia sono piuttosto simili a quelle ascoltate sino ad ora, ma questi quasi 35 minuti di suoni stellari, che somigliano a quelle gigantesche ma minuscole esplosioni che punteggiano le stelle, servono piuttosto a raccogliere altri pensieri e suggestioni, alla ricerca di una pace interiore che sbricioli inutili paure interiori. È musica zen quella contenuta in 'Voice of the Stars', non certo metal, e nemmeno forse vuole esserlo. "Aldebaran" è l'ultimo atto di questo viaggio interstellare, una stella considerata fortunata, apportatrice di ricchezze e onori, ma che qui ci lascia avvolti in un senso di vuoto assoluto, privo di ritmi e d'intemperanze cosmiche, un senso che induce a sognare mondi paralleli, distanti solamente qualche milione di anni luce. (Francesco Scarci)

lunedì 1 luglio 2019

Tense Up! - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock, Fantomas
Premesso che ho quasi sfasciato il cd per estrarlo dalla custodia (e questo anche il motivo perchè cui ci abbia impiegato un bel po' a recensire il dischetto), vi racconto un po' dell'EP omonimo dei Tense Up! Dall'area di Reggio Emilia, ecco arrivare un duo con le idee chiare e brillanti, che ha catturato le attenzioni della Dischi Bervisti cosi come pure la mia. Vincenzo e Luca s'incontrano, o forse meglio dire, collidono, dando alla luce questo lavoro di soli sei pezzi dove s'incrociano math rock, psych, punk e surf rock & roll, il tutto a creare una cavalcata tirata, dall'inizio alla fine, da "Mr: Memory" a "Private Traps", in un roboante e arrogante incedere di chitarre grezze, su cui si installano come uniche voci, estratti di film noir anni '60, spoken words, urla e addirittura versi di animali. Poi è un flusso di suoni angoscianti e tormentanti che si muovono su ritmiche inusuali, schizoidi ("Carrusel") e alternative, suonando a tratti davvero dissonante, e per questo, davvero avvincente. E allora, sebbene non mi ritenga un fan del genere, devo ammettere di essere rimasto ammaliato non poco dalla proposta dei due folli musicisti emiliani, la cui creatività risiedeva già nel proporre un artwork di copertina con la protagonista de 'La Donna che Visse Due Volte', ossia quella Madeleine, scelta da Hitchcock e interpretata da Kim Novak. E allora non vi rimane altro che farvi investire dai dialoghi (in inglese ma anche in italiano) inclusi nell'album che raccontano un po' di più della stravagante proposta di questi amanti del cinema, ma anche di una musica che nella sua riverberante e aberrante stravaganza, ho trovato davvero originale. Se siete degli amanti dell'imprevedibilità di casa Mike Patton, e cercate qualcosa che per una ventina di minuti sia in grado di catalizzare la vostra attenzione, beh i Tense Up! faranno sicuramente al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Dischi Bervisti - 2019)
Voto: 74

https://www.facebook.com/tenseupband/

Richard James Simpson – Deep Dream

#PER CHI AMA: Alternative/Indie Rock
L'ex chitarrista e cantante della band alternativa Teardrain, sto parlando di Richard James Simpson, ci delizia con un secondo album dallo stile per nulla catalogabile. Forte di un'esperienza alternativa di tutto rispetto, il musicista americano, si immerge in un'opera, 'Deep Dream', che propone brani dalle innumerevoli fonti di ispirazione, quindi, in maniera del tutto naturale, si parte da ben quattro brani di ambient/noise/elettronica, corti e dal taglio oscuro, per approdare al post punk di "Mary Shoots'em Fist", con le chitarre che ricordano degnamente i primi Christian Death. "Free" approccia qualcosa di vintage, un sound acido e molto rock anni '70, mentre la poliziesca "Half Brother, Half Clouds", rappresenta un altro esperimento sonoro dal sapore cinematografico. L' apertura verso il grunge più occulto e malato di "Job" va a sottolineare la versatilità dell'artista statunitense, che mi ricorda molto la camaleontica fantasia compositiva di John Frusciante. Il rumore la fa da padrone in "Psychedelic Mother", "The Giver" invece riprende i ritmi ferraioli di certa dance alternativa dei 90's mentre l'immobile "Pieces of You", è psichedelia profonda alla Psychic Tv in combutta con un Jim Morrison ritrovato. Tutte canzoni lampo, veloci, suonate d'istinto e velenose, buie e sporche. "Sugar Blue Inn" rispolvera la synth wave con una finta batteria d'annata, mescolandola con una chitarra tagliente, acidissima ma calda per una breve fuga mentale in compagnia di David Lynch. "Pimrose Bob" è una fottuta, violenta parentesi noise che uccide e che precede l' esperimento di The wall have ears, il tipico brano destabilizzante che starebbe bene come colonna sonora in un film horror quanto la psicotica penultima traccia "Human (Like I Versus Like Me)", che già il titolo la descrive a dovere. In conclusione ci troviamo "Cell" che è un rock allucinato, diretto e tossico, con aperture di chitarra lanciate e gonfie. Insomma 'Deep Dream' è un lavoro stralunato che ha tutte le caratteristiche per essere odiato o amato alla follia, un album che peraltro racchiude parecchi ospiti di fama internazionale che aumentano il valore del disco, tra cui Jill Emery (Mazzy Star, Hole), Don Bolles (The Germs), Dustin Boyer (John Cale), Paul Roessler (The Screamers, Twisted Roots), Mark Reback (Vast Asteroid), Ygarr Ygarrist (Zolar X) e Geza X (Geza X and the Mommymen, The Deadbeats), un'opera molto personale che mette sul piatto del giradischi un insieme di brani introversi e trasversali. A voi, ovviamente dopo un' infinità di ascolti ad alto volume ed in solitudine, la facoltà di giudicare Richard James Simpson, valutandolo come un vero genio, in stile Anton Newcombe, oppure un musicista perduto in un caos sonoro senza capo nè coda. (Bob Stoner)

Blindead - Niewiosna

#PER CHI AMA: Experimental Post Metal, Entropia
Lo dichiaro sin d'ora: sono sempre stato un fan dei polacchi Blindead, quindi potrebbe essere che la mia obiettività possa essere sporcata dall'amore che provo per questa band. Fin dalla mia prima recensione di 'Devouring Weakness', considero infatti gli amici di Danzica, una realtà musicale davvero importante nel panorama musicale europeo. Non nascondo che il vederli autoprodotti con questa nuova release, la prima con un titolo in polacco - 'Niewiosna' - mi faccia anche un pochino incazzare, però allo stesso tempo potrebbe essere un nuovo trampolino di lancio per chi in passato è stato sotto l'egida della Mystic Productions. Comunque veniamo a noi e alle cinque canzoni, mediamente lunghe, incluse in questo lavoro. Si parte subito alla grande con la title track che vede i Blindead alle prese con la lingua polacca, scelta per i testi di questo album. Il sound di "Niewiosna" si conferma come in passato, ipnotico quanto basta per avere una grande presa sul sottoscritto, ma qui forse ancor di più che rispetto ai precedenti lavori, maggior spazio è lasciato al lato strumentale e, fortunatamente, meno a quello vocale che francamente in polacco e per di più in pulito, perde un po' di interesse. Fatto sta che gli ingredienti storici dei Blindead sono sempre presenti, anzi qui forse ancor più enfatizzati. E cosi è davvero meraviglioso abbandonarsi alle fughe pink floydiane dell'act polacco, con la psichedelia che si fonde ad un post metal/sludge dalle forti tinte malinconiche. La tribalità della band cresce misteriosa in "Niepowodzenie", grazie a suoni ridondanti e ad un cantato liturgico che fortunatamente cambia spesso di tonalità e dona una certa variazione ad un tema forse alla lunga troppo stantio. La sperimentazione da sempre è parte del bagaglio dei Blindead e "Potwór Się Rodzi" lo testimonia con un cantato robotico iniziale che prepara ad un sound tra l'alternative e il post rock, in un incedere lento e suadente che sembra prendere drasticamente le distanze con quanto suonato fin qui dalla band. Ad un certo punto però ritornano i classici chitarroni post metal e pure un cantato più caustico che ci restituisce la dimensione in cui ho imparato ad apprezzare il nostro terzetto di quest'oggi. Il risultato è comunque più che piacevole oltreché dotato di una forte vena sperimentale che in questi casi non guasta mai, arrivando quasi a destabilizzare la mia mente con giri di batteria ancora una volta tribale, effluvi ritmici marziali, ripetitivi, oscuri, insani che per certi versi mi riconducono ai primi album della compagine polacca. Il disco mi piace e la band in questa sua nuova veste ancor più sperimentale, qui quasi dronica, la trovo in super forma, segno che anche il passare del tempo non usura la genialità di un gruppo di musicisti che ha fatto un passo per certi versi simili a quello compiuto dai conterranei Lux Occulta ai tempi del loro ultimo album. "Ani Lekkomyślnie, Ani Bezboleśnie" poi è un pezzo infiltrato da un industrial abrasivo che accosta i Blindead alle ultime produzioni di un altro gruppo di musicisti schizofrenici polacchi, ossia gli Entropia, segno che il nuovo vento della musica post-core sperimentale arriva da Est e non più dalle lande oltreoceano o dal nord Europa. In Polonia lo ribadisco, la scena è importante, ci sono un sacco di grandi band e i Blindead con questo piccolo gioiellino, tengono il passo o forse addirittura lo dettano. In un lavoro, in cui mi preme citare anche la partecipazione di Nihil (Massemord, Morowe) a voce, basso e chitarra, manca ancora l'ultimo tassello, "Wiosna" a chiudere, con un ambient immaginifico, un disco che ha tutti i crismi per essere una delle sorprese di questo 2019. (Francesco Scarci)