Cerca nel blog

domenica 9 giugno 2019

Radare - Der Endless Dream

#PER CHI AMA: Post Rock/Dark/Alternative
Nel nuovo album dei Radare c'è qualcosa di molto speciale, una concentrazione emotiva che è spinta al massimo da suoni e costruzioni di alta qualità, buon gusto ed una lussuosa sensibilità musicale. Con il verbo del post rock, la band tedesca si permette di dar vita ad una creatura senza confini di suono, che abbraccia le atmosfere astratte di "New Space Music" (Brian Eno) e le converte nel libero gergo del (post) rock, aprendo un punto di contatto tra la colonna sonora del film 'Million Dollar Hotel' e le tensioni che abbiamo amato in '2°' dei seminali Ulan Bator, sfornando brani carichi di magistrale malinconia, del tutto simile all'umore grigio dell'ultimo, ottimo ma poco compreso, lavoro degli Suede ('The Blue Hour'). Prendete questi riferimenti ed immaginateli, mescolati alla forma più oscura del dark/jazz/ambient della Dale Cooper Quartet & the Dictaphones (epoca 'Metamanoir') e avrete un'idea in quale tipo di ascolto vi state per inoltrare. Un connubio sonoro esagerato, da assaporare ad alto volume e tutto d'un fiato, senza riprendere mai il respiro, in una specie di estasi buia, perchè questo è un disco spietato dal lato emozionale, geniale a livello compositivo, considerando tutte le sue ricercate, splendide dissonanze ed inoltre, altamente godibile per tutti gli amanti del suono di qualità, con una spettacolare e certosina, ottima produzione ed una masterizzazione a cura di Harris Newman, che ha dato al disco un'identità notturna assai originale. Il disco uscito per la Golden Antenna, con i suoi quaranta minuti circa, divisi in sette brani di media durata, riesce a penetrare l'animo dell'ascoltatore stringendolo saldamente in una morsa emotiva per tutta la sua durata, anche grazie alla sua attitudine progressiva che lo rende vivace e dai mille risvolti sonori. La personalità di questo 'Der Endless Dream' si discosta dai suoi precedecessori per l'accentuato ricorso dei canoni rock a discapito del dark jazz, da sempre la vera ossatura nel DNA della band. Il merito va attribuito certamente alla chitarra, la quale, usata in maniera esuberante, rilancia in grande spolvero il suono psichedelico e rock che ha reso famoso il grande Link Wray. Decisamente interessanti le distorsioni cristalline, sommerse di riverberi e tremolo, ma anche gli innesti inaspettati ed imprevedibili di sax ("Loup de Mer") e clarinetto della title track danno il loro contributo, confermando sin dal primo ascolto, l'idea e l'impressione di essere di fronte ad un ottimo disco strumentale, suonato alla perfezione e in maniera chirurgica, con un appeal maledetto che lascia sempre un gusto amaro in bocca ed una nostalgia assassina. Questo è un album che spiazza fin dallo splendido artwork di copertina, che una volta aperta, ricorda molto le pagine di qualche rivista di moda anni '90. Un insieme di canzoni rock dai tratti umorali, dotate di un potenziale enorme e grandi pregi compositivi, come ad esempio la coda finale, dissonante, malata e infinita di "Eternal Love" (brano delizioso) che ci proietta in un universo di riflessioni e stati d'animo d'altri tempi. Un album di altissimo valore, ove rock, dark jazz, tanta fantasia, ragionata sperimentazione e sensibilità da vendere danzano insieme. (Bob Stoner)

(Golden Antenna - 2019)
Voto: 83

https://radare.bandcamp.com/

venerdì 7 giugno 2019

Karakorum - Fables and Fairytales

#PER CHI AMA: Kraut Prog Rock, Marillion
Il pericolo numero uno per una prog band è sempre quello di scadere nel solito clichè di suoni e stereotipi legati al genere. Fortuna vuole, che ci sia un numero nutrito di band, che riescono, almeno in parte e in vari modi, a sfuggire, dalle grinfie del classico sentito e risentito. Una di queste band risponde al nome dei Karakorum, combo tedesco, ben affiatato, dotato di deliziose capacità compositive e strumentali. Arrivano in questi giorni al secondo full length, 'Fables and Fairytales', con un lavoro fresco e carico di adrenalina e fantasia, importanti doti che permettono al quintetto di Mühldorf, di stare in equilibrio tra passato e presente nel vasto universo della musica progressiva. Il lavoro è lungo e variegato, diviso in soli tre brani di media/lunga durata, con un suono praticamente perfetto: ottimi gli scambi stereofonici, assai belli da assaporare in cuffia, esemplare la tecnica dei musicisti. A dire il vero, avrei azzardato un design più carico sull'artwork di copertina per renderlo più intrigante e aggressivo, sul lato visivo, proprio per colpire di più la curiosità dell'ascoltatore. Il primo brano, "Phrygian Youth", si impone con un carattere moderno, molto rock oriented, dal tocco melodico di scuola ultimi Marillion e dalla vitalità tipica del suono degli Echolyn, senza dimenticare l'innovativo gusto retrò alla Anekdoten. Così, organo e chitarra fanno la gara per primeggiare su tappeti pulsanti e pause dal sapore kraut/jazz rock, il canto è decisamente sulla rotta di un rock emozionale che offre alla composizione una direzione inusuale e intelligente, mentre la coda del brano è una corsa strumentale psichedelica, dai mille colori, con un finale dai toni duri e drammatici. "Smegmahood" è il brano che rilegge la tradizione sulle tracce di mostri sacri come i Gentle Giant e Yes, qui rievocati con un'impronta canora a più voci, magistrale, studiata ad arte per caratterizzare la canzone, che già nella parte musicale si rivela come uno scrigno d'oro di innumerevoli fughe sonore e stravaganti intermezzi strumentali di memoria zappiana con divagazioni crimsoniane che mostrano quanto sia grande la cultura musicale di questi artisti, in assoluto il mio brano preferito. Non pienamente soddisfatti, i nostri cavalieri si lanciano in una nuova sfida alquanto dura, la composizione di un terzo brano dalle tinte cupe, con una veste iniziale, etnico mediorientale e una bella attitudine per la colonna sonora. Ventitrè minuti di luce e ombre all'insegna di una sperimentazione d'avanguardia che fu, anni or sono, campo di battaglia per band gloriose come Magma (epoca Köhntarkösz) e Art Zoyd e le intuizioni sonore più melodiche, sempre di casa Marillion, vicine alla forma del brano d'apertura. Per concludere, posso dire che 'Fables and Fairytales' è un ottimo disco, curato, ispirato e composto con stile, grazie a suoni caldi e avvolgenti, una bella produzione, che soddisfa anche i palati più fini del rock progressivo con una carrellata di stili variegata e convincente, un album che vale la pena approfondire con ripetuti ascolti proprio per godere al meglio la bellezza di questo lavoro, che si colloca decisamente al di sopra della media. Ben fatto! (Bob Stoner)

Sons Of Morpheus - The Wooden House Session

#PER CHI AMA: Psych Stoner Rock/Blues, primi Queens of the Stone Age
Se c’è una cosa che la musica insegna, è a rompere i pregiudizi: lo stereotipo che vuole gli Svizzeri freddi e (mi si passi il termine) poco rock, crolla miseramente di fronte a 'The Wooden House Session', secondo full-length dei Sons Of Morpheus dopo l’ottimo 'Nemesis' del 2017 ed uno split con i Samavayo dello scorso anno. Il trio, dopo un lungo tour di spalla ai Karma To Burn, si chiude in un locale e registra sei tracce a metà tra live e studio, che trasudano stoner rock e sludge, Queens of the Stone Age e Black Sabbath, New Orleans e film western (c’è un cowboy in copertina!), Jimi Hendrix e i Pride&Glory. Scordatevi il sound metallico dei Kyuss o (dio ce ne scampi!) la deriva pop degli ultimi lavori di Josh Homme e soci: in 'The Wooden House Session' i piatti sono lunghi e riverberati, le chitarre ruvide e rumorosissime, il basso grezzo, la voce sa di blues, whiskey e sigarette. Quintali di fuzz colano fuori dagli amplificatori, ed un sottile gusto lo-fi nella produzione rende tutto ancora più credibile, caldo, paludoso. I cori qua e là (“Sphere”, “Loner”) ricordano i primi lavori dei Queens of the Stone Age; ma c’è spazio per jam gonfie di psichedelia (“Paranoid Reptiloid”), colonne sonore alla Sergio Leone (“Doomed Cowboy”), rock grezzo e senza fronzoli (“Nowhere To Go”), fino alla lunghissima “Slave” (oltre 13 minuti, laddove le altre tracce raramente superano i 4.30) che si erge almeno una spanna sopra il resto: una lunga cavalcata rock blues costruita su un riff che fischietterete per giorni interi, che accelera e rallenta, si ferma e riparte, apre a soli in slide e lunghissime parti strumentali eteree e trasognanti — vi sfido a non muovere la testa per l’intero pezzo. Sellate il cavallo, indossate gli stivali migliori, si parte. (Stefano Torregrossa)

Of Spire & Throne – Penance

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Sludge, Esoteric
Gli Of Spire & Throne sono un nome probabilmente già noto agli appassionati del doom metal più tenebroso: attivi fin dal 2009, si sono rimboccati le maniche producendo una serie di demo, EP e split, guadagnandosi le attenzioni della Aesthetic Death, etichetta da sempre molto attenta alle novità dell’underground estremo, e con questa, nel 2015 hanno rilasciato il primo LP 'Sanctum In The Light'. Ora è il turno di 'Penance', nuovo imponente monolite sludge\doom che non devia di molto da ciò che ci è stato presentato in precedenza, semmai calca la mano portando la musica della band ad un nuovo livello di oppressione. Il terzetto scozzese qui danza tra la lentezza esasperante del funeral doom e i riff granitici propri dello sludge, mantenendo una sorta di sofferente equilibrio tra le due correnti acuendo la sensazione di precarietà e malessere: ogni mortifero drone sembra in procinto di ricomporsi in riff grondanti cattiveria, così come ogni struttura ritmica dà l’impressione di poter franare da un momento all’altro in caotiche destrutturazioni. La musica emerge dagli abissi nella strumentale “From Dust” e si spande come una torbida marea, tra i rallentamenti da capogiro di “Their Shadow Cast” e le devastazioni soniche di “Sorcerer”, celebrando così l’incontro tra il sound decadente dei loro “cuigini” Esoteric e i Sumac più nevrotici. Muoversi tra le sei tracce che compongono il disco, significa trascinarsi in una distesa desolata subendo ogni sorta di privazione, al punto che mai titolo fu più azzeccato: i freddi effetti di tastiera, i ruggiti del basso, i solenni riff di chitarra e le cadenze lisergiche della batteria, ci accompagnano come inquisitori, in questi 63 minuti di espiazione, mortificando con improvvisi scoppi di violenza l’ascoltatore inerme. Con queste coordinate è chiaro che non stiamo parlando di un album per tutte le stagioni e come chi non sia particolarmente attratto dalle esasperazioni del funeral-doom potrebbe patire una certa stanchezza, visto anche il minutaggio generoso dei brani. Tuttavia, le sfuriate più incattivite e vicine allo sludge e allo stoner, aiuteranno anche i profani a reggerne l’impatto fino alla fine. Inoltre, associare l’ascolto alla visione di uno di quei film horror dove i protagonisti non trovano alcuno scampo, o alla lettura del romanzo di Umberto Eco “Il Nome della Rosa”, dove nemmeno l’impegno e gli sforzi di Guglielmo e Adso, riescono ad evitare la catastrofe finale, potrebbe risultare un’esperienza impressionante. In 'Penance' l’unica luce che illumina il percorso è quella di fiamme rabbiose che covano sotto una coltre di cenere, ossia quella di una forza distruttiva e che non lascia scampo. La salvezza non è prevista, dunque, come ripeteva stolidamente Salvatore nel romanzo di Eco, “Penitenziagite!”. (Shadowsofthesun)

Rituals - Neoteric Commencements

#PER CHI AMA: Death/Black Melodico, Necrophobic, At the Gates
E io che pensavo che la Sleeping Church Records si dedicasse quasi esclusivamente al doom/stoner, sono stato immediatamente smentito con l'avvento di questo EP degli australiani Rituals, che con un moniker del genere, sentirli dediti ad un death melodico è quasi una bestemmia. Comunque 'Neoteric Commencements' è un lavoro di quattro pezzi che ci riporta ai fasti del death melodico svedese di primi anni '90. E "Wake of a Dead God's Robe" ne è la prima dimostrazione con un riffing massiccio, contrappuntato da buone melodie e growling vocals che mi hanno fatto pensare a gente del calibro di Unanimated, gli Entombed più melodici nella loro primordiale veste estrema e Necrophobic. Forse con "Drown Amongst Serpents" si può cogliere un più vasto ventaglio di influenze, scomodando anche i primi In Flames e gli At the Gates, fatto sta che il quartetto di Melbourne ci sa sicuramente fare, pur non promuovendo nulla di nuovo all'orizzonte. E allora non ci resta che ascoltare in modo spensierato anche le restanti "Slaves to the Tyrants" e "The Eighth Door", dove nella manciata di minuti a disposizione, la band australiana propina una bella ritmica portentosa, delle growling vocals belle profonde e poco altro che faccia gridare realmente al miracolo. Nella prima delle due song ci ho sentito un che dei primissimi Amon Amarth, quelli più oscuri e decisamente meno epici, mentre la seconda è un altro discreto pezzo di death che non rimarrà certo negli annali della musica estrema ma che comunque si lascia ascoltare con una certa fluidità. Per ora, mi sento di dire che quello dei Rituals non è nulla di cosi memorabile, si auspica pertanto in futuro un full length più illuminato. (Francesco Scarci)

(Sleeping Church Records - 2018)
Voto: 62

https://ritualsau.bandcamp.com/

sabato 25 maggio 2019

I Feel Like A Bombed Cathedral - Rec.Requiem

#PER CHI AMA: Ambient/Drone
La memoria ritorna al testo di una vecchia canzone dei Massimo Volume che mi aveva sempre fatto riflettere: "...mi sento come il tetto di una chiesa bombardata..." e più o meno il moniker di questo nuovo progetto solista dell'implacabile mente degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat, esprime, a mio avviso, lo stesso concetto di stordimento emotivo di fronte ad un mondo moderno, divenuto oramai inconcepibile per gli uomini che cercano di vivere sotto la stella sacra della ragione e della libertà. L'artista francese si rimette in pista e fa uscire questo nuovo album, 'Rec.Requiem', sotto il moniker I Feel Like A Bombed Cathedral. Si tratta di un lavoro perfettamente in linea con i clichè della label italiana, Dio)))Drone, ossia drone music a caduta ottenuta da sperimentazioni musicali ed effetti chitarristici in gran quantità, con qualche leggera impronta ritmica a servire la cascata sonica ideale. Quattro brani mirati, lanciati a medio/lungo raggio, tra gli 8 e i 15 minuti, centrano in pieno la cattedrale delle emozioni, lacerandola, rovinando il suo essere arte, rendendola storpia e brutta, priva della sua entità storica e divina, azzerandone il suo stato di monumento ancestrale, lasciando un vuoto, una lacuna interiore che si riflette benissimo con il titolo doloroso del disco. I primi due brani volano sul ricordo del noise più catartico, come se ascoltassimo 'Metalmusicmachine', cambiandone le coordinate al nero, virando il magma sonico in una salsa più nera e immersa nel sentore sacro e misterioso tipico delle chiese monumentali, mastodontiche e spettrali. Per il brano "Req.", l'atmosfera cambia e sulle note lente, profonde e scandite di un battito ritmico potente e cadenzato, ci sembra quasi di assistere al momento esatto del bombardamento, con i fraseggi, le sperimentazioni e i giochi di chitarra che giostrano le immagini sonore delle esplosioni. Il lutto è compiuto con la docile chitarra eterea e ipnotica di "Rev.", dove Mr. Cambuzat richiama la sua migliore parte interiore e si riappropria in solitudine delle splendide atmosfere post-rock tipiche del suo repertorio, provando a farci sognare per chiudere un drammatico ricordo, e iniziare una ricostruzione difficile, segnata dal dolore. Musica d'ambiente visionaria, dove lo stile e la classe di Cambuzat emergono per diletto, sensibilità e gusto, una capacità innata di creare un film sonoro di qualità e spessore artistico. Nuovo progetto, consolidata bravura. (Bob Stoner)

venerdì 24 maggio 2019

Saturnus Terrorism - Pamphlet

#PER CHI AMA: Death/Black
Borgogna, terra di grandi vini e splendidi castelli, ma anche luogo d'origine di questi Saturnus Terrorism (S.T.), duo che ingloba Dies, membro di Malevolentia e Einsicht, e l'ex Grisâtre Païard le Ferré. La musica offerta dai S.T., in questo debut dal titolo 'Pamphlet', riflette in un qualche modo, quanto proposto dalle band madri dei due terroristi sonori, propinandoci un black melodico che vive di guizzi di ferocia inaudita, ma anche di melodie al contempo sinistre e malinconiche. Questo almeno quanto testimoniato in "Division Mysticisme", la lunga traccia che segue l'intro del disco. Una rasoiata inaudita, un black corrosivo, distorto e dissonante, come solo in Francia sanno concepire. Le eminenze del black transalpino convergono nei suoni disarmonici di questo lavoro, ma nella sua espressione musicale, mi sembra di scorgere anche echi di un black metal norvegese di vecchia data, e penso ai primissimi Emperor. Il sound è comunque gelido e ostile. "Il Faut Obéir à la Nuit" è una lunga song black, nel cui pattern vi si trovano echi di epicità sorretti dallo scarno lavoro alle tastiere. La traccia è comunque tagliente, le ritmiche nella sua parte centrale, serratissime, le grim vocals producono un certo pathos, ma quelle declamate sono più evocative, le preferisco. Interessante l'evoluzione della song verso un mid-tempo decisamente più ragionato e lontano dalla violenta brutalità della prima parte, che ritornerà però in chiusura. "Le Philosophe aux Poignards" è uno stralunato esempio di black metal; i riff si confermano glaciali, cosi come le vocals infernali del frontman sembrano provenire direttamente dall'aldilà. L'episodio migliore del disco arriva però a mio avviso con le ritmiche sbilenche di "La Garde d'Acier", che vede in background oscure melodie che hanno una drammaticità paragonabile a certe cose suonate col violino dai Ne Obliviscaris, un tema da sviluppare maggiormente in future release. Assai particolare anche la componente più doomish della song che insieme alle funamboliche scariche death black, la rendono più completa rispetto alle altre. Con le due parti di "La Rhétorique de la Terre" si continua a mantenere ritmi sostenuti in un contesto costantemente spigoloso, sebbene compaiano delle infiltrazioni orchestrali che ne rendono l'ascolto un filo più accessibile. Alla fine quello dei S.T. è un esordio più che dignitoso, dove avrei dato più spazio ad alcune aperture melodiche o a più parti atmosferiche, piuttosto che provare a stordire l'ascoltatore con soluzioni a tratti eccessivamente martellanti. C'è comunque ampio spazio di manovra e crescita per il terrorismo venuto da Saturno. (Francesco Scarci)

(Epictural Prod - 2019)
Voto: 67

https://saturnusterrorism.bandcamp.com/releases

J'ai Si Froid - Loin des Hommes

#PER CHI AMA: Depressive Black Metal, Burzum, Paysage D’Hiver
Da non confondere con l'omonimo film con Viggo Mortensen, 'Loin des Hommes' rappresenta la terza fatica della one-man-band francese J'ai Si Froid. L'act, guidato dal factotum Brouillard, e forte della collaborazione con la Transcendance, ha da offrirci sette tracce (che includono duo pezzi strumentali) di emozionale e atmosferico black metal. Questo probabilmente si evince anche dalla suggestiva cover cd che lascia presagire da quelle montagne all'orizzonte, il senso di solitudine che vivremo durante l'ascolto del disco. Un album, che dopo l'arpeggiata intro, irrompe con "La Débâcle" ed una proposta di depressive black metal, con tanto di strazianti melodie costruite da compassate e ronzanti chitarre ritmiche su cui poggiano i vagiti disperati del mastermind transalpino in un viaggio di 12 minuti, in cui vi ritroverete anche voi come accaduto al sottoscritto, a pensare a qualunque cosa, contemplando il grigiore del cielo. Non solo suoni emozionali però nei lunghi minuti di questa song, ma anche furiose accelerazioni black, in cui ad essere penalizzata è la componente strumentale legata alla batteria, troppo secca e artificiale nel suo asettico programming sintetico. A ciò dobbiamo aggiungere una registrazione globale non proprio al top, forse legata agli stilemi imposti dal genere. Se i dodici minuti iniziali mi sembravano un po' eccessivi, i 13 prima di "Endurer pour Éprouver la Candeur" e i 16 di "Valse Mélancolique" poi, rappresentano uno sforzo notevole da affrontare, visto che a fronte di un approccio di "burzumiana" memoria, l'artista francese ha poco di nuovo e vario da offrire all'audience, se non un notevolissimo break melodico nella seconda parte della prima traccia, dai forti richiami classicheggianti. Poi un nuovo roboante attacco black che questa volta mi ha ricordato i Windir. Se l'incipit di "Valse Mélancolique" sembra più una suoneria del cellulare, la sua evoluzione invece è un black tiratissimo, saltuariamente epico e assai melodico, in cui però accade che si perdano i contorni degli strumenti, offuscati da quella marcescente registrazione low-fi che citavo poc'anzi. Un intermezzo acustico e arriviamo a "L'Espoir est le Dernier à Crever" il penultimo glaciale atto di 'Loin des Hommes', che riflette esattamente lo spirito distaccato, intimista, a tratti misantropico, del polistrumentista francese. "Le Rappel des Plaines" chiude il lavoro con poche variazioni al tema, concludendo proprio come si era aperto questo viaggio spirituale, ossia con un oscuro e malinconico black metal. Un lavoro più che sufficiente, che necessita di una ripulita generale per potersi aprire a platee più ampie, partendo da una pulizia dei suoni, una maggior umanità nelle linee di batteria, e meno derive musicali ampiamente già sentite sino ad oggi. (Francesco Scarci)

Oldd Wvrms - Codex Tenebris

#PER CHI AMA: Instrumental Sludge/Doom
Con una copertina che potrebbe evocare i polacchi Batushka e il loro esoteric black metal, ecco arrivare dal Belgio gli Oldd Wvrms, fieri incantatori di serpenti con uno sludge doom strumentale a dir poco malefico. 'Codex Tenebris' è il loro terzo lavoro ed include cinque lunghissime e claustrofobiche tracce, per ben 54 minuti di musica, non certo una passeggiata quando si tratta di musica senza una voce a guidarla. E allora caliamoci negli abissi con l'opener "Ténèbres" e i suoi oltre 10 min di suoni pesanti ed appestati, in un paio di occasioni anche eterei, ma sempre scanditi da una ritmica lenta e ipnotica, ove ahimè, mi duole dirlo, manca proprio una componente vocale che ne esalterebbe certamente il risultato finale. Niente da fare però, gustiamoci il disco cosi come viene, ascoltando la più abrasiva "A l'Or, Aux Ombres et Aux Abîmes", borderline tra black e doom, con intermezzi atmosferici di innegabile interesse ed una componente chitarristica che assai spesso sfocia nel post metal. Il disco è intrigante, non v'è ombra di dubbio, ma complice una durata importante dei brani e la conclamata assenza di un frontman dietro al microfono, rendono la digestione del disco davvero ostica se non accompagnata da un malox in compresse al bisogno. Il sound è lento, strisciante, angosciante; fortuna nostra arriva una song più carica di groove com'è "Misère & Corde" che nel suo riff portante ammicca agli Isis, prima di ingrossarsi maggiormente, dare un'accelerata alla ritmica per poi tornare a rallentare ed instillare successivamente stati di alterazione della psiche in un altro break dal forte sapore oscuro ma pur sempre melodico. Gli incubi indotti dal trio belga proseguono in "La Vallée des Tombes", una song più doom oriented rispetto alle altre che in questo caso mi ha evocato invece a livello ritmico, i primi vagiti di My Dying Bride e Anathema, con la sola differenza legata all'assenza di un growl profondissimo a declamare anche sole poche parole, capaci di dare ancor più potenza al disco. Dopo undici minuti, in cui la band si affaccia anche su lidi non propriamente death doom (ascoltatevi gli ultimi quattro minuti per capire), si arriva al gran finale ove ad attenderci rimane la sola "Fléau est son Àme" ed i suoi interminabili 15 minuti. La song ha un approccio vicino all'ambient e la sua crescita risulta assai diluita nel corso dei primi 600 secondi che vedono la band muoversi con cautela alla ricerca di uno strappo vincente, in un caustico finale che ci conduce fino al capolinea di questo 'Codex Tenebris', un disco affascinante quanto complicato da affrontare, se non con le dovute precauzioni, uno spassionato consiglio per evitare spiacevoli affanni. (Francesco Scarci)
(Cursed Monk Records - 2019)
Voto: 72

https://olddwvrms.bandcamp.com/album/codex-tenebris

giovedì 23 maggio 2019

Stoner Kebab - Everything Fades to White

#PER CHI AMA: Psych/Prog/Stoner
Abbiamo dovuto attendere sei lunghi anni, ma finalmente è giunto il momento di far godere i nostri lombi con il nuovo frutto offerto dal quartetto pratese, tutto con la benedizione della Santa Valvola Records. Nulla sembra essere cambiato, o per lo meno, la simbologia tanto amata dagli Stoner Kebab si ripercuote sin dall'artwork che vede in copertina un monolite simil '2001:Odissea nello Spazio', simpaticamente battezzato da dello sperma. Nel cielo invece si erge un pianeta che simboleggia un ovulo che sta per essere attaccato da un'orda di spermatozoi affamati, a coronare il titolo del nuovo album che riconduce il tutto al richiamo della natura. Otto brani per riprendere là dove la band ci aveva lasciato, ovvero l'album 'Simon' e la sua ironica vena satanica (ricordate il pentagramma a tutta copertina?) con l'inconfondibile sound traboccante di fuzz e riff granitici. "Virgo", l'opening track, parte di slancio con chitarre giganti impreziosite dall'effetto psichedelico per antonomasia, ovvero il phaser che avvolge le distorsioni come un volo a spirale in caduta libera verso lo spazio in cerca di forme di vita fertili. Il cantato è aggressivo ed offuscato da un pesante riverbero lo-fi in stile Electric Wizard, mentre la comparsa del sintetizzatore nel break strumentale ci fa intendere che il quartetto toscano ha voluto espandere le proprie sonorità. Il brano va verso la chiusura con un crescendo psichedelico, cambi di ritmo ed infine il ritorno alla strofa e ritornello che ci hanno schiantato nei primi secondi di ascolto. La goliardia degli Stoner Kebab è solo pari alla loro bravura, per questo mi ricordano i Red Fang che come loro hanno scelto la strada dell'autoironia che in un ambiente underground come lo stoner, manca quasi totalmente. "Everything Fades to White" ci porta in una dimensione metafisica grazie alla chitarra acustica e le percussioni che creano una trama dalle sfumature mediorientali, mentre nel retro cranio si percepisce un flebile synth che amalgama il tutto. Un brano strumentale primordiale, intimo e che arriva diretto al nostro cervello sempre più sovraccarico di stimoli, un toccasana per una lunga sessione di yoga sessuale come pratica(va) il buon Sting. Ma i vecchi casinisti non cambiano ed ecco che "For Demonstration Purposes Only" ci riporta alle origini con una traccia arrogantemente grezza, sporca e assolutamente sconsigliata agli hipster con i risvoltini. Il cantato è sempre stato un elemento di riconoscimento degli Stoner Kebab, infatti le voci s'intrecciano e si sovrappongono con maestria sopra ad una composizione musicale sempre ben fatta. Le influenze date dal corollario Black Sabbath e affini, è talmente ovvia che non va neppure menzionata, stop. Un brano lungo, complesso che abbraccia il genere e lo arricchisce con i suoni e lo stile che ha sempre caratterizzato gli Stoner Kebab in questa lunga carriera che da circa vent'anni li porta ancora a calcare i palchi di tutta Italia. Chiudiamo con "To See Coming Inside From the Inside", la canzone forse più oscura di questo quinto lavoro, dove le accelerazione prog sono state messe da parte per farci immergere in una pozza oleosa in cui è difficile addirittura arrancare e si ha solo voglia di farsi trascinare giù nel profondo. Le atmosfere doom vengono spezzate a metà dal break con protagonista il tampura (uno strumento a corde indiano) che alleggerisce l'esecuzione strumentale donandoci un momento di rilassamento emozionale. Una vera sessione psichedelica in stile '70s che ci fa desiderare un integratore a base di sativa. Ovviamente il cerchio dei dannati riprende il suo lento incedere, mentre il cantato si ripete come un mantra e ci porta alla fine del brano che chiude in fade out. Un album bello, carico, complesso ed affascinante, a dimostrazione che gli Stoner Kebab sono vivi e minchia, spaccano i culi come se avessero vent'anni. Inchiniamoci davanti ad una delle band più longeve e brave della scena heavy italiana. Accaparratevi una copia fisica al più presto, leggende narrano che al suo interno ci sia un piccante e saporito regalo. (Michele Montanari)

Malclango - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock strumentale, Primus
“Due bassi e una batteria per denudare il math-rock fino a lasciarlo in mutande”. Questo il manifesto dell’anonimo trio strumentale romano (dal vivo, i Malclango indossano scimmie da gorilla e, a quanto sembra, nessuno sa davvero i loro nomi), che sforna un disco essenziale nei suoni ma molto intelligente dal punto di vista compositivo. Essenziale, ma non minimale: scordatevi la forma-canzone, scordatevi ritornelli da fischiettare o melodie catchy. I due bassi si muovono eclettici tra distorsioni e pulizia, tra accordi e soli, note e riff; imponente anche il lavoro ritmico, sempre preciso e mai troppo autoreferenziale. A colorare il risultato finale, campionature assortite tra versi di scimmie, battimano, vento che soffia, spezzoni di notiziario. Si passa senza indugio dalla velocità dispari di “Nimbus” alle ritmiche tribali di “Petricore”, dalle dissonanze di “Ostro” alla malinconia deviata di “Anatomia di un battibecco”, dalla rabbiosa “GranBurrasca” alla saltellante “Sant’Elmo”. Ci vuole un attimo a trasformare tanta varietà e libertà compositiva in un prodotto freddo e studiato a tavolino. Ma non è il caso dei Malclango che, anzi, confezionano un vero disco rock: di un rock essenziale e primitivo (le tre scimmie nella tempesta, in copertina, la dicono lunga), che rompe le convenzioni e fluisce — non a caso: il tema dell’acqua e della pioggia è un leit-motiv trasversale a tutti i pezzi —, libero da strutture o ritmiche pari, libero da etichette di genere. È un lavoro che pesca contemporaneamente da Primus e Sonic Youth, Fluxus e jazz, primi Soul Coughing e dalla musica folk, destrutturando e ricomponendo tutto senza paura ma con molta, molta ironia.(Stefano Torregrossa)

(SubSound Records - 2017)
Voto: 74

Teverts/El Rojo - Southern Crossroads

#PER CHI AMA: Stoner/Psych Rock
Due band, due brani, venti minuti in tutto: questi gli ingredienti di 'Southern Crossroads', lo split degli italianissimi Teverts e El Rojo. I primi, con oltre dieci anni di attività alle spalle, aprono le danze con la spettacolare “Road To Awakeness”: oltre sette minuti di cavalcate stoner e psichedelia, dove il sound settantiano alla Hawkwind si unisce ai riff più contemporanei di Kyuss e soci. Il risultato è compatto, solido, costruito anche grazie alla lunga esperienza della band. A legare il tutto, lo splendido lavoro vocale di Phil, che passa con facilità dalle allucinanti melodie sussurrate a timbri più ruvidi e sostenuti. Memorabile il finale strumentale (dai sei minuti in avanti), con lunghe chitarre riverberate a colorare un perfetto riff di basso. Con “The Longest Ride” degli El Rojo (band di Cosenza alla seconda uscita ufficiale) ci muoviamo sostanzialmente lungo la medesima highway nel deserto. C’è meno psichedelia forse, e più colore alle ritmiche (ottimo il lavoro alle pelli). Completamente diverso il contributo vocale, qui più ispirato ai The Melvins che al gusto blues di Jon Garcia. “The Longest Ride" scorre ruvido e ossessivo fino alla prevedibile accelerazione intorno ai cinque minuti, che lascia sfogare la chitarra con un solo indovinatissimo. Non c’è nulla di davvero innovativo in nessuno dei due brani, intendiamoci: ma non avrebbe senso giudicare la personalità di una band ascoltandone solo 10 minuti scarsi. Aggiungete una produzione senza fronzoli — che però permette di entrare bene nei pezzi, senza essere né troppo fredda, né troppo sporca — e un design della copertina ad opera del sempre bravissimo SoloMacello, e non resta che chiedersi: quando arriveranno i due full-length? (Stefano Torregrossa)

(Karma Conspiracy Records - 2019)
Voto: 70

https://tevertselrojo.bandcamp.com/album/southern-crossroads

Serpents - Scongiuri

#PER CHI AMA: Ambient/Esoteric/Dark
I Serpents non sono una band usuale, e non è facile collegare la loro proposta con altre band esistenti, il che è davvero un sollievo, ogni tanto un po’ di personalità ci vuole. A ben guardare, potrei citare come somiglianza di intenti alcuni loschi figuri della scena underground come Petrolio, Sigillum S, Alos e Naresh Ran, tutti artisti che nel male ci sguazzano e che dell’ignoto si nutrono. La spinta esoterica del duo formato da Karyn Crisis e Luciano Lamanna è chiara ed è corroborata dalla capacità per niente scontata di trasmettere questa pulsione alla stregoneria in un ambiente tetro e macabro, rarefatto ma allo stesso tempo denso di atmosfera e di oscurità. La maestria nello stendere tappeti elettronici e nel decorarli con bisbigli, sospiri a tratti qualche vocaleggio spiritato, è la parte più interessante del progetto, non avrei mai pensato che con così pochi elementi si potesse costruire un’architettura così intensa e così emozionante. La sensazione è quella di star assistendo ad un rituale tra antichi stregoni neri dove un’innocente vergine viene sacrificata ed il suo sangue condiviso tra gli astanti che godono della visione delle gocce scarlatte che scendono sulla candida pelle della vittima. Se non mi credete provate a spegnere la luce ed ascoltare 'Scongiuri', c’è una buona probabilità che vi troverete a contemplare gli occhi infuocati di Lucifero. (Matteo Baldi)

(Bloodrock Records - 2019)
Voto: 78

https://lucianolamanna.bandcamp.com/album/scongiuri

The Pit Tips

Francesco Scarci

Elegy - Dead to a Dying World
The Elysian Fields - New World Misanthropia
Nocturnus AD - Paradox

---
Matteo Baldi

LEDA - Memorie dal Futuro
Nadsat - Feral
Orsak:Oslo - S/t
 

---
Alain González Artola

Seraph In Travail - Lest They Feed Upon Your Soul
Abnormality - Sociopathic Constructs
Garsdghastr - Slit Throat Requiem

---
Shadowsofthesun

Gojira - L'Enfant Sauvage
Red Apollo - The Laurels Of Serenity

Altar of Plagues - Mammal

---
Five_Nails

Chapel of Disease - ... and as We Have Seen the Storm, We Have Embraced the Eye
Waldgeflüster - Mondscheinsonaten
Bloody Heathen - Carnal Ruin