Cerca nel blog

giovedì 4 aprile 2019

Monarch - Sabbat Noir

#PER CHI AMA: Sludge/Drone
Se qualcuno (come il sottoscritto) si era perso 'Sabbat Noir', quinto album del 2010 dei francesi Monarch, andato sold-out, niente paura, ci ha pensato la Zanjeer Zani Productions (in collaborazione con la Necrocosm) a restituirgli vita e dignità. I Monarch (per cui non è raro vedere il loro moniker scritto anche un ! alla fine) sono una band sludge doom drone francese che francamente non conoscevo, nata dalle parti di Bayonne e responsabile del rilascio di ben otto album e ben nove, tra split, compilation ed EP. Non male come biglietto da visita. E per chi vuole sapere cosa realmente si sia perso da questo 'Sabbat Noir', mi verrebbe da citare le parole del sommo poeta e dirvi "lasciate ogni speranza o voi che entrate". Il disco è un'unica traccia di 29 minuti (ma suddivisa in due parti) di dronico sludge che rievoca proprio la discesa agli Inferi del buon Dante in compagnia del fido compagno Virgilio. Perchè questa similitudine? Presto detto: a parte il riffing ultra mega ribassato e in slow-motion del folle quintetto transalpino (che nelle sue fila vede peraltro un membro dei Year of No Light), anche una serie di voci, sussurri e addirittura ululati, che sembrano proprio rievocare le grida dei dannati nei vari gironi danteschi. Bene, tutto chiaro no? La prima raccomandazione è di starvene alla larga se non siete proprio dei fan del genere, rischiereste di venire asfaltati o peggio risucchiati dalla provocante ed alterata proposta della band. Se poi siete dei curiosoni e poco timorati di Dio, prego fatevi avanti e lasciatevi condurre nelle viscere della Terra per farvi disturbare il cervello con simili sonorità (io, dopo la recensione non mi sono ancora ripreso). Se invece amate il genere o siete dei temerari, beh lor signoria si faccia avanti, si goda il sound asfittico e a rallentatore dei Monarch!, soprattutto nella seconda parte, dove i nostri esibiscono il meglio della propria torbida proposta dove accanto al pestilenziale buio della notte e alle grida lancinanti che ne rompono il silenzio catacombale, riesce addirittura a fare capolino una parvenza di apocalittiche melodie corrotte da Satana in persona. Paura ed orrore nelle vie dell'Inferno. (Francesco Scarci)

(Zanjeer Zani Productions/Necrocosm - 2019)
Voto: 72

https://necrocosm.bandcamp.com/album/sabbat-noir

Heaume Mortal - Solstices

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Sebbene uscito da pochi giorni per l'etichetta Les Acteurs de l'Ombre Productions, 'Solstices', atto primo dei parigini Heaume Mortal, include brani in verità scritti tra il 2011 e il 2014. L'espressione musicale della band guarda al versante black, il genere prediletto ormai dalla label francese, come punto di riferimento per i nostri. L'ensemble, che peraltro include membri di Eibon e Cowards, due realtà che abbiamo già avuto modo di recensire su queste pagine, offre il classico sound dissonante, divenuto quasi marchio di fabbrica per la scena estrema transalpina. Lasciatevi investire quindi dalla furia sbilenca dell'opener "Yesteryears", una lunga suite di oltre 13 minuti che nel suo corso vedrà la compagine cedere anche a spartiti post-rock e sludge. Con questa verve cosi eterogenea, la proposta degli Heaume Mortal non si rivela affatto male, soprattutto perché i tre musicisti riescono a coniugare con una certa maturità (ma l'avevo detto che non sono gli ultimi arrivati), il post-black con sonorità più melmose, il tutto sorretto da voci al vetriolo. Forti di una produzione potente che esalta il suono di ogni strumento, la band ci dà in pasto alle proprie visioni destabilizzanti: strana a tal proposito la scelta di avere una song breve ma ficcante come "South of No North", due minuti in cui anche sonorità industriali sembrano convogliare nella musica degli Heaume Mortal. Ma che il sound dei nostri sia particolare, lo si deduce soprattutto da "Oldborn", una traccia che mostra il lato più deviato del trio, con reminiscenze avanguardistiche che riconducono ai Ved Buens Ende, grim vocals che sembrano ispirarsi ad Attila Csihar, momenti noise che probabilmente derivano dall'esperienza nei Cowards di vocalist e chitarrista. L'impianto ritmico è quello tipico del post metal, con dei lenti riffoni stratificati che addensano un sound già di per sé iper-saturo; e a chiudere, ecco un discreto assolo in tremolo picking. A metà disco una sorpresa, la sofferente ed ipnotica cover "Erblicket die Tochter des Firmament" dei Burzum, estratta dal controverso 'Filosofem', a raccontarci qualcosa in più in fatto di influenze della band; io ne avrei fatto volentieri a meno. Meglio invece quando la spettrale "Tongueless (Part III)" inizia a risuonare nelle mie cuffie, con il suo incedere imponente a metà strada tra Void of Silence e Cult of Luna, spruzzati di un forte alone black, a rappresentare probabilmente l'apice musicale di questo 'Solstices', che almeno per il sottoscritto finisce qui. L'ultima strumentale "Mestreguiral" ha qualche analogia con "Tomhet" di Burzum: ricordate quel brano elettronico, ipnotico e alla lunga noioso, che chiudeva 'Hvis Lyset Tar Oss'? Ecco, il paragone credo che sia quanto mai azzeccato, e come nel capolavoro del Count Grishnákh, forse si poteva ridurre di gran lunga la durata, se non addirittura farne a meno. Diverse luci e qualche ombra per il debutto degli Heaume Mortal quindi, un ascolto però è quanto mai dovuto. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 74

https://ladlo.bandcamp.com/album/solstices

domenica 31 marzo 2019

Colossus Morose - Seclusion

#PER CHI AMA: Funeral Doom, primi Anathema
Continua il nostro tragico percorso lungo i deprimenti lidi del funeral doom. Quest'oggi ci avviciniamo al debut album dei Colossus Morose, una band che raccoglie sotto lo stesso ombrello, nomi della scena tedesca (C.J. dei Transnigth) ed elvetico/norvegese (J.C. dei Black Sputum). 'Seclusion', tanto per cambiare edito dalla russa Endless Winter, contiene sei brani di catacombale funeral doom, quello che ormai ha ben poco da aggiungere ad una scena alquanto stantia negli ultimi tempi. Questo per sottolineare che quanto incluso in questo disco non è altro che una ripresa di suoni dei primi anni '90 (gli albori di Anathema e My Dying Bride), ravvivati da un piglio più moderno, che talvolta abbraccia anche il death metal e poc'altro. Non che 'Seclusion' sia un brutto album sia chiaro, gli amanti di simili sonorità anzi ne andranno certamente ghiotti. Il sottoscritto invece, che negli ultimi 30 giorni ha avuto modo di passare in rassegna decine e decine di band funeral doom, magari si trova un po' troppo saturato mentalmente da simili uscite proprio perché non trova più elementi caratterizzanti. E non è certo una gara a chi regala il riff più abissale, la voce più animalesca (e nella lunga "Catatonical Embrace", J.C. non si tira certo indietro per quanto riguarda le growling vocals) o la melodia più straziante. Il problema è questo genere di sonorità, le ho sentite ormai tonnellate di volte e avrei bisogno di una maggiore freschezza a livello compositivo per decretare davvero vincente un disco funeral. La proposta del duo internazionale poi è ancor più ruvida rispetto a quella di altrettanto esimi colleghi. La salvano le melodie retrò di "Tarnished" che peraltro chiude con una dissolvenza troncata in modo imbarazzante; poi è il turno della ferale "Perpetually Enthralled", in cui il growl del frontman rischia di sfociare in un suino slam. Fortunatamente le linee di chitarra di primissima scuola Paradise Lost, riescono nel compito di tenere su la baracca, altrimenti il rischio di un tracollo era davvero dietro l'angolo. La performance dei nostri sta in piedi anche e soprattutto grazie a "Six", un brano un po' più ricercato tra insormontabili montagne di oscuri riffoni death doom, altri riff melodici e porzioni arpeggiate. Interessante anche la conclusione affidata a "The Spiral Descent", almeno fino a quando il vocalist non emana il suo primo vagito, da rivedere assolutamente la componente vocale. Alla fine 'Seclusion' è un album di onesto death funeral doom che probabilmente poco ha da offrire ad un pubblico divenuto ormai più esigente. (Francesco Scarci)

sabato 30 marzo 2019

Aethyrick - Praxis

#PER CHI AMA: Black atmosferico, primi Katatonia
Mentre sto qui a scrivervi di 'Praxis', sappiate che è già uscita una compilation a raccontarci qualcosa di più degli Aethyrick e dei due demo che ne hanno aperto la carriera. A parte questo, del combo finlandese si sa ben poco, se non che si tratti di un duo le cui facce, nelle foto ufficiali, rimangono celate. Largo spazio allora all'ispirata proposta dei nostri e a quello che sembra un black metal dalle forti tinte malinconico-atmosferico, come già si evince dall'opener "Protectress", che sfoggia notevoli melodie e un sound che mi ha evocato un qualcosa dell'esordio dei Thy Serpent di 'Forests of Witchery'. Sensazione confermata anche dalla seconda e arrembante "Reverence", che ci martella e non poco, con quella sua ritmica scarna e le sue grim vocals, il tutto corredato da una buona dose di melodie che ne stemperano la durezza e l'aggressività di fondo. La proposta del duo formato da Gall ed Exile, sembra abbracciare un black ancor più atmosferico, a tratti sognante, con "Pilgrimage" dove a parte i synth, sembra farsi largo un bel basso tonante e un tifone sonoro a livello di batteria. La song però ha modo di rallentare negli ultimi due minuti e concedere largo spazio ad un riffing in tremolo picking, atto ad incrementare l'impatto emotivo del disco. Non pensate però che 'Praxis' sia un disco per mollaccioni, sebbene "Quietude" vada alquanto a rilento con il suo black mid-tempo strumentale, è solo un modo per farci rifiatare e ripartire con "Wayfarer". La quinta traccia riparte là dove ci eravamo lasciati con la terza song e quindi una proposta di black sempre controllato, abbastanza melodico, che concede forse qualcosina a livello di originalità, ma che comunque sa il fatto suo su come catturare l'attenzione di chi infila le cuffie per la prima volta e tasta il polso alla proposta degli Aethyrick. Un po' più storta nel suo incedere "Adytum", lenta e sulfurea nel suo proporre un suono che qui sembra essere più evocativa, pur non inventandosi nulla di che, anzi ammiccando non poco ai Katatonia di 'Brave Murder Day'. Il finale è affidato a "Totems": chitarra zanzarosa, ritmica lenta e sinuosa, piglio depressive, buon comparto chitarristico, discreta dose di melodie autunnali a sancire la conclusione dell'atto primo dei finlandesi Aethyrick. Nulla di nuovo sotto al sole, ma quello messo in scena mostra per ora un promettente futuro. (Francesco Scarci)

(The Sinister Flame - 2018)
Voto: 74

https://aethyrick.bandcamp.com/album/praxis

Devcord - Dysthymia

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth
Del fenomeno delle one-man-band abbiamo già discusso ampiamente e ormai si è allargato a macchia d'olio in tutto il mondo. La new sensation al singolare di quest'oggi ci porta questa volta a Spillern, non troppo lontano da Vienna, con i Devcord. La band austriaca è l'entusiastica creatura di Peter Royburger, uno che deve essere cresciuto nel mito degli Opeth e che dopo accurato studio di pregi e difetti dei gods svedesi, ha pensato di dire la propria nell'ambito del prog death. Ecco come si presenta 'Dysthymia', l'album di debutto del bravo Peter, che già nell'iniziale "The Mortician" rivela il proprio piano diabolico che vede l'esplosione di chitarre e growling vocals di chiara matrice "opethiana". I punti di congiunzione con il sound di Mikael Åkerfeldt e soci, emerge più forte che mai quando le vocals pulite prendono il sopravvento e le chitarre del polistrumentista austriaco iniziano ad ammiccare più pesantemente con quelle delle asce svedesi in una cavalcata dalle forti tinte progressive, ove si colloca anche una portentosa linea di basso, che diventerà ancor più preponderante nella seconda "Agonal Breathing", una traccia estremamente varia in cui le growling vocals vanno a braccetto con linee di chitarra veementi mentre le voci pulite occupano lo spazio più etereo del sound del mastermind austriaco. Poi il canovaccio è in linea con quanto fatto dagli Opeth nel loro periodo di mezzo, a sottolineare che le similitudini fra le due band sono assai importanti. Detto questo, bisogna prendere una decisione, stroncare clamorosamente il disco per le grandi affinità con i godz scandinavi o godersi appieno la proposta del musicista austriaco. Io francamente propendo per la seconda, soprattutto alla luce della strada imboccata dai new progsters svedesi. Finalmente abbiamo una più che valida alternativa agli Opeth, Peter suona bene, ha un buon range vocale e tanta voglia di proporre la propria reinterpretazione dei dettami imposti dal genere. La title track ha un piglio più tranquillo, mantenendo pur intatta la ricerca per parti raffinate: arpeggi, parti orchestrali, tocchi di pianoforte, voci pulitissime creano insieme una splendida suggestione atmosferica che va a scomodare altri mostri sacri della scena prog, penso ad esempio ai Porcupine Tree. Di sicuro Peter è dotato di grande inventiva, perizia tecnica e ottimo gusto per le melodia e di questo gliene dobbiamo dare atto per quanto talvolta possa sembra un emulo dei big. Però lasciatemi dire che quando si lancia nelle sue fughe chitarristiche, un po' di godimento lo si prova eccome. Ed è proprio per questo che preferisco far finta di niente, tralasciare paragoni e confronti vari, focalizzandomi esclusivamente sulla proposta del frontman di Spillern, che evidenzia comunque una certa ricercatezza e una classe non indifferente. Un breve intermezzo malinconico-rilassante ("Melancholia" giustappunto) per ricominciare con il riffing di "Raw Meat" che sembra provenire da un disco dei System of a Down, prima di incanalarsi prima in meandri death, e poi cambiare subitamente registro e tornare a fare quello che Peter sembra far meglio. Ma il brano è cosi altalenante che torna a proporre uno strano ibrido alternative death che devo ammettere non aver avuto grossa presa sul sottoscritto, nemmeno nella sua conclusiva parte tribale. Molto meglio "Omega" che torna a collocarsi nei binari del progressive con una traccia interamente acustica che prepara il terreno per la lunghissima "Reaper's Helpers", un brano di oltre 10 minuti, ma i cui due minuti iniziali di suoni e urla varie avrei probabilmente fatto a meno. Poi ecco palesarsi nella prima metà un impetuoso death thrash metal, che a livello vocale sembra richiamare Chuck Billy dei Testament, ma anche King Diamond in una traccia che fa dell'imprevedibilità il suo punto di forza, provare per credere. La seconda parte rallenta paurosamente, gli Opeth dei primi brani sembrano solamente un lontano ricordo, qui c'è dell'altro: oltre al prog, techno death, ci sono fughe jazz, momenti horror e chissà quali altri sfumature che io magari mi sono perso. Sono all'ottavo brano, abbiamo scavallato i 50 minuti di ascolto e ne rimangono altri 16 in cui il factotum austriaco ha ancora modo di combinarne di tutti i colori. Se con "Fade" assistiamo increduli ad un pezzo dal tipico flavour anni '70 con tanto di voci femminili e virtuosismi dal gusto retrò, con la conclusiva "Jerk Pitch Rape" si torna a strizzare l'occhiolino agli Opeth, regalandoci gli ultimi vibranti attimi di un disco davvero interessante, assolutamente da non bollare come mera copia dei master svedesi. Meglio ascoltarlo più volte per non arrivare ad una conclusione troppo affrettata. Fidatevi. (Francesco Scarci)

(Lonelyroom Records - 2018)
Voto: 78

https://devcord.bandcamp.com/releases

giovedì 28 marzo 2019

Asmodée - Aequilanx

#PER CHI AMA: Black Old School
Dopo averci presentato qualche giorno fa il debut degli svedesi Faruln, quelli della Battlesk'rs Productions, devono essere andati a ripescare dal cassetto dei ricordi il demo dei francesi Asmodée, datato 1997 e intitolato 'Aequilanx'. Sebbene il flyer informativo riporti il desiderio di svelare la supremazia del black metal francese degli anni '90 (io non me la ricordo), francamente mi sento di dissentire da questa scelta. Per quanto bazzicassi l'ambiente black a quei tempi, non ho mai sentito parlare della band di Nantes, ed un perchè ci deve pur essere, visto che quanto contenuto nelle quattro tracce di quel lavoro, non è nulla di comparabile a quanto il mondo stesse osservando arrivare dalla Scandinavia. La registrazione poi non rende assolutamente giustizia a tracce come "Great Final Justice", l'ovattata opening track che sembra essere stata registrata con una puntina da disegno piantata su di un vinile. Il genere ovviamente è black metal nella sua forma più primordiale che tra assalti feroci, stop'n go, screaming e growling vocals, diciamo che ha poco da offrire di realmente eccezionale o mai sentito. Se non fossi cresciuto a pane, Nutella, Mayhem, Immortal, Darkthrone (e potrei continuare un bel po'), direi di trovare la proposta degli Asmodée intrigante, sfortuna loro è che con il black old-school ci ho passato i miei anni del liceo, apprezzandolo in tutte le sue sfaccettature. Ritrovarmi un pezzo rozzo come "Black Revelation" oggi nell'era dei suoni patinati e perfetti, dove la tecnica talvolta ha la meglio sulle emozioni, mi fa un po' specie. Posso sicuramente apprezzare le sperimentazioni minimalistiche per l'epoca con le tastiere, i giri di chitarra che chiamano in causa il black scandinavo, ma poco altro perchè la registrazione casalinga mi spinge piuttosto a spegnere la musica dei nostri o sostituirla con un vecchio disco di Burzum, i miei sensi ne sarebbero di sicuro più allietati. Tutto questo non vuol dire che la proposta degli Asmodée faccia pena, vuol semplicemente dire che se l'avessi ascoltata sulla più classica demotape 25 anni fa, probabilmente l'avrei anche apprezzata, lamentandomi comunque di una registrazione penosa (ricordate le tracce più grezze di 'Vinterskugge' degli Isengard? ebbene siamo su quei livelli). Se "Caïn's Black Spells" fosse stata registrata oggi, probabilmente staremo parlando di un buon pezzo black che si muove tra i suoni dei primissimi In the Woods e i primi Gehenna, con qualche sperimentazione addizionale in sottofondo che faccio però fatica a decodificare. Se la riesumazione doveva avere un senso, io avrei ri-registrato l'album e l'avrei offerto ai posteri con una veste migliore visto che di versioni successive a quella del 1997, ne esistevano già. Un peccato si, veniale. (Francesco Scarci)

(Battlesk'rs Productions - 2018/1997)
Voto: 56

https://www.youtube.com/watch?v=vj6BnGHwv34

Sunless Dawn - Timeweaver

#PER CHI AMA: Prog Death, Opeth
Da quando gli Opeth si sono dati al rock progressivo, il prog death ha visto un più grande sviluppo nell'ultimo periodo, quasi la band di Mikael Åkerfeldt e compagni rappresentasse un ostacolo un po' troppo ingombrante per la crescita di altre realtà musicali. L'ultima mia scoperta arriva da Copenaghen e si chiamano Sunless Dawn, e 'Timeweaver' rappresenta il loro album di debutto. E che debutto. La band, che ha vinto il concorso Wacken Open Air Metal Battle nel 2016, propone un qualcosa davvero fresco che fin dall'opener "Apeiron" alle tracce successive, lascia intravedere le molteplici influenze dei nostri. Nella breve opening track ci sento una versione estremizzata di Devin Townsend, suonata con classe e cura certosina. Questa mia percezione positiva si conferma anche con la successiva"Aether", un brano che evidenzia il bagaglio tecnico di cui è dotato l'ensemble nordico fatto di cambi di tempo, ottimi assoli e melodie, senza dimenticare la prova convincente alla voce (costantemente in growl) di Henrik Munch ad impreziosirne i contenuti. Devo essere sincero però che una versione pulita di Henrik avrebbe reso ancor meglio l'output musicale di questo 'Timeweaver', ma sono quasi certo che dal prossimo disco ci sarà qualche novità da questo punto di vista, è fisiologico. "The Arbiter" sciorina una bella ritmica di scuola Opeth e un approccio solistico intrigante (sono pazzo o ci sentite anche voi un che degli Amorphis?). Con la strumentale "Biomorph I: Polarity Portrayed" si apre una sorta di mini concept all'interno del disco: il brano è raffinato, delicato, e apre a deviazioni sperimentali in stile greci Dol Ammad. Con "Biomorph II: Collide into Being" si torna invece a veleggiare nel death "opethiano": interessante qui il bridge iniziale ma in generale sono gli arrangiamenti a fare la differenza e poi beh, quell'assolo a metà brano è semplicemente da applausi e da solo vale l'acquisto del cd; poi il celestiale chorus a fine brano individua probabilmente quella che sarà il mio pezzo preferito del disco. Ma le sorprese sono dietro l'angolo perché strani cori aprono anche la terza parte "Biomorph III: Between Meadow and Mire", in una song dal funambolico incedere black melodico, preso in prestito da altri mostri sacri, i Ne Obliviscaris, a farmi probabilmente cambiare idea sulla mia song favorita. Ragazzi che bomba di album, qui ce n'e davvero per tutti i gusti (anche per chi apprezza gli Scar Simmetry o i Raunchy), soprattutto andando verso il finale della traccia dove la sezione ritmica ne pensa una più del diavolo e a mettersi in luce non sono solo le due asce, ma anche il basso tonante di Eskil Rask. Classe sopraffina confermata anche da "Grand Inquisitor", un pezzo più classico e tortuoso, ma che ha ancora modo di riversare tonnellate di riffs (soprattutto nel finale) e quintalate di groove, grazie all'apporto azzeccatissimo di synth mai invasivi. "Erindringens Evighed" al di là dell'eccelsa qualità musicale che ormai non fa più notizia, la citerei piuttosto per l'utilizzo a livello lirico della lingua madre dei nostri; però visto che ci siete ascoltatevi attentamente anche il finale mozzafiato della song che ci conduce a "Sovereign". Questa è la canzone che era stata scelta come singolo nel 2016, quindici minuti che sublimano il concetto di musica death progressiva, attraverso una scoppiettante prova, corredata da una complessità musicale davvero elevata, in cui mi sembra di percepire a livello di chitarre anche un che degli Edge of Sanity di 'Purgatory Afterglow'. Non so se siano clamorosi abbagli dovuti all'entusiasmo scatenato dall'ascolto di 'Timeweaver', ma ragazzi, un unico consiglio, fate vostro questo disco, non ve ne pentirete assolutamente, soprattutto se siete fan di Opeth, Ne Obliviscaris, Enslaved, Amorphis, Ihsahn, Porcupine Tree, Devin Townsend e compagnia, insomma quanto di meglio la scena abbia da offrire. Che altro state aspettando? (Francesco Scarci)

Moodie Black - MBIII

#PER CHI AMA: Noise/Experimental/Hip Hop
Pensavo che l'hip hop avesse le strade chiuse di questi tempi, le idee fossilizzate, un futuro poco costruttivo, una morte imminente dopo tanti anni dalla sua nascita, fino a quando non ho ascoltato 'MBIII', nuovo EP dei Moodie Black, band losangelina piena di fantasia e di geniale abilità nel ridare lustro a questo genere. Il duo presenta, esasperando e rinvigorendo lo stile tipico che lo contraddistingue (una tipologia di suono di rottura, spesso non apprezzata dalle comunità hip hop più tradizionaliste), quattro tracce dall'incedere lento, sulla base del trip hop, reso agghiacciante e drammatico, grazie alla scelta ingegnosa di usare sonorità vicine all'ambient noise e all'industrial più sperimentale e tanto lontane dal tipico sound, commerciale, pop e metropolitano. La voce profonda si muove tra spoken word e rap, lacerata di continuo da una serie di distorsioni che la fanno apparire inumana e fantascientifica, una litania aspra e dura, un sermone acido, seguito da musiche rigurgitate dopo un'overdose di rumori glaciali, divisi tra digital hardcore e il Gary Numan di 'Jagged', inoltre posso aggiungere che, inverosimile ma vero, queste melodie industriali potrebbero andare a braccetto tranquillamente con gli ultimi Godflesh (ovviamente immaginati in veste hip hop), mostrando fieramente la poca attinenza con i padri luminari della scena e puntando ad una genuina quanto incisiva forte personalità. Quindi, immagini violente, cupe, notturne, rigide riflessioni e sofferenza, sono la chiave di lettura di questi quattro brani dalla potenza inebriante, brani al vetriolo che superano la soglia del sentito fino ad ora, fatti per alzare l'asticella della qualità e portare in alto la voce dell'hip hop sotterraneo, al di fuori degli schemi, mischiandolo con improbabili sonorità, proprio come a suo tempo fecero i Cypress Hill in maniera impeccabile. L'impegno per la causa transgeder (LGBTQ), che vede coinvolto di persona il frontman Chris Martinez (alias Kdeath), ha permesso a questa band di portare in musica una serie di problematiche, paure ed emozioni, spaccati di vita vissuta, in maniera artistica esemplare, componendo un album durissimo ed intenso, certamente degno di nota, un disco traboccante di originalità e veramente estremo. Ottima release! (Bob Stoner)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Saor - Forgotten Paths
Paara - Ritti
Phlebotomized - Deformation of Humanity
 
---
Five_Nails

Chapel of Disease - . . . and as We Have Seen the Storm, We Have Embraced the Eye
Frost Giant - The Harlot Star
Disencumbrance - The Betrayal

---
Alain González Artola

Rotting Christ - The Heretics
Sacrificia - Pestilencia
Proceus - Maharaja

---
Dominik

CBF - Malvarma
Sacristy - Masters of Baphometic Devastation
Grafvitnir - Venenum scorpionis

domenica 24 marzo 2019

Gloomy Grim - Obscure Metamorphosis

#PER CHI AMA: Black/Death, primi Dimmu Borgir
Dei finlandesi Gloomy Grim ho amato alla follia 'Blood, Monsters, Darkness', loro primo album ormai datato 1998. Da allora, ogni qualvolta usciva un lavoro della band, speravo potesse accadere il miracolo della ripetizione di quel fantastico debutto, ma niente da fare. Ultimamente, quando tra le mani mi è capitato l'EP 'Obscure Metamorphosis', devo ammettere di aver avuto il solito sussulto, speranzoso di ritrovarmi un piccolo gioiellino che attendo ormai da oltre vent'anni. Purtroppo l'aspettativa è stata delusa anche questa volta, non perchè le quattro tracce qui contenute siano delle ciofeche, semplicemente perchè lo standard qualitativo non riflette ancora quello altissimo dell'esordio dell'act di Helsinki. Quattro brevi tracce (per un totale di poco più di 13 minuti) di black vecchia scuola, sporcato qua e là da venature sinfoniche-orrorifiche ("Stars Above Me") che hanno più di un rimando ai primi Dimmu Borgir. La band non si scorda nemmeno come ci si lancia in cavalcate death come nel finale di "Crawling Saviour". "The Lord of Light" è la perfetta sintesi tra black e death, tra atmosfere cupe, ottime fughe chitarristiche (interessante l'assolo posto ad inizio brano) e qualche buon inserto di tastiere che si ripetono anche nella conclusiva "Impressive Physical Sight", una song molto atmosferica che abbina un riffing black con uno a tratti di scuola Morbid Angel e stop'n go spettrali che ci danno modo di capire che la band è viva e vegeta, nonostante gli ampi rimaneggiamenti a livello di line-up. Quel che voglio portarmi a casa è soprattutto la voglia della band di tornare a proporre qualcosa fuori dagli schemi. Per ora il risultato è uscito solo a metà, ma la strada imboccata potrebbe anche essere quella giusta. (Francesco Scarci)

(Grimm Distribution/Murdher Records - 2018)
Voto: 67

https://gloomygrim.bandcamp.com/album/obscure-metamorphosis-ep-2018

Ni - Pantophobie

#PER CHI AMA: Mathrock/Avantgarde/Noise Rock, Fantômas, Zu
Chi, per passione o per lavoro, scrive si sarà trovato almeno una volta a sperimentare un blocco creativo: le ore e i giorni passano, l’illuminazione non arriva e il foglio desolatamente vuoto davanti a sé, inizia a generare un’ansia crescente. Questa spiacevole sensazione, comunemente chiamata “blocco dello scrittore”, pare abbia un nome scientifico: leucoselofobia, letteralmente “il terrore nell’osservare una pagina bianca”, che probabilmente trascende la dimensione puramente letteraria e finisce per accomunare un po’ tutti gli artisti, compresi i musicisti alle prese con un nuovo album.

I Ni avranno mai sperimentato questa fobia? Io me li immagino chiusi nella loro sala prove di Bourge-en-Bresse, mentre suonicchiano senza convinzione alla disperata ricerca dell’accordo giusto, del riff efficace, di quella vibrazione interiore che all’improvviso spinge le dita di chitarristi e bassisti a muoversi veloci sulle tastiere dei propri strumenti e i batteristi a pestare con energia le pelli dei tamburi. Mi piace pensare che sia stato proprio il tentativo di esorcizzare un blocco creativo ad ispirare 'Pantophobie', quarto album di questo eccentrico quartetto transalpino, incentrato come da titolo sulla “paura di tutto”.

La genesi dell’opera è stata ovviamente tutt’altro che frutto del caso: ascoltando questi undici brani (in realtà nove più due inquietanti tracce di silenzio assoluto in apertura e chiusura) e dando un’occhiata alla storia della band, è chiaro che i Ni, dotati di grande tecnica ed impressionanti abilità compositive, abbiano progettato l’opera nei minimi dettagli, offrendoci un disco volutamente nevrotico ed imprevedibile, basato su ritmi concitatissimi e repentini cambi di dinamica su cui vengono sviluppati intrecci ed armonie allo stesso tempo stravaganti ed eleganti. È difficile attribuire un’etichetta alla proposta musicale del gruppo, ma possiamo tranquillamente parlare di un math/noise rock strumentale in cui tempi dispari, i riff storti ele sequenze bruscamente troncate la fanno da padrone, ma nel calderone vengono riversate influenze avantgarde metal, hardcore, jazz e persino qualche pennellata di ambient e post-rock; l'eco di Mr. Bungle, Fantômas e delle varie creature di Mike Patton sono evidenti, ma è possibile cogliere anche richiami ai nostrani Zu.

Il tutto pare realizzato col preciso obiettivo di non dare alcun punto di riferimento e lasciare l’ascoltatore costantemente spiazzato, quasi a voler riprodurre in musica lo stato di confusione e il senso di minaccia provato da chi soffre di una delle fobie che danno il nome ai pezzi: “Leucosélophobie”, “Héliophobie” (la paura della luce del sole), “Alektorophobie” (paura delle galline), “Kakorraphiophobie” (paura del fallimento), tanto per citarne alcune, sembrano termini usciti da un’enciclopedia psichiatrica per definire terrori assurdi, nei quali possiamo leggere una sottile ironia da parte della band nel ritrarre una società sempre più spaventata ed in balia di apprensioni spesso prive di senso.

In 'Pantophobie' il tema della paura non si limita dunque a fare da sfondo all’estro compositivo degli strumentisti: l’intero lavoro si presenta come un vero e proprio "Urlo di Munch" musicale, la perfetta rappresentazione di un’epoca priva di certezze e dominata da un’inquietudine di cui è difficile cogliere le radici. La cura proposta dai Ni, celata dietro tempi composti e ritmiche folli, è piuttosto semplice: imparando a non prenderci troppo sul serio forse ci accorgeremmo che i nostri mostri non fanno poi così paura. (Shadowsofthesun)


sabato 23 marzo 2019

Liles/Maniac - Darkening Ligne Claire

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental/Drone/IDM
Devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di più da questo super duo ma, riconoscendo che la musica di questo lavoro è solo una parte di un progetto d'arte visiva ben più esteso, incentrato sulle opere del signore del logo metal, Christophe Szpajde, posso assaporarlo e giudicarlo solo a metà, ascoltandone esclusivamente la musica. Andrew Liles (artista e produttore, con Nurse With Wound e collaboratore dei Current 93) e Sven Erik Fuzz Kristiansen aka Maniac (ex cantante dei Mayhem) ci offrono in questo 'Darkening Ligne Claire' sette brani dal taglio duramente sperimentale, dove la voce di Maniac viene smembrata e frantumata in mille parti da una serie infinita di effetti fino a farla flirtare con una sorta di ambient minimale ed astratto. Difficile parlare di forma canzone o soundtrack, le composizioni risentono della mancanza visiva (sono state prodotte solo sette copie fisiche speciali di questo album!) e si percepisce che avrebbero un senso completamente diverso ascoltate di fronte ad un'immagine e non così, nude e crude. La musica s'interseca tra suoni isterici rubati ai seminali The Residents e l'elettronica più moderna, con spunti e intuizioni veramente vintage e datati. A volte troviamo anche retaggi sonori provenienti dal mitico 'Scream With a View' dei Tuxedomoon (in versione destrutturata e sgretolata per bene) e stupisce poi l'uso dell'harmonizer, quanto l'assenza totale del ritmo scandito solo da accenni ricavati dal parlato di Maniac. Un lavoro ostico e difficile da inquadrare, sicuramente singolare conoscendo il background dei due artisti, misteriosa l'idea di battezzare tutti i brani con un nome di una band black metal o comunque appartenente al circuito metal estremo di cui Szpajde ne ha disegnato il logo, un singolare tributo a queste band oppure un'originale fonte d'ispirazione? "Enthroned" è un finto brano di elettronica drum'n bass scarnificato e disossato di tutto, lasciando con solo piccole frazioni di suono a dettar legge, "Slauther Messiah" con "Wolves in the Throne Room" sono i due brani che mi hanno colpito maggiormente, il primo per la sua veste così drammatica e il secondo per la sua apertura cosmica verso un ignoto buio astrale. Come già accennato, il disco si presenta con un suono di confine non accessibile a tutti e fatto apposta per intenditori voraci di musica ultra sperimentale, anime mai sazie di nuovi orizzonti, come il sottoscritto. 'Darkening Ligne Claire' alla fine è un album tutto da interpretare e di difficile approccio, solo per appassionati del genere. (Bob Stoner)

giovedì 21 marzo 2019

Triste Terre - Grand Oeuvre

#PER CHI AMA: Black/Doom
Torna la Les Acteurs de l'Ombre Productions e con essa un nuovo carico grondante di estremismo sonoro, questa volta in compagnia dei francesi (ormai cosa acclarata) Triste Terre. Si tratta di un duo proveniente da Lione che manco a farlo apposta, propone in questo 'Grand Oeuvre', del black metal contaminato. Interessante notare come la band, all'esordio sulla lunga distanza dopo tre EP all'attivo fino ad oggi (più una compilation), individui Bach come unica fonte di influenza, un unicum direi in ambito estremo. Questa potrebbe essere identificabile nella opening track "Œuvre Au Noir", dove accanto ad un black mid-tempo dalle forti tinte atmosferiche, si pongono degli inserti di organo che possono evocare in realtà un qualsiasi compositore classico, ma mi piace immaginare che quello che ci ho sentito io, sia davvero il buon Sebastian. A livello vocale invece, Naâl si pone con uno screaming cupo alternato ad un cantato sguaiato quasi pulito ma sofferente, là dove il criptico sound avanza tra marcette militaresche ed immersioni al limite del funeral. I pezzi durano parecchio, vi basti pensare che l'opener, la traccia più lunga del cd, sfiora i tredici minuti, mentre le altre canzoni si assestano tra i nove e i dodici. Un attacco post black irrompe in "Corps Glorieux", una song che si riappropria ben presto della sua indole oscura, navigando in stagnose acque blackened doom, anche se non mancano le vorticose e caotiche accelerazioni in blast-beat. Diciamo che gli ingredienti tipici che si riscontrano nelle release della LADLO Prod, ci sono tutti e questo inizia un po' a far scricchiolare, a mio avviso, la strategia di selezione dei gruppi da parte dell'etichetta francese. Chiaro che fintanto che i dischi rilasciati otterranno un discreto successo, la ragione starà dalla parte della piccola ma potente label di Champtoceaux, però il consiglio è quello di cercare qualche soluzione alternativa per evitare di bollare ogni singola release con il marchio "è il solito sound della LADLO", sarebbe davvero un peccato. Però non posso far finta di niente e anche di fronte ad un più che discreto brano come "Nobles Luminaires", l'unica cosa che mi preme sottolineare è quel bridge di musica classica che si ritrova a metà, che risveglia in me echi lontani mai assopiti dei Windir di 'Arntor' o dei Dispatched di 'Motherwar', ma con le dovute differenze, perchè qui non c'è il medesimo e forte approccio da musica da camera che avevano le due band scandinave. Sembra che ai Triste Terre l'influenza classica rimanga bloccata in canna e faccia fatica ad emergere potente, probabilmente intrappolata nelle congiure di un tentacolare doom claustrofobico. Non so se sia un bene o un male, ma il disco prosegue a rilento con i rimanenti tre brani, per un'altra mezz'ora buona di musica lenta ed insana che, passando attraverso le discordanti melodie di "Grand Architecte", altra song dai profondi organoni e dall'incedere angosciante, arriva a condurci a due passi dal precipizio. "Lueur Émérite" apre con un semplice arpeggio, che cede il posto ad un liturgico cantato sorretto da una ritmica che somiglia più ad un mitragliatore M60 piuttosto che al trittico formato da chitarra/batteria/basso, il che lo leggo come un tentativo di regalare qualche variazione in più al tema, che talvolta sembra soffrire di una scarsa dinamicità di fondo. Il disco non è affatto brutto sia chiaro, però, si c'è un però, stenta a decollare. Forse è con la conclusiva "Tribut Solennel", ove la band si lancia nuovamente in sghembe melodie dissonanti di scuola transalpina, che la band diventa finalmente credibile in quello che fa, sfoderando soprattutto un esplosivo finale da applausi che sancisce, tra qualche difficoltà, la fine di quest'opera prima dei Triste Terre. 'Grand Oeuvre' è in definitiva un lavoro che si muove tra luci ed ombre, che palesa tuttavia le potenzialità ancora non completamente a fuoco di un duo che in futuro avrà modo di togliersi diverse soddisfazioni se solo si levasse di dosso quell'impersonale ruggine compositiva che talvolta ammanta il loro sound. Forza e coraggio. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 70

https://ladlo.bandcamp.com/album/grand-oeuvre

mercoledì 20 marzo 2019

Frozen Moon - Legend of East Dan

#PER CHI AMA: Extreme Folk, Skyclad
Ci hanno impiegato quasi vent'anni i cinesi Frozen Moon per rilasciare un lavoro ufficiale. Formatisi infatti nel 2001 a Jinzhou, dopo varie vicissitudini che hanno portato a molteplici split e cambi di line-up all'interno della band, finalmente si arriva alla tanto agognata release, un EP, speriamo come antipasto per un più prelibato lavoro su lunga distanza. La proposta viene erroneamente accreditata come black metal, sappiate che qui siamo al cospetto di qualcosa di ben più ricercato e raffinato. L'opening track, "Abuka I - Sacrifice" mi catapulta infatti in territori mediorientali che mai mi avrebbe lasciato pensare invece ad una band dell'Estremo Oriente. Il sound proposto è un black (ma non credo sia corretta questa definizione) mid-tempo, assai atmosferico corredato da melodie di carattere folklorico e qualche scorribanda estrema a livello ritmico, il che mi fa pensare ai nostri ad una sorta di Skyclad cinesi. "Abuka II - Evocation" sembra invece trascinarmi in Africa centrale, durante un qualche evocativo rito voodoo che peraltro si traduce anche a livello vocale tra grida ed invocazioni ritualistiche, mentre la musica scorre via tribale, affidandosi ad una ritmica serrata dal suono tuttavia scarno. Un peccato perchè un miglior apporto di chitarra e batteria, avrebbe trasformato il lavoro da intrigante a davvero spettacolare. Le melodie di fondo non nascondono le origini orientali dei Frozen Moon e cosi la proposta che inizialmente percepivo calcare terre africane, improvvisamente si sporca di melodie della tradizione cinese. "Invade of Bohai" si riferisce al mare di Bohai sul quale si affaccia la città dell'ensemble di quest'oggi. È ancora una certa tribalità africana però a governare la proposta della band in una sorta di danza attorno alle fiamme di popolazioni indigene. La musica poi prende la sua strada un po' più estrema, ma in realtà solo le vocals gracchianti del frontman costituiscono l'unico punto reale di contatto col black metal, perchè io parlerei di sonorità sperimentali folk pagane tribalistiche. Questo per dire che la compagine della regione del Liaoning propone un qualcosa di davvero originale, forse non suonato in modo impeccabile, ma sicuramente affascinante. La title track chiude il disco tra cavalcate black (qui posso finalmente dare il benestare alla definizione di musica estrema) inframmezzate però dalle immancabili melodie orientali, da partiture di chitarra acustica e classica e ancora da parti folk metal. Insomma pur essendo solo 22 minuti di musica, io li ho trovati francamente molto interessanti. Spero di avere nuove sulla band quanto prima, perchè se queste sono le premesse, credo che i nostri, aggiustando la produzione e limando qualche errore puramente esecutivo, abbiano davvero delle ottime potenzialità. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2018)
Voto: 76

https://frozenmooncn.bandcamp.com/

martedì 19 marzo 2019

Stormhaven - Liquid Imagery

#PER CHI AMA: Prog Death, primi Opeth
Originari di Tolosa, gli Stormhaven sono un quartetto prog death che non va confuso con l'omonima band americana. I quattro francesi tornano a distanza di un paio d'anni dall'LP di debutto 'Exodus' con questo nuovo 'Liquid Imagery', dieci pezzi per farci capire come il sound dei nostri sia evoluto in questi 24 mesi e quale sia il loro attuale stato di forma. Il lavoro, che dovrebbe essere una sorta di concept album, narra la storia di un uomo in barca pronto ad affrontare la furia della tempesta. Il cd si apre con l'intro "A Wayward Course", che sembra proprio riflettere la narrazione del protagonista mentre si trova in mezzo alle onde del mare. Poi ecco palesarsi la burrasca attraverso il riffing di "The Storm" e la prima associazione mentale che mi viene spontanea è con il sound degli Opeth periodo di mezzo, anche se in questa traccia, le sfuriate ritmiche sfociano in un techno death talvolta parossistico che prende un po' le distanze da Mikael Åkerfeldt e soci. C'è da dire che comunque la proposta del quartetto transalpino è comunque varia in fatto di cambi di tempo, ed un certo cambio stilistico è da denotare anche a livello delle vocals, che si sbrogliano attraverso un growl possente e a delle altre più graffianti ma pulite. Interessante la porzione solistica con un intreccio di chitarre dal forte sapore classic metal. "Tides", il terzo brano per il quale la band ha peraltro rilasciato anche un video (peccato solo che si vedano i quattro musicisti suonare su sfondo nero e non ci sia alcuna attinenza con quanto dovrebbe richiamare il titolo), sottolinea la capacità di ricerca melodica che appartiene alla compagine originaria dell'Occitania. Dopo i suoi quattro minuti, arriva l'apertura acustica di "Starless Night" a narrare come il cielo stellato sia oscurato dall'incessante pioggia, quasi un parallelismo con la vita tormentata del protagonista. La traccia si presenta elegante e raffinata con ottime malinconiche melodie sia a livello vocale che di linee di chitarra. Poi l'esplosione di "Contemplation", l'unica tappa strumentale del disco, robusta ma sicuramente ispirata, pronta ad introdurre la lunga "Sirens", nove minuti in cui il progressive sembra avere la meglio sugli estremismi sonori della band. La song è di certo assai ritmata, qui gli Stormhaven non lesinano sulle rincorse della sei corde, le parti atmosferiche e i chiaroscuri ritmici, in quella che a mio avviso è la mia song preferita del disco. Ferocissima e dal piglio black è invece "Abyss", una scheggia incontrollabile di ritmiche frenetiche e schizoidi. Ancora un'intro acustica per i secondi iniziali di "Aurora", poi la song vira verso un sound atmosferico a cavallo tra death e black, che vede i nostri ammiccare pesantemente, in un altro break centrale acustico, sia a livello vocale che musicale, agli Opeth. Il disco va migliorando con le partiture prog death di "Vesper", una song piacevole e al contempo più ostica da ascoltare per quel suo rifferama destrutturato e contorto che trova un attimo di quiete nella parte centrale dove le clean vocals si affiancano all'acustica in una parte delicata, malinconica e decisamente più accessibile al pubblico. Il momento di quiete non dura però troppo, il growling maligno e il muro ritmico sono pronti a riprendere là dove avevano sospeso, pronti a ripartire con l'ultima "Echoes", dodici minuti in cui la compagine transalpina mette in campo tutto il proprio repertorio, passando più volte dall'acustica al black epico fino al prog death. Insomma, 'Liquid Imagery' è un disco ben architettato, ben concepito ed in ultimo anche ben suonato, che vede gli Stormhaven proseguire il loro percorso ripercorrendo le orme degli Opeth che furono. Speriamo solo non facciano la stessa fine. (Francesco Scarci)