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mercoledì 31 ottobre 2018

Ljungblut - Villa Carlotta 5959

#PER CHI AMA: Melancholic Rock, Klimt 1918
Chi è nato nella seconda metà degli anni ottanta, ha probabilmente solo un vago ricordo di come fosse la vita prima del definitivo affermarsi della tecnologia digitale: la memoria di quell’epoca per me è legata ai fruscii del giradischi di mio padre e alle foto scattate con una macchina fotografica analogica. Ascoltando 'Villa Carlotta 5959', ultima fatica dei norvegesi Ljungblut, progetto avviato dal bassista di Seigmen e Zeromancer Kim Ljung, è impossibile non pensare ad immagini ingiallite dal tempo impresse sulla pellicola di una Hasselblad, le costosissime fotocamere utilizzate durante la missione Apollo 15, poi abbandonate sulla Luna, a cui è dedicata la prima traccia dell’opera ("Hasselblad" appunto). Il sound marcatamente darkwave dell’introduzione ci presenta un album concepito in contrapposizione con il presente non solo per stili musicali e tematiche: malgrado l’attitudine prevalentemente pop delle canzoni, molte scelte di produzione, come ad esempio la registrazione in presa diretta, l’essenzialità dell’artwork e l’utilizzo del norvegese nel cantato, appaiono volutamente lontane dalle dinamiche mainstream. I pezzi successivi si assestano su un rock atmosferico dal sapore retrò, in cui tappeti di synth e gli arpeggi di chitarra ci trasportano attraverso atmosfere autunnali ("Oktober", senza dubbio il pezzo più intenso) ed evocano malinconici paesaggi ("Superga", probabilmente dedicata alla collina torinese). È incredibile come durante l’ascolto permanga l’impressione di sfogliare un album di vecchie fotografie, segno che l’obiettivo della band è pienamente raggiunto, andando a toccare alcune corde della memoria e stimolando la sensazione di nostalgia. 'Villa Carlotta 5959' è un lavoro molto solido, passionale e dalla forte identità, tuttavia monodirezionale, in quanto guarda esclusivamente al passato e procede su sentieri sonori già ampiamente esplorati. (Shadowsofthesun)

martedì 30 ottobre 2018

The Pit Tips

Francesco Scarci

Entropia - Vacuum
Forest of Stars - Grave Mounds and Grave Mistakes
Irreversible Mechanism - Immersion

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Alain González Artola

Elderwind - The Colder the Night
Hate Eternal - Upon Desolate Sands
Severoth - When the Night Falls...

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Shadowsofthesun

Marnero - Quando Vedrai le Navi in Fiamme Sarà Giunta l'Ora
Ken Mode - Loved
Marlene Kuntz - Nella Tua Luce

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Dominik

Aegrus - Thy Numinous Darkness
Kult - The Eternal Darkness I Adore
Hallig - A Distant Reflection of the Void

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Five_Nails

Soul Dissolution - Stardust
Barren Canyon - War of Wounds
Into Eternity - The Sirens

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Alejandro Morgoth Valenzuela

Helheim - LandawarijaR
This is Past - The Outsider
Watain - The Wild Hunt


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Alberto Calorosi

Living Colour - Shade
Mouth - Floating
Okkervil River - In the Rainbow Rain

R.A.I.V.A. - S/t

#PER CHI AMA: Thrash, Killing Joke, Sepultura
La Etherel Sound Works appoggia l'uscita del side project dell'istrionico chitarrista degli ottimi thrasher portoghesi Ramp, Ricardo Mendonça, in compagnia di altri ospiti celebri, tra cui un inaspettato e inedito Fernando Girão alla voce, noto autore e cantante di Fado portoghese e world music. Il progetto è nato con l'intento di rivendicare le disugualianze sociali ed economiche e il malessere del popolo, in questi tempi difficili per il Portogallo e di riflesso, il messaggio è rivolto all'intero pianeta. Interessante è stato tradurre i testi (tutti in lingua portoghese), che compaiono integralmente nel booklet assai curato presente all'interno, per entrare nella giusta mentalità dell'opera che si dichiara come musica di protesta con un'indole punk e un impatto metal molto secco e diretto. Il background thrash si sente eccome, anche se non si raggiungono i vertici di potenza dei Ramp, i riff sono sempre incentrati su mid-tempo e prediligono la melodia senza mai calare di pressione; l'album si presenta effettivamente riflessivo con inserzioni di synth, elettronica e piccole finestre di world music. In effetti, la voce di Girão funziona e si pone come un cantore dell'apocalisse, stupendo con il suo tono roco e predicatore, a metà tra vecchi Accept e ultimi Killing Joke, sposandosi alla perfezione con le composizioni più oscure e pesanti della band ("Filho da Maldade"). I brani, musicalmente parlando, si esprimono al meglio quando acquisiscono quel tono sinistro, dal passo lento e dark, quelli dove il tono da agitatore sociale diventà più pressante. La metamorfosi di Girão si estende per tutto l'album, anche nei pezzi più energici che rieccheggiano i maestri del metal internazionale anni '90 (Sepultura, Testament, Metallica periodo 'Load') dando però un qualcosa di diverso nell'interpretazione del canto metal, assumendo profondità e riflessione proprio come un impegnato, intellettuale, cantautore ricoperto di borchie (Phonam as cartas na mesa, Pago impostos com a vida e O mais fraco nao ten nada). Il sound è una spinta continua e omogenea con tutto al posto giusto, assoli, riff granitici e batteria sempre in tiro, il groove con vocazione al nero, un lieve parallelo verso le coste dei conterranei Moonspell (in comune ci trovo l'oscura visione del rock), anche se qui la musica è meno sinfonica e più diretta, con una produzione poi che aiuta nell'ascolto dell'intero album. Insomma, un esperimento che coniuga due estremi musicali per un nobile intento, quello di sensibilizzare la popolazione mondiale sul degrado sociale e civile del mondo. Il Portogallo, con questa ulteriore uscita, si mostra come di consueto una scena musicale molto attiva e vivace, capace di distinguersi con personalità nel panorama internazionale. Disco atipico, particolare e interessante. (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2018)
Voto: 70

https://www.instagram.com/r.a.i.v.a/

domenica 28 ottobre 2018

Coldbound - The Gale

#PER CHI AMA: Melo Death/Doom, Insomnium
"61°43’N17°07’E" non solo è l'evocativa opening track di quest'album, ma rappresenta anche le coordinate che dovrete seguire quest'oggi per inseguire fino in Svezia i Coldbound anche se in realtà dovreste ricercarne le loro origini in Finlandia. Nati infatti nel 2012 a Vantaa come la one-man-band del mastermind Pauli Souka, i Coldbound oggi hanno la parvenza di un gruppo a tutti gli effetti con tre elementi che fungono in realtà di supporto al frontman. E se agli esordi (questo è il loro quarto album) era un black/death a farla da padrone, ora il sound è virato verso lidi melo death intonacati di una vena doom, con risultati abbastanza rilevanti. Lo testimonia "The Evocation", e le sue ispiratissime linee melodiche che si muovono a metà strada tra Insomnium e i Saturnus più malinconici, non disdegnando tuttavia rasoiate ritmiche più vicine alla scuola melodica svedese, complice forse la nuova residenza del buon Pauli. La componente ritmica è davvero corposa, grazie ad un sound robusto, ma che ne preserva la componente melodica. Detto del mood decadente di "The Invocation", con "Endurance Through Infinity" si fa sentire una più marcata influenza dei My Dying Bride, là dove mi preme sottolineare l'ottima performance vocale del bravo Pauli dietro al microfono. E vi dirò che ci sento pure dei riferimenti alle tastiere degli Amorphis di 'Tales from the Thousand Lakes', ma forse saranno mie allucinazioni sonore. In "The Eminent Light", fa l'apparizione al microfono la voce femminile (poco convincente oserei dire) di Paulina Medepona in una song che avrebbe tutte le potenzialità per colpire nel segno ma che in realtà rimane strozzata proprio nelle corde vocali della gentil donzella, troppo poco convinta delle sue capacità. Decisamente più roboante e convincente la title track che esplode con forza in una traccia dai forti sentori black, retaggio degli esordi della band, anche se lungo il brano, Pauli sembra correggere il tiro e virare verso il melo death di scuola finlandese, in una traccia che comunque ho apprezzato più delle altre per quel suo spirito energico e battagliero, corredato da belle melodie in sottofondo e ottime orchestrazioni a cura di Andras Miklosvari, il braccio destro di Pauli. Annientati dall'onda anomala di "The Gale", il sound vira drasticamente in "My Solace", traccia più sofferta e dal piglio dark rock, con le vocals quasi sussurrate all'inizio, prima che rientrino nei binari di un growl concreto che comunque si alternerà in questa song con le clean vocals. Il pezzo comunque è assai convincente, complici anche alcune interessanti linee di tastiere, sebbene possa suonare un po' troppo derivativo. 'The Gale' volge già verso il termine, ma riserva ancora qualche spunto interessante: l'irrequieta irruenza di "Winters Unfold", cosi doomish e più gustosa nel finale, le linee di chitarra di "Shades of Myself" e quel suo drumming evocativo nella parte centrale del brano, qui marcatamente influenzato dagli Insomnium. E poi c'è il gran finale, affidato agli undici minuti di "Towards the Weeping Skies", il brano più completo e maturo del lotto, una summa di tutto quanto ascoltato sin qui, che si manifesta attraverso le atmosfere darkeggianti di una song delicata e le vocals sofferenti del sapiente frontman finlandese, in un brano sicuramente evocativo, e ben più rilassato rispetto ai precedenti. Alla fine 'The Gale' è un buon disco che certamente mostra diversi pregi ma ancora qualche difettuccio, forse legato ad una sensazione di già sentito che talvolta riemerge dalle note del combo nordico. A parte questo, sono convinto che sia parte di un normale percorso di crescita che vedrà probabilmente nel prossimo capitolo, toccare un apice musicale ancor più elevato. (Francesco Scarci)

(Moonlight Productions - 2018)
Voto: 70

https://coldbound.bandcamp.com/album/the-gale

Dakhma - Hamkar Atonement

#PER CHI AMA: Esoteric Black/Death/Doom, Aevangelist
Non è la prima volta che dalla Svizzera ci arrivano band dedite ad un metal estremo dai forti connotati esoterici. Era già successo lo scorso anno con i Lvx Hæresis e gli Arkhaeon, accade oggi con i Dakhma, duo proveniente da Zurigo, affiliato all'Helvetic Underground Committee, e dedito, ancor più dei precedenti, ad un ritualistico sound, che sin dall'incipit "The Glorious Fall of Ohrmazd (Hail Death, Triumphant)", sembra voler celebrare un qualche rito legato alla tradizione zoroastra. Il moniker dei nostri si rifà infatti alla lingua avestica, oggi conosciuta come il linguaggio liturgico dello Zoroastrismo, in particolare come lingua dell'Avestā, il libro sacro di tale religione. Qui Dakhma sta ad indicare le Torri del Silenzio, ossia impalcature in legno e argilla esposte all'aria che servivano per l'eliminazione dei cadaveri, esposti ai fenomeni atmosferici e divorati dagli uccelli rapaci. Gli undici minuti e passa dell'opener sono nella prima metà occupati da vocals che, comeanticipavo, sembrano provenire da un qualche rito occulto, mentre nella seconda, ecco scatenarsi l'inferno con un extreme death claustrofobico che strizza l'occhiolino ad Aevangelist, Portal ed Disembowelment, in uno spigoloso e mortifero sound tritaossa che si palesa in spaventose accelerazioni, vocals d'oltretomba e atmosfere mefitiche. A dir poco mostruosi. Eccolo il biglietto da visita di questo 'Hamkar Atonement' che bissa con i quasi dodici minuti di "Akhoman (Spill the Blood)", song bestiale che si affida a delle accelerazioni arrembanti, smorzate da improvvise frenate che spezzano un ritmo incessante ed indemoniato, da cui sono impossessati i due loschi figuri, H.A.T.T. e Kerberos, che si celano dietro a questa tremebonda band. La song è oscura, ne percepisco la malvagità, forse collegata al tema portante del disco. Con "Varun (Of Unnatural Lust)", la musica dei nostri assume connotati etnico-tribali, con la song inizialmente affidata ad un'intensa base percussiva, prima di un veemente assalto death, in cui oltre a decantare l'ottima performance a livello vocale di Kerberos, vorrei sottolineare la prodigiosa tecnica di H.A.T.T. alla batteria, cosi come pure quelle scariche di imbizzarite chitarre scarificanti. Sono senza fiato e non abbiamo nemmeno raggiunto la metà, visto che il disco dura circa 70 minuti e noi siamo a quasi mezz'ora. Eppure, nonostante la monoliticità di un sound ammorbante, grosso e deflagrante, i brani scivolano via piuttosto velocemente. Penso ai devastanti 11 minuti di "Nanghait (Born of Fire)", un perfetto mix di violenza, tecnica e lucida follia, un delirio musicale che vede nelle profonde decelerazioni, i punti di massima espressione dei due musicisti elvetici, quando il loro death/black ferino s'incastra alla perfezione con un doom funerario ed evocative vocals che sembrano calarci in un qualche tempio del fuoco persiano. Suggestivo non poco, ancor di più in "Spendarmad (Holy Devotion)", una vera e propria celebrazione rituale, che prepara al penultimo atto dell'album, "Gannag Menog (Foul Death, Triumphant)" e altri 10 minuti abbondanti di sonorità abominevoli che nelle transizioni chitarristiche, richiamano sempre più evidentemente, i primi Morbid Angel, mentre nel più celebrativo atto conclusivo, colpisce l'attitudine corale dei nostri. A chiudere in modo degno 'Hamkar Atonement', ecco arrivare un'altra maratona musicale, i sedici minuti di "...of Great Prophets", che oscurano definitivamente la luce del sole e ci introducono alla tenebre della notte, con un'altra song paurosa che celebra le enormi doti di questi Dakhma. (Francesco Scarci)

(Iron Bonehead Productions - 2018)
Voto: 75

https://dakhmacavern.bandcamp.com/

giovedì 25 ottobre 2018

Speaker Bite Me - Future Plans

#PER CHI AMA: Electro Noise
Sono passati più di dieci anni dall'ultima release degli Speaker Bite Me, loro non si sono mai fermati, hanno suonato live e sono maturati, trasportando le loro idee, prima infarcite di elettronica sperimentale, minimale e trasversale, ora virate verso un'impostazione indie, sempre trasversale ma più rock, più rumorosa e adulta. Non che i brani di 'Action Painting' non fossero interessanti, i giochi elettropop erano molto fantasiosi ma il nuovo lavoro 'Future Plans' è qualcosa di più completo ed è in grado di strapazzare l'ascoltatore più esigente senza perdere una nota per strada. Cinque brani che ti prendono per la gola e ti fanno crescere quel senso di vuoto e di ricerca che sovente caratterizza il sound dei Portishead, con un continuo sali e scendi emotivo scaturito da chitarre noise in stile Curve che mi hanno fatto rallegrare non poco. Non solo Curve ma anche le visioni dei Radiohead più contorti e la sensualità pop dei Garbage. Il noise si rivela l'arma giusta e i rimandi sonori indie di fine anni '90 sono un mix perfetto per costruire il tappeto musicale, ed è in questo contesto che nascono brani fulminanti, delle vere meteore incandescenti, come la lunga "Sweet Expectations" dalla coda ipnotica e incendiaria, oppure, "This Song is Going to Kill You", che evoca sonorità graffianti alla maniera degli Ulan Bator nel geniale album intitolato 'Abracadabra'. Per inquadrare le azioni della band danese in questo lavoro del 2018, bisogna vedere la costruzione dei brani in una veste atipica, come se un gruppo rock cercasse di suonare alla maniera del più cool delle band di indie elettronica e al contrario, come se i Portishead prendessero in mano chitarre e distorsori per suonare i loro pezzi nello stile dei Girls Against Boys. Sono passati anni e gli interpreti vocali, una splendida voce femminile ed una ispirata voce maschile che si alternano al canto, risultano oggi al massimo livello d'intensità espressiva poi, il gusto bizzarro e intelligente per le chitarre rumorose fa la differenza e accompagna chi ascolta verso un senso di elevazione spettrale (la coda della title track è da storia della musica noise), sfiorando una gioiosa cacofonia che regala persino dei confini vicino all'avanguardia sperimentale. Un gradito ritorno con la G maiuscola per una band che come il vino, invecchiando, migliora sempre più. Un album che porta in grambo un filo di nostalgia per il passato ma dall'equilibrio perfetto! Ascolto obbligatorio! (Bob Stoner)

(Pony Records - 2018)
Voto: 75

https://www.facebook.com/speakerbiteyou/

Oak - False Memory Archive

#PER CHI AMA: Alternative/Progressive, Anekdoten
Lo ammetto, sono diffidente quando mi viene proposta qualche novità in ambito progressive rock. Il rischio di ritrovarsi ad ascoltare l’ennesimo stanco omaggio ai capolavori del passato è dietro l’angolo e la tecnica non sempre va di pari passo con l’originalità. A spazzare via ogni mio dubbio ci hanno pensato i norvegesi Oak con il loro ultimo lavoro, 'False Memory Archive', un album che, pur rimanendo fedele al genere, mostra elementi di grande freschezza ed un sound moderno. La band è formata da quattro componenti dal diverso background musicale, caratteristica che ha permesso l’evoluzione dall’originario duo folk-rock all’attuale combinazione di prog, pop, alternative rock ed elettronica. Era possibile apprezzare il loro variegato sound già dalla precedente uscita 'Lighthouse', tuttavia 'False Memory Archive' rappresenta un passo avanti per songwriting e maturità. Gli Oak mettono in chiaro fin dalla prima traccia, "We, the Drowned", che la componente elettronica è la vera protagonista: veniamo accolti da un oscuro groove di synth e batteria che lascia spazio a composizioni in cui le delicate note di piano, le tastiere e la calda voce del cantante, creano raffinatissimi intrecci armonici. La sezione ritmica sostiene efficacemente l’impalcatura sonora, con batteria e basso puntuali nel valorizzare al massimo ogni pezzo con la giusta dinamica. Col procedere dei brani, ci si rende conto che la forza della band sta nella capacità di plasmare un sound avvolgente e proporre arrangiamenti sofisticati ma sempre accessibili: l’ascoltatore viene cullato dai liquidi synth e gli elementi catchy contribuiscono a stemperare ogni inquietudine sul nascere, ciò nonostante non mancano momenti di grande introspezione a ricordarci che il tema dell’album è la difficoltà nel gestire i ricordi e lo scorrere del tempo. Da questo punto di vista, "The Lights" è l’apice e il sunto dell’intero lavoro, un vero e proprio cammino dantesco costantemente in bilico tra intensa malinconia ed improvvise esplosioni di violenza, tra il rimpianto per un passato scomparso e la speranza nell’avvenire. In definitiva, 'False Memory Archive' è un vero e proprio caleidoscopio di emozioni e stili musicali, che si smarca elegantemente dalla tradizione senza per questo perdere le proprie radici, in grado non solo di vincere scetticismi iniziali, ma anche di toccare le corde più profonde dell'anima. (Shadowsofthesun)

lunedì 22 ottobre 2018

Maze of Feelings - S/t

#FOR FANS OF: Death/Doom, Paradise Lost, Lacuna Coil
In spite of its off-putting Emo name that seems to dilute the vengeance inflicted by a Morbid Angel track, Maze of Feelings does display a solid mid-paced doom/death metal style that kicks around its grooving riffs with a balance of accessible and underground elements. Though the maze itself is mainly a series of dead depressive ends, the band is able to distill its melancholy in myriad ways including tears of tremolos that are gracefully laid into a breaking section in “Where Orphaned Daughters Cry”, a nasty riff harpooning “Necrorealistic” into one's brain and dragging him through a beatdown reminiscent of early Paradise Lost rhythms, and a cold remorseless run in “Adherents of Refined Severity” that chases you through this disorienting labyrinth in the hope of finally striking you down with its razor sharp axe.

With two distinct vocalists cleanly singing, screaming, whispering, speaking, and growling throughout the album, the instrumental range compliments the spread with nods to Paradise Lost and Lacuna Coil, thundering bass across the spectrum of sound in some instances and methodically dragging melodies from dungeons into the sun at other times. In doom metal fashion, an anvil cymbal steadily strikes behind bellows of double bass tightening the treble's fetters and keeping it from escaping the weight below. A very Tool sounding riff to the closing track, “Dreamcatcher”, opens a song that accentuates the more gothic lilt to the doom sound that Maze of Feelings captures. While the band may bridge on some melodic death metal aesthetic in its vocals and some of its denser guitar moments, the majority of this album sticks closely to its doom template, experimenting with some gothic theater, and reigning in its pace from the first chugging riffing in “Drained Souls Asylum” to find its footing deeper in depression than screaming for vengeance.

As long drawn out melodies fight with a freight train of growling in “Cold Sun of Borrowed Tomorrow”, grappling with the high vocals and pulled to punishment by a laborious pacing, the downtrodden trope of a riff that opens “Grey Waters of Indifference” conjures memories of when this sort of sound was new and cool rather than common and overdone in many imitations. Still, Maze of Feelings is able to take the standard style and find success, but without the energy and power of some of the bands with which it shares its space.

'Maze of Feelings' is not without its faults and nadirs. While the crying sample at the end of “When Orphaned Daughters Cry” could have simply been left out of that quality piece, the band seems to have stuck more to the doom designation and accentuated it with different aesthetics rather than explored the conventions that could achieve the full potential of the band's ideas. Songs like “Necrorealistic”, “Dreamcatcher”, and “Drained Souls Asylum” start off with distinction just to end up running into the same dead ends, something expected when caught in a maze as sunlight fades, yet the gothic and more aggressive movements show that there's more to this band than simply playing the doom metal trope of taking a good start and constantly cornering it. The mid-paced structuring that uses its sure footing to find places to gallop and smoothly exaggerate is a strong starting template and Maze of Feelings would do well to take that template farther as the band goes along in order to better appreciate the instrumental talent lending itself to the theater at the forefront.

Maze of Feelings is a band that seems to revel in its familiarity and is set to inch its way towards making its own mark. Moments throughout this album show small points of individual personality, the instrumentation naturally rides its reveries as well as accentuates the theater in the vocals, but the band still has yet to truly come into its own. Here's hoping that these talented musicians can find an energy that compliments the ability gathered in this quintet. (Five_Nails)

venerdì 19 ottobre 2018

Dallian - Automata

#PER CHI AMA: Symph Death, Septicflesh, Therion
Se nel nostro paese è dura proporre musica estrema, nel piccolo Portogallo non sembra che il grande successo ottenuto dai Moonspell abbia spalancato le porte anche alle nuove leve. E probabilmente proprio per questo i lusitani Dallian, formatisi appena nel 2017 da ex componenti dei Madame Violence, non hanno lasciato nulla al caso nel produrre il loro primo album 'Automata'. Ambizioso è l’aggettivo che calza a pennello per descrivere questo lavoro, e non si tratta assolutamente di una critica. Il quartetto ci propone infatti una miscela esplosiva di death, progressive e symphonic metal, mentre le tematiche dell’album variano fra la spiritualità, la critica sociale e lo steampunk. La cosa che colpisce fin da subito è la produzione di grande livello, che garantisce un impatto sonoro degno dei lavori di band più quotate e valorizza la tecnica individuale di ogni strumentista. La band non si risparmia nulla ed infarcisce quasi tutti i pezzi (ben 13!) di elementi orchestrali, tastiere e persino quella che potrebbe essere una chitarra portoghese. Complessa anche la linea vocale, che vede l’alternarsi di un cantato in growl e uno in scream, con sporadici interventi di una voce lirica femminile. Caratteristica principale dell’album è di poter soddisfare qualsiasi palato della sempre più esigente platea del metal estremo: dunque spazio alle grandiose atmosfere sinfoniche alla Therion, a momenti orientaleggianti che richiamano un po’ 'Sumerian Daemons' dei Septicflesh, a cavalcate death metal di pregevolissima fattura e grande groove e ad alcune costruzioni maggiormente complesse vicine ai tempi d’oro degli Opeth. Tutto questo su più di un’ora di musica. Alla lunga ci si rende conto che tutto questo è sia il punto di forza che la debolezza dell’album: gli spunti sono parecchi, forse troppi per essere apprezzati appieno, e ognuno di essi rimanda a questo o a quel gruppo di riferimento che abbiamo già citato. Già verso la mezz’ora qualcuno potrebbe iniziare a chiedersi quando finiscano i tributi e quando inizino i “veri” Dallian. L’ascolto scorre liscio, ma la fine arriva lasciando una fastidiosa sensazione di aver perso qualche passaggio. In conclusione: lavoro straordinariamente ben fatto, ambizioso, ma è con ben altra personalità che si lascia il segno. Anche al di fuori del piccolo Portogallo. (Shadowsofthesun)

Barren Canyon - World of Wounds

#FOR FANS OF: Atmospheric Black, Lustre
With the flowery synth that would make Lustre blush, Barren Canyon lulls a listener with a catharsis of calm, a slight hint of danger, and sprinkles of mystery in its sophomore full-length. Six minutes later, “Congress of Oak” unleashes hell with a disastrous tumble down a cliff's edge, ripping clothes on spiked rocks, flaying skin off snapping bones, and introducing a new victim to its 'World of Wounds'. In two long tracks comprising a formidable full-length, this Toronto twosome fills just over thirty-five minutes with an evocative soundscape that conjures images of Ents creaking as they sway and deliberating in whispers of winds before growling at Isengard and beginning a march to destroy the decadence that so devastated Fangorn Forest. Fury comes in clouds of guitar resonance, shrill shrieking screams of synth and string alike, black metal blasting, and long rolling fills all backed by an unwavering drawn-out chanting and wisps of melodies that heave forward wave after wave of arboreal animosity. However, with that fury comes anguish at the devastation wrought throughout such a tumultuous song as “Congress of Oak” comes to a close.

“Taiga Blooms” has an almost air raid siren sound to its wailing treble across the top, screaming at the headache induced by a blizzard and giving voice to the trees cracking and snapping in the icy winds. Eventually the song quiets itself to that mysterious synth again, as though the bridge of the Enterprise is on standby mode with only that annoying whistling at Uhura's station occupying the dormant stations. Layering keyboards below this sound makes for a cavernous exploration of a palatial cave, as if humans are discovering a lost dwarven city beneath a mountain before accidentally tripping on a switch that sets its forge chugging into life and choking out when the coal fails to enter the furnace. Leaving the abandoned and undermined mountain to see that night has fallen across the snowy forest, the straying synth gently coaxes your neck upwards to observe the menagerie of stars gracefully igniting the sky, leaving the traverse illuminated in a shimmering back and forth between distant glimmers and welcoming powders. “Taiga Blooms” when a silent tranquility blankets a biome and all animals who inhabit it stop for a moment simply to observe the peace, a serenity finally found in the end of so many tragedies and terrors.

Barren Canyon does well to observe the animation of the animal kingdom among the tranquility of timbers and honors both with a longing sound that rises to the vivacious occasion of a beating heart while noting its impermanence among generational growths, let alone ages of stars. (Five_Nails)

giovedì 18 ottobre 2018

June 1974 - Nemesi

#PER CHI AMA: Instrumental Heavy Prog
Mettere insieme cosi tanti artisti in una sola release non deve essere stata cosa facile per Federico Romano, il polistrumentista che sta dietro ai June 1974, resosi famosi nel corso di questi 9 anni di militanza nell'underground, per le copertine dei suoi innumerevoli singoli, quasi sempre occupati da fotografie di splendide modelle. L'ultimo cd invece, 'Nemesi', prende le distanze da quel mondo patinato di magnifiche donne e sonorità electro dance e si lancia invece in un sound più radicato nell'heavy metal. Basti pensare che il buon Federico ha coinvolto gente del calibro di Andy LaRocque (King Diamond), Paul Masvidal (Cynic), James Murphy (Obituary), Patrick Mameli (Pestilence) e tra gli italiani, Tommy Talamanca (Sadist), Francesco Conte (Klimt 1918) e Francesco Sosto (The Foreshadowing), giusto per citarne alcuni. La base di partenza di questi dieci pezzi strumentali rimane comunque un sound sintetico, su cui, traccia dopo traccia, ognuna delle guest star darà il proprio contributo. Nell'eterea "Sognando Klimt", ecco Gionata Mirai de Il Teatro Degli Orrori a dare manforte con la sua chitarra, su una matrice sonica assai atmosferica. "Inoubliable" ha un riffing portante bello arrogante (bravo Tommy), stemperato poi dai delicati synth del mastermind romano. La violenta "Narciso" deve forse la sua rabbia alla presenza di John Cordoni Kerioth, ascia dei Necromass. Anche qui, gli arrangiamenti soavi di Federico smorzano però i toni inizialmente accesi della song. Mi concentro sulle song dei pezzi grossi: "Panorama" vede Andy La Roque duettare con Tommy a colpa di raffinati giri di chitarra, mentre la terremotante "Arcadia" che vede la partecipazione del chitarrista dei Cynic, mi stupisce non poco per il suo fare belligerante. Altra segnalazione per il sax delirante di Jørgen Munkeby (dei norvegesi Shining) in "Nothing Man"che caratterizza la song col proprio stile inconfondibile. Alla fine 'Nemesi' suona però come un'opera incompiuta, una parata di stelle che non ha suonato realmente col cuore. Buona musica non c'è che dire, ma francamente un po' freddina e priva di quella componente vocale che avrebbe dato quel quid in più per essere ricordata in questo A.D. 2018. (Francesco Scarci)

(Visionaire Records - 2018)
Voto: 65

https://visionaire.bandcamp.com/album/june-1974-nemesi

martedì 16 ottobre 2018

Sanguine Glacialis - Hadopelagic

#PER CHI AMA: Symph Avantgarde, Diablo Swing Orchestra, Fleshgod Apocalypse
La zona adopelagica è il dominio biogeografico che comprende le più profonde fosse dell'oceano. Si estende da 6000 metri di profondità fino al fondo dell'oceano. Pensate alla fossa delle Marianne, la fossa più profonda della Terra, li dove si ritiene che quasi tutte le creature abissali che vivono a queste profondità, traggano nutrimento dalla neve marina o, nei pressi di sorgenti termali, da varie reazioni chimiche. Se qualcuno di voi si stava giustappunto domandando il significato di 'Hadopelagic', secondo full length dei canadesi Sanguine Glacialis, ora è accontentato. La band originaria di Montreal, è guidata dal dualismo vocale della cantante lirica Maude Théberge abile a muoversi tra un cantato lirico ed un growling stile Cadaveria nei primi album degli Opera IX, in un condensato orchestrale di ben 60 minuti. Il cd si apre con le interessanti melodie di "Aenigma", song caratterizzata da un sound sinfonico in cui convergono tuttavia sonorità estreme, psicotiche linee di chitarra che evocano i nostrani Fleshgod Apocalypse, cosi come pure gli ultimi sinfonismi dei Dimmu Borgir, ma che poi, di fronte al cantato di Maude, ammiccano a realtà più commerciali, in stile Nightwish o Within Temptation. Il risultato però è ben più convincente, almeno per il sottoscritto, con la proposta articolata ed eclettica dei Sanguine Glacialis, cosi attenti nel proporre una gamma di colori davvero notevole nel proprio sound. Se pensate che l'inizio di "Kraken" apre tra funk, rock, symph, sperimentazioni a la Dog Fashion Disco, Devin Townsend e Diablo Swing Orchestra, per poi ritornare prontamente nei binari del death per una manciata di secondi e continuare successivamente a divagare in territori sinfonici, potrete solo lontanamente intuire quanto mi senta disorientato in un'escalation musicale davvero dirompente, tra scale cromatiche da urlo, ed una crasi sonica tra uno stile estremo ed un altro al limite dell'esotico. Tutto chiaro fin qui? Non proprio direi, nemmeno per il sottoscritto che ha avuto modo più volte di ascoltare il disco e cercato di codificarne il messaggio. I Sanguine Glacialis sono dei pazzi scatenati e lo dimostrano le divagazioni jazzy espletate nel finale della seconda song. "Libera Me" vede Maude scatenarsi in eterei ululati, mentre Marc Gervais ne controbilancia la performance con il suo cantanto gutturale. La song è comunque schizofrenica e perennemente votata al verbo stupire. Lo si deduce anche con "Le Cri Tragique d'une Enfant Viciée", brano in grado di saltare, con una certa disinvoltura, di palo in frasca. Con "Funeral for Inner Ashes" la proposta della compagine del Quebec sembra apparentemente più lineare: apertura affidata al pianoforte, poi una musicalità che procede senza troppi sussulti tachicardici fino a metà brano, dove il lirismo vocale della frontwoman è sostenuto da una batteria che potrebbe stare tranquillamente su un disco dei Cryptopsy, band non proprio citata a caso visto che Chris Donaldson dei Cryptopsy ha prodotto il disco in questione e forse una qualche influenza deve averla trasmessa ai nostri. La song prosegue comunque delicatamente verso il finale, in un duetto voce/pianoforte quasi da brividi. Il piano, sempre ad opera di Maude, apre anche "Oblivion Whispers", in cui i nostri musicisti non ci fanno mancare il loro apporto death sinfonico, in una traccia che ancora sembra evocare un ibrido epico tra Nightwish e Fleshgod Apocalypse, sorretti da una ritmica costantemente irrequieta in balia di una musicalità perennemente variegata; spaventoso a tal proposito il cambio di tempo a due minuti e mezzo dalla fine, in cui in un batter di ciglia, si passa dal death al rock e viceversa, con acrobazie da artista circense, costantemente in bilico tra difformi amenità estreme e passaggi rock/nu metal. Un album non certo facile da assimilare, da ascoltare e riascoltare anche quando un robusto riffing apre "Deus Ex Machina", per poi immergersi in suoni liquidi e psichedelici che arrivano ad evocare anche Unexpected o Akphaezya. Spettrale “Missa de Angelis" nel suo roboante inizio, poi quando le tastiere iniziano un po' a canzonarsi in stile Carnival in Coal o Solefald, la band entra nel solito vortice musicale dal quale risulta sempre più proibitivo uscire. E il centrifugato di quest'ennesima traccia, mette in mostra, ma non ce n'era più bisogno, tutto l'impianto ritmico, pirotecnico della band canadese, sempre in bilico tra mille ubriacanti generi musicali, qui peraltro assai folkish. Spero non si riveli un boomerang questa voglia di strafare per sorprendere costantemente i fan con trovate al limite del tollerabile. Le qualità tecnico-esecutive della band sono indiscutibili, ma in questi 60 minuti di musica c'è cosi tanta carne al fuoco, che il rischio di bruciare qualcosa è assai alto. Io non posso che premiare le sperimentazioni avanguardistiche dei Sanguine Glacialis ed un songwriting da urlo, con il monito di fare estrema attenzione che talvolta eccedere può rivelarsi a dir poco fatale. Nel frattempo, fate vostro questo mostro mitologico, lasciandovi sopraffare dalle melodie impervie e progressive di "Monster", ultima spettacolare perla di questo avventuroso 'Hadopelagic'. (Francesco Scarci)

(WormHoleDeath - 2018)
Voto: 80

https://sanguineglacialis.bandcamp.com/