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sabato 28 luglio 2018

Organ - Eterno

#PER CHI AMA: Doom strumentale
In attesa di ricevere buone nuove dagli Amia Venera Landscape, andiamo a gustarci uno dei side project della band veneta: gli Organ. Formatisi nel 2014 per mano appunto di membri degli AVL, dei Discomfort e degli Hobos, gli Organ propongono, in questo lungo 3-track (della durata di quasi 28 minuti) intitolato 'Eterno', un concentrato orrorifico di doom strumentale. La band attacca con i dieci minuti e passa di "Aidel", song dall'intro dronico che pian piano evolve in una lenta e strisciante cavalcata doom, tra suoni potenti e rallentamenti da brivido, che risentono evidentemente del retaggio delle rispettive band madri, il che si traduce in lugubri riffoni dal chiaro sapore hardcore. Questa caratteristica dà quel pizzico di peculiarità alla band originaria di Venezia/Belluno. Sarebbe infatti troppo semplice saccheggiare la storia del doom mondiale e proporla in forma strumentale, i nostri invece ci mettono un po' della loro personalità, proponendo una visione alquanto melmosa del loro sound. Per forza di cose, la proposta degli Organ tende a sconfinare un po' qui e un po' là, in territori post metal e sludge, mantenendosi comunque focalizzata all'interno di binari doom dai forti tratti psichedelici, come testimoniato dalla seconda parte della opening track. Un bel riffone schiacciasassi fa il suo esordio in "Faithless" e qui il quartetto veneto ricorda che, oltre ai maestri Black Sabbath, anche i primissimi Cathedral si sono dati da fare egregiamente nel mondo doom. L'ossessività del riffing, unito a degli arrangiamenti deflagranti e ad una fortissima ripetititità di fondo, costituiscono l'ossatura portante del pachidermico trip al quale dovremo sottostare anche in questi asfissianti otto minuti della seconda traccia. Non bastano quelle tastiere in sottofondo a smorzare i toni mortiferi della song, così cupa e lenta nel suo incedere ipnotico. E non aspettatevi nulla di buono neppure da "Decadence", il terzo atto di questo EP, che prosegue nel suo malsano avanzare a rallentatore. Ecco, francamente, una cosi monolitica proposta senza un briciolo di growl, risulta parecchio difficile da digerire, soprattutto perchè il suono dei nostri non è particolarmente dinamico, fatto salvo un giro di chitarra riverberata in quest'ultima traccia, che ha nuovamente un pericoloso effetto disturbante per il cervello. Comunque, il terzo brano appare il più sperimentale dei tre, soprattutto per un altro bel cambio di tempo a metà pezzo e altre piccole diavolerie ricercate dall'ensemble italico. 'Eterno' alla fine è un lavoro che mi sento di consigliare a pochi eletti, o a chi è veramente preparato psicologicamente a scalare una cosi insormontabile montagna. (Francesco Scarci)

Cheap Trick - We're All Alright!

#PER CHI AMA: Hard Rock
Se il riffone dell'introduttiva "You Got It Going On" vi susciterà l'inestimabile sensazione tipo come di scendere dalla moto e assistere a una gara di schiaffoni tra godsofmetallari e pausiniani all'autogrill di Somaglia, ecco, di sicuro vi sbagliate se solo pensate che il diciottesimo album dei piucchesenescenti Trucchetti Da Quattro Soldi vi lascerà lì così, a guardarvi i Dr. Maertens. Nel prosieguo, né il punkabilly "Radio Lover", né la stooges-punkeggiante "Nowhere", tantomeno la sleaze-like "Brand New Name On an Old Tatoo" si permetteranno di allentare la catena di trasmissione delle vostre rissose emozioni. E non saranno i mid-tempo astutamente escogitati qua e là e neppure le tentazioni folk-autoriali collocate nella seconda parte dell'album (pensate alla tom-spettynata "She's Alright" dondolante su accordi squisitamente southern, oppure ai beatles/ismi collocati nel finale di "The Rest of My Life" o nell'intera, conclusiva, "If You Still Want My Love" o ancora nella beatlesianissima "Blackberry Way", cover dell'unico hit degno di queste tre lettere dei già-beatlesianissimi-per-i-cazzi-loro "Move" nell'anno del signore millenovecento68) a farvi sfilare i tirapugni. Ascoltate questo album sorprendentemente ben scritto esclusivamente attraverso diffusori di bassa qualità, tipo quel maledetto walkman taroccato che pagaste comunque un patrimonio e che consumava due pile grosse come polpacci di cicciobello per un solo ascolto della vostra cassetta da novanta preferita, che aveva su ovviamente 'Heaven Tonight' e 'Dream Police'. Il problema, lo so, è infilare la cuffia sotto il casco. (Alberto Calorosi)

(Big Machine Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/cheaptrick

venerdì 27 luglio 2018

Majesty of Silence - Zu Dunkel Für Das Licht

#FOR FANS OF: Black/Gothic
Majesty of Silence is back with a brand new album entitled 'Zu Dunkel Für Das Licht'. The band is by no means a rookie as it was founded 22 years ago in Aarau, Switzerland. During the early years, they released three albums at a reasonable rate, but afterwards the band remained inactive during a long time. And, when many years pass, it is taken for granted that there won´t be any comeback, fortunately it wasn´t the case and Majesty of Silence was re-activated in 2016. It seems that the band was reinvigorated because it hasn´t taken too much time for the current two members to release a new album. It has to be mentioned that the band´s first line-up consisted of three members. Around 2005, an additional member joined the band, but nowadays Majesty of Silence continues as a duo with two of the founders, Peter Mahler and Christian Geissmann. 
 
Musically speaking, Majesty of Silence plays an interesting blend of black metal and gothic metal where the classic raspy vocals are dominant and the tempo is clearly faster and much more aggressive than we usually see with classic gothic metal bands. As it can be expected, the band adds some interesting keys which also have a mixed influence, at times they sound more black metal-esque and in other cases, they have a pure gothic metal touch. From time to time some female vocals appear, and they are a good contrast to the heavier and darker side of this band. During the first years the band used to sing in English but it was a matter of time that the band introduced the German language in their lyrics, which, in my opinion, makes the band sound even darker. German is indeed a powerful language and it sounds great when an extreme band uses it. 
 
'Zu Dunkel Für Das Licht' is, like its predecessors, a quite long album, as it has 14 songs and it lasts more than 70 minutes. Personally, I don´t like such long albums because they can become quite boring. Moreover, it is indeed difficult to keep a great quality when the release is so long. Fortunately, it seems that these guys have worked hard on this album and it’s clear that the band has tried to compose a varied yet powerful album. The balance between the black metal and gothic influences is a trademark characteristic of the new album. As for the production, the album has a powerful sound and both guitars and drums sound strong and convincing. Songs like the album opener “Der Untergang” or “Endstille” have very fast sections, tough like it happens with the rest of the album the pace is quite varied. Other tracks like “Dem Engel Noch Zuhören” have a greater gothic touch with very nice keys, which are simple but catchy and give a great atmospheric touch to this and other similar songs. I personally love how this track ends with that hypnotic key and a beautiful female voice in the background. The atmospheric intros are another winning formula used in several songs, those dark and calm intros are suddendly broken by the guitars and drums which enter furiously, Majesty of Silence surely knows how to make great debut for the songs, and “Zweiundzwanzig” is a good example of this use and one of the heaviest songs of the album. The female vocals are another satisfying addition that transpires in several tracks like the aforementioned one and “Sonne”, for example. 
 
In conclusion, Majesty of Silence has made a great comeback with an undoubtedly powerful and dynamic album. 'Zu Dunkel Für Das Licht' is a long work that brings us all the ingredients you can expect from a black-gothic metal band. Furious vocals occasionally accompanied by female vocals, powerful and dynamic guitars, catchy and enthralling keys and powerful drums. This album may be too dark for the light but not for our ears. Come to the Swiss darkness and enjoy! (Alain González Artola)

(Rockshots Records - 2018)
Score: 85

https://www.facebook.com/Mosmetalband/

Immelmann - The Turn

#PER CHI AMA: Alternative/Post Metal, Isolation Process
Quando le scorribande notturne mi portano ad ascoltare band che non conosco a discapito di concerti che sicuramente mi piacerebbero, spero sempre di non dover pentirmene e affogare quindi il dispiacere al bancone del bar. Con gli Immelmann la serata è andata alla grande, sono bastate poche note per capire subito che davanti avevo una band cazzuta nonostante la situazione intima e minimalista. Il giovane quintetto è di Vicenza e debutta con 'The Turn', album che racchiude sei brani confezionati a regola d'arte, un perfetto mix di alternative e post metal che richiama alla mente sonorità nord europee. La band prende probabilmente il proprio nome dalla virata di Immelmann, una manovra acrobatica (turn appunto) inventata dall'omonimo aviatore tedesco. "Dive" apre in maniera lieve con un loop di drum machine e arpeggi di chitarra, il sottofondo perfetto per il tragitto che ci accompagnerà alla rampa di lancio del vostro quadrimotore diretto nello spazio profondo. Suoni moderni, volutamenti freddi ed evocativi grazie al sapiente uso di effetti, una profondità di campo che le vostre orecchie apprezzeranno quanto il vostro cervello. Nel frattempo il pezzo cresce con l'entrata della sezione ritmica e spicca il volo con l'accensione delle distorsioni che fanno da kick down, schiacciandoci sul sedile di guida. Il pezzo scorre molto bene fino alla chiusura, dove la band lascia fluire la propria energia prorompente per un finale che ci lascia senza fiato. "Greedia" parte con più slancio e ricorda i Katatonia di 'The Great Cold Distance', la sezione ritmica coinvolge con la sua asimmetria, mentre lunghe note di chitarra accorciano progressivamente le distanze per arrivare al crescendo e all'inevitabile deflagrazione. Qui la complessità aumenta e ci incatena in un turbine ad alta tensione grazie anche ai pattern di batteria e al cantato che si fa più profondo e torbido, poi l'entrata delle distorsioni rilassa i nostri nervi per un attimo, ma non c'è tregua con il brano a svincolarsi in altre direzioni melodiche e le ritmiche proiettate verso un'appagante conclusione. Il viaggio si fa sempre più interessante e si arriva ad "A Song of Misery", che si fa apprezzare per la complessa musicalità che forgia un brano oscuro e potente, caratteristiche che gli Immelmann sanno sfruttare al meglio, comunicando le emozioni in maniera profonda e mai banale. Si chiude con "Be" che pur essendo l'ultima traccia, non ha nulla da invidiare alle altre canzoni anzi, grazie all'ottimo lavoro di registrazione/mix/mastering che ricorda band quali Isolation Process e Boil, ci avvolge come una nebulosa di pura energia e ci conduce al di là del tempo e dello spazio per un viaggio epico intergalattico. Semplicemente la colonna sonora perfetta per un capolavoro del cinema come 'Interstellar'. Lavori come 'The Turn' sono estasianti, confermano che la scena musicale italica è ricca di talento e musicisti che sanno dare il meglio nonostante non possano essere (ancora) dei professionisti. Se nel prossimo lavoro gli Immelmann metteranno un po' più grinta e un tocco di rabbia, ci troveremo davanti ad una delle band più promettenti della scena underground nazionale. Nel frattempo 'The Turn' è già uno dei miei dieci dischi preferiti di questo 2018. (Michele Montanari)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Sorrow Plagues / De La Nostalgie / Elderwind / Dreams of Nature - Mater Natura Excelsa
Maladie - Symptoms
Marunata / Deramshift / A Light in the Dark / Ghâsh - Colours Of The Mind

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Alain González Artola

Atrocity - Okkult II
Foothill Roots - Nature Resonates
Vermilia - Kätkyt

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Matteo Baldi

YOB - Our Raw Heart
Steven Wilson - Hand Cannot Erase
O - Pietra

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Five_Nails

A Perfect Circle - Eat the Elephant
Overkill - The Grinding Wheel
Construct of Lethe - Exiler

giovedì 26 luglio 2018

Funerary Torch - S/t

#PER CHI AMA: Black/Doom, Disembowelment
Progetto australo (IV dei Ill Omen)/cileno (Daniel Desecrator dei Slaughtbbath) quello dei Funerary Torch che approdano alla Iron Bonehead Productions con questa demotape di due pezzi votati ad un mortifero black death. "Into Fathomless Oblivion" è il biglietto da visita per questo duo internazionale: un sound claustrofobico che prende la vena più plumbea e orrorifica degli Ill Omen e la combina con il black più intransigente degli Slaughtbbath. Il risultato è dato da poco più di 10 minuti di suoni e atmosfere spettrali, in cui le terrificanti vocals del frontman rimbombano come quelle di un fantasma in un castello infestato e le chitarre regalano raggelanti ritmiche da incubo, emulando le precedenti gesta di una band quale i Disembowelment. Il tutto si evince ancor di più ascoltando la seconda "Epiphanies From Misanthropic Slumber" e le sue ambientazioni da brivido, corredate da un riffing corposo e profondo. Peccato solo per una registrazione alquanto casalinga, che sembra essere ormai un marchio di fabbrica per l'etichetta tedesca. Nonostante tutto, intriganti. (Francesco Scarci)

Gates of Doom - Forvm IVLII

#PER CHI AMA: Melo Death, Norther, Omnium Gatherum
Dal Friuli Venezia Giulia ecco arrivare i Gates of Doom, fautori di quello che essi stessi amano definire come "furlan epic death metal". Detto che tale definizione mi fa alquanto sorridere, posso affermare semplicemente che il quartetto italico, con questo loro secondo EP intitolato 'Forvm IVLII', è fautore di un melo death di deriva finlandese. Tre i pezzi a disposizione della compagine di Udine, due dei quali peraltro già presenti nel vecchio EP omonimo, ma qui riarrangiati. Le danze vengono aperte dalla title track, epica nel suo breve epilogo che lascerà da li a poco il posto al sound heavy melodico dell'act friulano. La traccia scivola via piacevolmente tra riff classici e vocals rabbiose che evocano a random, un che dei Norther, degli Omnium Gatherum, o ancora dei Kalmah o dei Children of Bodom. L'EP è un concept basato sulla fondazione della loro regione, il Friuli appunto, e le loro origini legate alle popolazioni celtiche che abitavano questi luoghi (immagino si riferiscano ai Carni) e la successiva conquista romana. La song è comunque interessante, tra fughe melodiche, arrangiamenti dotate di una leggera vena orchestrale, qualche stop'n go, il tutto pervaso poi da un leggero senso folklorico. Più tradizionale e diretta invece, la seconda "Vnder the Grey Movntains", una traccia di death metal melodico di oltre otto minuti, in cui si contrappongo le due componenti vocali di Stefano Declich, una growl e l'altra scream, e che mette in mostra le qualità della band sia nelle parti più lente e atmosferiche, che in quelle più tecniche soprattutto quando il lead guitar mette a segno un bell'assolo a metà pezzo o quando gli axemen si lanciano in scorribande ritmiche al limite del post black nel finale. La pecca maggiore è a mio avviso di proporre una song cosi lunga in un ambito dove si dovrebbe privilegiare un più immediato impatto musicale. A parte questo cavillo, la band si fa apprezzare anche nell'ultima arrembante "Limes", gli ultimi quattro minuti di veemenza sparati in faccia dai Gates of Doom, che trovano modo di offrire anche un coro dal vago richiamo viking. Nota conclusiva per il suggestivo artwork a cura del pittore e mosaicista Giullio Candussio. La strada è quella giusta, sarebbe ottimale riuscire ad essere un po' più personali e originali. (Francesco Scarci)

martedì 24 luglio 2018

Progenie Terrestre Pura - StarCross

#PER CHI AMA: Extreme Avantgarde
Il nuovo EP dei Progenie Terrestre Pura (PTP) è un concept album che esce dalla mente di Davide Colladon, mastermind del progetto PTP fin dalla sua nascita e che in questo nuovo 'StarCross' vede il sound della band prendere una piega evoluta in un senso molto cinematografico. Non che questa propensione mancasse nella band fin dalle prime release, ma qui emerge proprio il tratto e la volontà di ragionare in stile propriamente da soundtrack. Sviluppato come in una saga spaziale, qui il protagonista sfida l'infinito all'inseguimento di un segnale sconosciuto, vagando nello spazio alla ricerca di questo contatto, e la sua colonna sonora non poteva che essere buia, sconsolata e cosparsa di momenti terribili e pieni di insidie. Con l'uso sapiente del black metal, l'industrial e alcune soluzioni thrash metal, qui ci si avvicina alla concezione di un metal intergalattico a cui sta stretta la gabbia di metal stesso e che aspira a divenire opera musicale vera e propria. La senzazione di intraprendere un viaggio verso l'ignoto è palpabile e reale, con trame space/horror importanti e l'introduzione di un ambient cupo e dilatato, su tappeti ritmici sintetici cari al settore harsh/EBM, con voci etno/ancestrali in sottofondo ed un cavernoso cantato violento che funge da nero Cicerone che rincara la drammaticità e la sensazione di incapacità verso la giusta scelta da fare da parte del protagonista di quest'avventura. Il disco si ascolta con sommo piacere scorrendo veloce nei suoi lunghi cinque brani (per circa una trentina di minuti) e, a dispetto dei suoi predecessori, porta una vena sci-fi più accentuata, del resto dicevo, è da vedere come vera e propria colonna sonora di un film di fantascienza, anche se l'impronta sonora rimane legata alla logica creativa di Colladon. Altra novità è poi l'abbandono della lingua madre nel cantato, a favore dell'inglese, con l'intento verosimile di raggiungere una platea più vasta, cosa che non stona affatto e rende giustamente più internazionale la proposta dei nostri a livello artistico (anche se li avevo ammirati particolarmente per il coraggio di usare l'italiano nei precedenti lavori). Immancabile la linea di paragone verso progetti sofisticati come Ulver o Solefald e l'insano esistere dei Borgne, ma la musica dei PTP si dimostra più fantascientifica ed il contatto con l'avanguardia è reale e il suono cosmico ben ricercato. Il passaggio tra l'elettro ambient di "Chant of Rosha" e "Toward a Distant Moon" mostra subito la vera identità del disco e l'accuratezza dei particolari, buona la produzione, la capacità compositiva di rendere una musica complessa ascoltabile è poi un segno distintivo nei PTP, una qualità che spinge l'ascoltatore alla voglia costante di sentire e scoprire cosa succederà brano dopo brano, proprio come in un inquietante film ben fatto o in un buon libro che rapisce e fa correre la fantasia. "The Greatest Loss" è la mia song preferita, in odor di Blut Aus Nord che si avvia al termine con la minimale, sospesa e conclusiva "Invocat", che lascia un filo sospeso tirato da un canto gregoriano che assume un'identità sinistra ed oscura. 'StarCross' è un album difficile da assimilare per la massa, ma geniale nel suo complesso, l'ennesimo salto di qualità per la band veneta, un progetto sonoro che si è ormai dimostrato nel tempo essere una garanzia. Da ascoltare indisturbati. (Bob Stoner)

Throne - Consecrates

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, primi Cathedral
Con incolpevole ritardo, ci arriva sulla scrivania l'ultimo album degli emiliani Throne, ormai datato dicembre 2017 ed uscito per la Black Bow Records. L'etichetta britannica ci ha visto sicuramente bene, mettendo sotto contratto una band di un certo spessore che si traduce nelle note di questo melmoso 'Consecrates'. Dico melmoso perchè l'act parmigiano, ha modo di condensare nelle note di questo loro secondo lavoro, sludge e doom, prodigandosi in uno spesso lavoro di chitarre, che chiamano in causa i primi Cathedral. Notevole a tal proposito l'opener “Sister Abigail” e i suoi super chitarroni che, pur non sfondando completamente nello stoner, evocano un che degli Electric Wizard e dei giri di chitarra più blues oriented che ammiccano ad una versione decisamente più sedata dei Pantera, originale non trovate? Non aspettatevi però le stesse voci della band inglese, qui il frontman sfodera quel suo bel vocione da toro imbufalito in un pezzo che trova comunque conferme nelle successive song. Sicuramente degna di nota è “Lethal Dose”, non fosse altro per quel riffone ipnotico a inizio brano e quei cori puliti che si affiancano al growling possente del bravissimo Samu. La song vede peraltro la partecipazione di Dorian Bones, voce dei Caronte e dei Whiskey Ritual. Lo confermo comunque, i ragazzi ci sanno fare. Non so se sia l'aria di Parma e le prelibatezze che quella terra ha da offrire, ma i Throne si rivelano convincenti e speriamo anche vincenti nella loro proposta, in un ambito dove ormai la competizione sembra essere ai massimi livelli e solo i migliori ce la fanno a sopravvivere. Detto che auspico che i Throne siano tra questi, mi accingo ad ascoltare "Codex Gigas" e il suo liquido flusso sonico che lisergico quanto basta, mi investe con il suo pachidermico incedere. E se parliamo di pachidermia, come non citare la granitica e oscura "There's No Murder in Paradise", song sparata a rallentatore ma che conserva nelle sue linee di chitarra, un'interessante vena blues rock. Questa comunque la ricetta vincente per i nostri, che nelle loro tracce sono abili a intrecciare e miscelare ad arte il groove dello stoner e chitarre più seventies, pur mantenendo la profondità e la potenza del death doom come accade proprio nella quarta traccia che evoca nuovamente i sortilegi dei Cathedral di 'The Ethereal Mirror'. L'essenza doomish della band viene confermata anche in "Baba-Jaga", sebbene suoni ben più canonica rispetto alle precedenti, però l'assolo finale non è affatto male. Anche la più catacombale "V.I.R." ha il suo perchè, anche se alla lunga rischia un po' di perdersi per strada nel suo lento e ossessivo comparto ritmico che ammicca a più riprese allo stoner. A chiudere 'Consecrates', ecco arrivare la riverberatissima "Lazarus Taxon" e il suo classico rifferama stoner a sancire l'amore della band ancora per vecchi classici blues rock. 'Consecrates' alla fine è un buon lavoro che dimostra le grandi doti della band emiliana (seppur alquanto derivative) e prospetta un futuro sempre più positivo per la scena di casa nostra. (Francesco Scarci)

(Endless Winter Label/Black Bow Records - 2017)
Voto: 75

https://thronetheband.bandcamp.com/album/consecrates

sabato 21 luglio 2018

La Scatola Nera - Istantanea Estesa

#PER CHI AMA: Garage/Alternative/Punk Rock
La giovane Brigante Records & Productions continua il suo percorso di crescita nell'ambito delle etichette italiane e oggi propone un'altra band molto interessante, La Scatola Nera e il loro nuovo album 'Istantanea Estesa'. Dopo aver recensito gli ottimi "briganti" Omza, Macabra Moka e Cruel Experience, non nascondo che ero curioso di ascoltare anche questo quartetto brianzolo attivo da quasi dieci anni e devoto ad un garage/alternative/punk rock. Andando a ritroso e ascoltando qualche vecchio pezzo della band (nella loro discografia compaiono anche un album ed un EP), salta subito all'orecchio un sound vicino al Teatro degli Orrori, passando per i Ministri contaminati dai vecchi QOTSA. 'Istantanea Estesa' alza il tiro, cerca meno pacche sulle spalle e sorrisoni dagli amici, mettendoci più introspezione, evolvendo in uno stile proprio e maturo. "Moby" è un'entrée che suona leggera ed eterea, grazie al cantato (in italiano) carico di riverbero, come le chitarre che si sporcano leggermente per dare maggiore enfasi, mentre la sezione ritmica ci mette il giusto groove per avere un brano da ballare in modo lascivo sotto una luna rossa. Dopo essere stati cullati amabilmente, si passa a "Cocktail", che ci agguanta subito grazie alla linea di basso profonda e ininterrotta. In progressione, si arriva al ritornello con chitarre più energiche, ma sempre con quel pathos sospeso tra pop teso e rock rilassato, sensazione che comincia a svanire in "Roche", dove il quartetto comincia a picchiare con più vigore e convinzione. I break e gli arrangiamenti di chitarra convincono e ci regalano il brano più riuscito di 'Istantanea Estesa'. Anche il cantante si sente più a proprio agio ed esprime al meglio la sua rabbia mista a frustrazione. Ci sta pure un bell'assolo finale che non fa altro che confermare il pregio di questa traccia. "51 Pollici" è una bel ceffone in faccia da meno di due minuti di durata che gira all'impazzata con un discreto carico di groove. Una vera e propria sveltina ma fatta con stile e quindi con tanta soddisfazione. In "Scogliera" e "Tringhe", la band si concentra su sonorità soft da dopo sbronza con degli interessanti giochi di voce e strumenti, entrambe delle ballate che potete ascoltare quando il cerchio alla testa non vi concede tregua. La Scatola Nera si è sicuramente evoluta con questo nuovo album, l'impatto sonoro è meno vigoroso a beneficio di atmosfere a momenti rilassate e subito dopo impazzite, con un filo conduttore basato su suoni, riff e cantato. Se prima li si ascoltava con una birra da supermercato in mano, adesso preparatevi un gin tonic di qualità oppure un vino rosso corposo e piacevole. (Michele Montanari)

(Brigante Records - 2018)
Voto: 70

Love Machine - Times to Come

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock 
Entrare nel mondo dei Love Machine è come fare un passo indietro di quasi mezzo secolo, guardare il loro look e la cover di copertina del nuovo album è tornare al tempo del "flower power", della "summer of love", della folk psichedelia acustica e di tutti quei colori fluorescenti che hanno fatto grande un'epoca musicale divenuta culto tra i '60 e i '70. Diciamo subito che la band di Düsseldorf è irresistibile, terribilmente perfetta, tremendamente a stelle e strisce, esagerata nel ricreare quelle atmosfere vintage, luminosa e abbagliante ma al contempo introversa e cupa, esattamente come un brano dei The Doors, dove rabbia, voglia di cambiamento e ribellione, uscivano da ogni nota in forma lisergica e allucinata. Capitanati da un vocalist spettacolare (Marcel Rösche) e da un sound spiazzante per il suo non essere contemporaneo, la compagine teutonica riesce a sembrare veramente una band di quell'epoca. Senza emulare o copiare i loro maestri, i Love Machine si ritagliano, in un settore quello del vintage rock, uno splendido spazio di originalità da far impallidire band come gli ottimi Church of the Cosmic Skull, con composizioni assolutamente inaspettate, mescolando rock, psichedelia, folk pastorale e il country di sopravvivenza alla Johnny Cash, unendo storie da crooner solitario alla Leonard Cohen, con un velato gusto musicale latino ed il magico spirito acido dei Jefferson Airplane, l'immancabile krautrock, un tocco hawaiano alla Elvis, quello più sperimentale, senza mai dimenticare il salmodiare del re lucertola che rende più sofisticato ed attraente l'intero 'Times to Come'. Alla loro terza prova discografica, i nostri risultano una band stratosferica, al di sopra della media, con una fantasia retrò davvero invidiabile per coerenza, stile ed un fascino incredibile nel sound e nella composizione, musica liquefatta altamente allucinogena. Un'erudizione sul genere pazzesca, un'indole oscura su note abbaglianti e luminose, aprire la mente pensando, musica stellare senza tempo, i Love Machine meritano veramente un altare a due passi dall'olimpo musicale, grazie ad un album formato da brani che sono gemme assolutamente luminose! Due i brani top, "Blue Eyes" e la velvettiana "Times to Come". Nostalgici ma geniali. (Bob Stoner)

(Unique Records - 2018)
Voto: 80

giovedì 19 luglio 2018

Hertz Kankarok - Make Madder Music

#PER CHI AMA: Avantgarde/Experimental/Prog, Tiamat, Riverside, Meshuggah
Non so assolutamente nulla di questo progetto solista a nome Hertz Kankarok, se non che la band arriva da Acireale e questo 'Make Madder Music' rappresenta il secondo EP per l'artista siciliano (qui coadiuvato da Andrea Cavallaro alle chitarre, al basso e ai synth, e dal fido Dario Laletta). La proposta dei nostri conferma quanto di davvero buono è stato fatto nel precedente 'Livores' e ancora mi domando per quale assurdo motivo non esista una release fisica di questo e del precedente lavoro (li vorrei quanto prima, in quanto delittuoso). Questo perchè la musica di Hertz Kankarok è davvero intrigante, in quanto collettrice di molteplici umori, sapori e profumi provenienti dalla cultura sicula che si vanno a incontrare con una tradizione metallica di più ampio respiro. L'opener "Deceive Yourself!" miscela infatti sonorità derivanti dal djent, con il prog e la musica etnica mediterranea per un risultato straordinariamente notevole. La seconda "Cargo Cult" ha una ritmica più devota ai dettami di Meshuggah ma ovviamente, quando subentra una certa tribalità/ritualità soffusa, non posso che rimanere del tutto spiazzato, prima di essere ributtato nella centrifuga avvolgente di un suono le cui trame risuonano apparentemente estreme. Il gioco si ripeterà per oltre otto minuti fatti di stop'n go, rilassamenti, melodie accattivanti, fughe lisergiche e quant'altro. Spettacolare. "Who is Next" sancisce la genialità di un artista che ha ancora modo di passare attraverso influenze che chiamano in causa i Tiamat di 'A Deeper Kind of Slumber', in una song dal piglio cinematografico, in cui mi sembra avvisare in sottofondo, anche l'eterea voce di una gentil donzella. Con "The Great Whirlpool" si torna solo inizialmente al ritmo graffiante di scuola Meshuggah/Gojira, con la voce del mastermind catanese a muoversi tra uno stile urlato, voci cibernetiche e altre  delicate e più pulite, che ben si adatterebbero ad un disco dei Porcupine Tree o dei Riverside. La sfuriata black a metà brano e un finale strettamente progressive chiudono quest'incredibile, in quanto inatteso, 'Make Madder Music'. Maestosi, geniali, sognanti, semplicemente italiani. (Francesco Scarci)

mercoledì 18 luglio 2018

Finis - Visions of Doom

#PER CHI AMA: Black/Death, Celtic Frost
'Visions of Doom' è l'EP d'esordio dei teutonici Finis, che arrivano a questo traguardo dopo aver rilasciato un demotape nel 2016, intitolato 'At One with Nothing'. La band tedesca, di cui poco si sa a livello di line-up e città di origine, si affida a tre pezzi per provare a conquistare l'audience. Il genere è un seminale black death che partendo dagli albori dei Celtic Frost sembra poi abbracciare la produzione degli anni '90. Niente di nuovo quindi sotto il sole in questi tre pezzi, tuttavia l'opener, "11 Temple Stones", offre un sound atmosferico all'insegna della cinematografia horror. Splendido infatti il lungo break centrale in cui su una ritmica lisergica, s'instaurano vocals demoniache e delle chitarre dal forte sapore esoterico. Convincenti, davvero. Altrettanto non si può dire della title track, selvaggia e priva di personalità, potrebbe essere infatti un brano di una qualunque band uscita a cavallo tra gli anni '80 e '90, sebbene la band provi a metà brano a sparigliare le carte, aumentando il senso di disagio e di maligno che si percepisce nell'aria, affidando al basso la guida negli oscuri meandri ritualistici della band, raddoppiato poi da delle chitarre tremolanti. Questo è il reale punto di forza per la band, che in "Fosforos" sembra trovare la propria consacrazione attraverso un pezzo strumentale e le sue ipnotiche melodie. Mezzo punto in meno per la sporcizia di suoni che avrebbero reso molto ma molto di più se maggiormente curati. (Francesco Scarci)