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lunedì 4 giugno 2018

Mogwai - Every Country's Sun

#PER CHI AMA: Post Rock
Verosimilmente percepirete gli intenti conservativi (la batteria scalena, il riff dimesso di chitarra costituito rigorosamente da due note, le progressive stratificazioni sonore: il manierismo del primo singolo "Coolverine", collocato in apertura, ne fa l'ennesimo, innecessario bignamino post-rock griffato Mogwai) e irrotazionali (l'atmos/tronica di "Brain Sweeties", la cinematica progressiva di "Crossing the Road Material") del campo magnetico sonoro generato da questo terzo album post-'Cummings', prima ancora di tirare il disco fuori dalla cartella dei torrent download. Altrettanto iconico vi apparirà il crescendo aurale di "20 Size" e quello boreale della title track, "Every Country's Sun", in chiusura. Verosimilmente, soltanto la stupefacentemente crimsoniana "Old Poisons" e, poco prima, la cripto-carpenteriana (la definizione ahimè non è mia) "Aka 47" (sarebbe il Kalashnikov, se vi piacciono i calembour, also known as AK-47) riusciranno a sorprendervi almeno un po'. E il wave-pop di "Party in the Dark" (New Order, OMD, Pet Shop Boys, quella roba lì, insomma), seppure per motivi opposti. Criminale il missaggio: la mia versione era zuccherosa e satura come una colazione domenicale in una pasticceria palermitana. Che si trattasse soltanto di una cattiva codifica mp3? Lo vedi che cosa succede a tirare giù la musica dai siti pirata. (Alberto Calorosi)

(Rock Action Records - 2017)
Voto: 70

Svederna - Svedjeland

#PER CHI AMA: Black/Thrash, Taake, Kampfar
Punk thrash black epic, tutti questi generi insieme ad esplodere nella opener di questo 'Svedjeland', secondo capitolo discografico per gli svedesi Svederna. Ecco come si presenta "Brända Jordens Taktik", la song posta in apertura del disco che irrompe col suo drumming militaresco prima di abbandonarsi ad un riffing ronzante in tremolo picking e ad uno screaming efferato. Niente di nuovo sotto il sole, se non un bel sound old school accentuato da una produzione fredda ma potente. Se l'opener ha un certo mood epico, la seconda "Moratorium" è decisamente più feroce anche se vanta qualche parte più mid-tempo oriented. Molto più efferato l'inizio della terza "Slokum Svederna" anche se nella sua progressione, oltre a mostrare nuovamente il suo lato più pagano, trova modo di rallentare e transitare in territori cari ai Kampfar o ai Taake. Interessanti, non lo nego, però è quel senso di già sentito forse che non esalta un lavoro che probabilmente meriterebbe di più. Una traccia come "Dö I Tid" infatti non passa di certo inosservata: glaciale il riffing, furibondo il cantato, nient'affatto male la melodia di fondo che guida la song, cosi come l'assolo che trascina nella parte centrale il pezzo. "Kulor & Länder" ha un riffing thrash compassato che si alterna a rasoiate black sempre tremolanti, un po' in stile Old Man's Child, un po' primi Bathory. "Evärdligt" ha il solito riffing arcigno, ma nelle sue corde scorgo anche un mood malinconico, mentre "Hår Av Hin", il pezzo più lungo del lotto, è black purissimo, primordiale, senza compromessi. In conclusione, "Knöl" è l'ultimo atto di un album incendiario, urticante, vero. (Francesco Scarci)

(Carnal Records - 2018)
Voto: 70

https://svederna.bandcamp.com/album/svedjeland

domenica 3 giugno 2018

Dope Oüt - Scars & Stripes

#PER CHI AMA: Hard Rock, Alter Bridge
I Dope Oüt sono francesi, precisamente di Parigi, ma i loro connotati sono indubbiamente americani per lo stile musicale e il mood con cui vivono il loro sogno. Il quartetto è al secondo album, 'Scars & Stripes' appunto, uscito l'anno scorso dopo circa tre anni dal precedente 'Bad Seeds' che ha avuto un buon riscontro dal pubblico. L'album contiene dieci brani ed è stato autoprodotto dalla band che si fa però supportare dalla Dooweet Agency per quanto riguarda promozione e booking. La opening track "Scars & Stripes" presenta la band e il suo lavoro, partendo in quarta come una muscle car che non vede l'ora di divorare l'asfalto a suon di ottani. Subito si fa sentire il meticoloso lavoro fatto per ottenere i suoni del modern hard rock d'oltreoceano e bisogna dire che il risultato è davvero buono. Ne giova soprattutto la chitarra dalla distorsione corposa e ben equalizzata, bella presente nel mix come il basso pulsante che segue fedelmente le linee melodiche e i pattern minimal di batteria. Il brano fila liscio carico di groove per tre minuti circa, poi con il classico break rallenta e spezza lo schema che viene ripreso in chiusura. Il pezzo ricorda molto gli Alter Bridge incazzosi di "Metalingus", a cui i Dope Oüt si ispirano liberamente per il loro sound. "Lady Misfits" parte lenta e suona come una ballad moderna per la prima metà, poi i ragazzi aumentano il voltaggio e il brano cresce in maniera progressiva e convincente. Nota di merito al cantante per l'ottima spinta, ma anche i fedeli compagni si destreggiano bene, tessendo un crescendo solido e potente. Da questo singolo è stato tratto anche un video che ci mostra una lady appunto, che cerca di sfuggire dalle sue debolezze. Passiamo poi a "Clan of Bats" che si distingue per riuscire a fondere Black Stone Cherry e Blink 182, i primi per la parte strumentale più aggressiva e predominante del brano, i secondi per il cantato e il chorus che si solleva verso l'alto con sfumature più chiare. Una sorta di brano bipolare per intenderci. Proseguendo con l'ascolto si trovano altri brani che fanno l'occhiolino anche ai Velvet Revolver come "Balls to the Wall" e "Again", concentrati di puro rock veloce che non concede tregua dall'inizio alla fine del pezzo. Si chiude con "Soulmate", pezzo con chitarra acustica e cori che scomodano gli Oasis e Smashing Pumpkins per portarvi in spiaggia e chiudere la festa, un po' in sordina a dire il vero. Escludendo la chiusura un po' sottotono, i Dope Oüt hanno prodotto un bell'album, fresco e allo stesso tempo potente, un mix che riesce a catturare il pubblico giovane resistente al rock da vecchi e che rischierebbe di essere travolto e rapito dall'ondata trap. (Michele Montanari)

(Self - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Dopeout/

mercoledì 30 maggio 2018

Arbouretum - Song of the Rose

#PER CHI AMA: Psych Folk Rock
Il senso sarebbe stato di lasciarsi alle spalle il fuzzyforme, icosaedrico, eccellente 'Coming Out of the Fog' di quattro anni addietro allo scopo di approfondire un certo psych-folk americano (stile Grateful Dead o Steelye Span). Vi accorgerete presto che il nuovo album di Dave Heumann non ha nulla dello psicotrip lisergico interiore (interiore, sì ma pur sempre una sorta viaggio). Al contrario, confortevolmente seduto piedi per aria sul divano del tempo, esprime una staticità che vi risulterà irritante: lasciatevi per esempio nauseare dall'unica cantilena prima-si-sale-poi-si-scende ripetuta per tutti i sei e passa minuti della title track, "Song of the Rose", ben consapevoli che il resto del lato A e pure un po' del lato B, riserveranno ai vostri padiglioni annoiati il medesimo trattamento. Si muove qualcosa sul retro: la pacifica "Dirt Trails" approccia un certo grateful-folk analogamente alla conclusiva "Woke Up on the Move", forse la nenia meglio riuscita del disco. Il breve strumentale "Mind Awake, Body Asleep" vi mostrerà, non senza una punta di crudeltà, come avrebbe suonato questo disco se solo fosse stato missato invece che intinto nella melassa. (Alberto Calorosi)

martedì 29 maggio 2018

Granada - Silence Gets Louder

#PER CHI AMA: Alternative Rock, Radiohead
Successivamente all'immancabile abbrivio floyd-tronico (ma 'Silence Gets Louder' è forse un sequel di 'Silence is the New Loud' dei Kings of Convenience? Ahia, ahia, piano con le uova marce) qualcuno nell'ombra afferra il grosso interrutore e SCLANG dà corrente. Luce nei riflettori, al massimo gli ampli. Pubblico virtuale che inneggia all'unisono. Il suono ruvido della chitarra entra e non esce più. I beneaugurali suoni arena-oriented vi risulteranno più old-fashioned ("Smile", cfr. i Cure post 'Pornography') oppure nu-new-wave ("Breakthrough" e "Angel", cfr. con gli Editors di "White Lies") a seconda della vostra età anagrafica ma soprattutto di come vi siete svegliati stamattina. Sul retro (OK a questo punto dell'articolo fareste bene a girare il vostro ipod a testa in giù) viene svelata l'anima (brit) pop della band (i Radiohead sul double-decker rosso di "The Sky is Falling in") ma anche (e più genericamente) dollaro-pop alla Coldplay and/or Arcade Fire ("Siren" e "Miracles"). Apprezzabile la conclusione a-là-Radiohead di 'Kid-A', mirabilmente affidata alla mi-lamento-ballad-destrutturata "I Can Take Care of You". Songwriting derivativo eppure solidissimo. (Alberto Calorosi)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Unreqvited - Stars Wept to the Sea
Primordial - Exile Amongst the Ruins
Black Kirin - 金陵祭 Nanking Massacre

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Alain González Artola

Uhrilahja - En Fördärvad Värld
Celtachor - Fiannaíocht
EverWinter - Too Cold to Snow

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Five_Nails

Puscifer - Money Shot
Between The Buried and Me - Automata I
Seversun - New World Chaos

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Michele Montanari

La Fin - Empire of Nothing
Loimann - Drowning Merged Tantras
Origod - Solitude in Time and Space

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Alberto Calorosi

Benjamin Clementine - I Tell a Fly
David Byrne - American Utopia
David Crosby - Sky Trails

lunedì 28 maggio 2018

Doomster Reich - Drug Magick

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, Electric Wizard, Pentagram
I Doomster Reich sono un combo di navigati musicisti provenienti da Łódź, carichi di esperienza che si fa notare ormai in tutti i loro lavori, un gruppo che merita tutta la vostra attenzione considerato che dalla loro prima uscita discografica, i nostri sono cresciuti moltissimo. Devo ammettere che ci ho messo un bel po' di ascolti per convincermi che la nuova release della band polacca, uscita per la Aesthetic Death l'anno scorso, fosse stata registrata in una session live presso i Radio Lodz concert studio, tanto è buona la produzione quanto alto il valore della musica espressa. Prodotti da Kamil Bobrukiewicz in maniera ottimale fin dall'iniziale "Gimme Skelter", song peraltro irresistibile, 'Drug Magick' riesce a mantenere sia la tensione live che la qualità di un album doom/stoner/vintage hard rock di egregia fattura per tutta la sua durata. Brano dopo brano ci si immerge in una totalità cosmica e psichedelica acidissima (ascoltare "Rites of Drug Magick" per credere) , figlia dei Pentagram quanto degli ultimi Electric Wizard, con un sound ribassato ma molto frizzante, allucinato e con un calorosissimo pathos nelle parti più colorate. Ci sono poi esplosioni di memoria 70's come riuscivano ai migliori Nebula, suoni dilatati, assoli space oriented ideali per esplorare il cosmo, e una voce che sembra arrivare da una galassia ignota, pronta a salmodiare prediche politicamente scorrette condite di funghi allucinogeni ("Round the Band Satan"). L'attitudine doom emerge in "Meet the Dead" con un incidere blues e una chitarra che sputa note lisergiche come fossero lava ardente, e con i fantasmi di Hendrix e co. che si riaffacciano al mondo delle sette note con nuove colorazioni e rivisitazioni, in quasi nove minuti di sbornia psichedelica lasciata libera di creare effetti stupefacenti di ogni tipo. "Chemical Funeral" omaggia a suo modo gli insuperabili Cathedral, nel suo essere così vintage e nuova allo stesso tempo. Per chiudere, la più sperimentale e lunghissima "Black Earth, Red Sun", dove la band assume un'anima oscura, sinistra, desertica e mantrica di tutto rispetto, mostrando che di psichedelia non ci si stancherà mai e che le sue strade sono infinite, l'ennesimo viaggio ai confini della concezione psichica umana. Album sorprendente, non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto: 80

https://doomster-reich.bandcamp.com/

Lychgate - The Contagion in Nine Steps

#PER CHI AMA: Symph. Doom, Tristitia, Wyrding
Quando tra le tue fila hai un artista che risponde al nome di Greg Chandler (frontman degli Esoteric), credo che nulla possa essere precluso. Se poi aggiungi altri musicisti che militano negli Acherontas o negli Ancient Ascendant, credo che tutto sia decisamente più semplice. Ecco che il terzo album per gli inglesi Lychgate potrebbe rivelarsi un esercizio di stile per sfoderare una prova di assoluto valore e prestigio. E questo è già avvalorato nell'opener di questo mirabolante 'The Contagion in Nine Steps', "Republic", in una magniloquente orchestrazione che lascia sin dai primi secondi a bocca aperta, per la caratura tecnica e la creatività già sprigionate dopo poco, in un'evoluzione sonora davvero imprevedibile e imperdibile. Come definire questo sound? Non è per nulla semplice, forse un doom sinfonico di stampo avanguardistico, impregnato di suoni progressivi in salsa gotica. Chiaro no? L'unica cosa certa è probabilmente la voce di Greg, che intreccia il suo insano growl con il cantato pulito di alcuni ospiti e con le prodezze di Vortigern, vero mostro alle tastiere, organo e mellotron, gli strumenti che più degli altri si riveleranno fondamentali durante l'ascolto di questo disco. L'atmosfera criptica di "Unity of Opposites" si trasforma da li a poco in giri chitarristici (e di basso) da death jazzato, cori dal sapore liturgico in un ambientazione che mi ha evocato i Tristitia, mentre la song prosegue in un frullato sonoro che lascia disorientato per il quantitativo di idee espresse in cosi pochi minuti. Una traccia di 360 secondi e poco più, in cui la sensazione finale è quella di aver ascoltato un intero album. Incredibile, perchè nulla appare scontato qui dentro. C'è finissima arte infatti nel saper creare e condensare in 40 minuti quello che ascolterete in 'The Contagion in Nine Steps', che si candida già ad essere uno dei migliori dischi dell'anno, sicuramente tra i più complessi. Con "Atavistic Hypnosis", pezzo ispirato al libro 'The Invincible' dello scrittore polacco Stanisław Lew, i suoni rallentano paurosamente e si entra in un incubo sonoro ad occhi aperti da cui sarà difficile riprendersi. È funeral ma non nell'accezione convenzionale del termine, non ci sono in effetti chitarroni profondissimi che vanno a rallentatore, ma solo suoni stralunati al massimo su cui si staglia la voce acida di Greg, in una progressione sonora comunque fuori da ogni tipo di schema, in cui le atmosfere si rivelano suggestive, surreali, e la proposta vede alcuni punti di contatto con gli americani Wyrding e nel cantato pulito anche con il folletto canadese Devin Townsend. Insomma, è intuibile che qui si entra nei meandri della sperimentazione che tanto prediligo e che alla fine i londinesi Lychgate non siano proprio una band come le altre. Ma questo lo si era già capito dalle precedenti release. Se comunque non siete ancora del tutto convinti, catapultatevi nel mondo sotterraneo di "Hither Comes the Swarm", un altro pezzo dove il delirante sound dei nostri trova modo di coniugarsi con derive dal sapore blackish. La musica classica, che già aveva primeggiato nel debut album, torna sovrana anche in "The Contagion", con giri maestosi di pianoforte e cantati puliti che entrano in collisione col growling infernale di Mr. Chandler in uno dei brani dotati di maggiore teatralità dell'intero disco, che nella sua seconda metà, rintocca campane a morto. Nonostante le mie parole al miele, sia chiaro che l'ascolto di 'The Contagion in Nine Steps' si rivela come un qualcosa di estremamente complicato, per quanto quest'album rientri tra i lavori più raffinati che io abbia ascoltato negli ultimi dieci anni. Serve una mente aperta, cosi come un cuore che sia in grado di abbracciare una musicalità cosi ostica e mai scontata. A chiudere il disco, il pezzo più breve del cd, "Remembrance", song che induce gli ultimi cinque minuti di riflessione, e che mostra un notevole approccio corale avvicinando nuovamente le proprie sonorità a quanto ascoltato dai Wyrding. Che altro dire, se non invitarvi a godere di questi 42 minuti di catarsi sonica che vi concilierà col mondo... dei morti. (Francesco Scarci)

venerdì 25 maggio 2018

Metamorphosis - The Secret Art

#PER CHI AMA: Black/Heavy, Celtic Frost, Amorphis, Septic Flesh
Il buon Boris Ascher, factotum dei Metamorphosis non ci crederà, ma io conservo ancora la cassetta 'Life Is Just a Joke' che comprai nel lontano 1994 direttamente da lui per una manciata di dollari. Era la demotape di debutto per la one-man-band bavarese, da allora, con estrema calma, sono usciti sei album, di cui 'The Secret Art' è appunto l'ultima opera, rilasciata lo scorso autunno. Cosa cambia rispetto agli esordi? Il supporto, qui c'è un cd in digipack anzichè un nastro, per il resto lo spirito genuinamente black metal di Boris sembra essere rimasto inalterato lungo questi 24 anni. Il musicista teutonico prosegue sulla sua strada di un black metal atmosferico e melodico, come certificato dalla traccia in apertura del disco, nonché title track, di cui vorrei sottolineare l'eccellente performance corale che rende il tutto assai epico, nonostante un riffing che si pone poi a metà strada tra il death/thrash e il black. Un interludio strumentale è quanto servito in "The Beckoning", poi è la volta di un arpeggio, quello che apre "Night on Bare Mountain", in cui su un riffing quasi techno death, si colloca il growling stridulo del mastermind tedesco, mentre il flusso sonico subisce una serie di rallentamenti, accelerazioni e cambi di tempo, che francamente mi ricordano per spirito i Celtic Frost, mentre per ciò che concerne gli arrangiamenti di stampo sinfonico, ecco che le mie rievocazioni mentali mi guidano verso i greci Septic Flesh, anche per una certa magniloquenza delle atmosfere. "As Legions Rise" parte robusta e arrogante per poi dissipare le tempestose nubi death thrash in azzeccatissime linee di chitarra e ottimi assoli. "God of the Dead" è una song strumentale che vanta una piacevole melodia di fondo che scomoda facili paragoni con i primi Amorphis, con le tastiere che creano successivamente un'ambientazione spettrale. Sembrano infatti le catene di un fantasma imprigionato in un castello, quelle che si avvertono in sottofondo, mentre il buon Boris sciorina un rifferama che vede nel drumming il solo punto debole del pezzo (aggiungerei anche dell'album che avrebbe sicuramente necessitato di una migliore produzione), mancando di una certa potenza che avrebbe reso il tutto assai più maestoso. "A Fateful Night" è un altro esempio di come il musicista originario di Holzkirchen, riesca a coniugare con estrema semplicità death e black, peraltro regalando vertiginosi ma non troppo lunghi, assoli da brivido. Complice una certa brevità dei brani, tutti assestati attorno ai 4-5 minuti, devo ammettere che è ancor più immediato e facile assaporare il feeling emanato dal fluire del cd, come nella settima "Holy Wounds", in cui a guidare è un bel riffone thrash sul quale si staglia il vocione del vocalist, mentre in background sono delle minimaliste quanto funzionali keyboards a creare quell'aura mefistofelica. "Invictus" è un altro mid-tempo thrash/death, il cui break centrale prende le distanze da ogni tipo di sonorità estrema, virando verso un sound decisamente più leggero, quasi hard rock. Se non ci fosse il growling oscuro di Boris e verosimilmente tematiche volte a temi occulti, probabilmente starei parlando di tutt'altra proposta musicale, come quella che incontro nella nona traccia, "The Crypt", che mi ha ricordato un che dei Running Wild meno power. Boris alla fine sorprende per la sua voglia di sperimentare, ma questo mi era già chiaro perfino nel 1994. (Francesco Scarci)

(The Devil's Ground Productions - 2017)
Voto: 75

https://thedevilsground.bandcamp.com/album/the-secret-art

giovedì 24 maggio 2018

PinioL - Bran Coucou

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Mathcore/Noise
Era un po’ di tempo che non mi capitava di ascoltare della musica così pazzoide ma allo stesso tempo ben congeniata e stranamente sensata nella sua totale mancanza di raziocinio. Si tratta dei PinioL, formazione transalpina di sette elementi alla prima prova in studio intitolata 'Bran Coucou', un titolo di cui non ho idea del significato (google suggerisce "crusca di cuculo" - NdR). Mi fa sorridere e allo stesso tempo divertire questo disco, volutamente ironico nella sua ripresa del progressive più efferato direttamente dai primi anni settanta. Ricordo solo un’altra band così splendidamente matta ossia i Magma, storica formazione progressive francese che addirittura creò una propria lingua – il kobaiano – cosa che non mi stupirebbe neppure per i PinioL; non ho infatti distinto una singola parola sensata in tutta la lunghezza di questo 'Bran Coucou', solo molti suoni onomatopeici al limite di sillabe casuali, quasi bambinesche. Tra stacchi alla King Crimson e lunghe suite strumentali alla Jethro Tull, i PinioL rievocano la vera anima del progressive e anche se non ci sono grosse aggiunte o modifiche al genere originale, fa piacere sentire una band che ha così ben capito e interiorizzato gli insegnamenti dei seventies per trasporli in chiave moderna. Ad un ascolto per intero del disco, è quasi impossibile distinguere tra loro le canzoni, tanto sono complicate e concatenate una all’altra, il viaggio è una parabola dalle dinamiche oscillanti a metà tra un trip di LSD ed una sbronza pesante di whiskey. Si distingue tuttavia la grande capacità compositiva della band, oltre che le indubbie qualità tecniche dei musicisti. Se volete avere un’idea di cosa voglia dire pazzia musicale, ascoltatevi 'Bran Coucou', al termine avrete innanzitutto una grande stima di voi stessi per essere arrivati in fondo ad un’opera così titanica, poi avrete anche un'idea di cosa accada nella mente di un ricoverato di un ospedale psichiatrico, in modo che se dovesse accadere anche a voi, saprete già di cosa si tratta. (Matteo Baldi)

Selva - Doma

#PER CHI AMA: Post Black/Post Hardcore
Ho recensito i Selva nel novembre del 2016: da allora i ragazzi lodigiani si sono prodigati in lungo e in largo in una discreta attività live. Giusto il tempo di trovare uno spazio temporale, visti gli innumerevoli side project del batterista, che per allietare i fan il terzetto lombardo ha deciso di proporre due pezzi nuovi di zecca, che coprono addirittura quasi 25 minuti di scabrose sonorità post black. Ecco ciò che è racchiuso in questo 'Doma', EP uscito per la Overdrive Records e che include appunto "Silen" e "Joy", due schegge impazzite che confermano quanto di buono fatto sin qui dal trio italico che continua imperterrito nel proporre sonorità caustiche, retaggio di un punk/hardcore che ancora scorre nelle vene dei nostri. L'incipit dell'opening track è lunga e cerebrale, ma presto si trasformerà in spessa carta vetrata che trova pace solamente verso il minuto sette dopo un'assalto sonoro fatto di ritmiche serrate e da uno screamo lancinante, lanciandosi poi in dilatate partiture post rock in un break strumentale che dopo un paio di minuti viene lasciato a briglie sciolte per l'ultima cavalcata di rabbia incandescente che chiude un brano che fa perno su una violenza primitiva, fortunatamente spezzata dalle classiche deviazioni soniche tanto care ai nostri. Con "Joy" ritroviamo maggiori variazioni al tema, sebbene si venga travolti immediatamente dalla selva di riff disumanamente tempestosi che affliggono le carni e le menti in abrasive e ridondanti scorrerie sonore (spaventoso a tal proposito il muro di chitarre eretto verso il terzo minuto della song) che troveranno in rallentamenti doomeggianti la calma di una tempesta che non sembra mai accennare a placarsi, ma anzi se possibile, a sprigionare un rifferama sempre più veemente e veloce tra blast beat e urla feroci. La song è più ritmata nella sua seconda metà, con un ampio spazio ritagliato a favore di quelle fughe oniriche in territori post-rock che smorzano i torvi e biechi attacchi strumentali che forse alla lunga rischiano di essere troppo autoreferenzianti, mentre a mio avviso la band è in grado di regalare nei momenti più melodici e atmosferici, il meglio di sé, soprattutto grazie alle potenti e malinconiche linee di chitarra che saturano l'aria irrespirabile di questo 'Doma'. Un gustoso aperitivo in attesa di una prelibata cena? (Francesco Scarci)

(Overdrive Records - 2018)
Voto: 70

https://selvapbs.bandcamp.com/album/d-o-m-a

mercoledì 23 maggio 2018

Grá - Väsen

#PER CHI AMA: Scandinavian Black, Dissection, Dimmu Borgir
Mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa, perchè gli svedesi Grá sono al terzo album, e io li ignoravo completamente. Mea culpa. Perché tra le sue fila c'è tal Heljarmadr, voce prestata all'ultimo lavoro targato Dark Funeral (e non solo). Mea culpa. Perché la band di Stoccolma propone un sound che di base è un black metal in stile scandinavo (un mix del meglio di Svezia e Norvegia), sebbene poi si destreggi egregiamente nei meandri di sonorità pagane. L'opener, "Till Sörjerskorna", strizza l'occhiolino ai maestri svedesi, ma la sua maestosa furia iniziale evolve in un black mid-tempo, mi ha riportato alla memoria i Dimmu Borgir delle origini, di quel mitico 'For All Tid' che fece conoscere la band norvegese al grande pubblico, anche se i Grá risultano decisamente meno tastierosi e più votati a trame chitarristiche tremolanti. Però quell'aura di mistero, quello screaming che per certi versi richiama proprio Shagrath e gli arrangiamenti davvero azzeccati, mi fanno appassionare fin dall'inizio, a questo 'Väsen'. La ricerca di qualche effetto elettronico invece scomoda qualche paragone con i nostrani Aborym di 'Generator'. La cavalcata in mezzo alla neve continua con "King of Decay" e le sue sfuriate belliche in stile Gorgoroth, che trovano attimi di pace in rallentamenti più ragionati. “Hveðrungs Mær”, che sfodera un inizio quasi esoterico, ha in serbo un black glaciale soprattutto nelle sue parti più tirate ma anche in quelle più rallentate, dove peraltro ho rivissuto la gioia dell'ascolto di "Blashyrkh" degli Immortal. È con "Krig" però che i nostri mi rapiscono totalmente: la song offre un sound maledetto, inesorabile, una voce che sovrasta e arresta completamente la musica, in un'atmosfera surreale che fa emergere tutto il maligno che c'è dentro al quartetto svedese ma anche dentro noi stessi. Eppure non è una song rabbiosa, feroce come le altre (e come potrebbe essere in seguito la thrasheggiante "Dead Old Eyes"), ma sicuramente è quella con l'impianto ritmico più epico e suggestivo. “Gjallarhorn” apre invece con una massiccia dose di synth, prima di esplodere in un'arcigna galloppata dalle ritmiche sghembe e instabili, ma sempre maledettamente efficaci. "The Devil’s Tribe" evoca nuovamente i Dimmu Borgir più atmosferici e ruffiani (nell'accezione positiva del termine), in un incedere lento e sinuoso. La conclusione è affidata alla tagliente title track, uno Swedish black di scuola Dissection che oltre a mostrare le classiche linee di chitarra della scuola svedese, ci delizia con raffinati arpeggi, che spezzano quella tormenta di ghiaccio che si abbatte impietosa sulle nostre teste. (Francesco Scarci)

(Carnal Records - 2018)
Voto: 80

https://grahorde.bandcamp.com/album/v-sen