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giovedì 3 maggio 2018

Swans - Deliquescence

#PER CHI AMA: Rock Sperimentale
...ancora mantiene qualche cronosoma di "Bring the Sun" e compie definitivamente la sua exuvia su 'Deliquescence'. Deliquescenza inversa: l'entrata di "Frankie M" (diciotto minuti: appena un pelino autoindulgente chioserebbe non senza una parte di ragione qualche maligno brufoloso affetto da alitosi) sarà ampiamente ridimensionata su 'The Glowing Man' (che si tratti di una seconda deliquescenza di "The Apostate"?). Deliquescenza retroattiva: "Just a Little Boy" nella versione 'The Gate' appare stranamente intermedia tra le due precedenti live ('Not Here/Not Now') e studio ('To be Kind'), perlomeno negli intenti. Deliquescenza assente, già, nelle (non troppo) sorprendentemente identitarie "Cloud of Forgetting" e "Screen Shot", guarda caso entry-track dei rispettivi album. Deliquescenza della deliquescenza: è ipotizzabile che lo stesso Michael Gira sia a conoscenza dell'impossibilità di oltrepassare la (a tratti prosaica) magniloquenza di "The Knot" (quasi quarantacinque minuti) senza apparire autocaricaturali (cfr. il Neil Young di "Driftin' Back") e, per questa medesima ragione, abbia annunciato lo scioglimento della band. 'The Gate': centocinquanta minuti, tre canzoni da T-B-K, una da T-S e quattro inedite (poi su T-G-M). 'Deliquescence': centocinquantacinque minuti, tre canzoni da T-G-M, una da T-B-K e tre inedite. La deliquescenza live impeccabilmente testimoniata su questi monumentali e autocompiaciuti live è senz'altro parte imprescindibile del processo creativo e compositivo successivamente formalizzato in studio. Ma nove ore tra live e studio per assommare ventuno canzoni in poco più di due anni (la discografia dei prolificissimi Beatles totalizza poco più di otto ore e centottanta canzoni in nove anni) sembrano un cicinino troppe. Ma soltanto nella patetica opinione di qualche qualche gibbuto detrattore affetto da psoriasi. (Alberto Calorosi)

(Young God Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/SwansOfficial/

Clawfinger - Life Will Kill You

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative/Nu/Rap
A distanza di due anni dal fortunato e incazzato 'Hate Yourself with Style', i leggendari nu/rap metallers svedesi Clawfinger hanno rilasciato il settimo album della loro discografia. Come sempre ci hanno abituato, il trio scandinavo ci spara un lavoro in grado di miscelare suoni provenienti da più disparati ambiti sonori, sempre capace di shockarci con la loro proposta fuori dal comune, per la presenza del cantato rap, che li ha resi famosi nella scena metal mondiale. Continuando il discorso intrapreso nella precedente release, che rappresentò il debutto per la potente Nuclear Blast, 'Life Will Kill You' contiene 11 arroganti e irriverenti songs, che non potranno non piacere ai fan di sempre della band, e potranno anche catturare l’attenzione di nuovi adepti e curiosi. L’album si apre con “The Price We Pay”, esaltante nel suo incedere, grintosa, melodica; bella song davvero, caratterizzata anche dalla presenza di archi. Segue la rappeggiante title track, forse il pezzo più ballabile dell’album, in grado di scatenare con il suo ritornello una delirante danza selvaggia. Il sound del combo, lungo gli 11 pezzi, si dimostra sempre sperimentale nella sua proposta, ed è bello constatare che dopo vent’anni di onorata carriera, la freschezza e l’entusiasmo dei nostri, si sia confermata al top anche in quello che è rimasto l'ultimo full length della loro discografia, ormai datato 2007. Zak, Bard e Jocke ci regalano alla fine ottimi brani, sempre orecchiabili (“Prisoners” e “It’s Your Life” sono le song che preferisco), tosti, talvolta danzerecci (ma nel senso che vi si può scatenare un pogo violentissimo sopra); samples elettronici, vocals femminili, influenze grunge e hardcore, completano un lavoro multi sfaccettato che mi sento di consigliare un po’ a tutti, dagli amanti del rock più classico ai metallari estremisti più incalliti. Le liriche trattano, al solito, temi scottanti quali la politica e il razzismo. 'Life Will Kill You" è un melting pot di stili, musica heavy metal a 360° di cui se ne sentiva la mancanza. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2007)
Voto: 75

http://www.clawfinger.net/

Minneriket - Anima Sola

#FOR FANS OF: Black Viking
Minneriket is a solo project created by the Norwegian musician Stein Akslen, who is well known in the Norwegian underground black metal scene (Blodsgard, Vakslen, Æra). His music has been featured on several underground compilation albums, as well as in several independent short-films. Prior to the inception of this project, Stein has been involved in several other bands, all of them related to black metal, so it’s not a surprise that also this one, which was founded in 2014, is solidly related to this genre. Lyrically, Minerriket´s music deals with paganism, existentialism and melancholy, which is not a surprise taking into account his profound interest in old mythologies and alternative spirituality. In only four years, Minnerriket has released four albums, including a tribute to Burzum. 'Anima Sola' is the new opus by Stein and I must admit that I was initially slightly confused with the album artwork, which reminds me some gothic meta/rock albums. The used artwork is a little bit misleading, but 'Anima Sola' is just another step in the evolution of the previous works and it is firmly rooted in a traditional black metal style. Sonically, this new work sounds more aggressive than the previous one, but it also has an occasional dense melancholic and mournful sound, which makes this album a hypnotic experience. The album flows between the most atmospheric tracks and the rawer ones being the winners, in my humble opinion, the mid-tempo tracks like the album opener “Tro, Håp Og Kjærlighet”. I like the slower riffing which sounds more intriguing and hypnotic, rather than the more straightforward sections contained in tracks like “An All Too Human Heart”. Those rawer and, occasionally, faster tracks are good but I think they can sound as too standard in comparison to those which recreate melancholic sonic landscapes. As usual, the longest tracks offer the chance of enjoying both aspects, and this time is no different with the sixth song entitled “Det Lyset Jeg Ikke Kan Se”. This song contains some of the best riffs of the album, which appear in the slowest and darkest sections, once again those parts are the most interesting ones, because they create an engrossing atmosphere. Another standing out track is “Sorger Er Tyngst I Solskinn”, due to its slightly experimental nature. It contains some sections with weird riffs and an initial choir with male clean vocals, which remind me the classic Viking metal choirs. A strange combination for sure, but it somehow can work if you like this sort of experimentations. In conclusion, Minneriket has released an album which can please the average black metal fan who wants a release with a raw and a traditional sound at the same time, but also with room to slight experimentations and variations in the pace. 'Anima Sola' is mainly a mid-tempo work with occasionally faster and furious sections. Anyway, this cd has its best moment when Stein focus his efforts on creating hypnotic and mid-tempo riffs, which make the album a more unique listening. (Alain González Artola)

(Akslen Black Art Records - 2018)
Score: 70

https://minneriket.bandcamp.com/album/anima-sola

martedì 1 maggio 2018

Hacride - Amoeba

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash Progressive, Meshuggah
'Deviant Current Signal' è stato il debut album dei transalpini Hacride, esempio eclatante di come fosse ancora possibile suonare death thrash senza essere assolutamente banali. Già con il loro album d'esordio, si erano rivelati band dall’enorme fantasia compositiva e dalle spiccate doti tecniche. 'Amoeba', il loro secondo lavoro del 2007, non fece altro che consolidare le certezze acquisite da quel primo lavoro, e proiettare il quartetto francese nell’olimpo delle band dedite a questo genere di sound, affiancando i maestri di sempre Meshuggah, ed esplorando inoltre territori cibernetici (Fear Factory docet) e, udite udite, grazie alla collaborazione con la band di flamenco, Ojos de Brujo, proporre anche una cover di folle “death flamencato”; esperimento quanto mai riuscito, pur ammettendo una certa diffidenza iniziale. Come sempre il punto di partenza della band è il death/hardcore dalle ritmiche sincopate, ricco di stop’n go, in cui s’insinuano frangenti acustici, sfuriate brutal, ambientazioni industriali e passaggi in cui un sound, carico di groove, ha la meglio sulla nostra psiche, e, impossessandosi dei nostri corpi, ci impedisce di stare fermi. Dieci tracce che ci schiacciano come piccole formiche, dieci tracce che fanno saltare come pazzi furiosi. Il vocalist, Samuel Bourreau, prende spunto dai vocalizzi del suo esimio collega svedese, cercando spesso di travalicare gli schemi, proprio come accade in “Zambra”, la cover a cui accennavo precedentemente, in cui canta addirittura in stile ska. L’intero disco, nonostante la sua monoliticità, viaggia su questi binari, regalandoci perle assai interessanti di un death/thrash futuristico per quegli anni. Da sottolineare l’ottima parte centrale del disco che si conclude con la graffiante “On the Threshold of Death”, brano che ci consegna una band matura e consapevole delle proprie potenzialità. Un’eccellente produzione, presso “L’Autre Studio”, chiude un disco dalle enormi capacità distruttive. Gli Hacride, pionieri del death del futuro? Credo proprio di si. (Francesco Scarci)

venerdì 27 aprile 2018

Estate - Mirrorland

#PER CHI AMA: Symph Power Metal
La power-band proveniente dalla città russo-caucasica gemellata nientemeno che con Reggio nell'Emilia, propone un power-metal eminentemente calligrafico, fervido però di inorgoglite incursioni aliene. Insomma, aliene si fa per dire. Capita pertanto che al power quintessenziale distillato un po' dappertutto nel disco, ma soprattutto in apertura ("Mirrorland" e "The Ghoul"), si contrappongano, si fa sempre per dire, composizioni renderizzate con texture epic/prog/qualcuno-ha-orinato-nel-santo-graal ("Matter of Time"; una "Lady Wind" che si colloca tra i Dream Theater di 'Awake' e la Gillan band di 'Mr. Universe' o 'Glory Road'; una "Stolen Heart" che suona grosso modo come la suonerebbero degli Hammerfall provvisti di colbacco imprigionati nel carillon di "The Memory Remains") o di hair-melodic anni '80 (almeno due indizi: l'intera "Silver Skies", che sta tra il Bryan Adams che indossa un reggiseno di Robin Hood e il Jack Nitzsche che indossa mutandine femminili di "Up Were We Belong"; oppure l'attacco di "Lady Wind", che fa sembrare "Popcorn" di Gershon Kingsley come una specie di ouverture True Norwegian BM). Ultima nota per la copertina di Leo Hao, apprezzato illustratore esperto di di draghi, battaglie e fanciulle svestite leggiadramente maneggianti pesanti spadoni. (Alberto Calorosi)

Le Zoccole Misteriose - Il Treno

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
“Dandovi maggiori informazioni verrebbe meno il concetto di misterioso” chiude così il comunicato stampa che arriva insieme a 'Il Treno', nuovo EP de Le Zoccole Misteriose. Potrebbe sembrare un nome idiota ed in effetti lo è, ma questo progetto di idiota ha solamente il nome. Dopo varie esperienze, tra cui anche la composizione di un interessante stoner demenziale, arriviamo a questa ultima prova che potremo definire un disco hardcore italiano viscerale che ha come motore principale lo sfogo e l’urgenza espressiva. Pezzi mai sopra i tre minuti, testi che non superano le due righe, chitarre abrasive, velocità sostenute e voci roche e sguaiate, sono gli ingredienti principali del Treno che ti investe come un convoglio impazzito senza troppi complimenti. Si inizia con "Nascosto" che sa di alcol e serate finite tardi tra forti difficoltà motorie, il bruciore di stomaco e la puzza stantia di sigaretta che copre la stanza. Sono i disagi di una generazione che non ha più voglia di combattere ma solamente di esprimere il proprio schifo e la voglia di vomitare quattro frasi che possano in qualche modo dar fastidio a qualcuno. "Lontano dalla Mia Strada" è il mio pezzo preferito di questo breve viaggio, ove un arpeggio claudicante sostenuto da un imponente basso sorreggono versi cinici e ostinati, spezzati da un ritornello impregnato di punk, “io ti auguro miglior fortuna ma lontano dalla mia strada”, uno struggente saluto probabilmente all’ennesima zoccola che si allontana lasciando dietro di sé macerie e braci ardenti. Si prosegue con "Niente di Speciale" che porta una poetica di negazione del sé: “non sono nessuno, solo qualcuno da odiare” sbraita Raffaele, il pensiero che ci possa essere qualcuno che esista solo in funzione dell’odio che viene provato verso di lui mi disturba e mi fa pensare che l’odio a volte vince e a volte è la forza principale che muove le cose. Si chiude con la title track che si azzarda a superare i tre minuti tutti rigorosamente sparati ai mille all’ora, notevole il break finale al grido di “loro stavano solo cercando”. A volte non serve essere prolissi e sofisticati, a volte serve la semplicità di una chitarra che squarcia i coni e di una batteria che ti picchia in testa per ricordarti che se vuoi dire qualcosa, è meglio dirla subito ed è meglio dirla a tutti perché siamo in viaggio su un treno e non abbiamo la minima idea di quando scenderemo. (Matteo Baldi)

Godspeed You! Black Emperor - Luciferian Towers

#PER CHI AMA: Post Rock
Sgretolare le luciferine torri del potere. Grattacieli. Centri direzionali. Nei (dis)suoni eternamente autoperpetranti percepirete un'incombente sensazione di matematico caos. Una sorta di antiouverture sinistra e vagamente jazz-lizard-crimsoniana. "Undoing a Luciferian Towers". Sbarazzarsi incontrovertibilmente di quella disgustosa moltitudine umana costituita da incravattati egemoni del potere. "Bosses Hang". Ben fatto. Sì. Nel trionfale anthem introduttivo (poi ribadito in chiusura), potrete assaporare qualcosa come il 40% delle canzoni rock di vostra conoscenza (due a caso delle mie: "With a Little Help From my Friends" nella versione di Joe Cocker e "A New Day for Love" di Neil Young), sempre che siate disposti a perdonare a voi stessi l'aver erroneamente paragonati i G-Y!-B-E a qualcosa di lontanamente rock. "Fam/famine". Nel carestioso ground zero terzomillennaristico, riscontrerete un necessario minimalismo post-apocalittico, denso e funereo. In chiusura, l'anti-inno della dissoluzione occidentale, forse dell'intera umanità. Finalmente, vien da dire. "Anthem for No State". L'unica composizione in cui ravviserete quell'incedere necessariamente epico che riconoscete nei G-Y!-B-E e che imparaste ad amare quindi anni fa. L'unica in grado di donarvi una certa emozione sottocutanea. (Alberto Calorosi)

The Pit Tips

Alberto Calorosi

Leprous - The congregation
James and the Butcher - Plastic fantastic
Tori Amos - Native invader
 

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Francesco Scarci

Deadly Carnage - Through the Void, Above The Suns
Opium Eater - Ennui
Drewsif Stalin's Musical Endeavors - Anhedonia
 

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Alain González Artola

Hantaoma - Malamórt
Encircling Sea - Hearken
Necrophobic - Mark of the Necrogram
 

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Five_Nails

Gorgoroth - Instinctus Bestalis
Inverted Serenity - As Spectres Wither
AERA - Rite of Odin

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Michele Montanari

Sleep - The Sciences
La Morte Viene dallo Spazio - Zombies of the Stratosphere
Infection Code - Dissenso
 

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Matteo Baldi

God Is An Astronaut - Epitaph
Sleep - The Sciences
A Perfect Circle - Eat The Elephant

giovedì 26 aprile 2018

Ddent - Toro

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Da Parigi ecco arrivare i Ddent, con una proposta che in Francia vanta tra gli altri interpreti anche gli Stömb. Sto parlando di un post-metal strumentale che riesce a trovare nel corso del disco anche sfoghi doom e industrial, come la band sottolinea sul proprio sito bandcamp. E allora conosciamo un po' meglio questo quartetto formato da Louis, Marc, Nico e l'ultimo arrivato Vinz, che dal 2013 a oggi, ha già all'attivo un EP, un primo album e questo nuovo 'Toro'. Il lavoro parte decisamente in sordina con la lunga "Dans la Roseraie" (ah, i titoli sono ispirati alla poesia di Federico Garcia Lorca), che lungo i suoi quasi 13 minuti, ne spende quasi sei in sonorità post-rock/noise, prima di iniziare a carburare: è infatti verso il settimo minuto che i nostri innestano la marcia, e pestano puntando su una certa pesantezza a livello ritmico. Tuttavia, è questione di una manciata di minuti che i toni virino verso sonorità più ariose in un'epica cavalcata che tornerà però ad incupirsi nei conclusivi due minuti del pezzo. Con "Dis à la Lune qu'elle Vienne", la durata del brano si accorcia drasticamente, consentendo una maggior facilità nell'assimilazione della proposta. Si parte comunque da toni pacati, sempre in bilico tra post-rock e post-metal, in un incedere minaccioso ed oscuro. La mancanza della componente vocale è un vero peccato, in quanto la monoliticità dell'act abbinata ad un mood ipnotizzante, ne avrebbe certamente giovato. Arriviamo alla terza "Longue, Obscure et Triste Lune": qui pervade un maggior senso di malinconia, complice il raddoppiare della seconda chitarra sulla matrice ritmica, con un drappeggio di suoni che sembrano provenire da territori shoegaze che creano una suggestiva ambientazione crepuscolare, anche se poi nella seconda parte della song emerge il lato più doom (di scuola My Dying Bride aggiungerei) dell'ensemble parigino, con un rifferama che sembra addirittura emulare a tratti delle growling vocals. "Torse de Marbre" è un'altra mini maratona di oltre dieci minuti che ci riconsegna i Ddent sotto una nuova luce, quella che miscela il post-rock con influenze electro-rock e droniche in un lisergico e mellifluo avanzare che ancora una volta suggestiona la mia mente con quelle che sembrano essere lontanissime vocals poste in background. Non so se si tratti di allucinazioni uditive o di una percezione completamente distorta del sound indotto da disturbi psicotici innescati dall'ascolto di 'Toro', fatto sta che la song suona molto più completa delle altre e il mio desiderio di un cantato, viene stranamente smorzato da questi suoni alla fine estatici. Ho pensato che i Ddent quando hanno scelto il titolo della quinta "L.s Cloch.s d'ars.Nic .t la Fum:." devono essere stati in preda ai fumi, di che cosa non mi è dato saperlo, chissà infatti quale sia il significato nascosto di questo titolo. Il brano si muove su un'alternanza ritmica tra riff compressi e schiacciasassi e altri decisamente più melodici ma al contempo drammatici. È tempo di “La Pluie Emplit sa Bouche”, la sesta traccia dell'album che apre nuovamente a toni dimessi e compassati, tra ambient e drone che fanno da apripista ad un crescendo umorale che dall'anima sembra arrivare in gola, in un riffing comunque tonante e celestiale al tempo stesso. Sono questi contrasti a farmi apprezzare il disco, e ancor di più quell'accelerazione al limite del post black che si palesa per pochi istanti a poco più di due minuti dal termine del brano. Terzo e ultimo allungo del cd e arriviamo ai conclusivi dodici minuti di "Noir Taureau de Douleur", un ultimo sforzo all'insegna di un post-metal glaciale, marziale a tratti, sicuramente di grande tensione, che segna il positivo ritorno sulle scene di questi promettenti musicisti transalpini, da tenere sotto stretta sorveglianza. (Francesco Scarci)

(Chien Noir - 2018)
Voto: 75

https://ddentmusic.bandcamp.com/

mercoledì 25 aprile 2018

This Broken Machine - [departures]

#PER CHI AMA: Alternative/Post Metal/Prog, Tool, Gojira
L'Italia cresce, non solo calcisticamente. Ce lo confermano questa volta i This Broken Machine, quartetto di Milano dedito ad un suono alternativo che combina in modo abbastanza originale, gli insegnamenti di Tool, Deftones, Gojira e Architects, giusto per fare qualche nome a casaccio. Quel che è certo è che i quattro musicisti non sono dei pivelli, essendo ormai in giro dal 2007, anche se la vena creativa dei nostri non deve essere proprio delle migliori, visto che questo '[departures]' rappresenta solamente il secondo lavoro per l'ensemble meneghino. Un album che esce peraltro a distanza di sei anni dal precedente 'The Inhuman Use of Human Beings', e che convince immediatamente per le sonorità proposte. Le danze si aprono con "Departing" e il suo riffing sincopato tipico del metalcore, con la componente vocale a strizzare l'occhiolino a A Perfect Circle e soci, mentre a livello lirico, i nostri affrontano il tema della separazione e le sensazioni ad essa collegate. Seconda tappa e siamo a "Weight": una prima metà in stile Riverside, nella loro veste progressive, una seconda parte poi più rabbiosa e ritmata, con un'alternanza vocale tra il pulito (non sempre troppo convincente) e il growl. "The Tower" simboleggia il concept che si cela dietro all'album attraverso l’allegoria della carta dei Tarocchi chiamata “La Torre” e il suo significato di cambiamento repentino che si traduce anche a livello musicale con sagaci cambi atmosferici tra parti decisamente metal ed altre più riflessive, intimiste e ragionate, all'insegna di un prog rock, ad elevarla immediatamente a mio pezzo preferito del disco. L'inizio cupo e minaccioso di "Return di Nowhere" non preannuncia nulla di buono, visto anche il tema affrontato nei testi che analizzano sempre oculatamente gli stati d'animo dell'individuo alla luce di eventi, diciamo traumatici, che possono indurre al cambiamento. La traccia conferma comunque le divagazioni progressive dell'act milanese, e l'abilità di farle coesistere con sonorità orientate su versanti più estremi, mantenendo le melodie sempre al centro del focus dei nostri. Interessanti le linee di chitarra di "Distant Stars", cosi dinamiche in una song che arriva ad evocarmi anche un qualcosa dei The Ocean nell'utilizzo dei vocalizzi estremi, ma che rilassa invece nella sua parte centrale più meditativa ed atmosferica, cosi come pure per una sezione solistica un po' più ricercata. Si arriva alla nevrotica "This Grace", brano ai limiti del math che avrà modo ovviamente di evolvere nel corso dei quasi cinque minuti in suoni decisamente più pacati. "As You Fall" ha un incipit inequivocabilmente malinconico, anche se poi la song s'imbastardisce un pochino. Ma si sa, i cambi di registro sono all'ordine del giorno con questi ragazzi e la parte centrale si lancia prima in derive psichedeliche, successivamente in un post metal dal crescendo ritmico poderoso. “…And That Would Be the End Of Us” è l'ultima tappa di questo viaggio intrapreso con i This Broken Machine, una chicca aperta da quello che sembra il romantico suono di un violino e che da li a poco si tramuterà in un'altra alternanza tra schegge math impazzite e frammenti più delicati, che ci regalano gli ultimi otto minuti di piacere di questo notevole '[departures]'. (Francesco Scarci)

martedì 24 aprile 2018

Eloy - The Vision, the Sword and the Pyre - Part 1

#PER CHI AMA: Space Rock
Parzialmente giustificato dal fatto che l'avanzare dell'età spesso rimuove certe inibizioni, pervenuto alla settantaduesima primavera Bisteccone Bornemann, generalmente conservativo, rilascia il suo album più spericolato e (forse a tratti involontariamente) divertente. Spiega tutto la perentoria ouverture "The Age of the Hundred Years's War", un po' goth-metal con tanto di vocine nella testa, un po' nu-metal, un po' outtake di 'Angel Dust', quello dei Faith No More. Nel prosieguo, "The Call" (featuring una sensuale e chiacchierante Alice Merton as Giovanna d'Arco) è un hard-rock soft-blueseggiante post-Destination alla "What Do You Want From Me?" (Pink Floyd), la ozric-tentacolare "The Ride by Night... Towards the Predestined Fate" è una specie di tecno-psych ballad con percussioni, la vocina robottina di "Early Signs... From a Longed for Miracle" (ma che pistakkio di titoli, nevvero?), perfettamente adatta al contesto, vi sembrerà fuoriuscita direttamente da "Metromania", la carmina-burattinosa, sbellicante "The Sword... the Dawning of the Unavoidable" farebbe impallidire Luca Turilli, se soltanto Luca Turilli avesse una carnagione. Canzoni come "Chinon" e "Les Tourelles" vi sembreranno ciò che esattamente sono, vale a dire autoindulgenti riempitivi, nell'ordine più e meno medievaleggianti. Quello che conta è che dopo sessantadue minuti (quelli di 'Ocean 2', l'album più lungo finora, erano cinquantasette) vi sarete inspiegabilmente divertiti, ciò che vi sconsiglio di affermare a voce alta ad un concerto, per esempio, dei Blind Guardian. Rischiereste di fare la stessa fine della eroina protagonista di questo scalcinatissimo concept. (Alberto Calorosi)

(Artist Station Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Official4Eloy

lunedì 23 aprile 2018

Seether - Poison the Parish

#PER CHI AMA: Post Grunge
Poderosi riffoni presocratici, un cavernicolo e puntualissimo contrappunto di batteria, nei buchi qualche bridge di basso per conferire epos ("Stoke the Fire"), il rauco gracidare di ordinanza furbescamente alternato a passionevoli sdolcinerie eroinofile. Un ascolto coatto del settimo frondosissimo (quindici canzoni) album (non così tanto) fragorosamente abbattuto soltanto qualche mese addietro da parte dei celebri taglialegna di Pretoria, indurrà senz'altro quella medesima sensazione di pesantezza gastrica mista a sonnolenza e sporadica flatulenza solitamente generati dalla cassoeula che faceva la vostra bisnonna di Olgiate Comasco, sia conferita pace all'animaccia sua. Ascoltate questo disco a basso volume, malamente stravaccati su un divano sfondato di vellutino, mentre osservate con inaspettato interesse l'interno delle vostre palpebre. Con l'eccezione di un paio di scarsamente convinte escursioni nel buon vecchio nu-sbraitone (nel finale del singolo "Nothing Left") le canzoni vi appariranno niente male ma sostanzialmente indistinguibili, proprio come gli ingredienti della cassoueula che faceva la vostra b.d.O.C.s.c.p.a.a.s.. (Alberto Calorosi)

(Spinefarm - 2017)
Voto: 55

http://seether.com/