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mercoledì 14 giugno 2017

Dö - Astral: Death / Birth

#PER CHI AMA: Stoner Death, Ufomammut
Dopo aver affrontato il tema della distruzione in 'Tuho', tornano i finlandesi Dö, questa volta con una tematica delicatissima, incentrata su un argomento che da millenni cruccia l'uomo, la morte e la nascita. Tuttavia, approfondendo maggiormente le liriche, capisco che il tema dei nostri è ben più ampio e verte piuttosto sull'incerto futuro del genere umano, mai cosi nebuloso come in questi difficili tempi. Il terzetto di Helsinki prosegue il proprio discorso musicale all'insegna dello stoner death doom sempre contraddistinto da granitici chitarroni sui quali si stagliano i vocalizzi mortiferi di Deaf Hank. Due le tracce a disposizione in questo 'Astral: Death / Birth', appunto "Morte" e "Nascita", per una durata complessiva di venti minuti tondi tondi. I nostri non si scomodano più di tanto dal precedente lavoro, ed imperterriti proseguono nel generare quelle atmosfere pachidermiche, in un sound che essi stessi definiscono döömer e che a livello ritmico, nell'iniziale "Death", richiama irrimediabilmente i Black Sabbath a cui aggiungerei io, anche i nostrani Ufomammut e gli immancabili Cathedral degli esordi. Non male l'assolo che trancia la song a metà, contraddistinto da un tipico feeling settantiano. La band finlandese infarcisce il proprio sound con una sublime componente esoterico psichedelica che esplode nella tribalità ossessiva di "Birth", con i vocalizzi arcigni del frontman che cedono questa volta a chorus che sembrano provenire da un qualche rituale catartico, mentre la voce dello stesso Deaf Hank abbandona il suo torvo growling per un litanico parlato, tutto questo almeno nella prima metà. I restanti cinque minuti della song infatti si imbastardiscono e con essi anche la voce del carismatico cantante che torna oscura e possente, cosi come il downtuning chitarristico sempre più ancorato ad abissi death doom, enfatizzati peraltro da una registrazione lo-fi ottenuta durante una sessione live, volta a catturarne lo spirito indomito dei nostri. Splendidi gli assoli posti ad un terzo e a due terzi del brano, con la chitarra sorretta da un buon lavoro al basso dello stesso vocalist. Insomma, graditissimo ritorno, peccato si tratti solo di un paio di brani, che abbassano di mezzo punto la mia valutazione conclusiva. Ne vogliamo di più!! (Francesco Scarci)

martedì 13 giugno 2017

Rites to Sedition - Ancestral Blood

#FOR FANS OF: Swedish Black, Unanimated, Dissection
North Carolina-based melodic black metallers Rites to Sedition have taken their influence from the old-school melodic black metal scene to craft an ambitious effort upon the origins of man and his epic quest to overcome occult mysteries. This is mainly built around the utterly phenomenal riff-work present, featuring plenty of thrilling tremolo patterns full of fiery rhythms and a multitude of tempo changes that allows this one to generate a slew of exciting rhythms. By adding in a technicality to these riffs alongside the ability to utilize the grandiose soundscapes throughout here, this manages to acquire a feeling of explosive icy black metal riffing that develops a variety of tempos and patterns throughout here as the vast array of exceptionally glorious rhythms throughout here which help to make the melodic leads all the more impressive. Running over furious tempos as well as plodding mid-paced efforts makes a huge impact on their rhythms by enabling this one to readily shift focus into the varying tempos and not lose any sense of power or grandeur in the attack, making this a spectacular showing that’s able to generate these varying moods and atmospheres here. It does feel it’s length at times because of the lengthy songs sometimes generating a few unneeded parts here and there but on the whole, that’s a minor gripe here just to pick at it. Intro "Waveform 66," "Echelons of Imposition" and "Sorcerers of Atlantis" manage to combine these together exceptionally well, while the epics "The Moon Titan Phylon" and "The Golden Aeon of Saturnia" fit them into even longer segments to really boost this considerably. However, overall there’s not much really wrong with this one. (Don Anelli)

lunedì 12 giugno 2017

Wolfmother - Victorious

#PER CHI AMA: Stoner/Hard Rock
Nel quarto fragoroso disco della più omologata e crescentemente solipsistica band di vintage-rock australiano, i Wolfmother, pardon, il Wolfmother (a.k.a. Andrew Stockdale, autore di musiche e testi, cantante, chitarrista, bassista, ordinatore di pizze al telefono e co-produttore assieme a Brendan Volpone O'Brien; gli altri due contano più o meno quanto il due di bastoni in una gara di scorregge) prosegue quel processo di (in)consapevole nerosabbatizzazione già intuibile in 'Cosmic Egg'. La title track, nonché primo singolo radiofonico, "Victorious", pare fuoriuscita da 'Paranoid', non vi pare? Se il giochino vi attizza, provate con: "The Love That You Five" cfr. "Vol. 4", The Simple Life" cfr. "Never Say Die", "Gypsy Caravan" cfr. "Sabotage" e, beh, con un po' di fantasia anche "Happy Face" cfr. il primo Ozzy solista. Bene quando, altrove, il suono s'impenna e diventa più cosmico ("Remove Your Mask", la stessa "Gypsy Caravan"), così così il glam clap-clap di "Best of a Situation". Pessime certe concessioni power-pop, individuabili, per la precisione, in quella specie di Paul Simon imprigionato nel furgone di Andreas Johnson che è "Pretty Peggy". Poca ispirazione e tanta maniera. Ma capitava molto spesso anche nei caleidoscopici seventies. (Alberto Calorosi)

(Universal Music Enterprises - 2016)
Voto: 70

http://www.wolfmother.com/

domenica 11 giugno 2017

Lvx Hæresis - Descensŭs Spīrĭtŭs

#PER CHI AMA: Black mid-tempo, Blut Aus Nord, Traumatic Voyage
Dalle Valli del Rodano, ecco un'altra band a testimoniare l'eccellente stato di forma musicale della Confederazione Elvetica. L'avevamo già sottolineato in occasione della recensione delle esoteriche liturgie dei confederati Arkhaeon, e oggi ci troviamo al cospetto di un'altra compagine che propone un sound ritualistico ed occulto, che trova alcuni punti in comune proprio con quella band. Si tratta dei vallesi Lvx Hæresis, attivi dal 2013 che arrivano solamente nella primavera del 2017 al loro full length di debutto, sebbene un singolo abbia visto la luce già nel 2015. Le song contenute in questo 'Descensŭs Spīrĭtŭs' sono sei, anche se la seconda "II-III" può far pensare a due sottotracce. Il genere come scrivevo, si rifà ad un oscuro e malato black mid-tempo che scava nella notte dei tempi e trova come punti di riferimente del quartetto di Sion, storiche figure della loro terra natia, e penso a Celtic Frost, Coroner, primi Samael e Sadness perché no, per assemblare una proposta musicale che ha certe affinità anche con il modernismo degli ultimi arrivati Schammasch. Tutte band svizzere avete visto e non certo gli ultimi arrivati poi, a dimostrare quando sia importante la scena elvetica per la progressione di questo genere arcano ed affascinante. I Lvx Haeresis, sebbene mostrino ancora qualche segno di immaturità, ci mettono del proprio, offrendo un concentrato sonoro torvo, maligno, mefitico, un essudato diabolico che sembra emergere dalle viscere infernali. Ecco spiegata in poche parole la opener "I", song atmosferica, compassata ed ipnotica quanto basta per rievocare anche i francesi Blut Aus Nord, non disdegnando poi neppure asfissianti rallentamenti doom. "II-III" è già più tirata, complici disarmoniche melodie non cosi facili da digerire, su cui poggiano gli aspri vocalizzi del misterioso frontman D.H. ed un finale spettrale ed orripilante, ideale colonna sonora per un film horror. Arriviamo alla terza "IV", song che si muove su qualche cambio di tempo in più e su lugubri atmosfere che ancora una volta sembrano estratte da spaventosi horror movie. Il sound è lento e per certi versi sfiancante a causa del suo litanico incedere destabilizzante e ad un epilogo che si avvicina ad un breve rituale esoterico. Le chitarre della quarta "V" mi evocano anche un che dei bavaresi Traumatic Voyage e del loro allucinato e primitivo black doom, perennemente cadenzato, che sembra districarsi tra i sulfurei fumi dell'Ade. "VI", pur palesando chitarre più ancorate ad una forma primigenia di black metal, mantengono inalterato il proprio mood rallentato e quella malvagità insita nelle corde vocali del cantante che ci prendono per mano e ci accompagnano fino alla conclusiva "VII", una vera summa del Lvx Hæresis sound, costituito da dieci minuti di sonorità ipnotiche che sposano alla perfezione la filosofia nichilista del Pozzo dei Dannati. Come punto di partenza, 'Descensŭs Spīrĭtŭs' si conferma un album più che discreto, ma ho la sensazione che le potenzialità di questo terzetto siano di gran lunga superiori. (Francesco Scarci)

(Atavism Records - 2017)
Voto: 70

sabato 10 giugno 2017

Asira - Efference

#PER CHI AMA: Post Black/Rock Progressive, Fen, Riverside, Alcest
Ancora una volta mi duole constatare che è uscito un album assai notevole e nessuno in Italia se n'è accorto. Che diavolo serve allora avere decine di siti che si occupano sempre e solo dei soliti nomi? Fortunatamente, il talent scouting è di casa nel Pozzo dei Dannati ed ecco spuntare dal cilindro gli inglesi Asira, quintetto proveniente da Reading, con quello che credo essere il loro debut, 'Efference'. E che debutto signori: il disco è fantastico sin a partire dall'orchestrale intro "Sanguine". Poi, ecco esplodere il post-black dei nostri con "Crucible of Light", una song tanto furente nel suo incipit, quanto elegante nel suo prosieguo che strizza l'occhiolino ai connazionali Fen (ma anche agli statunitensi Deafheaven), ma che palesa anche partiture sognanti in stile Alcest, con tanto di cori shoegaze, ed infine un mescolamento di vocals che vanno dallo screaming efferato al pulito. La musica nel frattempo si diletta tra accelerazioni furenti sorrette da efferati blast beat e divagazioni post rock, guidate da splendide melodie che per certi versi mi hanno evocato anche gli *Shels. Già estasiato per la proposta, mi rilasso ancor di più aprendo ulteriormente la mia mente al quintetto albionico: arriva la title track, con i suoi delicati arpeggi e il tremolio delle chitarre in uno scorrere languido e sognante che ammanta gli oltre otto minuti della song. Il brano ha modo di regalare uno splendido assolo che con la musica estrema ha ben poco da spartire, sembrando piuttosto un tributo ai Pink Floyd. La durata delle canzoni è abbastanza elevato, cosi pure "This Hollow Affliction" ha da offrire oltre dieci minuti di emozioni, ma alla fine si è cosi immersi nel suono caldo ed avvolgente della compagine inglese, che neppure me ne accorgo. Il brano mostra una prima metà dal piglio decisamente ambient, per poi pigiare un po' più sulla tavoletta del gas con una ritmica dal taglio black. Pochi attimi perché saranno ancora le celestiali melodie ad avere la precedenza, sebbene la musica si muova poi su ripetuti cambi di tempo e mood. Quel che mi preme sottolineare è il ruolo svolto dalle chitarre, eccellenti sia a livello ritmico, ancor di più nella veste acustica e solistica, di matrice tipicamente rock. L'intensità emotiva cresce a dismisura sul finale del pezzo, con una miscela di cori angelici e arcigne vocals. Ottimo il lavoro al basso di Chris Kendell in "Phosphorous", traccia corrosiva nei primi frangenti, poi ammiccante gli Opeth del loro periodo centrale, nei successivi minuti e ancora in preda a deliri black in un'evoluzione continuativa del brano. Ancora momenti di dolcezza, che forse faranno arricciare il naso ai fan più estremi, giungono con la calma "Whispers of the Moon", quasi una semi-ballad, fantastica peraltro nel suo atto conclusivo, in cui ho visto dei punti di contatto questa volta con i polacchi Riverside. Gli Asira non avranno inventato nulla di nuovo, son d'accordo, ma come amalgamano tutte le loro influenze ha dell'incredibile e merita solo per questo l'acquisto del coloratissimo digipack. Gli ultimi dieci minuti del disco sono affidati a "The Mortal Tide", song in cui il sound progressive della compagine britannica si miscela con il black metal, in un ultimo atto che sancisce l'elevata caratura tecnico-compositiva di una band di cui sentiremo parecchio parlare in futuro. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 80

https://asira.bandcamp.com/

V/A - Collected by Mizoo - Greenosophy Chapter II

#PER CHI AMA: Elettronica/Ambient
La Ultimae Records è come il canto delle sirene in mezzo al mare, ammaliante e luminosa, pericolosa e votata alla perdizione. Non si pensi a cose dannate ma bensì ad un bagno in acque cristalline, rinvigorenti anima e corpo, acque profonde che toccano i nostri più intimi stati d'animo, piccoli frammenti di sogno tolti alle nostre vite per divenire suono e musica. La nuova compilation 'Greenosophy Chapter II', uscita sotto le ali della etichetta transalpina dedita all'ambient più etereo, elettronico, minimale ed introspettivo, è il seguito naturale del primo volume dal titolo 'Greenosophy', uscito qualche anno fa ed è un assaggio curato dal DJ svizzero Mizoo, che raccoglie ed esibisce suoni dei tanti artisti dell'etichetta, da Scann–tec ad Aes Dana, passando per Miktek e tanti altri, per affrontare un suono stimolante e rilassante allo stesso modo, carico di spessore e micropulsioni elettroniche, figlie di sperimentazioni tra tecno sound e new age, sempre suggestive e mai banali. Come in uso alla Ultimae, la compilation è senza tregua e tutti i brani, seppur di autori diversi, trovano una direzione all'unisono, inducendo l'ascoltatore ad intraprendere un lungo viaggio a metà tra l'ipnosi e la mistica percezione, pura poesia per le orecchie, musica proiettata nel futuro, qualità sonora spettacolare (esiste anche la versione a 24 bit per i palati più fini), con l'usuale ottimo artwork (curato da Arnaud Galoppe and Vincent Villuis che si sono occupati anche della masterizzazione), dalla ricerca grafica inequivocabile e perfetta nel rappresentare il sound peculiare, maniacale, cinematico e viscerale delle release della label transalpina. Musica da ascoltare ad alto volume in concentrazione o in cuffia per capire veramente cosa si nasconde dietro a questi pezzi coalizzati divinamente da DJ Mizoo, che all'apparenza sembrano banale musica elettronica per ambiente lounge ma nel cui interno vi si nasconde arte finissima del mondo elettronico. Tra queste tracce, la cui matrice filosofica sembra ovvia e ben manifestata, vi si trova la magia di ambienti incontaminati composti pensando agli intoccabili Brian Eno, Sakamoto e Kraftwerk, rivisitati in chiave chillout. Non esiste un brano migliore di altri poiché il lavoro è omogeneo ed equilibrato a puntino, e tutto fila che è un piacere. Concedetevi un viaggio ai confini della realtà conosciuta, ascoltando 'Greenosophy Chapter II', farete del bene alla vostra anima! (Bob Stoner)

venerdì 9 giugno 2017

The New Geometry - S/t / Singularity


#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Rock Strumentale
Non sappiamo granché di questi portoghesi The New Geometry, se non che si siano formati ad Oporto nel 2015, che questo EP sia il loro debut targato 2016, e che un nuovo singolo, "Singularity", sia uscito proprio in questi giorni. La band comprende Walter Teixeira e Filipe Ferreira alle chitarre, e Filipe Silva al basso; appare pertanto chiara l'assenza di un vero batterista e di un cantante che accompagni l'eteree melodie shoegaze dei lusitani. Tre i brani contenuti nel dischetto: "Lightseeker" è la tenebrosa opening track, compassata ed ipnotica nel suo incedere, anche un pelino paranoica aggiungerei, ma le melodie ancestrali delle sue chitarre in tremolo picking, chiamano in causa tutto il movimento post-rock mondiale. Quindi non c'è nulla di meglio che lasciarsi sedurre dalle atmosferiche ed altrettanto elettriche melodie dell'opener, prima che la malinconia salga con le sonorità intimiste di "The Inner Conflict", in cui le chitarre, instancabili, si rincorrono nei consueti saliscendi emozionali imposti dal genere, che sfociano qui in un violento finale. A chiudere la prima fatica del terzetto portoghese, ci pensa "Brothers by Light", in cui la sensazione percepita è quella di un lungo e triste arrivederci tra due amanti, e la promessa spesso tradita, di un rivedersi ancora. Le melodie sono inevitabilmente strazianti, sebbene la presenza di un parlato nel corso del brano e di un indurimento dei suoni nella parte finale della song, ne cambino il mood. Visto che c'eravamo, abbiamo dato un ascolto anche alla nuova traccia dei The New Geometry, "Singularity" appunto, per saggiarne lo stato di forma a distanza di oltre un anno dall'uscita dell'EP. Si tratta di una song decisamente atmosferica grazie ad un epilogo di pink floydiana memoria, che tuttavia non vede ancora palesarsi grosse evoluzioni nel comparto sonoro dei nostri, una traccia che conferma al contempo le qualità della band che inviterei tuttavia a valutare l'arruolamento di un cantante in pianta stabile, che contribuirebbe ad impreziosire un sound che rischia altresì di perdersi nel mare magnum delle band post rock strumentali. Meditateci sopra ragazzi. (Francesco Scarci)

(Self - 2016/2017)
Voto: 65

https://thenewgeometry.bandcamp.com/

giovedì 8 giugno 2017

Psygnosis - Neptune

#PER CHI AMA: Progressive Death Strumentale, Meshuggah, Ne Obliviscaris
Francamente, non so se essere più incazzato o felice di questa nuova fatica dei francesi Psygnosis. Li stavo aspettando con grande trepidazione, dopo quell'uscita un po' più particolare di un paio danni fa, un 7", 'AAliens', che ben mi aveva impressionato per quel suo più marcato mix tra musica estrema ed elettronica rispetto agli esordi più death metal oriented del quartetto del Burgundy, dove comunque il loro sound era già intriso di contaminazioni electro. La ragione della mia rabbia è l'uscita di 'Neptune', nove tracce di grande intensità ed elevata durata (sfioriamo gli 80 minuti), che mi lasciano con un però: che fine hanno fatto i vocalizzi growl di Yohan Oscar? Da quel che si evince, l'ex frontman è stato allontanato dall'act transalpino ancora nel 2014 e mai rimpiazzato, quindi ciò che rimane oggi è una band esageratamente preparata sotto il profilo tecnico, che combina un death metal, frutto di una simbiosi tra Meshuggah e Ne Obliviscaris, con il suono di violoncello e contrabbasso, si avete letto bene. Niente vocals (se ci fossero state, pezzi come "Phrase 7", "Storm" e "Psamathée" sarebbero stati delle bombe), non una vera e propria batteria, ma la classica drum machine in un vortice sonoro davvero notevole, come quello che si apprezza nei dodici minuti iniziali della opening track. Cosi come nei Ne Obliviscaris, il violoncello prende il comando delle operazioni, e altrettanto accade in "Psygnosis is Shit" (complimenti per il titolo), guidando l'intera melodia nonché la ritmica di fondo della song, con le chitarre che erigono muraglioni di riff spettacolari mentre la batteria elettronica si incanala in futuristici pattern ubriacanti. Dannazione, qui una voce sarebbe stata perfetta, un bel growl ad incarnare la furia che divampa attraverso il riffing compatto dei nostri o che sussurra nei momenti di quiete, che sembrano virare la musica dell'act di Mâcon verso un post rock più intimista, proprio come accade nella seconda metà della già citata "Psygnosis is Shit", prima del roboante finale che ci conduce a "Восто́к". Questo è un interlocutorio passaggio atmosferico apripista per "Storm", traccia aperta da uno splendido suono di tastiere dall'effetto sognante, a cui, a poco a poco, si affiancheranno timidamente anche gli altri strumenti, per un pezzo che va crescendo in intensità, come se la tempesta aumentasse la propria veemenza, con le chitarre ordinate che, tra cambi di tempo, stop'n go e partiture progressive, giocano con l'ascoltatore in uno stordimento inaudito. Questo è forse il punto di contatto più vicino ai Meshuggah e ancora una volta impreco contro chi ha pensato bene di utilizzare una batteria sintetica, qui un uomo in carne ed ossa, si sarebbe (e ci avrebbe) divertito alla grande. La title track si presenta come un ipnotico viaggio di 13 minuti tra synth ambientali ed una successiva sezione ritmica che si rifà alle ultime divagazioni dei Gojira e poi tante sonore mazzate nei denti, grazie a ritmi infuocati, rallentamenti e al meraviglioso suono degli archi, davvero emozionante in certi frangenti. Fastidiosa la componente elettronica nella sesta "Mûe", per fortuna ancora una volta gli archi ristabiliscono una qualità più che dignitosa al sound della band che ci proietta verso il settimo capitolo"Psamathée", traccia energica e devastante, che comunque mi lascia sempre con un certo amaro in bocca, perché se fosse stato un uomo ad imbastire quell'attacco alle pelli, il disco sarebbe stato un vero e proprio masterpiece. E invece no, rimangono solo i condizionali mentre i quattro francesi, testardi come muli, sono andati avanti a picchiare come fabbri nelle parti più estreme e a deliziare i nostri padiglioni con il magico tocco del violoncello. Nella song compare anche un dialogo in sottofondo ad una chitarra acustica che quasi mi dà l'idea che un cantato sia anche presente, sebbene duri troppo poco. C'è ancora tempo per i quasi undici minuti della struggente "Sünyatã", cosi malinconica nel suo incedere classico e cosi spettrale nei lunghi e noiosi dialoghi che ne completano il quadro; per fortuna che la band capisce che è meglio lasciar campo aperto al suono delle chitarre e a quelle celestiali melodie che sferzano l'aria. Lo dicevo all'inizio che non so ancora se essere felice o furioso nell'ascoltare questo disco, troverete cose geniali durante il suo ascolto e altre dove sarebbe meglio tralasciare ogni commento, come la prima parte della soporifera "Nirvāṇa". Tanta carne al fuoco in 'Neptune' per cui potrei stare qui a scrivere epici poemi, meglio darsi una mossa allora e ascoltare con cura questo album. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)

mercoledì 7 giugno 2017

Nitritono - Panta Rei

#PER CHI AMA: Drone/Noise Rock, Valerian Swing, Zu
Dietro questo nome criptico si nasconde un giovane duo di Cuneo che dopo aver accordato la chitarra nella tonalità più bassa possibile, si è dato l'obiettivo di creare un sound oscuro e potente. Tra le band da cui prendono ispirazione ci sono ZU, Melvins, Fantomas che hanno permesso ai Nitritono di forgiare il loro noise/rock ruvido, introspettivo e vacillante. Quindi chitarra/voce/batteria uniti per dar sfogo al proprio io esistenziale, dove il contesto suburbano ci ipnotizza con il frastuono industriale e il veleno sociale scorre a fiumi sotto i nostri piedi. Nel 2013 hanno dato vita al primo EP e dopo parecchia gavetta, suonando con svariate band italiane e non, quest'anno si sono chiusi in studio con Enrico Baraldi (bassista degli Ornaments e sound engineering in ascesa) per registrare questo 'Panta Rei'. Otto brani potenti, carichi di tensione ed energia che navigano ai livelli più profondi dell'animo tormentato per poi esplodere con un incedere devastante e purificatore. "La Morte di Dio" apre con un incipit quasi in stile The Cure, dove la chitarra pulita e batteria vacillano lenti e malinconici, mentre si fa insistente l'arrivo delle distorsioni. Queste, pur rimanendo sulla stessa ritmica lenta e minimalista, sgomitano a colpi di plettro sfruttando le basse frequenze per sviscerare l'io profondo e far risalire a galla sensazioni ormai dimenticate. Poi il tutto si distende, elevandosi ad un livello onirico, senza materia né tempo, ma il sollievo dura poco perché le tenebre ci agguantano di nuovo e ci ricordano che tutto è duplice, non esiste il bene senza il male, la luce senza il buio. Il brano che condensa al meglio la produzione artistica dei Nitritono è "L'Atarassia del Giorno Dopo", dove il dualismo post rock/noise trova il suo culmine in distorsioni solide e profonde intervallate da arpeggi puliti accompagnati da pattern ritmici trascinanti. La lentezza al limite del doom e i suoni eterei contribuiscono a creare una risonanza cosmica, tale da far vibrare il nostro corpo all'unisono con l'anima per poi spezzare il legame e permetterci di trascendere. La parte finale aumenta di intensità e la tensione diventa talmente insostenibile che la mente fugge per trovare sollievo, rifugiandosi quindi tra le spire di "Zen-it", dodici minuti di terapia spirituale che iniziano con una lunga sezione drone/noise. La perfetta colonna sonora di un film horror in bianco e nero, senza i dialoghi che sarebbero superflui e allontanerebbero la nostra attenzioni dalle immagini e i suoni, che grazie alla chitarra deformata dagli effetti, sembrano un'entità che si trascina a fatica sotto un cielo plumbeo e pesante. L'oppressione, gli stacchi, la ripetitività giocano un ruolo determinante in questo 'Panta Rei', dove il suono è sempre impeccabile, viscerale e potente, con momenti caratterizzati da una calma palpabile che rende ancor più distruttive le esplosioni sonore che si susseguono. Sembra quasi di prendere i Valerian Swing dopo averli rallentati, pur mantenendo intatto il loro smalto. Da ascoltare tutto d'un fiato. Consigliato. (Michele Montanari)

martedì 6 giugno 2017

Dome La Muerte E.X.P – Lazy Sunny Day

#PER CHI AMA: Garage/Alternative Country, Calexico, Cramps
'Lazy Sunny Day' è il nuovo progetto di Dome La Muerte, cantante e chitarrista italiano che ha attraversato il rock alternativo, di matrice hardcore e punk, già a partire dai primissimi anni ottanta. Se nomi leggendari come Cheetah Chrome Motherfucker e Not Moving non vi dicono nulla, poco importa: questa recensione non ha lo scopo di lucidare le medaglie che il buon Dome potrebbe appuntarsi al giubbotto quanto piuttosto di valorizzare il suo presente. E la miscela vincente che ci propone in 'Lazy Sunny Day' è fatta di brani epici caratterizzati da chitarre western e amplificatori grondanti di tremolo e vibrato, sapientemente dosati a valorizzare le parti strumentali. Si parte con “Never Surrender”, uno strumentale asciutto e polveroso come un duello sotto il sole, accattivante quanto basta per catturare l’attenzione dei fan di Calexico e Friends of Dean Martinez. La successiva “No Justice” riprende il refrain del primo brano alzando il ritmo e anche la manopola del riverbero. “Sick City”, terzo pezzo in scaletta, aggiunge agli elementi western anche un piglio garage nella sua esecuzione. L’elemento di novità si manifesta a partire dal quarto brano dove un sitar intreccia sonorità beat per portarci in territori più mistici ed evocativi. “Drawning a Pink Mandala” e la successiva “Divinity” sono due canzoni in cui il sitar la fa appunto da padrone. Nella successiva “Amsterdam 66”, forse il capolavoro dell’intero album, Dome La Muerte riesce a coniugare le sonorità garage tipiche di gruppi come i Fleshtones ad efficaci virate mistiche caratterizzate da un sapiente mix dell'onnipresente strumento indiano e organo hammond. Il disco prosegue alternando brevi strumentali ancora a base di sitar con canzoni più definite nella loro struttura e dalle sonorità più garage-western. “Eternal Door” si caratterizza per un buon uso del dobro mentre la successiva “When the Night is Over” è puro twang di frontiera. Le due canzoni che chiudono il disco, “Vision of Ashvin” e “L.S.D. (Little Sun Dose)" mantengono alto il tiro portando il suono nei territori noti ai fan di band di culto quali ad esempio Gun Club e Cramps o anche i più recenti Go to Blazes. In conclusione, quello che abbiamo tra le mani è un disco piacevole, sicuramente atipico per il mercato italiano, suonato con l’esperienza di chi ha calcato migliaia di palchi e si è lungamente abbeverato alla fonte del garage a dell’alternative country. Alimentate la vostra curiosità spingendovi oltre la frontiera del garage punk nei territori battuti da Dome La Muerte E.X.P: questo disco vi accompagnerà nelle vostre pigre giornate di sole estive. (Massimiliano Paganini)

lunedì 5 giugno 2017

Suici.De.Pression - S/t

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Doom/Folk
'Suici.De.Pression' non è più solo il titolo di un album dei blacksters brasiliani Thy Light, da oggi è anche la nuova creatura del polistrumentista Vittorio Sabelli (qui sotto lo pseudonimo di Syrinx), che è dovuto "migrare" fino in Giappone per ottenere il contratto con l'etichetta MAA Productions. Il cd omonimo consta di tre tracce, tutte con titoli, testi ed atmosfere che non si possono certo definire solari. Ad aprire, gli oltre 20 minuti della funerea "De.Pression", con i suoi lenti tocchi di pianoforte a cui fanno seguito quelle anguste chitarre catacombali che non lasciano presagire a nulla di buono, su cui si stagliano le screaming vocals del frontman e con le melodie che sembrano richiamare la tradizione folklorica mediterranea, quasi a voler ricordare da dove il buon Vittorio è partito, da quei Dawn of a Dark Age, da poco recensiti su queste stesse pagine. Il flusso disperato prosegue in porzioni d'ombra che nemmeno lontanamente lasciano trasparire un filo di luce. Non ci sono chiaroscuri qui sia ben chiaro, ma solo una musica per anime disperate, cuori disperati, pianti disperati, stanze desolate, vie desolate, muri vuoti, occhi vuoti, parole vuote, giusto per parafrasare il testo della opening track che si dipana lungo un mid-tempo ritmato e porzioni ambient minimaliste. Delle chitarre marcescenti aprono "Despair", una song dal classico mood suicidal black, fatto di atmosfere insane, urla strazianti, dove non mancano neppure le sfuriate black, con le tastiere che giocano il fondamentale ruolo di smorzare la crudezza di un disco altresì estremo in tutto e per tutto. Deprimente ma elegante il break di pianoforte a metà brano, a cui segue una marcetta affidata a batteria e tastiere che per tre minuti si dilungano in giri melodici, atti a preparare il terreno ad un corrosivo finale e all'inizio della delirante "Paranoia", di nome e di fatto, con quel suo loop chitarristico davvero ossessionante e folle. Ancora una volta il retaggio folk del mastermind molisano galleggia in sottofondo, con suoni che contrastano l'alienazione mentale prodotta dalle rugginose chitarre dei nostri. 'Suici.De.Pression' alla fine è un lavoro interessante, ancora da sviluppare e sgrezzare, ma che mostra senza ombra di dubbio, ampi margini di miglioramento. Per quanto possa risultare un album per amanti delle sonorità estreme, un ascolto curioso lo darei lo stesso. (Francesco Scarci)

domenica 4 giugno 2017

Unaussprechlichen Kulten - Keziah Lilith Medea (Chapter X)

#FOR FANS OF: Brutal Death, Nile
Unaussprechlichen Kulten has been playing Lovecraft inspired death metal since 1999. Expanding on the tormented mythos of its focus, moments of oldschool barbaric brutality similar to Immolation are mixed with the fringes of Nile-styled technical moments that make for deeply unnerving journeys with satisfying payoffs as raging segments ride the line between the insufferable and the impressive.

Massive melodies disharmonically extinguish any thoughts of redemption or hope between shivering strings and malicious meters as the gradual pace of 'Keziah Lilith Medea' grows into an unstoppable onslaught utilizing the machinations of a maniacal mind as the template for your torment. Though the grating guitars grow annoying in “The Woman, The Devil and God's Permit”, “Dentro Del Circulo” makes up for the unnecessary liberties with a more duplicitously dulcet approach to its gradual grandeur. Most of the songs throughout this album explore cavernous cacophonies akin to Demilich's unconventional undulations, and like Demilich these unusual airs can be all too full of noisy and unapproachable combinations. As horrific as the fate of the old woman depicted on the album cover, wearing nothing but a headdress, enduring the unspeakable torments of Hell as her body withers and rots at its extremities, these songs are the remorseless foundations of a twisted perspective that only sees majesty in the blood it has spilled and the piles of rotting corpses it can leave in its wake. This disgusting music is here to offend with its uncultured debasement of Immolation's most shrieking shreds, but in that unearthly approach such appetizing moments like the tangled treble of “Sacrificio Infanticida” keep me wondering just how much the band can manipulate this unpleasantness.

“The Mark of the Devil” exemplifies thrash influence in this album. Similar to Udo Kier's 1970 film of the same name, this song is an unrelenting splatter-fest exalting the glory of hammering percussion as the arsenal of pure metal beats back any semblance of insanity. Alongside “Sabbatical Offering”, these thrashing riffs take to the skies above the churning drum chaos like winged demons circling their prey before diving into the carnage to feed on what fleeing masses of skin and sinew haven't been melted in the fires of their explosive opening salvos. Alleviating some of the most intense moments in this album these thrashers take a familiar shape as a welcome addition in more harmonious songs, blackening their brushstrokes and coloring a crushing canvas with the frantic haste to get the message understood of their captivity between such substantial swaths of distorted vibrations and unsubtle motions.

'Keziah Lilith Medea' acts as a corrupted inquisitor, not sent by the justice of Christendom to urge confessions of your sins through a firm-but-fair duress as serious as necessary in order to save a soul. This inquisitor is enchanted by the music of different screams that a tortured man can unleash and lives for experimenting with the extent of mutilation one can endure before shedding his mortal coil. Unaussprechlichen Kulten attempts to live up to the notion of its namesake by seeking high and low for what wickedness will snap that last shred of sanity in your skull. Though this mind riot takes some getting used to it hits the mark in enough places to stay entertaining as malformed malignant monsters hide within the sounds, their tortured gaits concealing the speed at which they can come and consume you. (Five_Nails)

Rumpelstiltskin Grinder - Buried in the Front Yard

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Speed/Thrash, primi Metallica, Kreator
Mi sono sempre chiesto come ci si potesse chiamare in questo modo così assurdo? Chi si ricorderebbe mai un nome del genere? Poi inevitabilmente, mi viene di associare la presenza, nel nome nella sua interezza, di “Grinder” ad un genere splatter gore; invece mi devo ricredere dai primi quattro accordi che quello che ho fra le mani, non è altro che un album di thrash metal anni ’80 con i suoi suoni retrò, le sue “grezzate” ma anche con tutti i positivi aspetti che aveva il genere, così schietto e vero. E così i Rumpels...vattela a pesca, quintetto proveniente dalla Pennsylvania ci stupiscono con la loro ventata di energia e un pizzico di follia, che solo la Relapse Records poteva avere il fegato di produrre nel 2005. 'Buried in the Front Yard' è un disco onesto di speed-thrash metal influenzato dai primissimi Metallica, ma anche dal sound dei Kreator dei primi lavori, che conserva lo spirito eighties anche nella produzione, non propriamente al passo con quelle degli tempi. La proposta degli statunitensi non si limita però a ripetere pedissequamente gli insegnamenti dei maestri, ma arricchisce il proprio sound di altre componenti: di una vena hardcore tipicamente americana, di passaggi doomish e altri richiami punk. La band consta di ex membri di band quali Divine Rapture e Evil Divine; il batterista, Patrick Battaglia, dalle chiare origini italiane, mostra uno stile semplice ma fantasioso. La band era qui al suo esordio e diavolo se si sente, altri due album hanno seguito prima di un lungo silenzio che perdura ormai da un lustro. (Francesco Scarci)

(Relapse Records - 2005)
Voto: 65

https://www.facebook.com/RumpelstiltskinGrinder

giovedì 1 giugno 2017

Umbra Noctis - Via Mala

#PER CHI AMA: Black/Epic/Rock
Con calma, estrema calma, tornano sulla scena gli Umbra Noctis, con quello che è il loro secondo album, 'Via Mala', uscito a distanza di cinque anni dal precedente 'Il Primo Volo'. Il disco è ispirato ad una delle mulattiere più panoramiche e spettacolari d'Europa, la Via Mala appunto, che si snoda attraverso la Valle di Scalve nelle province di Bergamo e Brescia, la cui ubicazione ha suggestionato non poco la stesura dei testi del nuovo capitolo del quintetto lombardo. Il disco si apre con "Nevica", ove un classico arpeggio introduce alla nuova dimensione della band targata 2017, in cui apprezzare immediatamente una certa maturazione nel songwriting ed una maggior consapevolezza acquisita dalla compagine nostrana nel corso di questi anni di silenzio. L'act mantovano non ha snaturato il proprio sound, affidandosi come sempre a sonorità estreme, accompagnate qui da influenze che vanno ricercate nel rock classico e progressivo. Non fa specie incontrare pertanto accelerazioni tipiche del black contrappuntate da harsh vocals, accanto a voci pulite che cantano rigorosamente in italiano (da rivedere la performance del vocalist Filippo, decisamente più a suo agio nello screaming, un po' meno nella sua veste clean). "Il Sentiero del Cervo" è un'epica cavalcata con le classiche chitarre ronzanti norvegesi, interrotte da un break acustico in cui il vocalist sembra inneggiare ad uno spirito patriottico. L'epicità torna più forte ne "Il Solco", una song che lascia intravedere una malinconia di fondo nelle sue linee di chitarra, con un riffing che per certi versi mi ha rievocato i Dissection, chitarre che vengono però mitigate dal cantato solenne di Filippo. Si prosegue con una traccia più lenta ed oscura, "Maree", che apparentemente si distacca dai temi "montani" fin qui trattati, anche se nei testi mi sembra si parli di arbusti e brughiere (vi invito ad approfondire leggendo le liriche sul sito ufficiale della band). La canzone nel suo lunghissimo flusso melodico, mostra la contemporaneità delle due anime del frontman, lo screaming vs il clean, con il primo che vince in qualità, nettamente sul secondo. Già, la performance in pulito di Filippo continua a non convincermi appieno, talvolta sembra stonato, soprattutto quando cerca di sfruttare al massimo la sua estensione vocale, meglio invece quando si muove su tonalità medio-basse. Un arpeggio post punk/shoegaze apre "Somnium", seguito da un rifferama tagliente di scuola svedese e da un dualismo vocale che in questa traccia non delude e sembra anzi funzionare. Forse la ricetta giusta è cercare di non strafare anche se francamente non mi sento di supportare al 100% questa scelta, lascerei Filippo a cantare col suo eccellente growl/scream, ed affidare il cantato pulito, che ci sta alla grande peraltro in questa nuova miscela sonora degli Umbra Noctis, a qualcun altro. Arriviamo a "Nami", un pezzo di black metal tirato nel suo prologo, che vede i propri toni ammortizzati dalla modulazione vocale del vocalist e da una ritmica mid-tempo, che trova modo di accelerare attraverso una magistrale fuga black. Con "Spirale", si cambia ancora registro ed è ammirevole come l'ensemble nostrano abbia voluto sperimentare non poco in questo nuovo lavoro, concedendo libero sfogo alla propria creatività e dando voce alla propria rabbia attraverso pezzi in grado di abbinare la ferocia del black con il mood ribelle del rock, cosa che accade puntualmente anche nell'ultima veemente traccia dell'album, un attacco frontale in stile Impaled Nazarene che sembra fondersi con il rock progressivo. Hanno osato gli Umbra Noctis, non c'è dubbio: sebbene ci fosse l'elevato rischio di commettere degli errori, e li hanno commessi, mi sento di dire che ci sono ancora ampi margini di miglioramento per cui si può soprassedere alle pecche di oggi per migliorare quel che ha da riservare il domani. Nel frattempo non esimetevi nel dare una chance ai nostri per apprezzare nuove sfumature musicali made in Italy. (Francesco Scarci)

(Novecento Produzioni - 2017)
Voto: 70

https://umbranoctis.bandcamp.com/album/via-mala