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venerdì 20 gennaio 2017

Queen Elephantine – Kala

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
La cosa che non si può negare a questa ottima band, ora stabilitasi a Providence in US ma in passato residente ad Hong Kong, è la capacità di sconfinare facilmente e in maniera sofisticata e contorta tra lo stoner, la psichedelia, l'avanguardia ed il post rock. Con queste premesse, il disco in questione, uscito nel 2016, sembra non stimolare un granchè. Potrebbe rientrare in un calderone inflazionato di nomi, senza risultare in nessun modo una novità e la vostra potrebbe essere una considerazione esatta, ma per fortuna, vi dovrete ricredere in fretta. Vi dovrete ricredere perchè, ascoltando il nuovo album dei Queen Elephantine, con un titolo ispirato alla divinità orientale Kala, scoprirete che esiste ancora chi riesce a sfornare ottima musica, comunicativa ed originale, pur rimescolando vecchie carte da gioco. Prendete il pathos degli OM ed il loro misticismo, unitelo ai deliri compositivi dei June of 44 di 'Four Great Points', create un parallelo compositivo con il sound astratto, avanguardistico e cacofonico del geniale 'Deceit' dei This Heat, la spinta alternativa e desertica dei Fatso Jetson, il passo lento e pesante degli Earth, il doom sonico e rumoroso dei Fister di 'Bronsonic' e qualche scorribanda in territori kraut/psych rock e avrete l'esatta equazione che vi dà una vaga idea di cosa si nasconda nella quinta uscita ufficiale di questa particolarissima band. L'album è pane per i soli palati più fini, dato che va in contrasto con ogni canone di stoner rock da cassetta, pertanto ci si deve avvicinare a cuor sereno e mente libera da preconcetti di genere. Fatevi trafiggere dall'iniziale "Quartered", memore di un suono grunge dilaniato e rallentato a dismisura; amate il paranoico, folle e infinito grand canyon di "Quartz", lasciatevi poi cadere nel psicotico, sabbioso, noise/blues di "Ox", e fatevi rapire dal sentore etnico delle percussioni di "Onyx" (brano splendido!) ed il suo anarchico composto sonoro, acido e contorto, oppure, perdertevi nel vortice scuro di "Deep Blue", in gloria agli Ulan Bator post ogni cosa. Per finire inoltratevi nel vuoto cosmico dei dieci e più minuti di "Throne of the Void in the Hundred Petal Lotus", il doom visto con gli occhi degli Slint. Tante cose, tanti suoni e concetti hanno costruito questo album pieno di ambizione e meritevole di tanto rispetto, un collettivo di intelligenti musicisti pronti ad accendere ancora una volta, la fiamma dell' heavy psichedelico, rivisto e ridisegnato con nuovi colori e forme. Un album di confine che non convincerà tutti ma coloro che lo apprezzeranno, lo ameranno alla follia, come il sottoscritto. Il santo graal dello stoner rock è nascosto in questo album! Non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

https://queenelephantine.bandcamp.com/album/kala

Theatres des Vampires - Bloody Lunatic Asylum

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic Metal
Devo ammetterlo, non sono mai andato pazzo per la musica dei Theatres Des Vampires, una formazione che calca la scena metal da oltre vent'anni ma che prima d'ora non si era resa protagonista di lavori esaltanti; i primi due album infatti ('Vampyrisme...' del '96 e 'The Vampire Chronicle' del '99), pur essendo ben suonati e supportati da un discreto livello compositivo, mancavano, a mio avviso, di quella brillantezza che li facesse emergere dalla mischia, brillantezza che però è magnificamente espressa nel loro terzo album, 'Bloody Lunatic Asylum'! A risollevare le sorti dei Theatres des Vampires è proprio questo disco, prodotto da Tim Fraser (già produttore di Christian Death e Anathema) e pubblicato dalla Blackend, uno staff molto professionale che ha sicuramente aiutato la band a compiere il salto di qualità! Non fatevi ingannare però: a fare grande 'Bloody Lunatic Asylum' non è solo un produttore d'eccezione o una casa discografica potente, ciò che lo rende speciale è il valore degli undici brani in esso contenuti, tutti molto coinvolgenti e ricchi di nuove idee! Lord Vampyr e soci dimostrano di aver raggiunto un'invidiabile maturità compositiva e questa volta ci consegnano tra le mani un prodotto competitivo, un disco di sanguinario e dannato gothic metal, intriso di pazzia e perdizione, elementi che ricordano il famoso 'The Principle Of Evil Made Flesh' dei Cradle Of Filth, formazione alla quale la band italiana si avvicina, non tanto per lo stile, quanto per le atmosfere morbose e vampiriche che riesce a ricreare. Alle classiche black screams viene alternata una voce pulita che conferisce al lavoro un tocco di suggestiva teatralità mentre le tastiere di Necros giocano un ruolo dominante e si fondono a degli indovinatissimi cori polifonici (bellissima "Lilith's Child"!!). Frequenti sono anche le parti recitate da sensuali voce femminili, presenti anche nei cori e nell'evocativa chiusura affidata a "Les Litanies De Satan", song basata su Moonlight Sonata di Ludwig Van Beethoven. In definitiva, 'Bloody Lunatic Asylum' è un disco geniale ed ispirato che segna l'affermarsi sulla lunga distanza di una band che non ha mai mollato. (Roberto Alba)

Draugsól - Volaða Land

#PER CHI AMA: Black/Death, Immortal, Morbid Angel, Enslaved
L'Islanda colpisce ancora, non con l'esplosione di un altro vulcano, ma con l'emergere di una nuova band dai suoi abissi infernali. I Draugsól si formano infatti solamente nel 2015 e arrivano alla stampa del loro debutto assai velocemente, grazie al supporto della Signal Rex. Il genere proposto è ovviamente un black metal che del nero metallo mantiene probabilmente solo le vocals arcigne, perchè poi le ritmiche si dimenano tra un death alla Morbid Angel e un black in stile Immortal, proponendo velocità ben sostenute, blast beat martellanti, sonorità disarmoniche e imprevedibili assoli. Ecco qui il biglietto da visita del terzetto di Reykjavík che non sottraendosi al morbo dell'intro liturgico, ci conducono poi nel loro mondo, con i quasi nove minuti di "Formæling". Superato in apparenza lo scoglio di una proposta non troppo semplice da digerire, si sbatte contro la vulcanica e brutale efferatezza di "Bót Eður Viðsjá Við Illu Aðkast", altri nove minuti di musica battagliera, selvaggia, che propone riff di matrice epic black (echi di Windir ed Enslaved nelle sue note) però poggianti su un pattern di violenza tipicamente death, che contribuisce a rendere la proposta del combo islandese decisamente più varia ed imprevedibile rispetto ai grandi classici. I Draugsól non sono certo immuni a sbavature od imperfezioni, vista anche una certa ridondanza nel caotico approccio del trio nordico. Per fortuna che c'è spazio anche per un'apertura acustica in "Spáfarir og Útisetur" (e più brevemente anche nella successiva "Váboðans Vals"), altrimenti il rischio di essere maciullati dall'irruenza dei nostri, si fa più alto. La song mantiene un andamento mid-tempo tra un break acustico e un affondo affidato a vorticose accelerazioni. Le danze si chiudono con la malefica "Holdleysa" dove saggiare per l'ultima volta le qualità dell'ennesima new sensation proveniente dalla fredda Isola di Ghiaccio. (Francesco Scarci)

Pater Nembrot – Nusun

#PER CHI AMA: Heavy Psych Stoner
Terzo album, dopo 'Mandria' (2008) e 'Sequoia Seeds' (2011), per la band cesenate che acquista sempre più peso e personalità e sforna con questo 'Nusun', un disco di grandissimo spessore, il migliore finora, e comunque destinato ad avere un ruolo e un peso molto “ingombrante” nella discografia dei Pater Nembrot. Perchè 'Nusun' è uno di quei lavori che lasciano facilmente a bocca aperta, un piccolo capolavoro di stoner psichedelico da salutare con gioia, rispetto e un pochino di incredulità, una volta appurato che si tratta di una produzione tutta italiana. I Pater Nembrot rinforzano la line-up con l’aggiunta di una seconda chitarra e ispessiscono il loro suono fino a renderlo scuro, pastoso e pesante, come il risultato di un ibrido tra Black Mountain, Comets on Fire, gli ultimi Motorpsycho e ovviamente Black Sabbath. Incastonati tra la ballata pianistica “Lostman” e gli echi westcoast della conclusiva e acustica “Dead Polygon”, ci sono 46 minuti tra i più pregni e infuocati che mi siano capitati per le mani in quest’ultimo anno, fatti di riff mastodontici che farebbero la felicità dei Black Mountain di 'In the Future' (“Stitch”) e che, di quando in quando, si fanno cavernosi e quasi doom (“The Rich Kids of Teheran”), oppure incorniciano prestazioni vocali degne dei migliori Soundgarden (“Overwhelming”). Trovano poi spazio dilatazioni riflessive che evocano i più ispirati Motorpsycho (“Architeuthis”) e brani che esprimono appieno una maturità anche compositiva davvero invidiabile, come “El Duende”, costruita su un riff che sembra la versione rallentata di quello di “Airbag” dei Radiohead. Un disco pressochè perfetto in tutti i suoi aspetti, a partire dalla splendida grafica di copertina. Se siete un minimo avvezzi alle sonorità heavy psych, non fatevelo scappare per nessun motivo.(Mauro Catena)

(GoDown Records - 2016)
Voto:80

https://pater-nembrot.bandcamp.com/album/nusun

martedì 17 gennaio 2017

GC Project - Face the Odds

#PER CHI AMA: Prog Rock
GC Project è il lavoro solista di Giacomo Calabria, eclettico batterista che calca la scena musicale italiana e non, da parecchi anni e che vanta collaborazioni con un gran numero di musicisti. Il suo amore per il prog metal lo ha portato a scrivere 'Face the Odds', full length che contiene undici brani autoprodotti con il supporto di innumerevoli artisti che si avvicendano ad aiutare il loro amico. "The Spring and the Storm pt. I" è la seconda traccia del cd e nei suoi cinque minuti racchiude il fulcro della musica di Giacomo. Un brano che trasuda prog misto a rock anni novanta, caratterizzato dalla sua sezione ritmica impeccabilmente pulita e trascinante. Le chitarre fanno il loro sporco lavoro, con riff potenti e con distorsioni adatte al genere. I brevi fraseggi di tastiera e l'assolo completano gli arrangiamenti ben fatti, insieme ad un cantato che si destreggia molto bene nei vari passaggi. "Southern Confort" ci catapulta in Asia grazie al suono del sitar e alla ritmica incentrata sui fusti della batteria che richiama lontani battiti tribali. La melodia ci culla per prepararci alla perentoria chitarra elettrica e ai suoi riff distesi. Nel frattempo i tocchi di hammond addolciscono il tutto e sostengono la vocalist (questa volta c'è una lei dietro al microfono) che ben si muove tra cantato e parlato. La pronuncia a volte risulta un po' troppo marcata, in compenso sale di tonalità con decisione, mentre basso e batteria si divertono ad intrecciarsi, il tutto poi a a finire in fade out. Il prog vecchio stile torna in "Water in the Desert", dove la sezione ritmica la fa da padrone, correndo e rallentando a piacere, permettendo a tutti gli strumenti di allungarsi in fraseggi sempre all'altezza. Molto azzeccato l'assolo di tastiere che sfuma naturalmente e lascia spazio a quello di chitarra, mentre nei vari break fuoriescono suoni elettronici di tutti i tipi. Un pezzo classico se vogliamo essere sinceri, ma eseguito ad opera d'arte. Tutto il meglio della PFM, Goblin ed affini è stato digerito e studiato con cura da musicisti con del gran pelo sullo stomaco. Chiudiamo con "18 Circles of Life", un vero inno alla vita, dove le atmosfere, a volte oscure dei precedenti brani, sono state messe completamente da parte per lasciare spazio a pura positività che trasuda dai riff e dagli arrangiamenti. Anche qui Giacomo mette in campo tutta la sua bravura con ritmiche complesse e mai scontate, veloci e che conducono alla fine del brano ancora quando stiamo canticchiando il ritornello. In 'Face the Odds' è stato fatto un buon mixaggio e soprattutto il mastering è minimo, pochissima la compressione che dà un gran senso di ariosità ai suoni che si liberano nelle frequenze permettendo di raccogliere tutte le sfumature. Di contro, alcuni punti sembrano su viaggiare su piani staccati; alla fine però ne è valsa la pena perché ci troviamo tra le mani un piccolo gioiellino che trascende il genere e dovrebbe comparire nelle collezioni di molti musicisti che aspirano a raggiungere livelli eccelsi. (Michele Montanari)

Kalmankantaja - Kuolonsäkeet

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Sono infine giunto, al buio, circondato da antiche rovine Quechuas, con l'unica compagnia di un freddo gelido, a Pueblo Fantasma, Bolivia, 4690 metri sul livello del mare. Eolo sul mio volto sferza il suo fiato ove scanna runiche rughe intrise nel mio sangue con i suoi invisibili aghi, rune che brillano e pulsano nell’oscurità. Mi chiamo Kalmankantaja e sono un druido votato al male. Non mi ricordo nemmeno come ci sono arrivato fin qui. Dev'essere l'effetto delle troppe foglie di coca che ho masticato per resistere al freddo, alla fame e per riuscire a trascinarlo. Una cosa, però, me la ricordo bene: il motivo per cui sono lì. Scelgo la chiesa, ove accendo, con uno dei miei incantesimi occulti, un arcano fuoco. Lo pronuncio: “Sieluton Syvyys” e le fiamme divampano poco lontano da me. È stata per l’appunto “Sieluton Syvyys”, entry-track strumentale di 'Kuolonsäkeet', dei finnici Kalmankantaja ad evocare questa mia storia: la sua tastiera occulta, geopardata da rare ed arcane parole, ci inizia all’arte con note che da profonde, sulla scia dell’organo, si trasformano, s’innalzano e mi portano con loro nell’alto dei cieli. Accedo all’Empireo tenendo per mano Beatrice ma dimenticandomi di Dante. Ecco che odo i primi lamenti, i primi strazi, della mia vittima. Ebbene, non sono solo, l’ho portato con me. Finora aveva taciuto, sotto l’ipnotico effetto del mate de coca. Ora si sta risvegliando, tossisce. Quindi urla. Non oso immaginare quali oscure creature si annidino lì, nel posto in cui mi trovo, quali lugubri presenze stia per evocare, ma non ho paura. Io non ho paura di niente. Io non temo nessuno. Nessuno al di fuori di me. Sì, al di fuori di me, perché di me ho paura. Di me ho davvero paura: so come sono. Dentro. Tanto gentile e tanto onesto appaio ma chi mi calpesta… muore. No. Non subito: attendo buono per anni, con paziente disciplina. Faccio maturare per anni il mio silente odio proprio come si fa con il buon vino o come fa il più bastardo dei virus e solo quando tutto sembra tranquillo, quando sono certo che tutti abbiano dimenticato, solo allora colpisco. E vado fino in fondo, senza paura di insozzarmi. Calo la mia falce. Scanno, squarto. Ma non lascio mai tracce. Le sue urla. Sono le sue urla a dare inizio a “Yhdessä Kuoleman Säkeet Kohtaavat” lo strazio di uno che viene torturato e che mi chiede disperatamente di non venire ammazzato. Io semplicemente lo ignoro, anzi, dentro di me godo nel prolungarne le sofferenze. Lui per primo mi ha fatto del male. Senza motivo. La batteria scandisce un ritmo semplice, cadenzato, un quattro quarti lento, con brevi incursioni in ottavi, tipico del genere. Convince il gioco di velocità aumentata solo a tratti, dà corpus e magnificenza a questo brano. Le urla di strazio aumentano ed in quest’armonia s’incarnano alla perfezione in uno screaming potente. Bel lavoro ragazzi, ben fatto davvero. Chitarre distorte all’ennesima potenza punzecchiano ed infastidiscono con pure note di sana ultraviolenza la mia vittima che mai smette di lamentarsi, di contorcersi, come se a ripetizione fosse punta da migliaia di vespe mandarinia japonica. Urla. Urla nell'oscurità. Ma no, no, la mia falce non ha ancora mietuto la sua vittima, c’è ancora così tanto tempo e così poche cose da fare. La sua lama brilla perché ancora non ha assaggiato e non percola, lungo il suo filo, lacrime di sangue. Del suo sangue. Punto il mio bastone, mi concentro, rivolgo lo sguardo al cielo, levito ed al mio comando “Ruoskittu Ja Revitty”, lingue di fuoco all’improvviso si animano, s’innalzano e quindi tracciano un complesso e rotondo sigillo sul terreno con al centro la vittima che ancora urla. I suoi pochi stracci vengono divorati dalle fiamme che assaggiano fameliche anche qualche brandello delle sue carni ma niente di più: non vi sono infatti nuovi ingredienti rispetto la precedente track, non percepisco alcun gusto nuovo. Anzi lo schema si ripete. Belli i dieci minuti di "Yhdessä..." ma forse i successivi dieci di "Ruoskittu..." non vanno ad aggiungere molto. Non sono poi così tanto diversi, forse qui l’agonia viene prolungata un po' troppo. Sulle note di “Memento Mori”, la vittima inizia non solo a prendere atto che deve morire ma che la morte è ormai vicina. Mai giocare con i sentimenti di qualcuno. A meno che non si voglia finire… così. Le sapienti pennellate in solo di tastiera di “Oman Käden Teuras” ed i suoi crescendi, sanno risvegliarmi dal torpore, dandomi qualcosa di nuovo da assaporare. Di mio gusto le interruzioni di batteria. La vittima adesso viene tatuata agli occhi con aghi incandescenti. È questo il mio modo per dire: buona la prova di voce. Nuove sonorità e vocalizzi mi colgono impreparato in “Minun Hautani”: bella questa sorta di dialogo tra vittima e carnefice ovvero il gioco di voci pulita e screaming. Di fronte a “Synkkä Ikuisuus Avautuu” non mi resta che lanciare una moneta per decidere le sorti di questo 'Kuolonsäkeet': testa promosso, croce si muore… …ma la mia è una moneta speciale, dedicata a Giano… e Giano si sa… ha due facce. Invece con la mia vittima non sarò così buono: pollice verso. Morte! Morte! Morte! Mai giocare con… (Rudi Remelli)

lunedì 16 gennaio 2017

Sybernetyks - Dream Machine

#PER CHI AMA: Industrial Rock
I Sybernetyks sono degli industrial rocker francesi attivi dal 2013 che ci regalano quello che potremmo chiamare il primo vero LP della band, 'Dream Machine'. Si tratta di un disco poliedrico, con parecchi pezzi e una certa varietà compositiva, con suoni elettronici utilizzati come dilatatori di ambiente in abbinata con delle chitarre dalla distorsione presente ma controllata, che creano un’atmosfera confortante a tratti e a tratti lucida ma mai inesorabile. Mi vengono in mente i Porcupine Tree per le atmosfere dense di effetti e per molte risoluzioni repentine su fangosi riff sludge piuttosto che su tappeti di delay e tastiere celestiali. Per avere una chiara idea di chi o cosa siano i Sybernetiks, ascoltare "Downstream" è obbligatorio. Probabilmente si tratta del pezzo più riuscito del disco, dotato di un tappeto elettronico iniziale che introduce una sezione pesantemente rock con notevoli arrangiamenti vocali. Un altro must è rappresentato dalla title track che chiude il disco e che racchiude le migliori peculiarità della band, dagli eterei ambienti dove la voce si adagia piano sulla musica fino al potente assalto delle chitarre che la porta invece alla sua massima espressione, con una coda nebbiosa vagamente drone. Per molti versi 'Dream Machine' è un buon ascolto, anche se una visione d’insieme dell’opera avrebbe giovato di più al progetto che seppur qualitativamente molto alto, a volte risulta ridondante. Un gruppo sicuramente da tenere sott’occhio per le capacità dimostrate ma soprattutto quelle potenziali; per di più sul loro bandcamp campeggia la confortante scritta “we take care of your future”, una bellissima idea che tutte le band dovrebbero fare propria! (Matteo Baldi)

Cosmic Jester - Millennium Mushroom

#PER CHI AMA: Blues Rock/Jazz/Psichedelia
I Cosmic Jester sono una band nata nel 2015 e questo è il loro debutto discografico, nonostante sembrino in tutto e per tutto usciti dalla California acida degli anni '60. Di stanza a Berlino, i nostri sono in effetti un duo composto da Lucifer Sam, chitarrista e polistrumentista originario delle coste del Mar Baltico, e Roboo, batterista statunitense di impostazione jazz. La musica racchiusa in quest’elegante confezione cartonata fatta a mano, declina per poco più di settanta minuti un concentrato di rock blues rilassato e jazzy, che sembra trarre ispirazione tanto dalla San Francisco dei Jefferson Airplane, quanto dal kraut rock più acido e meno rigoroso degli Ash Ra Tempel. Il disco ha la capacità di calare immediatamente l’ascoltatore in una dimensione pacificata e positiva, con quell’ibrido tra Crazy Horse e Quicksilver Messenger Service che è “Muddy Waters”, acida ed elettrica opening track, al contempo pacata e riflessiva. Lo stesso mood, un po’ più jazzato, viene mantenuto in “Skin” e nella strumentale “Noise From Beyond the Sea”, mentre l’album assume forme sempre più dilatata ed elettroacustiche, che non disdegnano alcune incursioni nel folk indiano (“Millennial Mushroom” e “The Psyfolk Experience Jam”) o nella psichedelia weird inglese tra Syd Barrett e Robyn Hitchcock (“Joker in the Paper Cup”), passando per il quasi prog di “Polarity”, fino ad un nuovo irrobustimento delle trame nella parte finale, con la lunga “The Wake”. Il caleidoscopio sonora allestito dai Cosmic Jester impressiona per varietà e sicurezza con la quale i due si muovono tra stili e una strumentazione ricca e variegata, e promette molte ore di ascolto piacevole e fruttuoso, soprattutto se si è avvezzi alle coordinate di riferimento. Unico neo, a mio avviso, una certa frustrazione provata per via di un missaggio non sempre perfetto, che rende alcune parti di chitarra quasi inudibili. (Mauro Catena)

domenica 15 gennaio 2017

Lilium Sova – Lost Between Mounts and Dales / Set Adrift in the Flood of People

#PER CHI AMA: Mathcore/Noise, Zu
Quando parlai di 'Epic Morning', eccellente esordio dei ginervini Lilium Sova datato ormai 2012, mi ero interrogato sul futuro della band, allorché all’indomani dell’uscita del disco, la formazione che l’aveva registrato, già non esisteva più. Ad abbandonare la nave era stato un elemento fondamentale quale Michael Brocard (sax e tastiere), lasciando la granitica sezione ritmica composta da Cyril Chal (basso) e Timothée Cervi (batteria) a dover reinventare da zero un suono che faceva gran conto sulle furiose incursioni free del sax dei Brocard. La nuova line-up è ora completata da Loïc Blazek che si cimenta al violoncello e alla chitarra. Quattro anni dopo vede finalmente la luce questo nuovo lavoro, che di quel cambiamento è figlio. Diviso idealmente in due facciate distinte, ognuna col proprio titolo, una propria tematica e una propria identità musicale, sottolineata dall’uso esclusivo del violoncello per la prima parte, identificata come 'Valley' e da quello della sei corde per la seconda, denominata 'City'. Dopo un’intro atmosferica, “Pakeneminem” mette subito le cose in chiaro col suo martellante incedere post-hardcore/noise. Basso e batteria sono una macchina inarrestabile su cui si innesta il violoncello, usato in modo molto poco rassicurante. In generale, tutta la prima parte del lavoro si distingue per una certa drammaticità e per atmosfere maestose e inquietanti, non prive di un certo respiro largo come nella lunga “Ofkaeling”. La seconda parte è invece caratterizzata da toni decisamente più nervosi e taglienti. La batteria non lascia scampo e l’affilatissima chitarra hardcore toglie il respiro come lo smog metropolitano, arrivando a ricordare certe cose degli Unsane in 'Forlorn Roaming' e flirtando pericolosamente con un post metal di impronta sludge davvero tosto. I Lilium Sova hanno cambiato pelle, si sono lasciati alle spalle certe influenze free-jazz e hanno addirittura beneficiato del cambiamento, risultando forse meno imprevedibili ma più quadrati e potenti. (Mauro Catena)

sabato 14 gennaio 2017

Bròn - Ànrach

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
La Kunsthauch è da sempre sinonimo di sonorità black ambient. Non sono immuni nemmeno i Bròn, one man band scozzese (guidata da tal Krigeist) che con 'Ànrach', arriva all'agognato debut album. Come spesso accade, le band scozzesi, gallesi o irlandesi ricorrono alla lingua celtica per trasmettere il legame profondo con le loro radici antiche e cosi il titolo del cd è una parola gaelica che sta ad indicare l'abbandono. Un abbandono ha sempre una connotazione malinconica che in questo caso si traduce nel mood nostalgico di un disco che include tre lunghissime tracce caratterizzate da un flusso sonico mid-tempo interrotto da brevi sfuriate black, con le chitarre venate di quell'aurea epica in stile Windir. A differenza della mitica band norvegese però, qui ci sono molte più tastiere, con una certa predominanza quindi di lunghi interludi atmosferici che evocano inevitabilmente il conte Grishnackh (alias Burzum). Ecco in soldoni la opening track che dà anche il titolo al disco. Con "Lutalica" (parola di provenienza serbo croata) non ritroviamo troppe variazioni al tema, se non una seconda parte del brano che si avvicina sempre di più all'ambient e che forse farà storcere il naso agli amanti del black più puro, ma tranquilli perché lentamente la song cresce in intensità e pure in velocità, con un finale furibondo. Tuttavia il disco stenta a rapirmi, forse perché troppo statico o dotato di suoni di synth troppo noiosi e scontati. Stancamente si arriva all'ultima "Tipiwhenua" (parola stavolta maori), il cui inizio tastieristico di certo non mi aiuta nella valutazione complessiva di un disco lungo, troppo lungo, ridondante e che non apporta nessuna novità in un genere di nicchia come quello dell'ambient black, in una song comunque avara di sussulti. 'Ànrach' non è un disco da bocciare, in quanto il mastermind di Edimburgo sa il fatto suo, però non è neppure un album che mi sento di consigliare a cuor leggero. Dategli un ascolto approfondito prima dell'acquisto, rischiereste di utilizzarlo per fermare un tavolo traballante. (Francesco Scarci)

(Kunsthauch - 2016)
Voto: 60

venerdì 13 gennaio 2017

Dysylumn - Chaos Primordial

#PER CHI AMA: Post Black/Death
Che diavoli questi francesi! La scena transalpina cresce che è un piacere e questi Dysylumn si vanno ad aggiungere alla già nutrita scena che ogni settimana sembra far affiorare nuove interessantissime leve da oltralpe. Il duo di oggi arriva da Lione e ci propone il secondo EP della propria discografia che conta anche un full length uscito nel 2015, 'Conceptarium'. 'Chaos Primordial' è un lavoro malato che riparte laddove l'album di debutto aveva chiuso. Il dischetto consta di tre pezzi più intro ed outro, che propinano palesemente anguste sonorità angoscianti. La title track apre i battenti, con i suoi suoni cupi e cadenzati, in cui death e black coesistono lungo i binari di una malsana dissonanza musicale semplicemente da brividi. Il suono dei nostri si muove poi sinuoso attraverso striscianti aperture progressive e vocals maligne, in un coacervo di stili che ingloba anche ambigue forme di doom e sludge. "Œuf Cosmique" irrompe con la classica ritmica martellante del post black, ma poi trova pace nella sua andatura mid-tempo tra urla lontane, improvvise accelerazioni e aperture astrali, mantenendo comunque intatta la vena melodica dei nostri. La lunga "Régénération" continua nel suo approccio sincopato tra distonici pattern ritmici, atmosfere occulte e urla che si tramutano in chorus epici, in una musicalità che trova anche modo di fuggire in psichedeliche fughe strumentali e riesplodere in efferati slanci di brutalità. Il disco si chiude con l'ambient onirico dell'"Outro". Che altro aggiungere se non invogliarvi a scoprire molto di più a proposito di questi due enigmatici musicisti francesi (Francesco Scarci)

(Egregor Records - 2016)
Voto: 75

https://dysylumn.bandcamp.com/

giovedì 12 gennaio 2017

Angelseed - Crimson Dyed Abyss

#FOR FANS OF: Power Symphonic Metal, Dragonland, Kaledon, Ancient Bards
Croatian symphonic power metal newcomers AngelSeed have struggled with numerous lineup changes over the years as the band’s complex arrangements and vast array of influences have kept the band in check throughout the years. Forging forward with these elements, the band is quite adept at their style here which manages to interject so many rather strong and dynamic elements that range from operatic vocals, soaring cinematic orchestrations that generate the kind of power and bombastic grandiosity present there to heavy, thumping riffing alongside the straightforward riffing which is quite a great backbone of attack which generates quite a lot to like here. The fact that it’s not as intense and driving as the vast majority of the genre’s practitioners for the full-on album as they prefer to stay in the mid-tempo chugging realm and offer complex arrangements rather than indulge in those overt speed-drenched numbers might make this a somewhat clashing tone for some but otherwise isn’t all that flawed since the consistency and tone makes up a lot of that. The three ballads might be overkill, but the tracks are still enjoyable enough. First effort ‘Bloodfield’ gets this going with moody atmospherics and pounding drumming that propels this along at a steady pace as the operatic elements coming to pass throughout the swirling keyboards leading into the finale for a decent-enough start. ‘Dancing with the Ghosts’ offers heavy, thumping rhythms and harmonious leads that bring about the controlled Gothic-flavored outbursts while chugging along to the strong rhythms as the mid-tempo patterns keep this one flowing nicely into the final half for another strong offering. Their first ballad ‘Man with Black Roses’ drops off into softer rhythms with a more relaxed tempo that still retains some solid atmospheric keyboards amid the simple strumming and romantic vibe that runs continuously throughout here for a rather nice attempt at the style without really doing much else. ‘Forever Blind’ returns to the forefront of heavy, chugging patterns and utterly frenzied patterns that blast along at more traditional speed-drenched rhythms and bombastic drumming throughout the finale that makes for a standout highlight track. Second ballad ‘Leaving All Behind’ offers even softer and more romantic patterns with simplistic elements and orchestral patterns that brings the keyboards to the forefront against the guitars as the gentle rhythms continue on for a much more engaging and up-tempo effort than the previous effort. ‘Fallen Angel’ and ‘Schizo-head’ tread into the cinematic realm with surging keyboards and simple mid-tempo riffing that relies more on dramatic arrangements as the pounding rhythms and harmonious cinematic melodies make for fun and rather engaging efforts. ‘Dreamer / Breaking Dawn’ mixes the ballad and mid-tempo crunch styles nicely with soft, gentle melodies and dramatic arrangements that contain romantic rhythms alongside the bombastic keyboards which is nice but does feel way too dragged out at it’s current length. ‘Soulcollector’ brings some electronic influences into the dramatic cinematic rhythms and pounding arrangements as the crushing riff-work and swirling keyboards combine into a fine operatic whole for a rather enjoyable offering. ‘The Healer’ offers the heaviest variation yet with the faster rhythms and thumping patterns offering plenty of cinematic-styled outbursts alongside the softer, gentle melodies and simple keyboards only with a lessened impact against the driving orchestral rhythms for a rather enjoyable offering. Finally, the final ballad and album-closer ‘Now’ uses the soft strumming and gentle melodies for a romantic guide through the solid rhythms and engaging vocal melodies that carries on into the final half for a solid if completely inappropriate lasting impression that drops this a notch. Otherwise, this here is a solid addition to the genre overall. (Don Anelli)

(Sliptrick Records - 2015)
Score: 75

http://www.angelseed.info/

Årabrot - The Gospel

#PER CHI AMA: Noise Rock, Swans, Killing Joke
Settimo capitolo delle vicende della cult band norvegese capitanata da Kjetil Nernes, ed è uno di quei capitoli chiave che riescono a definire e delineare una storia consegnandole spessore e dignità di grande romanzo. Concepito durante la convalescenza dopo un intervento per rimuovere una forma maligna di cancro alla gola, 'The Gospel' è forse il lavoro più ambizioso ed articolato di Nemes, quello dove lo spettro del male e il racconto della lotta per sconfiggerlo sono protagonisti assoluti, eppure è quello più accessibile dal punto di vista musicale. Prodotto da Steve Albini e registrato in parte nei suoi Electrical Studios e in parte in una vecchia chiesa sconsacrata nella foresta di Dalam, in Svezia, 'The Gospel' risuona di echi solenni, minacciosi e disturbanti, anche grazie alla maestria del notevole cast di musicisti coinvolti, tra cui spiccano Stephen O’Malley dei Sunn O))), Andrew Liles (Current 93, Nurse With Wound) e Ted Parsons (ex-Swans e Killing Joke e ora componente dei Prong). La furia provocatoria e l’incompromissorio noise rock a cui gli Årabrot ci avevano abituato vengono qui in qualche modo stemperati nelle loro espressioni più dirette ma rimangono intrappolate in un monolite nerissimo, grazie ad un insieme emotivo e creativo che suona ora nodoso e intrecciato come una corona di filo spinato, ora vellutato e ricco di avvincenti contrasti. Nonostante una valenza così intima e personale, 'The Gospel' è il disco dove la varietà di stili ed atmosfere è forse più marcata, dai ritmi marziali della titletrack, alle trame oscure e criptiche alla Swans di “I Run”. Il tono generale è più epico e raffinato, intriso di riff e intuizioni armoniche davvero irresistibili come la meravigliosa “Tall Man”, e che trovano la loro sublimazione nei dieci minuti della coraggiosa divagazione doom di “Faustus”, per poi grondare di disperazione e dolore fino alla liberazione finale (“Rebekka”). Gli Årabrot tornano con il loro disco allo stesso tempo più scuro e conciliante, e forse, in definitiva, il loro lavoro migliore, quello che potrebbe consegnare loro un posto di primissimo piano nella scena noise rock mondiale. Nella classifica dei migliori dell’anno 2016 si guadagna un posto ai piani alti. (Mauro Catena)

(Fysisk Format - 2016)
Voto: 80

https://arabrot.bandcamp.com/album/the-gospel

Naat - S/t

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal strumentale
Argonauta non si stanca mai di veleggiare verso i mari più impetuosi e sconosciuti. Stavolta sono approdati ad un’isola nel bel mezzo dell’oceano dal nome NAAT. Si tratta di quattro talentuosi ragazzi genovesi con in testa l’abisso. La proposta sludge post metal strumentale convince e affascina, a cominciare dalla copertina del disco: un braccio senza il corpo che gocciola sangue su una città in rovina. Lo sfondo è giallo ocra, come se fosse un’istantanea sbiadita ritrovata sotto un cumulo di macerie. Sembra che ci sia stato un disastro senza precedenti che ha cancellato ogni ombra di civiltà e di vita dalla faccia del pianeta. Probabilmente una guerra causata dall’uomo che con la sua avidità e cupidigia è riuscito (finalmente) ad autodistruggersi. Rune e frattali poi decorano il retro ed il cd, scelta sobria ed elegante che va a conferire all’opera quell’aria di mistero proprio dell’abisso. E proprio di abisso vorrei parlarvi perché penso sia la chiave di questo splendido omonimo disco di debutto. Fate attenzione a premere play, con il pezzo di apertura “Vostok” verrete subito catapultati nel fondo più oscuro dell’oceano dove solamente poche forme di vita riescono a sopravvivere. In un ambiente così inospitale manca l’ossigeno e la pressione è talmente forte da far implodere qualunque cosa si avventuri così in profondità. Ah e ovviamente, il buio è totale. “Falesia” continua l’esplorazione tra grotte sotterranee senza uscita e mostruose creature di cui l’uomo ne ha sempre ignorato l’esistenza. Con “Temo”, traccia sonica intermedia, si torna per un momento sulla superficie devastata della terra: auto, case, fabbriche, palazzi, tutto dimenticato, tutto tramutato in ruggine, calcinacci e polvere. Un polvere così densa da ostruire le vie aeree di qualsiasi creatura che respiri, da ostacolare la luce del sole privando anche le piante del loro nutrimento vitale. L’acqua offre l’unico riparo possibile da quell’aria malsana e dalla terra avvelenata e il baratro profondo dell’oceano è il solo rifugio che la vita può trovare. “Baltoro” è il mio pezzo preferito del disco, sette minuti di cinica lucidità senza tregua, tra slanci atmosferici vicini al black e riff sludge inconsulti, incastrati e ansiogeni. Una song che rimane e che lascia la voglia di vedere come la band riesca a trasporre tutte queste sensazioni dal vivo. Segue “Bromo”, altra traccia di passaggio stavolta un po’ più lunga che ha il proposito di traghettarci all’ultimo disperato assalto dei due pezzi “Dancalia” e “T’Mor Sha”. Il primo è più destrutturato, con un incedere cadenzato e suoni diradati che si addensano dopo cinque minuti per tornare poi a svuotarsi; il secondo, decisamente più violento, racchiude tutta la rabbia e la potenza dei NAAT ma anche l’attitudine all’arrangiamento e alla composizione sempre originale e mai scontata, la degna chiusura dell’opera. Un’ultima riflessione sul progetto riguarda la sua natura strumentale, per molte band di questo tipo la mancanza di una voce si fa sentire ma non in questo caso: gli intrecci fantasmagorici di chitarre e le ritmiche ancestrali e dionisiache, riescono infatti a sostenere e a completare la musica senza bisogno di aggiungere altro. Sarà forse perché sul fondo dell’abisso il suono non si propaga e gridare fino a lacerarsi le corde vocali non servirebbe a rompere il silenzio che nel profondo regna sovrano. Oppure sarà che in questo disco la volontà di potere e controllo dell’uomo ha portato la nostra specie ad una fulminea autodistruzione; quindi niente più civiltà, niente più uomini e niente più voce. (Mattei Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 80

https://naat.bandcamp.com/