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giovedì 3 settembre 2015

Round 7 - No Excuse

#PER CHI AMA: Hardcore Old School
I vicentini dell'East coast sono tornati con un nuovo album e questa volta prodotto dall'Indelirium Records, label italiana che da più di dieci anni si occupa di rock, punk e affini. Avevamo lasciato il quartetto con il loro EP e il precedente album, aspettando di vedere cosa mai potesse accadere e tra i vari live effettuati in giro per l'Italia, i ragazzotti hanno trovato il tempo per scrivere nuovi pezzi. 'No Excuse' riprende il buon vecchio hardcore in stile NY, con dodici tracce brevi e cariche come la tradizione vuole. Quindi nessuna evoluzione o voli pindarici verso suoni di più recente fattura (leggasi post-harcore, metalcore e quant'altro), ma tanta tradizione suonata con perizia e cognizione di causa. Adrenalina a fiumi quindi, che esplode in brevissimo tempo e vi farà riprendere in mano il jewel case (ottima la grafica) per controllare che si tratti veramente di un album italiano. Il cd apre con l'omonima traccia e subito i riff di chitarra vi investiranno come un treno in procinto di deragliare. La batteria e il basso creano un tappeto ritmico che in due minuti e mezzo circa annienteranno il vostra aplomb da brava persona e vi trascineranno in un headbanging liberatorio. Arrangiamenti ben fatti, nulla è lasciato al caso e nonostante la breve durata del brano, la band non si limita a usare un unico riff e togliersi il pensiero. I cori sono una perla perché rimarcano i cambi e aggiungono maggiore potenza al brano, come ce ne fosse bisogno. Bel brano che punta sull'impatto sonoro e meno sulla velocità d'esecuzione. I Round 7 vogliono mostrarci che ci sanno fare anche quando i bpm aumentano e allora passiamo a "Built on Lies", una sorta di lama impazzita che fa giustizia e ci libera dagli individui falsi che popolano il mondo. La batteria galoppa velocissima e il tocco sulle pelli e sui piatti è sempre preciso come un bisturi mentre il basso tesse le sue linee e fa capolino nell'epico break a metà brano. Le sei corde sono lodevoli, con i riff e gli arrangiamenti annessi a suonare una goduria per le orecchie, senza mai scadere nel banale e mantenendo sempre alto il livello di adrenalina. Grazie ai cori, il brano si arricchisce e guadagna in compattezza, ben fatto. "We Are" è inizialmente il brano meno hardcore del cd: ritmica e fraseggio distesi e duri, quasi ossessivi e ipnotici, ma al segnale concordato, si scateni l'inferno. La velocità raddoppia, gli strumenti s'infiammano e via come non ci fosse un domani. La voce porta con sé tutta la rabbia e la potenza dell'hardcore old school, grazie al timbro maturo; inoltre sa quando e come intervenire nel brano. Il pezzo migliore a mio avviso, meglio strutturato e dove la band è riuscita a concentrare tutto il proprio repertorio tecnico e artistico in poco più di tre minuti. I Round 7 confermano di essere un gruppo con le idee chiare, con il giusto bagaglio tecnico e pronti a far parlare di sé, soprattutto ora che sono sostenuti da un'etichetta solida e produttiva come la Indelirium Records. Aspettiamo con ansia i prossimi lavori, nel frattempo vi consiglio caldamente di andare a sentirli dal vivo, non ve ne pentirete. Dimenticavo: l' ultima traccia "Friends" è un omaggio a tutti gli amici che supportano la band e condividono il loro stile di vita basato sulla musica. Settantotto secondi dove ogni verso è cantato da persone diverse, elementi della band e non, compreso qualcuno che si è trovato casualmente in studio quel giorno! (Michele Montanari)

(Indelirium Records - 2015)
Voto: 80

martedì 1 settembre 2015

Hercyn - Dust and Ages

#PER CHI AMA: Post Black/Folk, Agalloch
Non mi nascondo, gli Hercyn li ho osannati in occasione del loro demo cd, 'Magda', un po' meno per lo split album con i There Roya, ma li stavo aspettando al varco. Finalmente esce in questi giorni il loro debut album, 'Dust and Ages' per cui sono assai curioso di saggiare lo stato di forma del quartetto del New Jersey, che tanto mi aveva impressionato per quel sound in stile 'The Mantle' degli Agalloch. Quattro i brani a disposizione, anche se il terzo è in realtà una lunga suite costituita da cinque momenti. Si parte con "Dust", pezzo semi strumentale di quasi quattro minuti che funge più che altro da intro, ove si subodora già la vicinanza ai mostri sacri dell'Oregon. È con "Of Ruin" che inizio a godere: chitarra acustica ed elettrica procedono sincrone, legate da un invisibile filo che serve a donare quell'impercettibile aura magica, di cui avverto 'Dust and Ages' esserne ampiamente avvolto. I suoni po' ovattati sono quasi un must nel genere, le vocals di Ernest Wawiorko sono molto simili a quelle di John Haughm degli Agalloch, ma poco importa. La musica degli Hercyn, pur essendo inevitabilmente derivativa da quella dei ben più famosi colleghi, preserva intatto quello spirito neofolk che avevo saggiato ai loro albori. I quattro musicisti partono poi con le tipiche incursioni malinconiche che si muovono tra il post black e il post rock. Lungo i 14 minuti abbondanti di "Storm Before the Flood" se ne sentono di tutti i colori: si parte da un approccio decisamente brutale, ma poco a poco, la band va in cerca della propria essenza naturistica e la struttura tipicamente black del prologo, lascia spazio ad un mid-tempo più ragionato e onirico, anche se a cadenza puntuale, il sound sfocia in rabbiose galoppate che trovano presto la pace in inebrianti break acustici dal forte sapore rock. A metà brano, e siamo al minuto 7'40" è la splendida abbinata chitarra acustica/basso a solleticare la mia fantasia, consentendomi l'abbandono a soffuse atmosfere rilassante. Ma da li a poco, ecco il rutilante incedere dell'armeria pesante a spezzare ancora una volta l'incantesimo con un riffing epico, che tuttavia non dilapida quello status emotivo che si era fin qui addensato nella mia anima e che troverà peraltro modo di accrescere anche nello spumeggiante assolo di questa lunga song. "Ages" chiude ahimè il debutto degli Hercyn, con 4 minuti e mezzo di delicati arpeggi e il soffice percuotere della batteria. Siamo alla fine di questa prima avventura ufficiale targata Hercyn, ma ne sono certo, sentiremo ben presto parlare di loro. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80

Shepherds of Cassini - Helios Forsaken

#PER CHI AMA: Progressive/Alternative Post Metal, Tool, Porcupine Tree
Quasi due anni fa, facevo conoscenza con un interessantissimo combo proveniente dalla lontana Nuova Zelanda, i Shepherds of Cassini. Il quartetto di Auckland torna oggi sulla scena con un album nuovo di zecca e con un sound come al solito, ricco di contenuti peculiari. Poche le tracce a disposizione dei nostri (6) anche se la durata del disco si assesta sui 60 minuti. Le danze si aprono con la strumentale "Raijin", song che evidenzia la natura post metal a livello delle chitarre, costantemente influenzate da una sorprendente vena mediorientale, confermando quanto di buono già avevo avuto modo di ascoltare nel debut album. Il sound è comunque un saliscendi emozionale già da quello che dovrebbe essere il prologo di questo 'Helios Forsaken'. La seconda traccia è un coro di soli 45 secondi che ci introduce alla lunga suite "The Almagest". Quello che balza subito alle orecchie è una proposta che si muove tra il rock progressivo (alla Porcupine Tree), un che dei System of a Down (soprattutto a livello vocale), la già evidenziata vena orientaleggiante, echi dei Tool, e numeri da circo, affidati all'imprevedibile violino di Felix Lun, alle pulsazioni spaziali del basso di Vitesh Bava, ai funambolici giri di chitarra di Brendan Zwaan e all'esplosivo drumming di Omar Al-Hashimi. I quindici minuti della traccia ci conducono in un lungo viaggio che si sviluppa lungo tre sottotracce che abbracciano il prog, l'alternative rock, ovviamente il post metal e nell'ultima parte, quella che si spinge peraltro verso lidi più estremi, anche una vena rock anni '80, stile King Crimson. È l'ipnotico suono della batteria a farla da padrona nella successiva "Mauerfall", con un inizio in chiaroscuro, lento, suadente, ammiccante e atmosferico, con il basso in sottofondo a dispensare brividi a non finire. Il pezzo è quasi totalmente strumentale; giungono infatti a metà brano due urla sguaiate e la musicalità dei nostri vira prepotentemente verso lidi di tooliana memoria che ci tengono compagnia per una manciata di minuti prima di dirigersi verso un post rock malinconico, nella consueta girandola di tenui colori che gli Shepherds of Cassini sono in grado di infondere nella loro musica, e che ci condurranno a un finale dalla musicalità etnico-tribale. "Pleiades' Plea" inizia in punta di piedi, con la voce di Brendan a deliziarci in compagnia di chitarra e violino. Il brano è un pezzo rock molto delicato in cui assurge al ruolo di protagonista, oltre alla voce del vocalist, l'indemoniato e carismatico violino di Felix. Il finale, musica stratificata inebriante, è affidato a una roboante ritmica che esalta le caratteristiche tecniche dell'act oceanico. Gli ultimi 14 minuti e trenta sono di competenza della title track, song in cui l'approccio post metal torna a farsi sentire più forte, la voce si materializza addirittura in una veste growleggiante, con le chitarre sempre più pesanti. Ma è la solita manciata di minuti che devia come una scheggia impazzita che trova puntualmente modo di volgere verso mille altre sonorità: un rock mediorientale, un break post rock con la voce di Brendan tornata pulita e sofferente, schizofrenici e sincopati cambi di tempo con il vocalist ancora mutevole nella sua performance. E poi la calma, che non preannuncia ovviamente nulla di buono. Il sinistro violino ci prepara al gran finale che non tarda a venire, con divagazioni ipnotiche, suoni oscuri, aperture ariose, growling vocals e tutto e il suo contrario! Pazzeschi! (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85

lunedì 31 agosto 2015

Defleshed - Reclaim the Beat

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash
Quando c'era da spaccare, i Defleshed non si tiravano certo indietro. Il quinto lavoro degli svedesi (prodotto da Daniel Bergstrand - In Flames, Meshuggah, Strapping Young Lad) si conferma infatti come sempre furioso con dodici macigni, di breve durata (36 minuti) ed elevata intensità, a travolgermi, violentando le mie orecchie e frantumando le mie ossa. Il rullare spaventoso della batteria s’insinua nella mia testa, rischiando di mandare in frantumi il mio sistema nervoso. Una chitarra pesantissima sorregge il massacro prodotto dalle pelli di Mathias Modin, che ha fatto un lavoro mostruoso su questo 'Reclaim the Beat', album oramai del 2005, ma sempre attuale nei suoi suoni furibondi. La voce di Gustaf Jorde, si conferma poi, una delle migliori nel genere. A livello di adrenalina rilasciata e di violenza profusa, non c’è nulla da discutere sul cd dei Defleshed, l'ultimo prima dello split definitivo dell'act di Uppsala. L’unica pecca è che, come spesso accade per il death puro, i brani si assomigliano un po’ tutti. Ho dovuto, infatti, attendere l’ottava traccia, “Red hot” e la successiva “May the Flesh be With You”, per percepire un qualcosa di leggermente diverso dal resto dell’album: un accattivante (per favore passatemi il termine) chorus, un timido assolo e un differente refrain, caratterizzano infatti queste due songs. Per il resto, è il classico disco trita budelle di uno degli act più dirompenti della scena death metal. Solo per amanti del genere. (Francesco Scarci)

(Regain Records - 2005)
Voto: 65

Stin Scatzor - Industrogression

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Industrial, Ministry, Killing Joke
Grazie all'etichetta polacca Black Flames Records ha visto la luce l'album degli Stin Scatzor, terzo ed ultimo capitolo di una trilogia sulla musica industriale, cui il gruppo belga diede inizio nel 1998 con l'uscita del minicd 'Industronic'. Per chi non avesse grande familiarità con la musica degli Stin Scatzor, vi basti sapere che la mente del progetto, Stefan Bens, vanta una carriera musicale ultra decennale, sviluppatasi attraverso la gavetta dei demotape e legata da un rapporto di stretta amicizia con Johan Van Roy dei Suicide Commando (con il quale Stefan fondò anche il progetto Lescure 13 agli inizi degli anni '90). Ispirato dal suono di band come Front 242 e Klinik, il musicista belga giunge solo nel 2000 alla pubblicazione del primo full-length 'Industrology', un album che mediante l'appoggio della Out of Line riesce subito ad attirare l'attenzione sul progetto Stin Scatzor, descritto dai fan e dalla stampa come uno degli act più aggressivi all'interno del panorama industrial/EBM. Dopo l'approdo alla Black Flames Records, Stefan uscì nuovamente allo scoperto con il terzo lavoro 'Industrogression', album segnato dall'ingresso in formazione del chitarrista Kris Peeters. Le chitarre assumono dunque un ruolo basilare nell'economia dei nuovi pezzi, arricchendo notevolmente l'originaria ossatura elettronica e spostando l'anima compositiva del gruppo sul terreno del "crossover". Per quanto quest'ultimo termine possa apparire desueto, è indubbio che nomi come Ministry, Nine Inch Nails e Killing Joke abbiano rappresentato dei reali punti di riferimento nella coesione dei brani ivi contenuti, i quali si mantengono in bilico tra le incursioni di synth acidi e il robusto sostegno di granitici riff di chitarra. A completare questa proposta musicale dall'identità ibrida, giunge infine la voce abrasiva di Stefan, che nei testi canta rabbiosamente di industrie chimiche, guerre nucleari e di un'umanità al suo capolinea. Tra i brani più indovinati posso certamente segnalare "It Doesn't Matter", il remake di "Vernix Caseosa" e "Morphine", ma non tutto il cd si mantiene sullo stesso livello, evidenziando alcune cadute di tono in episodi dal taglio un po' grossolano come "(I Know) You Dislike Me" e "Sweet Hell". In conclusione un buon lavoro cui vale la pena dare una chance ma, si presti attenzione, nulla di fondamentale. (Roberto Alba)

(Black Flames Records - 2003)
Voto: 65

Cephalic Carnage - Anomalies

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Grind/Techno Death
Dodici brani suddivisi in 99 sottotracce per un totale di 45 minuti di musica malsana. 'Anomalies' è il quarto album, datato 2005 degli statunitensi Cephalic Carnage. La band proveniente da Denver (Colorado) sfodera l'ennesima prova eccellente, confermando (e non c’era il bisogno) di essere una delle band più creative e camaleontiche nel loro genere, un grind folle, unico, originale e senza compromessi. 'Anomalies' rappresenta un viaggio, un viaggio nella mente dei pazzi criminali che hanno concepito questo sound, un sound capace di annientare ogni nostra sicurezza e di stravolgere il vostro (e il mio) concetto di musica. Ci troviamo di fronte ad un mix di ipersonico e ipertecnico grindcore, granitico death’n roll miscelato ad un pachidermico doom e ad altre influenze non propriamente metal (jazz e punk su tutte). Il lavoro è un piccolo gioiello: pezzi come “Piecemaker” e “Dying will be the Death of me” piaceranno sicuramente anche a chi con questa musica non ha molta confidenza. Una sezione ritmica devastante e altamente complicata si abbina a ottime vocals (che possono rievocare i vari Lars Goran Petrov, Barney Greenway, Ozzy Osbourne, si avete letto bene!!), a una perizia tecnica mostruosa, con richiami dai folli Pan.thy.monium (creatura di Dan Swano), ai The Dillinger Escape Plan o alla lucida follia di Mike Patton; un’ottima produzione contribuisce a rendere quest’album un grande disco. Non so se sia per l’influenza dell’uranio contenuto nel granito delle Montagne Rocciose o cos’altro, fatto sta che ci troviamo di fronte a dei ragazzi che sanno il fatto loro, che hanno partorito un lavoro di grande valore, che farà sicuramente nuovi proseliti. Forse i puristi del grind storceranno un po’ il naso a questa mia recensione, vi invito, ad ogni modo a dare un’occasione a questo gioiellino, pregandovi di andare oltre ad un superficiale ascolto e addentrarvi nella psiche malata di chi ha prodotto questo strumento di morte. La “Carneficina” sta per iniziare... (Francesco Scarci)

(Relapse Records - 2005)
Voto: 90

sabato 29 agosto 2015

The Entity - Salt

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Goth-Rock, Katatonia
Ancora un tuffo nel passato per scoprire quel che fu un discreto esordio datato 2003: sto parlando dei norvegesi The Entity, band originaria di Bergen che vantava già all'epoca del debutto un seguito apprezzabile in madre patria e si è affacciata al mercato discografico con l'EP 'Salt'. La biografia citava come punti di riferimento gruppi quali Anathema, A Perfect Circle e Katatonia, descrivendo in modo abbastanza calzante il genere suonato dai nostri, ovvero un gothic-rock malinconico tinto di tenui colori autunnali. Il riferimento ai gruppi appena menzionati costituisce una base costante cui i The Entity sembrano essersi ispirati nella stesura dei brani ed è in particolare il nome dei Katatonia ad emergere palesemente durante l'ascolto del mini cd. Peccato che quest'ultimo aspetto rappresenti anche il limite più evidente della band, che pur offrendo un'esecuzione ineccepibile, mette a nudo la natura ancora troppo derivativa del proprio suono. In ogni caso i The Entity non sono un gruppo da bocciare e 'Salt' va inteso soprattutto come un punto di partenza dal quale sviluppare un'identità musicale propria, considerata la giovane età dei sei musicisti. Le premesse non mancano, a partire dalle qualità canore del cantante Håkon Viken, abile nell'interpretare in maniera sempre appropriata l'umore momentaneo della musica e nel modulare la voce su un'ampia gamma di tonalità. Non è da meno la sezione strumentale, che vede affiancare alle classiche partiture rock, l'uso del piano e degli strumenti ad arco. Si ascolti per esempio la traccia di apertura "Salt", un ottimo esempio di come il violoncello e il violino si integrino perfettamente nella struttura musicale e ne arricchiscano l'anima melodica. Da ascoltare anche la versione acustica dello stesso brano e l'ottima cover dei Seigmen "Nemesis", in cui il gruppo dà veramente il meglio di sè, dimostrando di saper anche scuotere con decisione l'ascoltatore, quando necessario. Peccato solo che questo rimanga un episodio isolato della discografia dei nostri, scioltisi dopo l'uscita di questo EP. Un peccato! (Roberto Alba)

(Rage of Achilles - 2003)
Voto: 65

https://www.facebook.com/theentitynorway

Toter Fisch - Blood, Rum & Piracy

#PER CHI AMA: Humppa Metal, Finntroll, Korpiklaani
L'humppa metal è una danza tipica finlandese discendente dalla polka, che contraddistingue gruppi quali Finntroll o Korpiklaani. Questa volta è invece una band di Tours a proporci il proprio carico di rum e folk metal. Si tratta dei Toter Fisch (ossia pesce morto), che escono con il loro EP di debutto, in un elegante digipack. Cinque i brani a disposizione, che sortiscono già una certa sorpresa con le scaramucce da bar della opening track, "Tortuga", dove tra un sorso di birra e qualche bicchiere rotto, s'inseriscono la melodia di una fisarmonica, il roboante fragore delle chitarre e il grugnito animalesco del vocalist, in una vorticosa danza metallica in compagnia di pirati di serie B. Il viaggio per i Caraibi dei Toter Fisch inizia dall'isola di Tortuga alla ricerca dei "Kings of the Sea", di cui si narra nella seconda song. Lo stile rimane sempre quello, anche se più cadenzato e con un break centrale in cui è possibile anche udire il suono del mare e per questo la song assume anche una certa malinconia di fondo nella linea delle chitarre. La vena malinconica dei nostri si acuisce quando i nostri pirati decidono di fermarsi su un'isola e godersi, con in mano un ottimo bicchiere di rum, l'incantevole tramonto rosso fuoco descritto dalla piacevole melodia strumentale di "Sunset with Rum". È tempo di salpare e affrontare "A Night Over the Ocean", la song probabilmente più cattiva e oscura del lotto, che continua tuttavia a mantenere intatto lo spirito folkloristico dell'act transalpino, contraddistinto dall'uso massivo della fisarmonica e di quelle melodie tanto care ai Finntroll. L'ultima traccia, "La Buse", è verosimilmente (non ho i testi però) dedicata al pirata omonimo, il cui soprannome, la poiana, divenne il sinonimo della rapidità fulminea con cui si gettava sulle navi da conquistare. La traccia propone un riffing bello pesante (a tratti quasi doom) e un growling profondo, stemperati dallo scanzonato suono della onnipresente fisarmonica. Bella sorpresa questa dei pirati Toter Fisch e del loro "pirate metal": con 'Blood, Rum & Piracy' mi ha fatto trascorrere una ventina di minuti a navigare con la fantasia, tra gli incantevoli porti dei Caraibi, alla ricerca di qualche scrigno perduto. (Francesco Scarci)

giovedì 27 agosto 2015

The Elysian Fields - Suffering G.O.D. Almighty

BACK IN TIME: 
#PER CHI AMA: Swedish/Hellenic Death, Dissection, Rotting Christ, Dark Tranquillity
'Suffering G.O.D. Almighty' è stato l'ultimo album dei greci The Elysian Fields, datato ormai 2005, poi il silenzio. Nell'ultimo periodo stanno uscendo re-issue dei primi lavori del combo ateniese, ma preferisco raccontarvi dell'ultima fatica di uno dei gruppi storici della scena ellenica, che ho seguito fin dall'esordio, 'Adelain', risalente addirittura al 1995. A distanza di quattro anni da '12 Ablaze', il duo composto da Michael K. e Bill A. riparte dallo swedish death metal marchio di fabbrica della band (un ipotetico mix tra Dark Tranquillity e i Dissection), arricchendolo però, delle classiche atmosfere tipiche dell'influsso mediterraneo (Rotting Christ docet) e di una componente techno-elettronica fino ad ora mai preponderante nell’economia dei dischi dell'ensemble. Gli interventi del synth di Michael divengono quasi l’elemento portante dell’intero album con il sound che diventa ancor più accattivante, non fosse per una produzione non proprio brillante, che penalizza non poco il risultato finale. Ad ogni modo, i nove brani che costituiscono 'Suffering G.O.D. Almighty', scorrono via piacevolmente, alternando momenti più tirati, con chitarre che costruiscono trame fantasiose ed esplosive (che ricordano i nostrani Edenshade), ad altri più cadenzati, dove sono gli arrangiamenti elettronici a farla da padrone. I momenti death-doom si sono notevolmente ridotti rispetto al passato. Gli Elysian Fields sono maturati lungo gli anni e lo dimostrano gli spunti originali ed intelligenti che costellano questo disco. I vecchi fan della band non saranno rimasti sorpresi di fronte alla classe e all’eleganza del combo dell'Attica, capace di stupire in continuazione, alternando montagne di riff, breaks acustici, parti sinfoniche e semplici tastiere al limite del prog. Se proprio devo trovare un difetto a 'Suffering G.O.D. Almighty' è l’assenza di un batterista di ruolo, sostituito dall’artificiale e freddo programming di Michael. Bel balzo qualitativo a cui non è corrisposta l'attenzione che la band realmente meritava, un peccato. Non è comunque troppo tardi per dare una chance a questo album. (Francesco Scarci)

(Black Lotus Records - 2005)
Voto: 80

Norilsk - The Idea of North

#PER CHI AMA: Doom/Black, Celtic Frost
La Hypnotic Dirge Recors sarà anche rimasta in standby per un po' di tempo, ma dopo che le attività sono riprese presso l'etichetta canadese, le cose sono andate migliorando con una serie di uscite interessanti: i Verlies, gli Atten Ash e questi Norilsk. Curioso come il nome derivi da quello di una città siberiana, e quando penso alla Siberia, associo inevitabilmente il tutto a gelidi suoni funeral doom. I canadesi Norilisk non vanno proprio cosi distanti dal genere. Lo attesta il riff posto in apertura a "Japetus", che introduce il sound sofferto del duo del Québec; diciamo che rispetto al doom tradizionale o al funeral doom dell'est Europa, la proposta dei nostri rimane un po' più atmosferica ma assai complicata da digerire. La musicalità della band non è di cosi facile assimilazione, data una certa dissonanza di fondo nelle linee melodiche e dalla presenza di un avvolgente manto di malignità che pervade la song (e il disco), anche a livello vocale, con lo screaming acido di Nicolas ad alternarsi al suo malefico growl. In "Planète Heurt" ecco il rallentamento tenebroso che stavo aspettando, e a salire quella sensazione di respiro affannoso dovuto a un luogo angusto che degenera in uno stato d'ansia. Il senso di asfissia va peggiorando man mano che la song procede a rallentatore, per poi dissolversi improvvisamente quando uno splendido assolo restituisce quella serenità che sembrava andata perduta. In "Throa" il sound malsano dei nostri, qui dotato di una vena di Celtic Frost memoria, macella non poco i nostri timpani per la sua monoliticità di fondo, interrotta fortunosamente da "La Liberté Aux Ailes Brisées", song di più ampio respiro, soprattutto per la freschezza delle sue chitarre. Cosa attendersi invece da un brano intitolato "Nature Morte"? Poco in realtà, se non suoni che potrebbe accompagnare la visione di un frutto morso lasciato su un tavolo, o meglio, un teschio abbandonato. Il disco prosegue nella sua compattezza con l'orrorifica "Potsdam Glo", un breve pezzo strumentale e la title track, "The Idea of North", che lungo i suoi nove minuti, sfodera probabilmente la miglior performance del duo nord americano, offrendo un doom sorretto da una bellissima e suadente chitarra black che impreziosisce il brano con una certa vena malinconica, in quella che è la song più completa di questo aspro e indigesto lavoro, capace di incutere timore ma anche grande curiosità. La conclusione del disco è affidata a "Coeur de Loup", altra traccia costituita da suoni cupi e a tratti teatrali nella sua manifestazione vocale. Decisamente ardui da affrontare, i Norilisk in questo disco aprono nuovi orizzonti sonori nell'ambito doom. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2015)
Voto: 75

Obese - Kali Yuga

#PER CHI AMA: Stoner, Queens of the Stone Age
Gli Obese sono una band di recente formazione, proveniente dall'Olanda più precisamente dalla città di Utrecht. Il quartetto ha esordito l'anno scorso con il singolo "The Lion", accompagnato da un bel videoclip che ha consentito alla band di entrare con stile nel folto gruppo di band stoner che popolano l'attuale scena. Questo, insieme ai live, ha stimolato l'interesse di Argonauta Records che ha pensato bene di non lasciarsi sfuggire un'occasione così appetitosa. Detto fatto, l'act dei Paesi Bassi è entrato in studio e ha sfornato l'album 'Kaly Yuga', nove tracce di duro stoner con influenze sludge, che ben si abbinano al palato dei musicofili più appassionati del genere. Il packaging è un digipack semplice, ma graficamente appagante per via di un design dallo stile neoclassico e comunque essenziale anche per quanto riguarda le informazioni sulla band. In concomitanza al lancio dell'album, l'ensemble ha affrontato un breve tour europeo, come dire, alla vecchia maniera con tanto di furgone sgangherato (e annessa foratura di una gomma durante il viaggio), parecchi chilometri macinati, ettolitri di birra e tanto sudore sui palchi dei piccoli e grandi live club. Su Internet trovate anche un video documentario che mostra simpatici retroscena e alcuni luoghi suggestivi incontrati per la strada. Passando alla musica, 'Kali Yuga' apre (sarebbe meglio dire esplode) con "Enion", una martellata doom che mette in chiaro subito il taglio sonoro degli Obese. Chitarra pesante, ruvida e distrutta a livello molecolare dall'uso massiccio delle distorsioni e riplasmata insieme al basso per devastare e lasciare intontiti davanti al muro di decibel erto. Ritmica al limite del doom, impreziosita dal lavoro curato del batterista che da sfogo alle sue doti tecniche. Il vocalist rincara la dose sfruttando il proprio timbro vocale graffiante e maturo, quasi un growl melodico che aumenta l'impatto sonoro e conferma il taglio tenebroso del brano. Verso la fine, la chitarra si diletta in riff più eleganti e si comincia a sentire l'influenza dei QOTSA, che verrà confermata dai successivi brani. "The Bitter Blast" infatti sfrutta l'appeal della band americana per poi trasformarlo in un mix sonoro più cupo. La chitarra ovviamente contribuisce molto in questo frangente, si sente anche il buon lavoro a livello di arrangiamenti, mentre l'assolo a tre quarti di brano, allenta la tensione e regala un momento di positività all'ascoltatore. Tutto sarebbe stato vano se la sezione ritmica non fosse all'altezza, ma basso e batteria viaggiano sempre appaiati come il pilota di sidecar e il suo fedele passeggero. Bellissimo il finale in crescendo, che lascia i riff stoner alle spalle e si butta a capofitto in un meraviglioso tripudio sludge. "Red as the Sun" è il brano utilizzato per il recente video della band e la scelta è di quelle giuste, con la canzone che esprime al meglio l'essenza del quartetto olandese. Groove a palate, riff che cavano il fiato dai polmoni e una ritmica trascinante che rende il brano ossessivo. Si apprezza anche la qualità della registrazione, non eccessivamente hifi e che segue il filone vintage del genere. Un esordio ben riuscito, gli Obese riescono bene nel loro intento senza eccedere in sperimentazioni, ma andando al sodo ovvero scrivendo dei pezzi che si fanno apprezzare per la loro carica energetica e per l'impatto ruvido che avrà sulla vostra pelle da rocker. (Michele Montanari)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 75

Path of Desolation - Soaked Jester

#PER CHI AMA: Melo Death, Dark Tranquillity, Insomnium
La Svizzera è diventata ormai un calderone ribollente di metallo lavico: abbiamo abbracciato negli ultimi tempi il post metal, noise, punk, post rock, black e sludge, mancava solo il death metal, eccomi accontentato. I Path of Desolation vengono da Losanna e propongono un death carico di groove, di derivazione scandinava. Solo tre però i brani a disposizione di questo mini cd, che apre con delicati tocchi di piano in "Rest in Your Fears", ma sontuosamente cresce e divampa in un incedere oscuro che richiama per certi versi gli Insomnium in una versione un po' più brutale e variegata, come dimostra la seconda parte della opening track, un intreccio di sonorità al limite della schizofrenia e dalla quasi assenza di banalità, tuttavia non cosi facile da assimilare. Con la title track ci lasciamo conquistare da squisite melodie e dal dualismo vocale tra il growling acido di Dave e le vocals pulite, decisamente meno convincenti, del bassista Grant. Ciò che emerge e mi esalta, è comunque una certa pulizia delle linee di chitarra che ben si amalgamo con le ariose tastiere e anche una ventata di freschezza nelle idee del gruppo elvetico. Con la conclusiva "The Word", si sprecano i richiami ai Dark Tranquillity, anche se il ritmo è decisamente più cadenzato; peccato solo che a un certo punto compaia quasi dal nulla, una anonima voce femminile che prova a duettare col cantato feroce del frontman. Esperimento bocciato, semplicemente perché la signorina Anna Murphy non rivela grosse potenzialità canore. Alla fine 'Soaked Jester' si dimostra comunque un debut EP ricco di spunti e idee non proprio da censurare, anche se dalla durata troppo risicata; una song addizionale non avrebbe certo guastato, e soprattutto la mia valutazione finale ne avrebbe tratto beneficio. Da tener sotto traccia. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 65