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lunedì 13 aprile 2015

NevBorn - Five Horizons

#PER CHI AMA: Sonorità Post, Cult of Luna, The Ocean
Della serie piccoli Cult of Luna crescono, ecco arrivare dalla Svizzera i NevBorn, con quello che dovrebbe essere il loro debut album, nonostante la fondazione del five-piece elvetico risalga addirittura al 2008. I nostri ce ne hanno messo di tempo per dare la luce alla loro creatura, grazie al supporto dell'etichetta indipendente Hummus Records, che si sta confermando, release dopo release, ad alti livelli nella scena post/drone. E allora diamo pure un ascolto a 'Five Horizons' e alle sue cristalline melodie abrasive che combinano sonorità post (hardcore, metal e rock) di ottima fattura. Echi dei gods svedesi si colgono in quel senso di profonda desolazione che si percepisce come background musicale nell'intera release. Poi le atmosfere si esibiscono multiformi già dall'iniziale "From the Edge of the Universe", in cui l'anima inquieta dei nostri, si svela tra tratti rabbiosi e altri più delicati, con tanto di chitarre acustiche ambientali, e con la voce che accompagna il tutto, in una alternanza di growling e cantato pulito, per un risultato davvero niente male. Non solo Cult of Luna nelle note dei nostri, anche i The Ocean, nella loro vena più grooveggiante, emergono potenti nelle linee melodiche del combo di Neuchâtel. E per coloro che pensano già che questa sia l'ennesima release fotocopia delle grandi band, si sbaglia di grosso perché l'ensemble svizzero di personalità ne ha da vendere, e tutto ciò che emerge dalle note di 'Five Horizons' può dirsi buono, più che buono. E allora scopro la furiosa "For Seven Days", song dal chiaro rimando post-hardcore; non temete perché la cattiveria dei nostri viene mitigata dalla leggiadria di atmosfere oniriche che spezzano il ritmo impetuoso già a metà brano e ci conducono con indomita indulgenza fino al termine della traccia, in un mulinello emozionale da tenere a mente per lungo tempo. La title track è un altro dei pezzi forti dell'album, pura energia dai risvolti tenui e malinconici, in cui a mettersi in mostra è l'eccelso lavoro a livello delle chitarre. I brani viaggiano tutti su durate importanti, oltre i sette minuti: "Between the Skies" è uno di quei pezzi che parte in sordina ma poi esplode rabbioso più che mai con una notevole profondità ritmica e ottime soluzioni vocali per quanto riguarda la timbrica growl (le clean vocals sono da rivedere, un po' fuori contesto). Un breve intermezzo, e poi l'epilogo è affidato a "Ozymandias", song che corrobora le mie parole fin qui spese per questa validissima realtà svizzera con una impagabile alternanza di chiaroscuri musicali. Un paio di aggiustamenti, soprattutto a livello vocale, e i nostri potrebbero mirare allo scettro delle migliori band post metal a livello mondiale. Un debutto col botto! (Francesco Scarci)

(Hummus Records - 2015)
Voto: 80

venerdì 10 aprile 2015

Cuckoo's Nest - Everything is not as It Was Yesterday

#PER CHI AMA: Depressive Black/Post Rock, Shining, Addaura, Alda
Il monicker "il nido del cuculo" è davvero geniale in quanto mi rimanda al bellissimo film 'Qualcuno volò sul nido del cuculo' dove uno psicotico Jack Nicholson si ritrova rinchiuso in un ospedale psichiatrico per essere "vagliato" dal lato comportamentale. E oggi rievocando proprio quel film, ecco trovarmi tra le mani l'ennesima scoperta della label cinese Pest Productions, gli ucraini Cuckoo's Nest. La band originaria di Mykolaiv, al secondo lavoro, va ampliando i propri orizzonti sonori già calcati nel precedente 'Dark Shades of Lunacy', ossia quella sorta di ibrido depressive black/post-rock che tanti proseliti sta raccogliendo negli ultimi tempi. Otto le tracce incluse tra cui una cover degli Austere, di cui sinceramente avrei fatto a meno. Le rimanenti sette, oltre alla classica minimalista intro, si snodano tra le melodie desolanti della lunga "Full of Dark Shades", che tra urla "burzumiane" e oniriche ambientazioni, giunge ad un quanto mai inatteso finale elettronico che prelude a "Feel of Desolation Will Always Chase Me... (part II)", interludio di pink floydiana memoria che ci prepara a "So Close, Too Far Away...". Altri nove minuti, in cui il quartetto ucraino si libera dell'influsso malefico del Conte Grisnack e abbraccia influenze più marcatamente post-qualcosa, mantenendo intatto il legame con il black solo a livello vocale, complice il ferale screaming di Oleg "Satana" Maliy e in qualche rara sfuriata chitarristica (ben 3 le chitarre presenti su questo lavoro). La musica invece viaggia sui binari di un suggestivo sound che dischiude le ottime potenzialità del combo ucraino. Celestiali, sognanti ed esplosivi, i Cuckoo's Nest mi rapiscono con la loro proposta ipnotica, selvaggia ma mansueta allo stesso tempo. I tredici minuti della title track e della successiva "World of Empty Hopes" confermano questo trend, in un sound che magari tende a dilungarsi un po' troppo in impalpabili tensioni emotive, ma che comunque rivela l'estro e la spiccata personalità di una band che è già pronta per il grande salto. Ovviamente ci sono ancora alcune spigolature da smussare, come certi break ambient troppo prolissi e ripetitivi o ancora certe sbavature a livello tecnico. "And End... (in memory of Roman Lomovskiy)" è una traccia strumentale, che tributa il giovane musicista russo morto suicida il 1° giugno del 2013, in una song dai vellutati richiami shoegaze. Chiude infine la già citata cover degli australiani Austere, in una traccia all'insegna del suicidal black metal, che poteva essere omessa in un album già di per sé di lunga durata e dai ricchi contenuti. Alla fine 'Everything is Not as It Was Yesterday' mette in mostra la classe, seppur ancora non del tutto sbocciata, di un quartetto intrigante e da tenere sotto stretta sorveglianza. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 75

giovedì 9 aprile 2015

New Disorder - Straight to the Pain

#PER CHI AMA: Alternative, System of  a Down
Oops, è successo di nuovo, per fortuna. Non quello che cantava Britney Spears qualche lustro fa, ma di infilare un cd nel lettore e perdersi nel vortice della musica di una band che non conoscevo. I New Disorder sono di Roma, nascono nel 2009, e vantano tra le loro fila musicista di ottimo calibro e attivi da anni nella scena capitolina. Dopo due album, escono con 'Straight to the Pain' , un lavoro pensato, eseguito e registrato con cura quasi maniacale da una band che dimostra buone capacità e anche un pizzico di estrosità, che non guasta mai. Il genere è un alternative metal cantato in inglese, dove si percepiscono alcune influenze chiare, ma i nostri sparigliano le carte spesso e volentieri riuscendo a dare un tocco di personalità. Il livello tecnico è alto, la sezione ritmica spinge bene e sostiene melodie ed arrangiamenti con convinzione, mentre le chitarre si dilettano in riff potenti e assoli al fulmicotone. Ascoltando attentamente il vocalist si nota una complessità non comune, inoltre il supporto del bassista rende ancora più vari gli arrangiamenti vocali. "Never Too Late to Die" è una cavalcata veloce e possente, fatta di riff classic metal, ma dai suoni decisamente più moderni. La struttura cambia di continuo e si stacca dal solito cliché strofa-ritornello, mentre il vocalist punta su un cantato dalla timbrica simile a Brian Molko (ma anche ai System of a Down/nd Franz), il che rende il brano ancora più interessante e godibile. Un breve stacco a metà ci concede il tempo di riordinare le idee, ma subito riparte e si viene travolti da una valanga sonora precisa e senza sbavature. Poi tocca al brano che regala il nome all'album e qua i New Disorder diventano più oscuri, con una strofa sostenuta da basso, batteria e voce che passa da un simil growl al tono fin qui ascoltato. In aggiunta troviamo anche una seconda voce femminile dal registro alto, che non risulta ben amalgamata con il resto. Probabilmente la voglia di abbellire il brano ha superato di poco il limite dell'eccessivo e se speravamo in un pezzo inquieto e oscuro, dobbiamo rimandare. "The Beholder" è a mio avviso la main track dell'album, il brano più completo in assoluto. Il brano, il più lungo del cd, racchiude l'essenza dei New Disorder, metallari duri e implacabili, ma dal cuore d'oro che riescono a tirare fuori anche delle ballate emozionanti (ascoltatevi "Lost in London" e "The Perfect Time"). Dopo un breve arpeggio pulito di chitarra, la band torna a scaricare la sua potenza fatta di riff chirurgici optando per una velocità di esecuzione altalenante. Si passa dalla quiete iniziale alla tempesta che si scatena nella seconda parte della canzone, sempre con arrangiamenti convincenti e ben eseguiti. Concludendo ci troviamo di fronte ad una band che merita i successi raccolti fino ad'ora e a cui auguriamo lunga vita, anche perché mi aspetto un'ulteriore evoluzione nel prossimo album. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2015)
Voto: 75

Dö - Den

#PER CHI AMA: Death/Doom/Stoner, primi Cathedral
Il sottobosco metallico è cosi ricco di preziose primizie che potrebbe sfamare ogni tipo di appetito. Oggi nella fitta coltre boschiva incontro i Dö, improbabile (ma solo per il nome ovviamente) band finlandese dedita a un lacerante death stoner doom che con questo 4-track, dall'altrettanto breve titolo 'Den', ci regala un'intrigante miscela musicale. Si parte dai sette minuti di "For the Worms", in cui gli ingredienti chiave per definire il genere proposto ci sono tutti: chitarrone belle pesanti e ossessive, vocalizzi growl, ma anche qualche trovata niente male che forse andrebbe meglio sviluppata. Partiamo da una buona sezione solista che dona una dinamicità affatto malvagia alla traccia grazie a splendide melodie dal piglio southern rock, ma anche un'appena accennato arpeggio che poteva e doveva essere maggiormente esplorato, peccato. "Frostbites" ringhia che è un piacere con le sue graffianti chitarre, che si posizionano su un doomeggiante mid-tempo non troppo memorabile ma di sicuro impatto che trova il suo punto di forza in un malsano break centrale in cui finalmente decolla la porzione solista del trio di Helsinki che gioca tra wah e delay ipnotici; anche in questo caso il risultato appare come privato della sua logica esplosione musicale e questo, a discapito del risultato finale. Un bel basso apre "Hex", traccia dal magmatico sapore sludge che si mostra essere come il pezzo più coinvolgente del dischetto, anche per la presenza di vocalizzi puliti e una linea di basso che sembra provenire dall'immortale 'Heaven and Hell' dei Black Sabbath, mentre la 6-corde sul finire del pezzo, si diletta in ottimi ma piuttosto brevi giri caleidoscopici. "The Moon Follows Us" chiude il platter, un EP di quattro pezzi che raggiunge i 28 minuti. Il sound non si discosta poi di molto dalle precedenti e come le precedenti mostra luci ed ombre: un interessante uso delle chitarre ritmiche che andava meglio strutturato, le vocals non sono affatto male e i solos si rivelano ancora piuttosto brevi. 'Den' è un punto di inizio che necessita di ulteriori aggiustamenti per il futuro, ma che lascia presagire comunque una più che discreta vena di personalità di questi misteriosi Dö. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70

We Are Impala - Synesthesia

#PER CHI AMA: Post Rock, Explosions in the Sky, Mogway
Ormai il post rock strumentale sta dilagando nel mondo come un morbo impazzito. Se prima le band che proponevano tale genere provenivano quasi esclusivamente da UK or US, ora ovunque ci si diletta a dare sfogo alla propria creatività; e il quartetto di oggi arriva dalla Spagna, anzi dalla Catalogna, con il proprio debut album, 'Synesthesia'. Si chiamano We Are Impala e non so se il riferimento al loro moniker vada al mammifero che popola le savane africane. Fatto sta che i nostri ragazzi di Matarò, ci offrono sei tracce di sognante post rock che vengono introdotte dal sound oscuro di "Tentakloj", brano che mette in evidenza la sinergia tra una ritmica pesante, quasi stoner, e altri eclettici giri di chitarra che concedono un più ampio respiro ad un suono altrimenti assai cupo. I giochi di chiaroscuri in cui i nostri si lanciano, creano una certa eleganza nel pattern strumentale che altrimenti rischierebbe di suonare troppo monolitico. "Forgeis" è una traccia giocata per lo più sul dualismo basso/chitarra che per certi versi mi ha ricordato un nome decisamente underground del panorama nostrano, che uscì nei primi anni del 2000, ma poi sparì nel nulla, gli Escape. I We Are Impala scandiscono nell'etere fascinose melodie in cui a sovrapporsi è il suono di roboanti chitarre con quello di altre decisamente più leggiadre, quasi ad affrescare la matrice sonora dei nostri. Il risultato che ne fuoriesce è una musicalità a tratti emozionante, che colpisce per i continui cambi di tempo, in cui ad alternarsi nella guida delle sinuose melodie, sono chitarra-basso o tastiere. Quello che lamento con i dischi strumentali è alla fine l'assenza di una voce che spezzi quel granitico "wall of sound" che le band puntualmente creano. Ecco allora utilizzare la tattica dell'arpeggio ruffiano con qualche tastiera eterea in "Delaylama", pezzo che a parte gli sbadigli iniziali, trova il suo perché in un finale dai tratti quasi onirici. "Abstrakta" apre carica di groove, con tocchi di keys incastonati nel suono del basso. Sebbene la traccia stenti a decollare, lentamente trova modo di far esplodere la propria energia in una burrascosa seconda parte dai contorni post metal. "Kasdan" mette in primo piano la batteria fin qui mai troppo in evidenza, affiancata dal profondo sound del basso, in attesa che sopraggiunga lo stentoreo riff delle chitarre. La song è tuttavia molto ambientale fino al breakpoint, in cui a rompere gli indugi, ci pensa una malinconica linea musicale. A chiudere il disco ci pensano i quasi nove minuti di "Heleco", brano quasi tribale che oltre a richiamare un sound dal gusto retrò, tipicamente seventies, finisce con un riff dark sulla scia dei primi The Cure, a dimostrare comunque una certa versatilità nelle corde dei quattro musicisti catalani. Siamo sicuramente sulla buona strada, un pizzico di dinamicità in più certo non guasterebbe, se poi vogliamo metterci qualche voce o chorus, si potrebbe addirittura rasentare la perfezione. (Francesco Scarci)

(Jetglow Recordings - 2015)
Voto: 70

mercoledì 8 aprile 2015

The Nihilistic Front - Procession to Annihilation

#PER CHI AMA: Funeral Death Doom, Disembowelment, Incantation
Ho gridato al miracolo, lo ammetto, "i Disembowelment si sono riformati". Ahimè si è trattato di un mero abbaglio, ma questo duo di Melbourne suona davvero in modo molto simile ai loro precursori, peraltro originari della stessa città. Se siete dei beceri ignoranti in materia e non sapete chi siano stati i Disembowelment e state sgranando gli occhi, vi inviterei a fare un tuffo nel passato e andarvi a riprendere un capolavoro unico nella storia del doom apocalittico, quale fu 'Transcendence into the Peripheral'. A distanza di vent'anni da quell'album incompreso, i The Nihilistic Front fuoriescono dalle viscere della Terra con un concentrato stagnante e putrefatto di death dannatamente oscuro, lento e melmoso che ridà voce ai gods australiani. Quattro le tracce incluse in questo 'Procession to Annihilation', disco uscito nel 2013, ma soltanto oggi tra le mie mani, grazie all'Aesthetic Death. Quarantacinque i minuti a disposizione per i nostri per annichilirci con un disco il cui obbligo è l'ascolto in cuffia ad un volume alto, molto alto. E quando vi sparerete nelle orecchie "Confronted by the Obscure", capirete il perché delle mie parole, la necessità di cogliere ogni singola mortificante nota contenuta in questo lavoro, un rumore, un suono, un fottutissimo claustrofobico riff che annienta i neuroni del nostro cervello. Cingoli di carro armato, voci d'oltretomba, sporchissimi suoni nefasti, asfissianti atmosfere, in cui i Disembowelment sembrano jammare con Esoteric, Incantation e primissimi Anathema per un risultato da brividi, che trova conferma anche nella successiva roboante title track, ove il caos sonoro regna incontrastato sul mondo. Paurosi, non trovo altre parole per definire i degni eredi del mortifero e mai dimenticato sound dei Disembowelment. E la lentezza disarmante di "Opaque Shadows" o la litanica proposta di "A Working God" sovrasta qualsiasi altra cosa death doom abbiate ascoltato ultimamente, perché qui è racchiusa la vera essenza di un genere. Non potrò certo definire i nostri originali, visto che il nichilistico sound andava tanto in voga nei primi anni novanta spruzzato anche di una certa verve brutal death, ma i The Nihilistic Front sanno il fatto loro e questo è sufficiente per invitarvi a tenerli sott'occhio, ovviamente solo dopo aver ascoltato gli originali. Deflagranti. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2013)
Voto: 80

Mothercare - Chronicles of Ordinary Hatred

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Forbidden, Slayer
Dati per bolliti, imborghesiti o addirittura additati come "commercialotti", i veronesi Mothercare spazzano via ogni nube con una prova che conferma quanto di selvaggio già avevamo ascoltato nel precedente 'The Concreteness of Failure'. 'Chronicles of Ordinary Hatred' è il loro nuovo lavoro, costituito da sei tracce inedite e due cover, tra l'altro mica prese a caso: "Relics" dei Nasum e "Piss Angel" dei Pig Destroyer, ma andiamo con ordine. Il cd attacca con "Lingering Over the Tide to Float", song aperta dal suono del mare e dei gabbiani. Nella quiete eterea di quest'immagine romantica, irrompe furente il sound fragoroso dei nostri, che viaggia in bilico tra il death/thrash degli Slayer (anche a livello vocale) e alcuni frangenti (soprattutto nel finale) che potrebbero richiamare gli esordi dei Cynic, il tuo riletto in una chiave decisamente più estrema e a tratti originale. Sono un po' spiazzato lo ammetto. Provo pertanto a skippare alla successiva "Devouress (Part 1)" e altri suoni si materializzano nella mia mente. Ricordate Craig Locicero, frontman dei grandissimi Forbidden? Bene, non solo il vocalist, Simone Baldi, richiama un potenziale ibrido tra lo stesso Craig e il buon vecchio Tom Araya, ma la musica dei Mothercare scomoda quella delle due band californiane: riffoni belli grossi, ritmica selvaggia (bravo Marco Piran dietro le pelli che lavora in perfetta sinergia con Mauro Zavattieri alle percussioni) e un sound carico di groove a manetta, che si riflette anche nella seconda più breve parte del brano. Con "Bent to the Almighty" a venire scomodati questa volta sono i Pantera, complice un giro di chitarra che l'immortale Dimebag Darrell si sarebbe divertito nel proporre e alle vocals di Simone che ripropongono un Phil Anselmo in versione più raw. "La Stanza Dipinta Di Viola” è un bell'esercizio di percussioni, in cui l'eccezionale Sbibu (Farabrutto tra gli altri) dà un breve accenno della sua classe da jazzista avanguardista. Con "Venomous" si torna a picchiare su ritmiche death/thrash (ottima la sezione ritmica completata da Mirko Nosari e Rudy Pellizon alle chitarre e Jacopo Ravagnani al basso) e tra i guest questa volta appare Sebastian “CP” Platzer (Not To Save One’s Life – Kàla). E veniamo infine alle due cover e al perché della loro scelta: la furiosa “Relics” vuole essere un tributo al grande Mieszko Talarczyk dei Nasum, che perse la vita nello tsunami del dicembre 2004, Mieszko che fu guest vocals nel disco dei Mothercare, ‘Traumaturgic’. E per l'occasione, è proprio l'ex vocalist di quel disco, Guillermo Gonzales, a prendersi carico in modo spietato, delle vocals che furono del cantante polacco. "Piss Angel" invece è una perla di suoni old school da cui i nostri hanno tratto parte della loro ispirazione. Che dire, se non che i Mothercare sono in forma e incazzati più che mai... (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records - 2015)
Voto: 75

Pauwels - Elina

#PER CHI AMA: Math Rock/Noise, Hot Head Show
Mettiamo subito le cose in chiaro: questo non è post-rock. Non c’è un briciolo di malinconia, non c’è la tristezza cosmica di chi sublima riflessioni e sofferenze in lunghe cavalcate strumentali, non c’è quel senso di distacco, di inquietudine, di etereo respiro dell’universo. Questo disco è un concentrato di follia, di furioso e terrificante ottimismo, di incoscienza sotto acidi: è caos puro, imbrigliato in forma-canzone da cinque francesi psicopatici che suonano come rockabilly-punk strafatti di adrenalina. Gli Hot Head Show dell’istrionico Sean Copeland sono il primo riferimento che mi viene in mente, per via della costante tensione esplosiva tra le chitarre (potenti ma mai troppo distorte) e le ritmiche di batteria (singhiozzanti, veloci, dinamiche). Ma ci sono anche i Melvins di 'Houdini' nell’attacco groovy del basso in “Wig”; c’è qualcosa dei vecchi One Dimensional Man in “La Une”; immaginando un basso slappato al posto delle chitarre, è impossibile non sentire i Primus di 'Sailing the Seas of Cheese' nascosti dietro la splendida “Ouspenski” o dietro il continuo crescendo saltellante di “Pendule”. Il disco è giocato quasi esclusivamente su frequenze medio-alte, ma non fa affatto rimpiangere suoni più cupi: la botta in piena faccia qui non manca – sentite il marziale finale ipnotico di “Beelzebub” – e fa venire voglia di spogliarsi nudi e prendere a pugni i passanti ululando versi senza senso. Atmosfere, tempi, raddoppi, tonalità: niente è scontato con i Pauwels, che rendono tutto dispari, dissonante e imprevedibile con una spontaneità rara, sempre a metà tra il math-rock, il jazz, il rock’n’roll vecchia maniera e il punk-noise. La produzione, intelligentissima, lascia il giusto spazio ad ogni strumento, creando una bella sensazione di presenza schizofrenica ma molto naturale, grazie anche ad un leggero white noise onnipresente nelle pause tra i brani. Un’ultima parola per l’artwork: 300 pezzi numerati per un packaging di gran classe, un pieghevole su cui si sviluppa un’inquietante illustrazione che racchiude riferimenti esoterici (volti, insetti, polipi, figure antropomorfe, corpi dissezionati – c’è persino Chtulhu) ispirati allo scrittore dell’occulto Louis Pauwels. Un disco che segna un nuovo capitolo nel genere: assolutamente imperdibile. (Stefano Torregrossa)

(October Tone - 2015)
Voto: 90

The Pit Tips

Larry Best

Accept - Blind Rage
Christopher Lee - Omens of Death
Cruachan - Blood for the Blood God

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Kent

Jesu - Conqueror
Sunn O))/Ulver - Terrestrial
Ahab - The Call Of The Wretched Sea

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Claudio Catena

Ufomammut - Ecate
Judas Priest - Screaming for Vengeance
Extrema - The Positive Pressure (of Injustice)

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Roberto Alba

Dødheimsgard - A Umbra Omega
Enslaved - In Times
Caronte - Church of Shamanic Goetia

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Francesco Scarci

Enslaved - In Times
Negura Bunget - Tau
Dawn of a Dark Age - The Six Elements, vol​.​2

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Yener Ozturk

Neurosis - Through Silver & Blood
Overkill - White Devil Armory
Gorod - Process of a New Decline

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Michele "Mik" Montanari

Limerick - S/t
Stoned Jesus - The Harvest
My Home on Trees - EP

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Don Anelli

Death Karma - The History of Death and Burial Rites, Part I
DeadlySins - Anticlockwise
Dødheimsgard - A Umbra Omega


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Stefano Torregrossa

Shining - Blackjazz
Conan - Blood Eagle
Electric Wizard - Time To Die

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Bob Stoner

Therapy? Disquiet
Kontinuum - Kyrr
Pop Group - Citizen Zombie

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Philippe Perez

Various Artists - Feral Media: Strain of Origin IV
Golden Blonde - GWAN
Teamwork - Teamwork

martedì 7 aprile 2015

Ilydaen - Maze

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Math
L’album dei Ilydaen parte carburato con scorrerie elettriche descritte da chitarre imperiose. Il ritmo è sostenuto e ci dà appena il tempo di battezzare questa prima traccia, “Lux”. Il secondo brano, “1/121”, apre danze vagamente metalliche contigue alle musicalità casuali del primo pezzo. Assecondate le vostre luci psichedeliche continuando a ballare ipnotizzati da questa fonte elettronica di suoni, a tratti percorsa da una voce, in cui si sentono corde vocali vibranti alla carta vetro. Ci imbattiamo in un growl improvvisato e tutt’altro che peculiare. Rimaniamo entro le mura di una discoteca per pochi intimi amanti dell’elettronica annulla neuroni. Si. Perché le intenzioni di “Curves & Saeptums”, sono quanto mai bellicose verso la consapevolezza del domani. Andiamo alla prossima traccia, ma sembra di viaggiare a ritroso. Un ticchettare di chitarra che lentamente si fonde al piatto della batteria, ci introduce a questa “Argon Walls”. Ora il nostro terzetto belga reitera sonorità da colonna sonora di film anni ’90, già sentite, stucchevoli. Con “Breach” si cerca una redenzione alle premesse poco incoraggianti. Ma, nulla di fatto, perchè la ripetitività meccanica di queste pseudo note, annoia. Anche l’estensione del volume è inefficace al migliorarne le percezioni uditive. Il tedio, vince sulla musica. Con fatica e fiducia metto on air la prossima traccia,“Quandary”. Ma la speranza, a volte è il marciapiede della delusione. Poco cambia infatti rispetto al fotocopiare sonorità ed effetti elettronici dei brani precedenti. La voce che emerge come un’ombra tra alberi rinsecchiti, nel mezzo di questa sound, non solo non fa la differenza, ma conferma l’impersonalità dell'album. Per la prima volta, anziché arrivare alla fine in cuffia, affido al vostro giudizio, “Sokkole”, “Deadalus”, “Shelter”. Credo si debba ritentare. Poiché non sempre la fortuna aiuta gli audaci. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 55

Offerstigen – Drankt/Genomsyrad

#PER CHI AMA: Sludge, Crust, Ahna, Graves At Sea, 
In tutta sincerità non ero per nulla fiducioso sulla qualità di questo disco in quanto la sua presentazione, in una semplice busta e un paio di fogli di carta stampati, presagivano l'ennesima produzione punk DIY di scarsa qualità, poca creatività e e forse eccessiva voglia di far musica, qualunque essa sia. L'“Intro” non sfata decisamente questo mio pensiero ed anzi mi fa dubitare sulle reali intenzioni dei nostri Offerstigen, ma ai primi secondi di “Ytvandrarna” accolgo con stupore e piacevolezza la via intrapresa dal duo svedese: riff funerari e distorti al massimo, voce straziante, un drumming cadenzato che a tratti sfocia in fulminei blast beats. Una soluzione musicale minimalista ma oltremodo efficace, resa ancor più convincente da cori in sottofondo. “Celest – Saknad” perde mordente a causa della chitarra che dedica troppo spazio a soluzioni melodiche, le quali stonano leggermente con la linea principale, mentre la successiva “Forstor Allt” riesce a valorizzare una vena melancolica che pare rimembrare gli Skepticism, riportando il lavoro su livelli qualitativi della seconda traccia. Il dischetto si chiude con un'ennesima sorpresa: “Utro” è probabilmente la traccia migliore del disco da un punto di vista creativo ed emozionale, tanto che potrebbe risultare una bonus track degli Ulver o dei Bohren, lasciando al termine dell'ascolto, un forte desiderio che la musica continui. Punto debole del lavoro è la parziale estromissione delle basse frequenze che rendono il suono magro seppur tagliente; la produzione per un lavoro autoprodotto come questo è sufficiente (anche se in alcuni punti la batteria ha dei cali a livello dei volumi) regalando quella sensazione di musica viscerale e senza compromessi. Per questo progetto ora mi sono creato reali aspettative, e sarei pertanto molto curioso di vederli dal vivo. (Kent)

(Self - 2014)
Voto: 70

Corbeaux - Hit the Head

#PER CHI AMA: Post-rock/Alternative, Cult of Luna, Pelican, The Ocean 
Primo: il disco è masterizzato dal grande Magnus Lindberg, l’uomo dietro i Cult of Luna – e si sente. Secondo: il packaging è piacevole e curato, pur mancando di un booklet. Terzo: è post-rock strumentale, d’accordo, ma il quartetto francese al primo full lenght (dopo un EP nel 2011 e uno split CD nel 2012) sprizza personalità da tutti i pori. Si sente l’influenza di Cult of Luna e Pelican, ma ci sono anche i The Ocean, qualcosa di Mogwai e molto altro ancora. I Corbeaux suonano da dio, curando le dinamiche con grazia ma senza disdegnare distorsioni sporche e suoni grezzi: il disco è suonato davvero, è molto analogico e caldo sia nei suoni che nella tecnica. Apre le danze “Cran d’Arret” – l’unico brano, con “Ezimpurkor”, a superare i 7 minuti – con un riff dispari che condurrà lungo tutta la canzone. Il brano prima esplode, e poi definitivamente deflagra intorno ai 3 min in uno splendido bridge in controtempo con un inquietante bending di chitarra: da antologia, uno dei momenti migliori del disco. “La Bagarre” mi ha ricordato in certi passaggi gli Helmet più noise nei giochi delle chitarre e nella batteria tiratissima. “7th Avenue” si muove eterea ed inquietante tra arpeggio e tastiere, evocando abbandonati paesaggi post-urbani come in una perfetta colonna sonora. Con “Sur Un Fil” si torna alle ritmiche aggressive che mi hanno ricordato alcuni lavori Pelican: il basso (sentite che suono, perfetto!) in primo piano tiene il tempo per tutta la prima parte, per poi lasciare spazio alle oscure pennellate di chitarre nel resto del brano. Splendidi gli scambi forte/piano in “Where Is Dave”, che presto evolve in un ambient ispiratissimo fino alla reprise finale. Conclude il disco “Ezimpurkor”, l’altro gioiello di 'Hit the Head': è il brano più lungo, e i Corbeaux ne approfittano per riassumere un po’ tutta la loro visione: diversi livelli, emozioni, velocità, riff, atmosfere – tutto è mescolato in un brano schizofrenico e a tratti ipnotico (come nel lungo bridge intorno ai 5 min), e contiene l’unica parte cantata dell’intero lavoro: una disperata melodia urlata che si staglia come una perla nel nero mare strumentale del disco: la chiusura ideale di un cerchio. Un bel lavoro, premiato da una produzione praticamente perfetta, scritto e suonato con gusto, precisione, eleganza e idee. Non c’è nulla di spaventosamente innovativo, intendiamoci: ma se questo non è il futuro del post-rock, è senz’altro una delle migliori visioni sul suo presente. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80

giovedì 2 aprile 2015

The Owl of Minerva - Bright Things Turn Gray

#PER CHI AMA: Dark/Alternative, Tool, Katatonia
Ne avevamo saggiato le potenzialità già nel 2013, quando incontrai la band a Milano a un concerto e mi lasciò un promo di quattro pezzi. Sto parlando degli Owl of Minerva, band formatasi nel 2008, originaria di Padova, di cui da sempre si parla un gran bene. E allora andiamo a tastare il polso dell'act patavino, alla scoperta del tanto atteso debut album, 'Bright Things Turn Gray'. Il platter consta di dieci pezzi che si aprono con il sound decadente di "Crown of Gold" che mi ha fatto immediatamente pensare ad un altro esordio di qualche anno fa, quello dei Klimt 1918. E il sound degli Owl of Minerva per certi è accostabile a quello della band romana: atmosfere decadenti inserite in un contesto alternative che a più riprese richiama il sound dei Tool in salsa "katatonica". Il nostro quartetto non si limita a ripetere la lezioncina dei soli maestri americani, ma prova a rileggere il tutto sotto una luce diversa, alla ricerca di una propria direzione in cui mostrare la propria personalità, che in più punti sembra davvero emergere. Se nella prima traccia, è anche l'anima di Maynard e soci a venire a galla, nella successiva e più meditativa "Distance" è un mix di sonorità nordiche che echeggiano nelle note dei nostri. Penso ai Warm of the Sun o ai The Isolation Process, bands che probabilmente i nostri Owl of Minerva non conosco neppure, ma che per chi legge ed è ben edotto, potrebbe essere invece un buon punto di riferimento. Con “Bag of Stones” ci avviciniamo al sound dei Deftones, per le sue saturazioni ritmiche e per quel cantato che talvolta rischia di essere il punto di debolezza dei nostri. "Sender" è una song apparentemente tonante (almeno per la pesantezza delle ritmiche) che tuttavia si muove sul binario di un mid-tempo melodico, il cui unico punto debole è rappresentato dalle urla del vocalist, che peraltro in questa traccia sfodera, almeno per un secondo, un growling selvaggio. "The Kite" è una traccia che parte piano, ma poi va ad irrobustirsi, offrendo una prova più convincente dell'ensemble veneto, attestandosi su influenze più vicine ai Katatonia. Le melodie di 'Bright Things Turn Gray' si confermano interessanti per l'intera durata del disco, e questo vale anche per "House of Birds Gone Mad", song ammiccante che prosegue sulla linea tracciata dalle precedenti, con il dualismo spiccato tra il robusto riffing portante della chitarra ritmica, su cui va a schiantarsi quello della lead guitar che si diverte in fraseggi acustici molto spesso assai ruffiani, un po' sulla scia di quanto fatto dagli Amorphis o dagli svedesi Sarcasm (con gli Owl of Minerva decisamente più depotenziati). Il disco ci accompagnerà con questa vena fino alla sua conclusione, passando tra l'acustica tribalità di "Your City by the Snow" e la tenue "The Lake" (song piuttosto anonima per lunghi tratti, a dire il vero), fino alle conclusive "The Well", traccia che sembra ancora richiamare sonorità nu metal/alternative per giungere alle pulsazioni frastornanti della title track. 'Bright Things Turn Gray' alla fine si dimostra un lavoro dotato di una certa caratura, ricco di sfumature, ritmi e sonorità dalla matrice sperimentale, assolutamente apprezzabile a volume e non. Ora vi attendo per l'intervista radiofonica. (Francesco Scarci)

(Jetglow Recordings - 2015)
Voto: 75

mercoledì 1 aprile 2015

Inexorable - Morte Sola

#FOR FANS OF: Technical Death Metal, Gorguts, Immolation
Making it to their second EP, this release from the German act bearing the name Inexorable is quite a blend of Technical and traditional Death Metal. The technical side of the band is a bit more avant-garde than the usual assortment of bands in the genre as there’s a heavy swarm of Gorguts-styled sweeping riff-patterns that contain all manners of off-beat, discordant patterns. These creates a discomforting feeling throughout the album by still featuring the more nominal style of riff-work found in Technical Death Metal of wanking lead rhythms and swirling, dazzling riff-work fueled by complex, dynamic arrangements dive-bombing throughout the music, yet when all of this is put alongside the darkened atmosphere it leaves a rather disorienting experience. By featuring these rather unfamiliar elements together in terms of mixing highly-complex and technical work alongside simplistic arrangements that evokes a darker, rawer tone with the kind of atmosphere that’s hardly been used by the genre as this type of atmosphere is more in-line with traditional Death Metal acts. As the clanking, raw drum-tone accompanying this also generates, there’s an even more pronounced feeling of the dirty, guttural qualities that make for an overall impressive-seeming mixture. While this makes for an intriguing listen, it also leaves an incredibly disjointed feeling overall as there’s never really any focal point in the music. Whether it’s the rather impressive technical chops on display or the primordial atmosphere present, one of these matters should be the main mark of the band yet each one manages to undercut the other. By having this drip with a dark evil atmosphere, it really drowns out the technicality by turning it into a thick, muddy mess which lets the technicality get overshadowed into these darker sections, and likewise the technicality manages to distract from the atmosphere with all sorts of wanking and dive-bombing throughout in incredibly discordant patterns so it inevitably loses the attempts at creating those harsher rhythms. If these issues can be solved, the band could be onto something here as the music itself isn’t band. Intro ‘Praeludium Mortis’ is all eerie and discordant riffs that charge along with build-up drumming and dark vocals into an ominous start. Proper first song ‘Pantheon's Demise’ has a fine technical display dive-bombing through the varying tempo changes fueled by those discordant riffs, raging patterns and dexterous drumming which makes for a rather impressive showing here. Likewise, ‘Disenthrallment’ is all charging patterns, swirling leads and discordant riffs before blasting through the finale for an even more impressive effort. ‘Media Vita’ is all complex blasting through a more mid-tempo offering that offers deep chugging along the discordant riff-work drops off for a pounding finale that is a bit blander than the rest of the songs as that mid-section isn’t all that interesting. Easing off the speed, ‘In Morte Sumus’ utilizes the angular, discordant riff-patterns and rather laid-back atmospheres with the occasional complex patterns bursting through the sprawling paces which makes for an overall decent offering. Finally, ‘Futility’ sweeps all notions of technicality for utterly frantic patterns, battering drumming and tight chugging before being swept aside further for meandering, pointless minutes of discordant fade-out noise which leaves this quite frustrating and puzzling. Otherwise, this one does have some room to work with but does have some flaws within. (Don Anelli)

(Self - 2013)
Score: 70

Hands of Orlac - I Figli del Crepuscolo

#PER CHI AMA: Doom Rock, Mercyful Fate, Candlemass, Black Sabbath
Ispirati all'omonima pellicola horror del 1924, gli italo-svedesi Hands of Orloc, fanno uscire il loro secondo LP a distanza di tre anni dal disco che gli diede un po' di visibilità. Il five-piece (in parte) nostrano torna con un album nuovo di zecca che esce per l'etichetta danese Horror Records in compartecipazione con la Terror From Hell Records. La proposta di questo mistico 'I Figli del Crepuscolo' non si muove poi di troppo rispetto al precedente lavoro, offrendo un sound all'insegna dell'esoteric doom rock, che rompe il ghiaccio della solita intro, con "Last Fatal Drop". E qui si inizia ad apprezzare alla grande il sound di questi misteriosi ragazzi che con una ritmica non troppo sofisticata, danno inizio alle loro danze diaboliche. Fin qui però nulla di trascendentale: dopo un minuto, gli arrangiamenti si fanno più interessanti grazie ad una splendida melodia di flauto e alle impetuose vocals di Ginevra (aka The Sorceress), che si collocano su delle linee di chitarra che richiamano suoni prog rock dai tratti palesemente seventies. Chitarre che sul finire del pezzo si prenderanno la scena, scatenando una tempesta magnetica di fluttuanti melodie cosmiche, per un risultato da brividi. L'impatto con la band è certamente dei migliori. "Burning" sembra essere sospinta da un impulso stoner, ma è solo apparenza, perchè gli Hands of Orlac si lanciano in psichedelici fraseggi che si muovono tra il doom dei Black Sabbath e sfuriate tipicamente metal, in cui trovano posto le vocals spettrali della cantante e l'immancabile suono del flauto. Ma il flusso sonoro dell'ensemble è in costante evoluzione: non pensate di trovare lo stesso arpeggio o lo stesso accordo per più di qualche secondo perché le atmosfere sono assai mutevoli nell'arco di questo disco. Ancora una citazione cinematografica all'inizio (e poi alla fine) di "A Coin in the Heart" con un pezzo di dialogo estrapolato da "Operazione Paura" di Mario Bava (1966) con le chitarre che irrompono citando i primi Iron Maiden. La song prosegue poi lungo i binari sin qui percorsi dai nostri, mostrando i notevoli punti di forza della band: le atmosfere criptiche da film horror anni '60 che si miscelano con stralci progressivi e fughe di flauto a la Jethro Tull. Quello che magari faccio più fatica a digerire è la voce della "sacerdotessa", troppo pulita e un po' priva di personalità. Per molti di voi che apprezzano la band sin dagli esordi, questa mia affermazione potrebbe risuonare nell'aria come una bestemmia, ma sinceramente una voce maschile, un po' più carismatica, avrebbe giovato maggiormente nel mio giudizio globale. Le tracce rimanenti, "Noctua" e "A Ghost Story", confermano quanto di buono fatto sin qui dal combo italo-scandinavo, grazie alle ottime doti individuali dei due chitarristi che sciorinano riffoni profondi e assoli stentorei, mentre Jens Rasmussen (aka The Clairvoyant), si mostra come un batterista preparato ed eclettico sia su velocità sostenute che più rilassate. La conclusiva "Mill of the Stone Women" aperta da un altro spezzone di film degli anni '60, "Il Mulino delle Donne di Pietra", garantisce altri sette minuti di matrice occult doom che sicuramente farà la gioia di tutti gli amanti del genere rock. Pollice alto per questa ottima formazione dal sicuro avvenire. (Francesco Scarci)

(Terror From Hell Records/Horror Records - 2014)
Voto: 80