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sabato 9 agosto 2014

Clouds Taste Satanic – To Sleep Beyond the Earth

#PER CHI AMA: Doom, Sunn O))), Dark Buddha Rising, My Silent Wake
Affrontare un album del genere rigenera lo spirito. Niente voci, due lunghi brani di oltre venti minuti ciascuno e una sonorità cupa, nera ma allo stesso tempo carica di una vitalità rock eccezionale. Parliamo di Doom, quello con la D maiuscola, figlio dei Black Sabbath più profondi, caldo e spirituale come i migliori Saint Vitus, riflessivo e d'avanguardia come gli onnipresenti seminali Sunn O))). L'incedere lento non è mai catastrofico anzi, dona vita alla magnificenza del rock, la solennità con cui avanzano le due tracce crea potenza e riflessione, una chitarra a dir poco geniale ci conduce verso strade sicuramente già percorse ma viste e interpretate sotto una nuova luce, come se la band di Iommi volesse rinnovarsi con caratteristiche cinematiche e da colonna sonora di un film fantascientifico ambientato nei meandri più bui della galassia sconosciuta. Il suono è magistralmente rallentato e a dir poco affascinante, desertico, naturale come solo i Karma to Burn sono riusciti a fare nei tempi migliori, la cadenza è astratta e perennemente guidata da una sei corde spettrale che evolve il genere fino a renderlo astrale all'inverosimile e qui entrano in gioco gli insegnamenti di colta psichedelia di Monster Magnet e 35007, viaggi lunari, passeggiate spaziali cariche di malinconia e pesantezza che lasciano pietrificato l'ascoltatore per il progredire filmico e allucinato della musica che non nasconde una certa devozione per gruppi eletti come Skepticism, My Silent Wake o Dark Buddha Rising (anche se alla fine prevale sempre quel tocco vintage anni '70 che li rende unici). Un ottimo debutto per questa super indipendente band proveniente da New York coronata da un suono eccelso e da una grafica di copertina con opera del maestro Giotto a dir poco spettacolare. A voi il rock iniziatico, il rock esoterico per antonomasia! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80

venerdì 8 agosto 2014

Dogmate - Hate

#PER CHI AMA: Stoner/Grunge
I Dogmate sono un quartetto metal romano, nato nel 2012 e che in breve ha registrato due album, lanciato un paio di video e firmato pure per la Agoge Records. Ottimi risultati quindi ottenuti relativamente in poco tempo, questo a dimostrazione della determinazione dei quattro musicisti che non si sono certamente fatti intimidire dal difficile settore musicale del metal. Ascoltando 'Hate' ci si accorge subito dell'elevato livello tecnico generale della band e della qualità sonora della registrazione, dentro quest'album si trova tutta la scuola degli ultimi vent'anni e i Dogmate scelgono suoni moderni e classici facendo tesoro degli insegnamenti acquisiti con gli anni. La chitarra è corposa (si, una sola ed è devastante a sufficienza) con la giusta equalizzazione e guida i dieci brani dell'album, ma nulla avrebbe potuto senza una sezione ritmica di batteria/basso che viaggia sputando fuoco e vapore a più non posso. Il cantato è potente, mai oppressivo e pesante, il che rende l'ascolto piacevole e dinamico, permettendo di apprezzare i vari arrangiamenti. Nelle parti scream ricorda i Linkin Park, ma ha anche una buona dose di sfumature southern/grunge nei restanti frangenti. "Dark in the Eyes" è caratterizzata da una strofa ipnotica che veleggia su una ritmica altrettanto raffinata, in stile Tool/A Perfect Circle che anticipa il cambio rabbioso dove i riff accelerano e scaricano violenza a profusione. Un brano dalla doppia indole, prima soave e allusivo, poi dispensatore di inaudita cattiveria. Molto bello. Per lo stesso motivo, "World War III" si fa apprezzare per la complessa struttura, che elargisce riff e arrangiamenti in continua evoluzione, senza dare il tempo all'ascoltatore di abituarsi ad un fraseggio che tutto cambia di nuovo. Ribadisco che la sezione ritmica è potente e variegata, doti indiscusse che sottolineano ancora il duro lavoro di produzione delle tracce. Chiudiamo con "Black Swan", ballata guidata da una grande chitarra acustica che crea un tappeto pieno di melodia e sfumature per la voce che duetta all'unisono con le sei corde, il tutto accompagnato da archi che regalano profumi di un luogo epico e senza tempo. Altra prova di tecnica e flessibilità artistica da parte dei Dogmate, che in questo modo abbracciano ancora di più quello che altre grande band hanno fatto in passato. 'Hate' è un disco godibilissimo, ben fatto, che non aggiunge grosse novità alla scena metal nostrana, ma ribadiscono il fatto che ne fanno parte occupando una posizione di rilievo a livello nazionale. Vedremo cosa faranno in altri due anni, a questo punto le aspettative sono alte. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2013)
Voto: 80

Epistasis - Light Through Dead Glass

#PER CHI AMA: Psycho Black Avantgarde
Il mio isolamento tecnologico di questi giorni non mi permette di avere a disposizione tante notizie a proposito delle band che sto recensendo, quindi non posso far altro che limitarmi ad una pura valutazione sotto il mero aspetto tecnico-musicale. Sei i pezzi a disposizione per i newyorkesi Epistasis per presentarsi al mondo (ma soprattutto al sottoscritto). Si parte con “Time's Vomiting Mouth”, una miscela di feroce e schizofrenico black/mathcore che si alterna tra ritmiche ribassate, su cui vomita uno screaming disumano, e alcuni inserti che rallentano l'incedere burrascoso e nevrotico della band. “Finisterre” apre con un lungo e semplice arpeggio che lascia presagire la classica quiete prima della tempesta. Appunto la tempesta. Novanta secondi dopo infatti, ritornano le linee di chitarra sghembe e disarmoniche degli Epistasis e il cantato vetriolico. La musica poi si muove attraverso un'alternanza di luci e ombre, sussulti psicotici e ambientazioni rarefatte di stampo post-rock, in cui mi sembra udire anche il suono di una tromba. L'effetto è intrigante, peccato poi subentri quel fastidioso screaming che rischia di rovinare il risultato finale. Le chitarre di “Witch” ronzano nelle mie cuffie come un fastidioso calabrone, prima di abbandonarsi a un devastante assalto black/grind, che vi saprà sorprendere per un break da lounge bar e ancora per deliranti e taglienti offensive all'arma bianca, in un sound in cui, sebbene la melodia sia totalmente assente, riesce comunque ad avere un effetto magnetico sul sottoscritto. Probabilmente le sperimentazioni avanguardistiche adoperate dai nostri lasciano intravedere spiragli di novità e comunque dimostrano la grande personalità di questi ragazzi, confermata anche dalla successiva “Candelaria”, song ritmata ma che comunque poggia le proprie fondamenta su strutture articolate e imprevedibili, in cui la sorpresa è sempre dietro l'angolo. “Grey Ceiling” è un interludio che ci introduce alla conclusiva “Gown of Yellow Stars”, ultima delirante traccia all'insegna del post-black/free-jazz/math che chiude 'Light Through Dead Glass', disco interessante che palesa qualità e ampi spazi di miglioramento degli Epistasis. Follia allo stato puro! (Francesco Scarci)

(Crucial Blast Records - 2014)
Voto: 70

Cognitive - S/t

#FOR FANS OF: Technical Death Metal, Alterbeast, Psycroptic, Decrepit Birth
The current state of Technical Death Metal has exploded with numerous acts cropping up from around the globe, and these New Jersey newcomers maybe one of the hottest to come along in a while. The potential is shown right off-the-bat as it unleashes a serious swarm of highly-complex and technically engaging riff-work that gets a slew of tight workouts in here that range from fiery, up-tempo Thrash-paced riffing filled with fluid pattern changes at rapid speeds to whirlwind razor-wire wankery that displays untold technical prowess, though the majority of the work is based off dense, heavy breakdowns loaded with brutal chugging in their riff-work, which is what makes this so effective. Each of these particular elements, though utilized by numerous other acts in this genre so this is nothing new or innovative but definitely the variety of what’s on display works so well here since it never stays locked in one formulaic approach for too long before segueing into another dynamic series of riffs full of savage, unrelenting energy and blistering technicality which is certainly impressive enough considering the fact that the tracks are quite short, mostly set in the three-minute range so there’s not a lot of room to work. The energy is delivered through a rather appealing ability to have nearly every song played at the fastest possible tempo it can muster, which is quite often with a few occasional slower sections thrown in which is either a breakdown segment or a light, atmospheric interlude to pick up some melodies within the more blistering segments surrounding them. Combine all these facets with loud, dynamic drumming that manages to hold the technicality as well as the power and speed associated with such genres, more of a heavy, thumping quality to the bass-work rather than the spindly, noodle-like work this style usually plays with and an incredibly powerful production job that keeps the music lines distinguishable yet powerful, clear and commanding which is perfectly in accordance with this type of music and there’s a lot to really like here. The tracks themselves are quite good, as intro ‘Cut the Fuck Up’ gives a great impression of what to expect here with blasting drumming, tight chugging and a series of complex riff-patterns and utterly raging tempos from those technical riffs. Both of the following tracks, ‘The Aftermath’ and ‘Blood Hungry’ rely more on heavy breakdowns in those riffs rather than the technical workouts apparent elsewhere, even though there’s the occasional spindly-based pattern thrown in. ‘World’s Beneath’ returns to quite effective complex riff-work and some more melodic interludes, while ‘Regurgitated Existence’ might be the one showcase track to get exposed to their signature style as this again features the breakdown-centered riffing with ruthless blasting, spindly noodling and a more pronounced effort to switch up the tempos quite well. The first instrumental, ‘Oceanic Erosion’ is a light breather with an acoustic guitar and sampled noises, while ‘Willingness of the Weak’ manages to get those technically-complex leads working alongside the faster tempos. ‘Imbuing of Wrath’ again manages to mix dynamic technical compositions and tight breakdowns together into a stand-out full-throttle effort while ‘Fire from the Sky’ wraps around a slew of ferocious, technical riff-patterns full of intensity and energy throughout while still keeping the melodies intact. The final track, the other instrumental ‘Affliction Humanity,’ has a far better soundscape about it just like the remaining songs with the technically-proficient riffs and blasting drumming sound rather nice before the sampled voices appear and down-grade it somewhat. On the whole, this isn’t really breaking any new ground in the genre and does seem a little weaker on the back-end with the two light instrumentals against the raging music, but it’s still fun enough to be worthwhile. (Don Anelli)

(Pathologically Explicit Recordings - 2014)
Score: 85

sabato 2 agosto 2014

Gnosis of the Witch – Dauðr Burðr Þrysvar

#PER CHI AMA: Black old school
L'intro di "Ek Bjóða Inn​.​.​" non può che generare una sola parola in me... occulti. Questo l'esito del mio primo approccio con il MLp degli statunitensi Gnosis of the Witch che anche con la flebile e tremulante (per l'uso del tremulo picking) “Ormar Eitr” non si discosta più di tanto dall'idea che mi sono fatto dei nostri. Anche quando i nostri accelerano con cavalcate caustiche e caotiche, mantengono inalterato il loro atavico feeling occulto. La furia black divampa come in quei demo tape di primi anni '90 che si ritrovavano nei lugubri circuiti underground del nord Europa. Registrazioni casalinghe, assenza di tecnicismi, ma solo feroci e primitive linee di chitarra su cui si impiantano abominevoli screaming ma che incorpora anche alcuni elementi del dark metal e del pagan. Qualche atmosfera lugubre e pomposa, qualche rallentamento apocalittico, nonché l'uso limitato ma ben azzeccato di affascinanti tastiere, mi inducono a non bollare l'album come obsoleto ma anzi mi suggeriscono di invitarvi addirittura all'ascolto di un lavoro che sembra riaprire vecchie strade black che credevo ormai chiuse. (Francesco Scarci)

(Iron Bonehead Productions - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/GnosisOfTheWitch

Blank Faces - A Course Of Infinite Escape

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Tool, Porcupine Tree, Isis
Chi mi conosce sa che in questo momento mi trovo in spiaggia a godermi il sole del sud della nostra splendida penisola. Tuttavia anche in riva al mare o sotto l'ombrellone, non smetto certo di ascoltare musica, anzi preferisco riesumare quei dischi che per un motivo o l'altro, ho tralasciato gli scorsi mesi. E' il caso dei polacchi Blank Faces e del loro sound all'insegna del post rock/metal. Cinque tracce, aperte dall'intro di "Adrift", e seguito a ruota dall'ipnotica "Exit: Me", song dall'incipit psichedelico, melodico, oscuro e affascinante, che mettono subito in luce le indubbie qualità del combo di Wrocław. Atmosferici e tribali, i nostri combinano sonorità a la Tool con il post rock sfruttando l'utilizzo di sporadiche clean vocal, per un risultato che a tratti ha del miracoloso. Suoni cibernetici compaiono nell'apertura della strumentale "Degradation", in cui a mettersi in luce è un eccellente lavoro del basso, sorretto poi dai riverberi delle linee di chitarra e da un drumming sicuro ed estroso. L'effetto ha un che di rilassante, ideale per il proseguio della mia vacanza. "The Cleansing Tide" strizza maggiormente l'occhiolino al post metal, almeno a livello della pesantezza delle chitarre, con i consueti richiami a Isis e Cult of Luna ma non solo, perché a echeggiare nella musica dei Blank Faces, ci sono anche accenni progressive di Porcupine Tree o dei conterranei Riverside. Il risultato? Come immaginavo, direi molto buono, per cui sul mio taccuino il loro nome compare già, e sul vostro? Dimenticavo, la chiusura è affidata a "Where to...", song notturna che potrebbe essere estrapolata tranquillamente dall'ultimo album di Steven Wilson. Spero di avervi abbondantemente convinto ad andare ad ascoltarvi la proposta musicale dei Blank Faces, potrebbe essere anche per voi amore a prima vista. (Francesco Scarci)

Cemetery Fog - Towards the Gate

#PER CHI AMA: Death old school, Celtic Frost
Non so molto di questo duo finlandese se non che una spettrale intro apre questo 'Towards the Gate', mini Lp di debutto della band (all'attivo anche tre demo), costituito da cinque pezzi (di cui due sono intro e outro). Andiamo allora a dare un ascolto alle tre tracce vere e proprie di questo dischetto: “Withered Dreams of Death” è la prima song che si affaccia con una chitarra old school, che mostra i suoi richiami glaciali al suono primordiale dei Celtic Frost. L'atmosfera è plumbea, l'incedere lento e minaccioso, il lavoro alle sei corde è sorretto da una tastiera mefistofelica e ingannatrice, mentre le growling vocals si rivelano efficaci nel descrivere sogni di morte. Si tratta di un salto indietro nel tempo di almeno vent'anni, quello che ci regala la musica dei Cemetery Fog e il trend occulto dei nostri si conferma anche con la successiva "Embrace of the Darkness", altra song dai forti richiami retrò ma che comunque sa conquistare per il proprio approccio horror, quasi sulla scia dei King Diamond, ma senza la vocina del "Re Diamante". La song trova addirittura il modo di offrire un bellissimo break acustico, con clean vocals sussurrate e delicate note di pianoforte in sottofondo. Niente male ma anche nulla di nuovo. "Shadow of Her Tomb" è il terzo brano, quello dal piglio decisamente più rallentato e inflazionato. Si tratta infatti di un death doom dalle tinte funeral, in cui compare addirittura la celestiale (ma non troppo) voce di una gentil donzella, il tutto per un risultato a tratti scontato. Poco importa; come opera prima questi errori ci possono anche stare, ma per il futuro cerchiamo di trovare una via più personale di dischiudere il proprio sound. (Francesco Scarci)

Woe Unto Me - A Step Into the Waters of Forgetfulness

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism, Shape of Despair
Russia, Ucraina, adesso anche Bielorussia: ormai sembrano queste le terre più prolifiche in termini di musica funerea, branca estrema del nostro amato doom. Ancora una volta la Solitude Prod. ci porta su un piatto ossidato ed incrostato di ruggine, una band che ha fatto proprio il vessillo delle lacrime trattenute, del momento limite tra il lasciarsi andare per sempre all’oblio ed il volgere ancora una volta il capo verso l’alto. Gli Woe Unto Me, con il loro debut fresco fresco, regalano questo: un album che contiene poca luce e ancora meno speranza, anche se non completamente assente perché resiste un capillare di melodia a condurre ogni singolo brano, un lamento che tenta di medicare la devastazione di un growl a tratti quasi effettato e riverberato, creando un contrasto molto apprezzabile tra clean vocals (maschile e femminile, per nostra fortuna bypassando il solto dualismo a la “beaty and the beast”) e grugniti. Tutto questo a frantumare ogni singola nota imbastita dalle due chitarre e sorretta in modo marziale da una sezione ritmica che offre comunque una discreta variabilità di tempi, con qualche accelerazione tuttosommato appropriata per spezzare il mood monocromo che permea il disco. Aspettatevi molti effetti, molti intermezzi rumoristici quali scrosci d’acqua piovana, tuoni in lontananza e rumori di passi, a fare da collegamento tra i vari brani, il che forse rappresenta una delle pecche dell’album, per un certo sentore di già sentito, un po’ un cliché del genere che forse varrebbe la pena di abbandonare in favore di un ben più apprezzabile stacco netto tra i pezzi. Sicuramente l’utilizzo delle tastiere e dei sintetizzatori facilità la vita di non poco nel realizzare sonorità così decadenti, ma per quel che può valere, ritengo che questo possa rappresentare la solita nota (ma sempre ben affilata) lama a doppio taglio, perché il rischio di cadere a volte nello stucchevole si avvicina in più di un’occasione (vedasi il finale del pezzo conclusivo), senza però compromettere troppo il risultato finale. I pezzi sono in media lunghi, si parte dai nove minuti e mezzo per arrivare ad oltre i quattordici, con l’eccezione del quarto brano solo strumentale che si aggira intorno ai sette (e forse rappresenta il miglior esempio di utilizzo delle tastiere di tutto l’album, sarà ripetitivo ma tant’è...). In definitiva, questo disco può essere considerato come un valido esordio per una band che dimostra di avere già idee personali e carattere e che deve solo rendersene conto, ma che dimostra di aver compreso la strategia da usare per il futuro: prendere quanto già esiste e rimaneggiarlo a propria immagine e somiglianza. Con qualche riserva ma bene. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 70

woeuntome.bandcamp.com

mercoledì 30 luglio 2014

Manthra Dei – S/t

#PER CHI AMA: Hard Prog, Psych
'Ladies and Gentlemen, We are Floating in Space'. Cosí, nel ’97, gli Spitritualized intitolavano il loro indiscusso capolavoro e cosí, oggi, si potrebbe sottotitolare questo esordio del quartetto bresciano Manthra Dei, fuori per la ottima Acid Cosmonaut Records. Non tanto per le affinità stilistiche (invero pochine) con la band di Jason Pierce, quanto perchè la musica contenuta in questo album sembra essere in grado di staccarsi dal suolo e portare l’ascoltatore a fluttuare nelle profondità del cosmo. Di certo i Manthra Dei, di musica, devono averne ascoltata parecchia, in particolare tanto rock anni '70 ma non solo, del genere piú acido e meno terrigno, tale è la ricchezza di suoni, pulsazioni e suggestioni rilasciata dalla loro musica, come una spugna ben imbevuta. L’elemento caratterizzante del loro suono è senza dubbio l’organo hammond di Paolo Tognazzi, sia quando si erge protagonista con assoli acidi e pastosi, sia quando srotola tappeti preziosi per le digressioni dei suoi compari (Michele Crepaldi alla batteria, Paolo Vacchelli alle chitarre e Branislav Ruzicic al basso). Quello dei Manthra Dei è un rock fondamentalmente strumentale, che si colora qua e là di tinte hard, psych o prog, risvegliando un range di influenze e rimandi davvero sterminato, che va dal kraut dei Can ai Pink Floyd di mezzo, dagli Atomic Rooster agli Ozric Tentacles, dai Nice fino ai Deep Purple, dai Tool al prog italico (quello sul versante piú rock e meno jazzato). Ci sanno fare, i Manthra Dei, e l’iniziale "Stone Face" lo mette subito in chiaro, con una frase circolare (che ricorda un po’ quella di "The Wheel" dei Motorpsycho) ripresa piú volte nello sviluppo di un pezzo affascinante, dall’andamento ondivago. Immaginate i Tool catapultati nel 1972. "Xolotl" è invece un hard rock potente, dove il ruolo di guida viene conteso tra la chitarra e un organo acidissimo. "Legendary Lamb" è l’unico brano cantato, peraltro benissimo, dal batterista Michele Crepaldi, e sembra un inedito dei Deep Purple piú groovy, quelli dello sfortunato Tommy Bolin e David Coverdale. A spezzare il ritmo prima del gran finale ci pensa "Urjammer", inquietante suite per organo chiesastico. Gran finale che arriva poi con la monumentale "Blue Phantom", 17 minuti che iniziano con un germe melodico semplicissimo, quasi elementare, per poi irrobustirsi attorno a riff trascinanti, ritmiche complesse e soli di organo effettato, prima di virare verso atmosfere orientaleggianti punteggiate dal glockenspilel, per poi concludersi come una versione heavy dei Goblin di Claudio Simonetti. C’è ancora il tempo per un reprise acustico di "Stone Face", che aggiunge un altro lato ad una proposta già di per sé molto sfaccettata e di portata sicuramente internazionale. Bravissimi. (Mauro Catena)

(Acid Cosmonaut Records, 2013)
Voto: 75