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domenica 11 maggio 2014

Civil Protection - Stolen Fire

#PER CHI AMA: Post Rock, If These Trees Could Talk
Dopo varie peripezie postali, 'Stolen Fire', debut album degli inglesi Civil Protection, raggiunge finalmente la mia cassetta delle lettere. Già dai caldi colori autunnali della sua copertina, ancor di più dai suoni che con educazione si fanno largo nel mio stereo, mi abbandono ad un ascolto rilassato del cd. Una breve intro e poi le gentili melodie di "My Memories Will Be Part of the Sky" trovano immediatamente il modo di far breccia nel mio mood malinconico di questa uggiosa giornata di maggio. Si tratta di una lunga song strumentale che si muove tra sonorità ariose a la If These Trees Could Talk e altre più oscure e struggenti in stile Godspeed You! Black Emperor. Bravi, non c'è che dire, solo che il sottoscritto ritiene assolutamente indispensabile anche la presenza di un vocalist a completare un quadro musicale che altrimenti reputerei "orfano" di uno dei più importanti strumenti musicali, la voce. Presto accontentato perché con "Alaska", terza traccia della release, fa la sua comparsa dietro il microfono Adam Fielding, uno dei tre chitarristi dell'act del Yorkshire. Perché tre chitarre poi? Semplice, le stratificazioni melodiche dipinte dalle sei-corde rappresentano uno dei punti di forza del sound dei nostri. La performance di Adam completa poi il quadro alla perfezione, con la sua timbrica che trasmette grande serenità e arriva quasi a toccarmi il cuore, in una song che sembra subire anche un'influenza dei primi Radiohead. Ancora distratto dai suoni di "Alaska", nel lettore sta già girando "Many Moons Ago" e il pizzicare ammiccante delle sue chitarre mi richiama all'attenzione. Il ritmo va intensificandosi, accelera come il battito del cuore dopo una grande corsa mentre le chitarre si fanno un po' più grosse con echi di una voce lontana in sottofondo. Un breve interludio e arriviamo a "From the Parish to the Pavement", che mostra una componente elettronica infiltrarsi nel sound del quintetto inglese, ma pure il pulsare intermittente dello splendido basso di Philip Birch, in una song dinamica che trova il suo punto di rottura in un intermezzo quasi noise, per poi riprendere in un crescendo emozionale da brividi, con le vocals di Adam sempre relegate in sottofondo. Per certi versi vicini agli *Shels, per altri riconducibili ai Mogway o addirittura alle sonorità più morbide dei Tool, i Civil Protection si confermano ottimi musicisti con idee assai valide e in taluni casi molto personali. Con "Redrawn", sono Kenny Skey alle pelli e Philip al basso ad aprire le danze, dando il tempo da seguire ai tre chitarristi, che ben presto entreranno in scena: uno ritmico, l'altro con un giro ipnotico e infine il terzo a tessere una trama melodica contagiosa in una escalation musicale roboante. "Monedula" è una commovente ninna nanna, in cui ho immaginato una madre tenere in braccio e cullare il proprio figlio per la prima volta, mentre lacrime di gioia le rigano il viso. La traccia conclusiva è affidata alla title track, suadente e delicata nel suo incipit, si srotola in un cupo post rock che ancora una volta vive i suoi maggiori sussulti nelle sue accelerazioni al cardiopalma e negli intermezzi in cui i lamenti di Adam fuoriescono. Album da ascoltare tutto di un fiato per lasciarsi trasportare dal flusso catalizzante dei suoi suoni. (Francesco Scarci)

(Bunnysnot Records - 2013)
Voto: 80

http://www.anticitizen.net

Paramnesia - IV-V

#PER CHI AMA: Post Black
Non tutte le ciambelle escono con il buco. Questa breve sentenza per certificare che le uscite Ladlo Productions (che ha appena rilasciato il meraviglioso come back discografico dei The Great Old Ones) non rispecchiano necessariamente standard qualitativi eccelsi. Oggi è il turno dei francesi Paramnesia, che con questo 'IV-V' debuttano ufficialmente su lunga distanza, dopo un EP e uno split con gli Unru. Ebbene, la one man band di Strasburgo, capitanata da Pierre Perichaud (stranamente un batterista), ci offre due lunghe tracce (appunto "IV" e "V" per 40 minuti di musica) di ignorante cascadian black metal. Siamo ahimè lontani dagli standard americani di act quali Wolves in the Throne Room, Panopticon o Deafheaven. La proposta del musicista transalpino infatti si pone come un impasto sonoro che tributa la sua sofferente offerta al caos primordiale, sebbene un tranquillo inizio acustico. Poi è l'inferno a palesarsi con sferzate ritmiche di violenza estrema, flebili urla atroci, blast beat irrefrenabili e un sound cosi rozzo che in taluni casi è addirittura complicato decifrare quello che fuoriesce dalle casse. Il feeling malinconico caratteristico del genere è ben presente nelle linee di chitarra del factotum alsaziano, soprattutto in quei momenti in cui il vento gelido del nord smette di soffiare e oscuri e rarefatti momenti di quiete trovano modo di placare la tempestosa inquietudine di Pierre. Mettiamoci una registrazione non proprio limpidissima e potrete intuire quanto sia poco digeribile l'ascolto di questa release. La seconda "V" apre lenta e disarmonica, con le chitarre che sembrano voler imitare una delle stralunate band norvegesi (a me sono venuti in mente i Ved Buens Ende). Un paio minuti di calma apparente e poi ecco riesplodere un groviglio fatto di allucinate chitarre marcescenti e un martellare intrepido dietro le pelli, con un aura melmosa e nefasta che ne avvolge l'intera composizione. Il sottoscritto è un fan del black metal cascadiano, di quello dalle ritmiche serrate ma corredato da melodie coinvolgenti di sottofondo; qui c'è ben poco di tutto questo se non una infernale matassa di suoni, che si sbrogliano tra galoppate black, atmosfere minimal/suicidal e frangenti al limite del funeral doom. Difficile pertanto affermare che il prodotto che ho tra le mani sia un qualcosa di cui ci ricorderemo a lungo, se non per quel suo meraviglioso digipack, che abbina parti opache ad altre lucide a creare un effetto tridimensionale, davvero affascinante. Poca roba però per un onesto album black. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions - 2014)
Voto: 60

http://paramnesiaxpa.bandcamp.com/

sabato 10 maggio 2014

Forbidden Shape - The Sleepwalking Psychopath

#PER CHI AMA: Thrash/Death
Il bello di fare recensioni di gruppi emergenti è soprattutto il fatto di non sapere mai cosa aspettarsi al pigiare del tasto play del nostro amatissimo cd player; ci si può fare un gran film guardando le copertine e lo stile dell'artwork, ma fidatevi, poche volte sarete ricompensati con la consapevolezza di averci azzeccato, anzi... Per quello che mi riguarda è il caso di questi Forbidden Shape, combo russo dedito ad una sorta di death metal a tratti brutal, a tratti quasi power metal, a sprazzi molto thrash riff-oriented. Detto in parole povere, un gran casino. Nel senso dei volumi? No, in questo caso, un gran casino di idee, ben poche messe a fuoco e portate fino alla fine. Una stroncatura prima di iniziare? In un certo senso si, in un altro no; ora mi spiego. Vi confesso che ho ascoltato questo cd per almeno 5 volte (con gran fatica) prima di pronunciarmi; vi confesso anche che, per come sono fatto io, ascoltare 5 volte una cosa che non mi entusiasma è già un grande sacrificio. Non a caso, purtroppo, quelle che seguiranno non saranno giudizi estremamente positivi; quello che mi si pone all'ascolto è un calderone di suoni, rumori, frammenti di canzoni, pessime growling vocals, accordi che faticano a trovare un legante, se non quello di far parte di una stessa traccia sul dischetto ottico. Parole incomprensibili se non leggendo il libretto (non mi era capitato nemmeno con i Cannibal Corpse più marci...), canzoni senza capo né coda, nessun riff portante, pochi solos degni di nota e, a quanto sembrerebbe leggendo i testi, anche poco da dire. Con tutta la buona volontà, trovare un pregio alle composizioni del gruppo, almeno per me, è una "mission impossible". Non bastano una manciata di riff quasi indovinati (ma tutti col retrogusto del già sentito) a salvare quella che, sotto il punto di vista meramente compositivo, è una disfatta a tutti gli effetti. Come in quasi tutte le cose, qualcosa da salvare c'è, giusto per non ammazzare con un voto pessimo questa release; prima di tutto i suoni, non sono sicuramente i peggiori sentiti, anzi risultano essere piuttosto curati. L'aspetto tecnico è notevole, meritano di essere citate le prestazioni della sezione ritmica su tutte: bravo Gungrind al basso (per l'esecuzione, la composizione delle songs è da rivedere). Sappiamo tutti che però un disco non puo' reggersi su buoni suoni e ottime prestazioni stile session man (oddio, per quello che riguarda un certo “rock italiano” sembrerebbero bastare anche solo queste due cose), quindi cio' che propone questa release riesce a malapena a rosicchiare una sufficienza che finisce per non accontentare nessuno: prima di tutto i Forbidden Shape, perchè con questi mezzi esecutivi e un po' di concentrazione in piu' in fase di composizione, questo cd assume fortemente il sapore amaro dell'occasione persa; si può e si deve far di più. Non accontenta di certo me, perchè mi aspettavo ovviamente di più (maledette supposizioni “da copertina”). Senza ombra di dubbio la migliore traccia a mio parere rimane la numero 7, “Crude Soil Therapy”, che oggettivamente contiene delle ottime idee che lasciano intravedere capacità indiscusse. Per poco hanno evitato di essere “rimandati a Settembre”, la sufficienza la strappano sulla fiducia. Dai Forbidden Shape mi aspetto molto di più; sarò qua ad attenderli. (Claudio Catena)

(Fono Ltd - 2013)
Voto: 60

http://www.fono.ru/artist/181/

venerdì 9 maggio 2014

Woman is the Earth - Depths

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven
Che sia il fenomeno musicale del momento è sotto gli occhi di tutti; il post-black, che va ormai a braccetto con il cascadian sound, ha raggiunto grandi vette di popolarità grazie ad act quali Deafheaven, Wolves in the Throne Room, Altar of Plagues e recentemente ai, da poco recensiti, The Great Old Ones. Calcando l'onda del successo del genere, ritornano i Woman is the Earth, che già avevamo potuto apprezzare in occasione del loro secondo lavoro, 'This Place that Contains my Spirit', pochi mesi fa. Il come back discografico è affidato ad un nuovo ma breve lp di tre pezzi, 'Depths', che esce per la Init Records e che mette in luce una progressione musicale assai interessante per il combo del South Dakota. Il trittico di song si apre con "Crown & Bone/Dreamer", lungo e malinconico brano di oltre 10 minuti, in cui il trio di Rapid City, torna a graffiare con un muro sonoro lo-fi, in cui a battagliare sono furibonde epiche cavalcate con apocalittiche atmosfere, corredate da mortifere screaming vocals e qualche raro momento acustico. Attenzione però che qualcosa si muove a livello musicale, con una vena progressiva che sembra materializzarsi timidamente a livello solistico. Lo preannunciavo nella precedente recensione che ne avremo sentite delle belle, se solo le idee fossero incanalate in modo migliore e i nostri sembrano essere in effetti sulla strada giusta. Soprattutto quando è la strumentale "Lifted" a materializzarsi nelle mie orecchie, che offre una sezione ritmica, affidata alle sei corde di Andy e Jarrod, alquanto imprevedibile: caldi intrecci di chitarre deliziano infatti i miei timpani in una song elegante e dal piglio post-rock. Una lunga apertura corale ci introduce a "Child of Sky" che poi ci prende per mano con il suo riffing furioso intriso di disperazione, accompagnato dall'incessante martellare di Jon alle pelli e dalle viscerali vocals di Jarrod. Ahimè il cd termina qui, lasciandomi un po' con l'amaro in bocca, perchè sinceramente avrei gradito almeno un altro paio di song a soddisfare la mia sete infinita di suoni cascadiani. Buon passo in avanti per l'ensemble statunitense, ma solo mezzo punto in più rispetto al precedente lavoro, semplicemente per le poche song proposte. Attendo fiducioso per un imminente futuro. (Francesco Scarci)

(Init Records - 2014)
Voto: 70

giovedì 8 maggio 2014

Misanthropic Art – The Streams of Terror

#PER CHI AMA: Black Industrial, Blut Aus Nord
Quando l'offerta supera le aspettative di piacere d'ascolto, si rischia di essere di fronte ad un gioiellino d'arte estrema, di rumore pregno di melodia, di carica industriale e ipnotica, pensata e suonata con la forza della ribellione verso il già scritto, il già suonato; quello che altrove risulta ovvio e scontato, in questo doppio concept album è forma artistica, poesia deforme ed estrema. La follia della sua sonorità, la drammaticità teatrale, la ricerca sonora tra macerie di violenza, dissonanze e rumori per costruire un viaggio occulto, spettrale e onirico nel buio più profondo. Quel buio dal carattere gotico, dalla struttura black metal e dal retrogusto crust, noise, dark, ambient esoterico per un doppio cd che ai più risulterà una tortura ma che alla luce dell'avanguardia, splenderà come un nuovo sole, geniale nel suo aspetto oltranzista, senza remore nell'impatto, altamente atmosferico ed evocativo nel suo essere tritacarne sonoro, contraltare black dei capolavori noise di Zeni Geva in ambito alternativo d'avanguardia, paragonabile nell'estremità sonora al capolavoro devastante dal titolo 'Vexovoid' dei Portal o ad 'Evolution Through Revolution' dei Brutal Truth, uniti alla maestosa destrutturazione dei migliori Blut Aus Nord, filtrati dalle allucinazioni sperimentali di casa Beherit, con il lato gotico sacrale d'altri tempi caro ai migliori Fields of the Nephilim. Questo doppio cd intitolato 'The Streams of Terror' (cd 1 dal titolo 'Chains' con otto brani e cd 2 'Threads' con altri quattro) cavalca una nuova onda di musica reale, liquida, violenta e malatamente sinfonica che arriva da mondi senza tempo e tenebrosi, una realtà psichica altamente inquinata e allo stesso tempo tanto presente e penetrante da non lasciare scampo. Questa one man band russa capitanata dal geniale tuttofare Sadist, attiva sin dal 1999 con un numero elevatissimo di pubblicazioni, ha superato con questo inquietante lavoro, giudicabile esclusivamente a livello emotivo e licenziato via S.N.D. Productions, quel confine musicale che altre band più blasonate nemmeno riescono lontanamente ad immaginare. Questo non è black metal, è solamente il buio migliore, il suono dell'oscurità perfetta! (Bob Stoner)

(S.N.D. Productions - 2013)
Voto: 90

Bleeding Eyes - A Trip to the Closest Universe

#PER CHI AMA: Psych Sludge
I Bleeding Eyes (BE) sono una masnada di bastardi veneti che occupano un posto di riguardo nella scena sludge-doom-stoner sin dal 2003. E da allora non hanno mai smesso di mietere vittime innocenti e non grazie alla loro dose di "satanismo" verace. Legati indissolubilmente con tutto quello che riguarda l'alcool e in particolare la sacra birra (dopo tutto dalle loro parti esiste un poco noto birrificio, Pedavena), i BE sono cresciuti costantemente negli anni, sapendo affrontare i vari cambi di line-up, la firma di un contratto con la Godown Rec. e molto ancora, portandoli ad essere una band che suona in ogni dove, a fianco di gruppi che metterebbero la tremarella ai più deboli di cuore. Questo "A Trip to the Closest Universe" contiene sei tracce e risale ormai ad un paio di anni fa, anticipando il prossimo lavoro previsto per l'estate 2014 che sono già ansioso di ascoltare. Ma torniamo a noi e passiamo alle tracce qui contenute. Si aprono le danze mefitiche con "Arrotino", brano dal testo che prima vi fa sogghignare e poi vi lancia in un turbine di depressione ed ansia che rischia di rubarvi l'anima per sempre. Riff pesanti e ritmica iniziale lentissima che vengono accompagnati da declamazioni urlate in faccia con rabbia e disprezzo. Poi il brano accelera (passatemi il termine) facendovi godere a più non posso, insomma, un gran pezzo con tanto di assolo e cambi ritmici. "Pozzo senza Fondo" sembra dedicata al nostro blog e di fatti racchiude tanto odio e cattiveria, sia a livello strumentale che vocale. I suoni dei BE sono saturi, graffianti e potenti come un pugno nello stomaco quando meno te lo aspetti. Chitarre che vi schiacciano, ma allo stesso tempo l'uso di delay e affini, crea atmosfere diverse dalle classiche sludge-doom, permettendo all'ascoltatore di non soffocare miseramente. La scelta di cantare in italiano potrebbe essere opinabile dal punto di vista di visibilità all'estero, ma i nostri ragazzi se ne fottono allegramente e quindi si divertono a scrivere i testi che fanno sorridere per alcuni passaggi, ma lasciano l'amaro in bocca per l'attualità dei temi di cui trattano. Una sorta di profeti sociali del 21esimo secolo? Decidete voi. L'album chiude con "From Now On It Can Only Get Worse", un doom di quelli da enciclopedia musicale che dovrò assolutamente ascoltare in sede live perché se mi ha annientato comodamente seduto sul divano, ho paura che sotto il palco avrò delle visioni mistiche. Con una buona dose di psichedelia, sapientemente usata per spezzare le catene degli schemi, il brano è bello tosto (undici minuti), ma è talmente vario che non ve ne accorgerete neanche. C'è addirittura un break simil hardcore, quindi non dico balle scrivendo che i Bleeding Eyes sono un gruppo di qualità, di cui bisogna essere fieri e che invito a supportare come potete. Con un piccolo obolo vi portate a casa della gran musica, ottimamente composta e registrata. E poi, trovatemi altri gruppi che ripagano i propri fan con tanta generosità. (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2012)
Voto: 85

https://www.facebook.com/pages/Bleeding-Eyes

domenica 4 maggio 2014

Orthodox - Conoce Los Caminos

#PER CHI AMA: Doom, Avanguardia, Noise, Free form
In attesa di un loro nuovo lavoro – l’ultimo 'Baal' è del 2011 - è tempo di bilanci per il fenomenale trio di Siviglia: 'Conoce Los Caminos' è un doppio album che racchiude rarità, inediti e b-sides risalenti al periodo 2005 – 2010, e può rappresentare tanto un succulento boccone per i fan quanto un compendio ideale per chi si volesse approcciare alla multiforme proposta di quello che probabilmente è quanto di meglio possa offrire, in ambito estremo ma non solo, la penisola iberica. La scaletta si dispiega per piú di due ore alternando sapientemente umori ed atmosfere, fino a fornire una fotografia piuttosto fedele di quello che sono gli Orthodox, da sempre capaci di fondere in maniera sorprendentemente organica, e sempre credibile, suggestioni sabbathiane, tematiche bibliche, ugge dark-folk, il free jazz piú estremo e i Pink Floyd piú disturbati e psych. Ecco quindi che trovano posto versioni primordiali e imperdibili di brani quali “Geryon’s Throne” e “Il Lamento del Cabrón” – presenti nell’esordio 'Gran Poder' che, nel 2005, ricevette l’investitura nientemeno che dell’Arcidruido, Mr. Julian Cope, travolto dagli opprimenti riff doom, le coltri ambient noise e le voci da pelle d’oca di queste lunghissime composizioni – ma anche una prima bozza di quel pezzo di musica aliena che rimane “Ascension” (dal terzo album 'Sentencia' del 2009), tra John Cage, Art Ensemble of Chicago e il Tim Buckley di 'Lorca'. Ci sono poi altre testimonianze dell’evoluzione sonora dei tre, sempre impegnati a confondere le acque e innervare la loro musica di nuove influenze e suggestioni, dallo space rock gotico “Matse Avatar”, alla spettrale, scurissima litania psych-folk “Heritage”, fino alle devastanti sarabande free rumoriste “Different Envelopes” e “Japan Rush”. Rimane poi da dire dell’omaggio, sotto forma di cover, che gli andalusi rendono a due dei loro maestri; ecco quindi “Genocide” dei Venom, grezza e lercia come si conviene, e una “Black Sabbath” che suona crudele e inquietante almeno tanto quanto l’inavvicinabile originale. In definitiva un lavoro davvero ben fatto, che centra perfettamente l’obiettivo di dare una rappresentazione globale seppur, per forza di cose, frammentaria, di una band che è stata in grado di evolversi continuamente fino a diventare praticamente inafferrabile. (Mauro Catena)

(Alone Records - 2013)
Voto: 75

sabato 3 maggio 2014

In Vacuo - In Vacuo

#PER CHI AMA: Post-black, Wolves in the Throne Room
Le band più underground sulla faccia della terra le vado a cercare tutte io, anche se questo ovviamente è lo spirito che alimenta il Pozzo dei Dannati. E oggi mi imbatto negli ungheresi In Vacuo, che cosi gentilmente mi hanno regalato la loro release omonima, da poco uscita su bandcamp. 'In Vacuo' è un lavoro di sei pezzi che partendo da "Obvious" fino ad arrivare alla conclusiva "The Beast", ci sbatte in faccia la personale visione apocalittica del post black, tanto in voga nell'ultimo periodo, rivisitata da questo duo magiaro. La prima traccia va giù bella serrata e abrasiva fin dalle sue note iniziali, salvo concedersi un oscuro break centrale a cavallo tra il doom e influenze cibernetiche, con le vocals di Nagaarum che, ispirandosi al loro connazionale Attila Csihar, si dimostrano fin da subito al vetriolo. Si prosegue con "Urpower" con il duo di Tata che continua a picchiare forsennatamente, sebbene il prologo della traccia si presenti rumoristico e ipnotico. Le derivazioni cascadiane di Wolves in the Throne Room o anche dei defunti Altar of Plagues, si palesano nella ritmica dei nostri nuovi paladini, che mi colpiscono non tanto per la loro furia, ma per quelle linee di chitarra assai melodiche e piacevoli per le mie orecchie. "Cradle Of The Universe" è una traccia che attacca apparentemente tranquilla, poi il sound melmoso del combo ungherese prende il sopravvento con un feeling maligno e marcescente con voci demoniache quasi catarrotiche che deflagreranno presto in una nebulosa tempesta di elettricismi schizoidi e malati, che nell'acustico break centrale, vivono il loro momento più puramente di angoscia e paura. "Whip Slashing Thousand Times" apre con sonorità arabesche e continua con stilettate death/black old school. Con "Dance of the Universe" ci prendiamo una pausa drone/noise/ambient prima del finale incandescente affidato alla già citata "The Beast", song in cui gli In Vacuo mostrano il loro lato più imprevedibile e anche quello che ho apprezzato maggiormente: assurdi suoni estremi conditi da melodie gitane e rabbiose fughe post black che chiudono questo intrigante debutto firmato Emp e Nagaarum... (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

The Pit Tips

Don Anelli

Hirax - Immortal Legacy
Hatriot - Dawn of the New Centurion
Violent Snatch - We Serve No One
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Bob Stoner

Twilight - Monument To Time End
Sabbath Assembly - Ye Are Gods
Bohren und der Club of Gore - Dolores
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Francesco Scarci

Taranis - Kingdom
The Great Old Ones - Tekeli-li
Adora Vivos - Toward the Empyrean

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Mauro Catena

Paolo Saporiti - S/t
Orthodox - Conoce Los Caminos, MMV - MMX
Brad Meldhau - The Art of Trio Vol. 1
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Kent

Horn Of The Rhino - Weight Of Coronation
Graves At Sea/Asunder - Split
Black Pyramid - Stormbringer

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Claudio Catena

Black Label Society - Catacombs of the Black Vatican
Vista Chino - Peace
Dismember - Death Metal

venerdì 2 maggio 2014

Adora Vivos - Toward the Empyrean

#PER CHI AMA: Death/Doom/Progressive, Evereve
La Tridroid Records è una piccola etichetta indipendente del Minnesota, St. Paul per l'esattezza, che produce e distribuisce principalmente cassette di band molto underground. Ho avuto la fortuna di essere venuto in contatto con il suo fondatore che mi ha dato la chance di conoscere una delle band del suo roster, gli Adora Vivos, quartetto del medesimo stato che ha rilasciato a fine 2013 questo EP (digipack cd) di cinque pezzi, 'Toward the Empyrean' che sembrano raccogliere nel loro sound un'eredità pesante, quella dei Woods of Ypres. Doomish quanto basta la opening track "The Ruin of Tranquility" che si presenta con un approccio corale emozionante prima di abbattersi con un riffing coinvolgente e assai melodico. Intrigante l'utilizzo di molteplici vocalizzi, non tanto per la non-novità della cosa, ma per il fatto che sono tre i cantanti ad avvicendarsi, con differenti stili, davanti al microfono. Le linee vocali seguono poi le linee delle chitarre, che tra furibonde cavalcate e stop'n go, rendono la musica assai varia e piacevole da ascoltare. "These Dark Roads" è più mid-tempo oriented, cosi durante il suo lineare avanzare, trovo il tempo anche di analizzare la pulizia del suono e l'egregia produzione che vi sta dietro. Nel frattempo la song cresce di intensità, con il growling che viene affiancato da clean vocals ed epici chorus. "Acceptance and Negation" è un bel pezzo fluido di death melodico che parrebbe influenzato dal sound finlandese dei Dark the Sun, ma anche da un qualcosa dei primi lavori dei tedeschi Evereve, per un risultato complessivo davvero convincente per l'armonizzazione delle sue chitarre e per quel mood un po' ruffiano che emana la musica dei nostri. "And So Begins the Fall" può essere assimilabile ad una semi-ballad dei Metallica; non storcete il naso però, perchè la song mette in luce un buon riffing, ottime vocals sorrette da splendide melodie e un bell'assolo heavy nella sua parte finale. Ben preparati tecnicamente, il quartetto statunitense arriva a conquistarmi definitivamente con la lunga song che chiude il platter, i quasi dieci minuti della title track, che partendo da un prologo sinistro e maestoso, palesa nuovamente l'amore della band per i Woods of Ypres, con un brano che attesta una certa maturità artistica ma anche una certa abilità nell'alternare ritmiche tempestose con scenari più rarefatti e dilatati e vocals che qui si avvicinano addirittura a quelle del buon Peter Steel dei Type O Negative. Buon debutto, bravi, ma un plauso va anche alla Tridroid Records che ha saputo puntare sui nostri. (Francesco Scarci)

(Tridroid Records - 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/adoravivosmn

Hundred - The Forest Kingdom - Part One

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Iron Maiden
Gli Hundred sono una giovane band di Kingston, Londra. Con il loro EP d'esordio 'The Forest Kingdom - Part One' propongono il primo episodio di quello che sarà un progetto integrale, attraverso una demo gradevole e diretta, sulla quale incombe però una produzione tecnica del suono non all'altezza del buon spirito musicale del gruppo. Il quintetto inglese riesce in ogni caso a trasportare l'ascoltatore indietro di trent'anni, verso un sound e uno stile heavy britannico di primi anni ottanta, cosa che può essere un pregio o un difetto solamente in merito ai punti di vista. Sicuramente l'atmosfera fantasy, condita da intrighi e mistero che si respira, costituisce l'ingrediente segreto della band, la quale riesce così a dare al genere proposto una visione più personale. La prima traccia, "Twilight in the Forest Kingdom", trascina idealmente nella foresta che si snoda in copertina, la quale è tratta dal dipinto di John Martin 'The Trees'. E così si snodano anche gli strumenti uno a uno a inizio brano, presentando un tema alla prima chitarra, un basso che ne segue l'andamento e una dopo l'altra le altre due chitarre. Nello strumentale che segue sono le chitarre ritmiche a conquistare la scena, preparando alla parte centrale del pezzo, che vede la presenza del vocalist, che appare racchiusa in due strumentali piuttosto ampi, che aprono e chiudono il pezzo. Nella parte strumentale conclusiva le tre chitarre si aprono a libere melodie armonizzandosi e sovrapponendosi a vicenda, mentre la voce accompagna l'incedere melodico con vocalizzi. Colonna portante di questa sezione è un accattivante giro di batteria seguito e imitato dal basso in modo però molto poco incisivo. Assoli virtuosistici dichiaratamente heavy accompagnano al finale, che risulta essere purtroppo vagamente sbrigativo. "The Forest King Marches", seconda traccia dell'EP, si presenta molto più compatta della precedente, in quanto basata su riff più semplici e meglio amalgamati con basso e batteria. Sembra davvero di esser trasportati indietro ai tempi di album come 'Killers' degli Iron Maiden, alle vocals di Paul Di'Anno e alle prime sperimentazioni di quelli che poi sarebbero divenuti classici dell'heavy metal. Forse, in questo pezzo così breve rispetto al precedente, manca il gusto della variazione e la volontà di proporre qualcosa di nuovo, ma d'altra parte il risultato finale ne trae giovamento, in quanto l'esecuzione si presenta più decisa che nel brano d'apertura. Anche le vocals si sviluppano in modo più equilibrato a livello di distribuzione e, pur non gridando alla novità, s'inseriscono in un filone ampiamente battuto ma che, per gli appassionati del genere, è sempre degno d'esser riproposto. Tematiche folkloristiche appaiono nuovamente in "Forest Sorcery", terzo brano del cd. Sembra di esser catapultati verso i miti e le leggende britanniche, in foreste popolate da Druidi contese in battaglie e intrighi contorti come le radici degli alberi, i quali prendono vita e svelano ataviche storie, impresse sulle cortecce come cicatrici nel corso dei secoli. Una linea vocale scaturita dall'idea del riff di chitarra in apertura accompagna questo pezzo, che alterna un cantato sposato a chitarre ritmiche e passaggi solistici di chitarra nella parte iniziale. 4 colpi di sticks introducono un giro di chitarra nervoso ed elettrico, che sarà tema ritmico principale per tutta la durata del brano "The Fortress Awaits", il quale finalmente darà carica e dinamismo a un EP altrimenti sottotono. Forse per la comodità ed l'efficacia di questo riff, che alterna una melodia a scariche a coda vuota, tutta la sezione chitarristica sembra investita di nuova energia e anche l'insieme ne trae beneficio. Il pezzo è semplice e compatto; l'apporto di una comunque discreta tripletta di chitarristi è finalmente valorizzato e non penalizzato da scarsa coordinazione. Perciò la band, chiudendosi per così dire a falange spartana, dà ora quella grinta di cui il vero heavy abbisogna. L'acuto del vocalist che introduce il testo è migliore che in precedenza e la sua prestazione complessiva, per quanto lo stile vocale sia grezzo e spinto in questo brano, convince maggiormente con un cantato qui più corposo e serrato. La batteria, pur dando forse prestazione migliore di sé, viene soffocata dagli altri strumenti, soprattutto nella parte di assoli di chitarra finali, e rimane veramente udibile solo il set di piatti, a discapito di cassa e tom. La conclusione del nostro viaggio attraverso le verdi pianure inglesi avviene con "Over the Plains". In questo pezzo, di più di ampio respiro dal punto di vista delle vocals, abbiamo una melodia più precisa e interessante, che riesce a creare quel senso di liricismo e solennità che furono l'altra faccia della medaglia dell'heavy classico e si sposarono spesso a lyrics storico - letterarie in band come gli Iron Maiden. Un riff di chitarra apre il brano e si capisce subito la volontà di creare delle ritmiche più maestose che serrate. Un po' arrancato suona l'ostinato sul ride nella parte subito seguente, idea interessante quella dell'imitazione ritmica del riff d'apertura, ma che per motivi esecutivi perde efficacia. Nel complesso però il drumming offre un supporto migliore che nei brani iniziali e si sposa più saldamente al torrente in piena di note ribattute al basso, imponendosi più decisa nei ritmi e nei passaggi, i quali hanno però ancora qualche pecca esecutiva. Le chitarre assumono vita propria e cantano gareggiando tra loro nella parte centrale e finale, mescolando assoli con il riff iniziale e scambiandosi incessantemente i ruoli, cosa che unita a un cantato molto più intrigante porterà a un incremento espressivo che sfumerà nel fade out del finale. L'organico strumentale degli Hundred, in particolare per la presenza delle tre asce di Alex Storrson, David Pike e Adamo Corazza, rimanda subito a quello di mostri sacri come i già citati Iron a piena formazione, che includevano chitarristi del calibro di Dave Murray, Adrian Smith e Janick Gers, punti di riferimento per prestanza live e capisaldi della scuola chitarristica heavy. A questi rimanda anche la scelta delle linee di basso e batteria. L'impressione però è quella di essere ben lontani dalle accattivanti basi di batteria rimarcate dalle percussive triplette di basso del duo Nicko McBrain e Steve Harris. Malgrado questo EP suoni come una presa diretta, mancano a tratti quel sostegno ritmico e quella decisione così importanti in live e che fecero la fortuna di band come quella sopracitata. Questo è probabilmente da imputarsi a quello che sembra essere un frettoloso processo di incisione e per questo e per il fatto che si abbia comunque a che fare con una demo, non va escluso dalla propria discografia questo EP d'esordio degli Hundred, che sa regalare comunque e malgrado tutto momenti piacevoli. Soprattutto è interessante l'idea di fondere tematiche folk/power con una musica tipicamente heavy anni '80, dal cantato che pesca  in parte dallo stile vocale del primo vocalist dei Maiden, il quale a sua volta possedeva una vocalità di stampo blues, in parte dalle vocals di matrice scandinava, specialmente nelle soluzioni corali. Un lavoro in conclusione immaturo circa la realizzazione tecnica, ma che offre spunti che vale la pena di sviluppare in futuro e nell'immediato con la seconda parte di questa demo di presentazione, che ci si augura foriera di un salto di qualità nel sound, nell'esecuzione e nella composizione della band. (Marco Pedrali)

(Adapt Records - 2014)
Voto: 60

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giovedì 1 maggio 2014

Chaos Inception - The Abrogation

#FOR FANS OF: Death Metal, Morbid Angel, Hate Eternal, Immolation
Alabama is usually not on the tops of too many lists when it comes to hotbeds for Death Metal, but if Chaos Inception is going to keep up with albums like this it won’t be long before the state starts moving up. Already two albums in, these scene vets, populated from acts Fleshtized, Blood Stained Dusk, Monstrosity and Quinta Essentia to name a few, offer forth one of the most relentless and harsh sonic attacks in the genre and create one of the more impressive efforts in an overcrowded yet prolific scene with their sound honed and refined much further than previous records showed. Rather than opting for that cavernous, sprawling landscape so often associated within the scene, this goes back to the start with a tight, ferocious sound that favors the guitars first and foremost with their unrelenting brutality that manages to make the songs far more ferocious due to the ravenous assaults in the riff-work as it adds a series of technical riff-work, sharp leads and a tight framework throughout that makes for a raging hellstorm that populates the landscape. Never a true brutal Death act nor a full-on technical one either, instead both form together with a traditional backbone created by the thunderous bass-lines, unrelenting and explosive drum-work to not only propel the songs forward at a devastating pace but also display a far greater sense of dynamics, mood variation and tempo changes than would normally be the case in either styles’ true by-products, leaving this to fall in as a traditionally-sounded death metal band with a brutal streak dominated by far more technicality than what is normally on hand, leaving this a solid, raging effort in the best tradition of the old-school giants. A rather notable but unnecessary highlight that this album is glossed in a crystal-perfect production that highlights every riff, every thunderous drum-blast and renders the vocals deep and growled to perfection is to be commended. If one is to find flaw in this one, which is nit-picking of the highest order, it’s that the band tends to employ the same rhythmic pattern throughout where the songs sound pretty close to one another throughout. The album-opening title track does strike a few nice chords with a bass-solo surprise, but the main rhythms and pace are copied throughout the majority of the tracks. "Phalanx (The Tip of the Spear)" includes some rather pleasing riff-work and a charging atmosphere, but the drum attack and solo section are repeated in here as well. The album’s best tracks, the threesome of "Lunatic Necromancy," "Pazuzu Eternal" and "Hammer of Infidel" do offer up minor chord differentials and pattern changes to distinguish them from the others, whether it be the unyielding guitar work of "Lunatic," a series of sharp bass-lines and frantic technicality through "Eternal" or the extreme brutality in "Infidel." Really, though, each of these songs does contain a number of repetitious patterns and riffs that doe make the whole effort sound remarkably similar to each other, but the sheer energy, aggression and unwavering technicality that moves through these brutally concise tracks makes them fun regardless of how similar they may be, and that alone is the bands’ best trick so far and really offers them great hope for the future. (Don Anelli)

(Lavadome Productions - 2014)
Score: 85

https://www.facebook.com/ChaosInception

The Great Old Ones - Tekeli-li

#PER CHI AMA: Post Black, Altar of Plagues, Blut Aus Nord, Deafheaven
Ne avevo ricevuto un breve assaggio sul sito web della band e già stavo pregustando l'ascolto del full length. Finalmente ho fra le mani 'Tekeli-li', secondo atto dei francesi The Great Old Ones (TGOO) che tanto successo hanno riscosso, nei meandri dell'underground, col precedente 'Al Azif', tanto da creare una profonda attesa per il loro come back discografico. Non so se sia per il recente scioglimento degli Altar of Plagues o cos'altro, ma spasmodica è la ricerca di una band degna di questo nome che possa collocarsi nei cuori dei fan, per sostituire il mostruoso act irlandese, ormai andato. E questa volta la nostra ricerca pare essere andata a buon fine. I TGOO hanno colpito nel segno con uno splendido lavoro di sei pezzi, già di per sé magistralmente confezionato (bello il digipack, ancor di più il doppio Lp). Ma veniamo al roboante incedere dei brani che dopo la delicata intro, si materializzano in musica con "Antarctica", minacciosa song che delinea immediatamente il ruvido approccio post black del quintetto di Bordeaux, il cui concept si rifà ancora una volta al buon vecchio H.P. Lovecraft e al lamento, appunto il 'Tekeli-li', dei suoi mostri immaginari, gli Shoggoth (per ulteriori dettagli però, vi rimando alla lettura de 'Alle Montagne della Follia'). L'attacco è pesante e limaccioso, un effluvio di dolore perpetrato con lentezza disarmante, che ci prepara al fragoroso attacco che sarà inferto da li a poco, con le chitarre malate che sembrano fuoriuscire dalle viscere dell'inferno, confermando le già eccellenti (e malefiche) sensazioni che avevo avuto dall'ascolto del precedente album. Il vento soffia timido in "The Elder Things", song che mostra un lato più riflessivo dei TGOO, segnato da linee melodiche a cavallo tra il depressive e il black cascadiano, in un vortice sonoro che assume i connotati della doppia elica del DNA e cresce cresce, mutando in cancerogeniche cellule che conducono alla formazione di un mostruoso essere, lo Shoggoth, creatura amorfa dal catramoso aspetto esterno. Cosi come quel venefico ameba, la musica dei TGOO si plasma portando terrore e oppressione, complice anche le tenebrose ambientazioni e le orrorifiche vocals di Jeff Grimal, che nella successiva "Awakening" blatera qualcosa in francese, mentre la musica si propaga funerea come un blob assassino. Mancava una componente funeral nella matrice musicale del 5-piece dell'Aquitania e direi che qui calza a pennello, contribuendo ad alimentare quell'innato senso d'angoscia che l'ascolto di 'Tekeli-li' genera fin dalle sue note iniziali. Assai convincente però è l'evoluzione di questo brano che tra sfuriate black, rallentamenti parossistici, intermezzi psichedelici, harsh e clean vocals, forse si presenta come la traccia più varia della release, che sicuramente farà la gioia di chi ama Blut Aus Nord, Wolves in the Throne Room e Deathspell Omega, nomi di un certo spessore che decretano il raggiungimento di una invidiabile maturità artistica anche da parte dei TGOO, sebbene i soli 2 album all'attivo. Mentre sono qui a elaborare sensati pensieri, esplode la funambolica e strumentale "The Ascend", un aggressione sonora all'arma bianca, selvaggia e quanto mai avvincente, che dopo essersi scaricata, trova un po' di pace nei suoi 90 secondi finali. Pronti per la maratona conclusiva? Mancano infatti i quasi 18 minuti di "Behind The Mountains", ultimo monolitico atto che a fronte di un acustico prologo, trova ben presto modo di sfociare in violente scorribande black, in grado di alternarsi a squilibrati e schizoidi cambi ritmici, intimistici e malinconici break arpeggiati sorretti da urla ferali, dando dimostrazione di classe ed eleganza. Ebbene, non saprei che altro aggiungere se non che i The Great Old Ones possono essere dei predestinati. Mostruosi. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions - 2014)
Voto: 85

http://www.thegreatoldonesband.com/