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mercoledì 15 maggio 2013

Way to End - Various Shades of Black

#PER CHI AMA: Post Black Avantgarde, Solefald, Pensees Nocturne
Continua l’intelligente politica dell’etichetta francese Ladlo Productions nel promuovere band del proprio paese e dalle idee alquanto originali. Pensiamo infatti recentemente alle uscite di Pensees Nocturnes o ai post blacksters Regarde Les Hommes Tomber. Quest’oggi è il turno dei Way to End (dove lo stesso Vaerohn dei Pensees suona il basso), che bissano l’esordio datato 2009, “Desecrated Internal Journey” con questo avanguardistico “Various Shades of Black”. Scrivo avantgarde non a caso, dal momento che quando “L’Apprenti” irrompe nelle casse, il mio primo pensiero vola alla delirante e geniale proposta dei norvegesi Solefald. Non siamo ancora ai livelli del duo composto da Cornelius e Lazare, ma il quartetto transalpino ci sta lavorando egregiamente, piazzando nel bel mezzo del brano un bel break di musica classica che mi ha rievocato anche qualcosa dei Dispatched. Poi è proprio dalla band madre del buon Vaerohn che arriva linfa vitale per i nostri, con influenze per lo più derivanti dai primi due lavori del mastermind parigino con qualche accenno, nel corso dell’album, anche all’ultimo orchestrale “Nom D’Une Pipe”. Vuoi per la sua presenza dietro al microfono nei latrati lamentosi, vuoi per l’oscura atmosfera che si respira, sarà ben facile capire quanto vicine possano sembrare in taluni momenti, le proposte musicali delle due band. I Way to End, forse mostrano una componente ben più cupa e decadente, con linee di chitarre malate e disarmoniche, che riescono ad evocare oltreché il delirio dei già citati Solefald, anche il misticheggiante avantgarde dei Ved Buens Ende. Ma nei solchi di “Various Shades of Black” si cela un po’ di tutto: dal feeling vichingo a la Borknagar in “Vain”, al post-black di “La Figure Dansante de l’Incomprehension”, passando addirittura attraverso lo swedish black dei Dissection in “A Mon Ombre”, senza tralasciare l’aura epica dei primi Ulver nella conclusiva title track o la brutale sperimentazione di “La Ronde des Muses Fanees”. Insomma di carne al fuoco ce n’è davvero tanta, complice una ricerca spasmodica di una propria identità ben più definita e scevra dalla miriade di contaminazioni che popolano questo “Various Shades of Black”. Le carte buone ci sono, ora toccherà ai Way to End, giocarsele al meglio. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions)
Voto: 70

https://www.facebook.com/waytoend

lunedì 13 maggio 2013

Smohalla/Omega Centauri - Tellur/Epitome

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Solefald, Limbonic Art, Blut Aus Nord
Devo essere sincero: ho amato alla follia il cd “Resillience” dei francesi Smohalla, mentre non mi aveva fatto certo impazzire il debut degli anglo-svedesi Omega Centauri, “Universum Infinitum”. Quindi il mio ascolto di questo split cd era piuttosto condizionato dai precedenti lavori delle due band, ora sotto contratto per la Duplicate Records. Il cd è diviso in due in tutto e per tutto: due copertine (una su ogni versante di questo elegante digipack) e sette song (quattro per i transalpini per venti minuti di musica e tre per gli Omega Centauri, con un minutaggio all’incirca di 38 minuti). Ad aprire le danze ci pensa la fantasiosa proposta degli Smohalla, con il loro inebriante concentrato di black sinfonico avanguardistico: “Sa Voix Transperce Nos Fronts” esplode con i suoi stravaganti suoni, che richiamano un po’ alla rinfusa i vari Solefald, Limbonic Art o Emperor, propinando alla fine un black assai tirato ma stemperato nella sua furia, da divagazioni cyber industriali che si rifanno piuttosto ai connazionali Blut Aus Nord. La proposta non è delle più semplici da assimilare, lo devo ammettere, ma vi garantisco che quando vi entra nella testa, non vi lascerà più. Il caos sonoro regna sovrano in “La Main d’Abel” con lo screaming corrosivo di Slo affiancato da ritmiche deliranti. I suoni sono glaciali, a causa della prevalente componente cibernetica che ben si amalgama con quella che era la proposta sinfonica del duo francese. Nella conclusiva “Les Passagers du Vent” emergono maggiormente le orchestrazioni dei nostri, con suoni in cui le armonizzazioni si mostreranno assai intriganti e una ritmica che sembra trarre spunto dal thrash metal. “Tellur” si chiude qui con scariche di violento black metal che sembra suonato da Devin Townsend. Arriva il momento di “Epitome” e della più algida proposta degli Omega Centauri. I suoni sono più freddi, meccanici, sembrano più studiati a tavolino, ma la proposta dell’imprevedibile duo nord europeo sembra aver fatto suoi gli insegnamenti dei già citati Blut Aus Nord e si lanciano con “Naissance” in un ipnotico viaggio negli abissi infernali del black metal più psichedelico, senza disdegnare però fughe nel back metal più minimalista e intransigente. Devo rivedere di certo la mia posizione nei confronti perché a giudicare dai contenuti di questo “Epitome”, la band ha fatto un bel balzo in avanti che mi ha spinto addirittura a rivalutare il loro debut cd. I nove minuti e passa della prima traccia sono contraddistinti da un sound malato, meno caotico dei compagni di etichetta, ma decisamente più pervaso da un feeling maligno. “Submission” ci spara in faccia altri nove minuti di black più misurato, più a passo con i tempi e le nuove mode post che contribuiscono a infondere di una certa intensità la proposta del duo formato da Tom Vallely e Rob Polon. L’atmosfera greve è tangibile, soprattutto quando il suono di un tamburo assurge al ruolo da protagonista mentre le chitarre zanzarose ricamano gelide melodie e la voce tagliente di Rob, minacciosa canta in sottofondo. Spiazzato dall’eccellente proposta della band di Bornermouth/Gotheborg, mi avvio ad ascoltare l’ultimo infinito pezzo, “Desuetude”, una suite di 20 minuti, che si apre con il suono di un temporale e un arpeggio che per una decina di minuti scarsa imperversano nel sottofondo. Poi il silenzio, la più classica delle ghost track, prima dei rimanenti tre minuti dediti a sonorità per lo più drone/elettroniche. Insomma, per concludere gran bel split cd, che mette in mostra le enormi potenzialità di due band, dedite in modo differenti, al verbo della fiamma nera. Da avere assolutamente! (Francesco Scarci)

giovedì 9 maggio 2013

Sleepmakeswaves - …And Then They Remixed Everything

#PER CHI AMA: Electro-ambient, 65DaysOfStatic, Nine Inch Nails di "Ghosts"
Immaginate di prendere un capolavoro del post-rock strumentale (con i soliti ingredienti: parti veloci e parti lente, una spruzzata di linea melodica, l'assenza della voce, le atmosfere dilatate) e metterlo nelle mani di nove artisti dell'elettronica internazionale. È quello che succede con "…And Then They Remixed Everything", versione elettronica di "…And So We Destroyed Everything", primo full lenght del quartetto australiano Sleepmakeswaves. Se l'album originale era stato osannato dalla critica e premiato da tour internazionali di spalla a grandi nomi del genere, questo remix non poteva che essere altrettanto interessante. Mettiamola così: se vi è piaciuta la colonna sonora di "The Social Network" (scritta e suonata dai due geni Trent Reznor e da Atticus Ross, che peraltro hanno anche vinto un Oscar nel 2011), questo "…And Then They Remixed Everything" ne è di fatto una naturale continuazione. Le sorprese, quando le teste dietro ad un disco sono addirittura nove (dieci, se vogliamo considerare il contributo iniziale degli Sleepmakeswaves), non mancano. Spiccano senz'altro "In Limbs & Joints" (non a caso remixato addirittura da Rosetta), per le atmosfere da spazio siderale di synth e tastiere e la opening track "Our Times is Short" dei grandissimi 65DaysOfStatic, brano che non sfigurerebbe nemmeno in uno dei "Ghosts" dei Nine Inch Nails. Non manca l'elettro-funky – che ricorda certi Beastie Boys dei tempi andati – nelle percussioni e organi di "Voices In The Forest" di Klue. C'è l'elettronica liquida da club nel remix di Kyson di "We Like You When You Are Ankward", ci sono i suoni 8-bit da videogioco coin-op in "Hello Chip Mountain" (mixato da un altro grande dell'ambiente: Ten Thousand Free Men & Their Families vs. SMV). Ci sono i 18 minuti abbondanti dello straordinario finale onirico di "After They Destroyed Everything" nel remix di AM Frequencies, che chiudono l'album lasciando l'ascoltatore in uno stato di grazia interrotto solo da due inserti minimal di batterie elettroniche. Un gran bel disco: eccellente se ascoltato come contraltare elettronico dell'originale "…And So We Destroyed Everything", ma validissimo anche come opera a sé stante, per la ricchezza di suoni, spunti, idee, atmosfere e ambienti. (Stefano Torregrossa)

Dodsfall - Inn I Morkets Kongedomme

#PER CHI AMA: Black old school, Satyricon, Gorgoroth, Emperor
Nati nel 2009, questa iperattiva band norvegese di Bergen dedita ad un black metal dalle tinte glaciali, ci presenta un cd del 2012 uscito per la Obscura Abhorrence Productions. Nel frattempo il combo ha già fatto uscire un altro ep nel 2013, per un totale di quattro released in quattro anni, senza dubbio una buona media. Da non confondere i Dodsfall con l'omonima e connazionale band dedita al doom metal, i nostri sono senza ombra di dubbio dei veri e duri black metallers. Il cd si apre con la foga tipica del genere, batteria in primo piano e chitarre distorte a ruota a creare un omogeneo sound gelido; tutto gira come da copione e il prodotto finale è molto interessante seppur spartano nella fantasia, stereotipato nella composizione e nell'artwork di copertina. Questo non toglie che per gli amanti del più convenzionale black norvegese, "Inn I Morkets Kongedomme" non risulti un'opera veramente entusiasmante e sparata a mille nello stereo di casa vi apparirà oscuramente trascinante e forgiata col fuoco. Suoni di scuola Gorgoroth, molto crudi e dinamici ma catturati e suonati con gusto e ricercatezza maestrali, una ritmica messa a fuoco da una buona qualità di registrazione e uno screaming quanto mai centrato per questa musica. L'album ha al suo servizio otto brani cantati in norvegese e questo spinge ancora di più l' acceleratore rendendo il tutto molto duro e nero, la presenza di un buon vocalist si sente e si fa notare portando il tutto ad essere più coinvolgente. "Undergangen" è un brano magistrale: poco più di quattro minuti con all'inizio un mid tempo e un guitar sound drammaticamente splendido, un'evoluzione in velocità, aspettata e dovuta in puro stile Satyricon, freddo, tagliente, dal canto spietato e dall'incedere epico e violento. L'idea di far rimettere in moto la magia del puro black metal norvegese riesce bene e complice una registrazione di alta qualità, rende il tutto perfettamente appetibile e di valido ascolto. Resta difficile gridare al miracolo d'innovazione ma visto dal lato conservativo dei canoni del genere in questione, siamo di fronte ad un prodotto di buona fattura, cattivo, violento e agghiacciante, interamente dedito ad una ricerca del vecchio buon metal estremo e oscuro. Una foresta impenetrabile ma affascinante, il lato oscuro e sublime del metallo! (Bob Stoner)

(Obscura Abhorrence Productions)
Voto: 70

https://www.facebook.com/dodsfall

Combat Astronomy - Kundalini Apocalypse

#PER CHI AMA: Noise, Doom, Jazzcore, Zu
Ma che belle sorprese che arrivano nella cassetta della posta del Pozzo! Dopo gli ottimi Lilium Sova, un altro album dalle atmosfere simili, che rivendica un posto importante nel panorama post-metal strumentale contaminato con il free-jazz più estremo. I Combat Astronomy sono un progetto essenzialmente ascrivibile alla creatività dello statunitense James Hugget, responsabile della scrittura di tutti i brani, delle chitarre, i bassi e il programming delle percussioni. Una parte importantissima del suono è poi appannaggio di Martin Archer, che a Sheffield, UK, incide strati di clarini, sassofoni, organo ed effetti vari. Il risultato è un particolare metalcore dipinto con le tinte fosche del doom, stemperato però da continue aperture, cambi di tempo e atmosfere di stampo free-jazz, che riesce nell’improba impresa di risultare “heavy” ma non “pesante”, di picchiare duro senza essere soffocante o troppo ostico, ma mantenendo anzi una sorprendente fruibilità. Fin dall’iniziale “Kundalini Dub”, la ritmica serratissima non lascia scampo e, come suggerisce il titolo, dei riverberi dub proiettano l’ascoltatore in una dimensione parallela, dove la realtà appare in qualche maniera dilatata. Qua e là spuntano vocalizzi malsani alla Eugene Robinson (prima o poi bisognerà che qualcuno rivaluti universalmente l’opera degli immensi Oxbow), a rendere l’atmosfera ancora più suggestiva e indecifrabile: provate ad immaginare i Godflesh che incontrano John Zorn, alle prese con la musica di Mingus. Tutti i brani sono ugualmente incisivi, ed è difficile trovare vette, ma mi piace menzionare la lunga, conclusiva “Cave War” che funziona benissimo come condensato dell’intero lavoro: un tappeto di voci corali alla Ligeti ci proietta nello spazio profondo, dove la temperatura è prossima allo zero assoluto e tutto si ferma, anche il cuore e il respiro. Frasi smozzicate di sax danno segni vita, un organismo si dibatte al ritmo lento del doom, lotta per liberarsi ed erompe infine in un frenetico dibattere di svolazzi free su inesorabile incedere post-metal. Un essere alieno che cresce e cambia forma e voce più volte, ora furioso e gorgogliante, ora riflessivo e quasi pacificato, nel corso dei quasi quattordici minuti che chiudono questo magistrale album. Da quanto si apprende dal sito della band, sono in atto delle session con un batterista in carne ed ossa e, personalmente, non vedo l’ora di ascoltare le prossime evoluzioni di questa eccitante creatura musicale. (Mauro Catena)

(Zond Records)
Voto: 80

http://combat-astronomy.bandcamp.com/

Darktrance - Pessimum

#PER CHI AMA: Black dark, Bethlehem
E sono tre… sto parlando ovviamente degli album della one man band ucraina, Darktrance. Da notare immediatamente che lo spettro musicale coperto dal mastermind Deimos si è notevolmente ispessito, dando corpo ad un sound abile nel combinare sonorità estreme con una vena assai melodica e darkeggiante, per un risultato finale davvero singolare. L’album tocca il suo apice già con l’iniziale “Anthems of Melancholy”, traccia che vive del connubio vocale del frontman, con un cantato disperato ma assai convincente, che si contrappone al classico pulito (ormai a dir poco inflazionato), il tutto giocato su un riffing cupo e minaccioso, in cui la malinconia è acuita da soffusi tocchi di tastiera. Un bel riffone death apre “Soul Collectors”, con la voce che sembra aver assunto dei connotati più vicini al post-hardcore che al black; eccomi però improvvisamente piombare nelle tenebre con un breve break catacombale da cui esplode un’accelerazione di chiara derivazione nordica. Ma è comunque il ritmo apocalittico alternato al riffing spietato, a dettare i tempi della song, con chiari riferimenti al sound dei Bethlehem. La title track offre altri spunti interessanti a livello delle tastiere, spettrali e inquietanti cosi come le ritmiche acuminate e il cantato, ancora in versione clean, che pian piano tende ad assumere una propria delineata fisionomia. Mi piace, non c’è che dire. “Day X” esplora altre strade: quelle della paranoia, del riffing ipnotico e di un uno stile vocale ossessivo, sorretto da splendide, esplosive e spaziali linee di chitarra. “Pessimum” cresce, è una forma che va plasmandosi all’interno della mia testa, assume contorni che neppure immaginavo e lentamente appaga non poco i miei sensi. Un interludio abissale e poi è “Fall of the Emptiness” a suonare nel mio stereo con un sound vicino a quello dei nostrani Forgotten Tomb, anche se poi la creatura del buon Deimos sembra dirigersi verso altri lidi pescando un po’ dal post-black, dal dark dei Tiamat di “The Deeper Kind of Slumber” o dal doom. Sono allibito. C’è ben poco di scontato dentro le note di “Pessimum”, anche se non tutte le song ovviamente brillano di luce propria. Però è un album che alla fine risulterà coinvolgente, fresco e divertente: ultima menzione per “Whispers of the City in Blood”, traccia in linea con la produzione death doom melodico finlandese (Black Sun Aeon) e l’ultima schizoide e tenebrosa “Last”, che con i suoi otto minuti chiude degnamente un lavoro che non dovrà passare inosservato alla vostra attenzione. I Darktrance hanno fatto un grande passo in avanti rispetto al precedente album, dimostrando di essere pronti al grande salto per una etichetta dalle ambizioni più grandi. Complimenti! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 80

http://www.myspace.com/darktranceband

Noluntas - Noluntas Divina

#PER CHI AMA: Dark Ambient, Electro-black, Kraftwerk
Mettiamola così: se tra qualche centinaio di anni esisteranno ancora le droghe sintetiche, probabilmente i nostri eredi useranno questa musica per ispirare i loro viaggi psichici. In un certo senso, "Noluntas Divina" è già un viaggio in sé e per sé: quarantacinque minuti di volo allucinato a occhi chiusi nelle più oscure vastità dello spazio, attraversando regioni di disperata solitudine, memorie e ricordi d'infanzia, silenzi senza pace. Più che un disco, una vera e propria colonna sonora. Il viaggio muove dalle atmosfere rarefatte di "Intro" ai lunghi respiri di "Starfall of the Lost Faces", fino alla sensazione di aver perso completamente un riferimento, una stella polare, una direzione, nella lunghissima title-track che chiude l'album. A metà del disco, per un motivo che non riesco ad individuare, c'è "Concealed": una traccia costruita quasi banalmente con percussioni, cori orchestrali, nitriti di cavalli, pianti di bimbi e voci che declamano brani di un'opera teatrale: un brano talmente scontato e "terrestre" da sembrare scritto da mani diverse e che, per l'eccessivo contrasto che esercita rispetto alle altre quattro tracce, ha più l'effetto del riempitivo improvvisato che della song voluta, pensata e curata al pari delle altre. Il lavoro sui suoni di "Noluntas Divina" è talmente accurato da rasentare la follia: nessun rumore è lasciato a se stesso, nessuna nota è casuale, nessuna frequenza è stata trattata con scarsa attenzione. L'intero disco è una lezione di purezza minimale e immaginazione, un viaggio allucinato nel più gelido e soffocante degli spazi siderali. Un disco quasi perfetto, macchiato purtroppo da quell'unica traccia che sembra sfuggita dal concept, come un fiore sbagliato in un perfetto mazzo di rose rosse. (Stefano Torregrossa)

sabato 4 maggio 2013

Alley - Amphibious

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth
Tornano i russi Alley, che avevamo analizzato nel 2008 con il loro debut cd “The Weed”, un album di forte derivazione dal sound dei primi Opeth. A distanza di cinque anni da quel lavoro, ecco l’ensemble siberiano tornare in sella con “Amphibious”, un progetto che pur mantenendo palese l’impasto sonoro dei gods svedesi, cerca nuove strade e il risultato, devo darne atto all’act della piccola città di Krasnoyarsk, mostra un discreto passo in avanti per i nostri. Certo, in cinque anni era lecito aspettarsi qualcosa in più, di questo passo dovremo attendere il 2028 per ottenere qualcosa di certamente più personale. La durata delle song si continua a confermare molto lunga, a dir poco estenuante, ma poco importa perché alla fine il sound non risulterà mai statico. Citavamo per l’appunto gli Opeth, e la componente più aggressiva degli Alley, senza ombra di dubbio, continua a pagare un forte dazio, sia a livello di ritmiche che di growling vocals, ai ben più famosi colleghi svedesi. È quando i nostri si lanciano in psichedelici break atmosferici che rimango affascinato dal “nuovo” sound della band della Federazione Russa. “Lighthouse” è splendida nella sua lunga fuga lisergica, quasi uno space rock sporcato di sonorità post e death progressive, parti acustiche e buonissime cleaning vocals. Ottima song davvero, forse fin troppo articolata, laddove per suonare questo genere di musica, di attributi e classe ne servono davvero tanti. “Weather Report”, la seconda traccia, inizia dando largo spazio al cantato in pulito (e tale sarà per il resto della sua durata), mostrando l’ennesima progressione e una nuova apertura da parte del combo russo. La traccia scorre via assai fluida, attraversando le foreste del death metal, scalando le impervie montagne del progressive e tuffandosi in inaspettati abissi al limite del jazz, come si evince dalla sua delirante conclusione affidate a schizoidi chitarre sorrette da un duo formato da basso e batteria. Il sound è divenuto molto più caldo, avvolgente come la coperta di pile che mi riscalda nelle notti invernali. La band non si fa mancare ovviamente nulla, quindi non stupitevi se l’inizio della title track è affidato ad un arrembante attacco death con tanto di blast beat e gli amati ubriacanti giri di chitarra tipici di Akerfeldt e soci. Poi la band prende ulteriormente coraggio e si lancia in meravigliosi giri di chitarra, atmosfere oscure e arpeggi da paura. Stanno crescendo, non c’è dubbio, pur essendo lo spettro degli Opeth costantemente presente. Ma a questo punto non darei più molta importanza. Gli Alley stanno facendo le cose per bene, certo avessero scelto una copertina migliore per questo disco, lo avremo apprezzato ulteriormente, avrebbero avuto un impatto più positivo per il sottoscritto anziché quella brutta faccia in fase di senescenza; ridurre la durata dei brani e renderli un po' più fluenti, auspico sia il prossimo passo per i nostri, certo non vorrei attendere altri cinque anni prima che un nuovo album veda la luce. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 70

Pestroyer - Inquisiteurs des Temps Modernes



#PER CHI AMA: Black, Emperor, Dark Funeral, Carphatian Forest
Quattro brani dalla furia efferata e dalla velocità elevata caratterizzano questo lavoro della band canadese Pestroyer e subito mettiamo in chiaro che non bastano a rialzare un lavoro alquanto discutibile. La band si riallaccia ad un sound primitivo della scuola black metal stile primi Emperor e lo fa degnamente, ma saran-no i suoni un po' troppo inespressivi e poco ricercati o le costruzioni stantie e ripetitive e poco originali a spingere questo mini cd al limite della normalità e del già sentito con risultati che sfiorano in molti punti la monotonia. Bisogna ammettere che la qualità esecutiva è nell'insieme di discreta fattura tranne che per lo screaming forzato e nevrotico, tutto uguale senza mai una variazione sul tema, cosa che va assolutamente corretta per i futuri lavori. Il vocalist sprigiona la sua rabbia in una prestazione urlata e afona, monocorde e inespressiva che rende insufficientemente credibile tutte le quattro tracce di cui è composto il cd. Appare molto strano e da noi incomprensibile come la Obscure Abhorrence Productions riesca a produrre cose di così basso rilievo, quando tra le sue file ci sono lavori pregevolissimi e cose molto mediocri come questo Inquisiteurs des Temps Modernes. Decisamente rimandati in materia di fantasia e costruzione musicale, c'è ancora molto da studiare per acquisire la giusta direzione. (Bob Stoner)

(Obscure Abhorrence Productions)
Voto: 50

http://www.myspace.com/pestroyer

The Owl Of Minerva - Bright Things Turn Gray

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle, Katatonia
Promo cd di questo quartetto originario di Padova, composto da Nicola 'Mel' Coinn (chitarre, voce, produzione), Stefano 'Cocis' Pagura (chitarre), Francesco 'Checco' Forin (batteria) e Simone 'Carra' Carraro (basso). Formatisi nel 2008, alla fine di quell'anno pubblicano già un primo EP, ”Willow”. Durante le registrazioni del primo full lenght, nel 2012 rilasciano questo demo composto da 4 canzoni: un assaggio di ciò che verrà nell'autunno del 2013. Si parte con la title track, ”Bright Things Turn Gray”: l'incipit ricalca fedelmente l’alternative rock americano (più precisamente vengono influenzati dal sound degli A Perfect Circle e Tool): più si prosegue con l'ascolto, più le influenze dei due gods statunitensi emergono assai forti, tanto quasi da scambiare alcuni passaggi del demo per loro pezzi. L'atmosfera che ne nasce risulta quindi surreale e calda. ”Bag of Stones” si avvicina più al sound dei Deftones, piena di ritmo, carica e ricca di chitarre e batteria all'unisono, deliziando le orecchie e mettendomi alla ricerca dei testi per poter cantare nei ritornelli. ”Your City by the Snow” tende ad essere più calma, unplugged: si fa un largo uso della chitarra classica e le percussioni vengono appena sfiorate, lasciando grande spazio ai piatti e alle tastiere, eccellentemente suonate da Simone Noventa. Il complesso che traspare in questa traccia sono i primi Smashing Pumpkins, quelli di ”Siamese Dreams” per intenderci e, seppur a tratti, un po' David Bowie. Con ”Crown of Gold” si giunge alla fine del cd: si torna alle atmosfere a la Deftones, più melodici e malinconici per la prima metà, mentre la seconda diventa più furiosa con un connubio chitarre-batteria-basso sguinzagliato e portato ai massimi livelli. Sebbene questo sia solo un demo, ha tutte le carte in regola per diventare un LP superbo, ricco di diverse sonorità, ritmi e tanta voglia di sperimentare. Speriamo esca presto quest'opera. Forza tosi! (Samantha Pigozzo)

giovedì 2 maggio 2013

El Tercer Semestre - TenderTropic

#PER CHI AMA: Post-rock strumentale
Per fortuna mi è arrivato questo cd dalla Spagna, cominciavo a pensare che la crisi economica avesse definitivamente decimato la musica iberica. Meno male, non è (ancora) così. El Tercer Semestre (ETS) è un trio strumentale proveniente da Barcellona, che si muove tra sonorità post math rock e contaminazioni folk che fa il suo esordio con questo 6-tracks-EP dal titolo "TenderTropic". La loro idea non è affatto nuova: miscelare la ben nota nostalgia del post rock a qualcosa che valesse la pena di proporre al pubblico. La tecnica dei tre musici è di tutto rispetto, partendo dalle trame del basso che sono sempre fresche e mai banali, per arrivare a batteria e chitarra che reggono il peso e non sfiguravano mai nel confronto. "Topic" trasuda folk e melodie celtiche riproposte in chiave post rock. La melodia trascinante è suonata velocissima da una chitarra pulita e minimalista, intervallata da riff distorti che calcano la mano per colorare di drammaticità alcuni passaggi chiave della traccia. Infine segnalo "Flowers", la traccia che rappresenta quello che gli ETS dovrebbero essere e che possono divenire. Arrangiata ad hoc, suoni belli e ritmica ricercata, tasselli che compongono una piccola chicca godibilissima. Questo "TenderTropic" non è affatto un brutto esordio, ma dopo questo la band dovrà impegnarsi al massimo per uscire dal coro e confermare la propria identità. La miscela post rock folk non è affatto male, purtroppo il cantato è ancora una fetta importante della musica che permette all'ascoltatore medio di riconoscere un gruppo da un altro. Riuscire nello stesso intento a livello strumentale è un'altra cosa, difficile ma non impossibile. (Michele Montanari)

mercoledì 1 maggio 2013

The Pit Tips

Bob Stoner

Tyr - Ragnarok
My Dying Bride - A Map of All Our Failures

Coheed And Cambria - The Afterman Descension

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Francesco “Franz” Scarci

The Matador - Descent Into the Maelstrom
Todtgelichter - Apnoe
The Ocean - Pelagial

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Alberto Merlotti


Yeah Yeah Yeahs - Mosquito
6:33 & Arno Strobl - The Stench from the Sweeling (A True Story)
Fall Out Boy - Save Rock and Roll

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Samantha Pigozzo


Depeche Mode - Delta Machine
Def Leppard - Adrenalize
Lordi - To Beast or not to Beast

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Michele “Mik” Montanari


Deville - Hydra
Brown Paper Bag - Various from Soundcloud
Flicker - How Much are you Willing to Forget?

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Roberto Alba


Progenie Terrestre Pura - U.M.A.
The Slow Death - II
Shade Empire - Omega Arcane

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Stefano Torregrossa


Dead Meadow - Shivering King and Others
Pitchshifter - P.S.I.
Darkane - Rusted Angel

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Mauro Catena

Nick Cave and the Bad Seeds - Push the Sky Away
Lilium Sova - Epic Morning
We Hunt Buffalo - We Hunt Buffalo

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Kent

Syndrome - Now And Forever
Calendula - Calendula 7"
Om - Advaitic Songs

Schematics for Gravity - Schematics for Gravity

#PER CHI AMA: Post-rock, Post-metal, Pelican, Rosetta, Cult of Luna
Capisco benissimo le difficoltà a livello compositivo delle band che amano suonare post-rock o post-metal. Bisogna essere originali ed ossessivi allo stesso tempo; bisogna dimostrare una certa tecnica senza però sembrare dei fissati del virtuosismo; bisogna creare la giusta atmosfera senza sembrare troppo mollaccioni; bisogna saper esplodere al momento giusto, concedere il giusto respiro, mantenere il controllo del brano senza per questo rinchiuderlo in strutture troppo ripetitive. Un lavoraccio che gli Schematics For Gravity svolgono discretamente senza però eccellere. Intendiamoci: l'EP omonimo del quintetto svedese si lascia ascoltare, eccome. Diciamo pure che se qualcuno mi chiedesse: "Consigliami un bel disco di post-metal, per me è un genere nuovo", potrei valutare l'inserimento di questo disco nell'elenco, anche di fianco a nomi più grandi. Ma ad orecchie più allenate, a chi mangia Pelican a colazione e fa merenda con i Cult of Luna, il lavoro degli Schematics For Gravity non potrà che apparire poco interessante. Tre brani, venticinque minuti, con partenze e chiusure dei pezzi sempre molto interessanti: bellissimo l'arpeggio iniziale in "The Art of Taming Waves", altrettanto ispirato il finale strumentale di "An Entire Ocean Under Scarred Skin" (in realtà l'intera canzone è il vero punto massimo del disco), straordinariamente aggressivo l'inizio di "Antithesis to Bliss". Ma è nel centro delle composizioni che gli Schematics For Gravity appaiono più deboli: la voce del cantante permette assai poche variazioni sul tema e, sebbene dal punto di vista dell'ascolto le chitarre si presentino sempre da vere protagoniste, è innegabile una certa carenza di originalità nel modo di suonare e una certa ossessività di alcuni riff, che può far parte del genere. In sostanza: un buon lavoro, una produzione più che ottima, ma di certo gli Schematics For Gravity non hanno creato una pietra miliare del post-metal. (Stefano Torregrossa)