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sabato 15 settembre 2012

Ordeal by Fire - Untold Passions

#PER CHI AMA: Gothic Rock
Qualcosa non ha funzionato per il verso giusto in “Untold Passions”, quello che era l'attesissimo full-length di debutto degli Ordeal By Fire. Non mi riferisco certo alle scelte stilistiche (di cui sono un fermo sostenitore) e nemmeno al valore dei nuovi pezzi, che si confermano all'altezza di quanto proposto nel mini-cd “Roots and the Dust”... ciò che non convince affatto di questo album è la qualità del suono. Un vero peccato, dal momento che in ogni brano di “Untold Passions” è riconoscibile una certa classe, la stessa che i quattro gothic rocker nostrani dimostrarono in occasione dell'uscita dell'EP. Brani energici e ottimamente eseguiti come “Prisoner” o “Life's Uncertainty” meritavano, a mio avviso, una maggior cura in sede di produzione, soprattutto per quanto concerne la sezione ritmica, per nulla valorizzata e soffocata da un suono cupo e distante. Ascoltare “Re-creation” nella nuova versione lascia davvero increduli e, di primo acchito, fa supporre addirittura ad un'involuzione del gruppo. Prestando un ascolto più attento, si comprende che non è così: gli Ordeal By Fire confermano le loro doti di abili musicisti e la capacità di scrivere canzoni dirette e passionali, unendo alla carica esplosiva che li ha sempre contraddistinti un gusto del tutto inedito per ritmi più pacati e atmosfere soffuse. Persino l'influenza dei Fields sembra aver ceduto il passo ad un'interpretazione più audace e personale del gothic-rock, eppure la mediocre produzione rimane un aspetto su cui risulta difficile sorvolare, perché l'intero album ne risente in maniera troppo pesante, impedendo al valore intrinseco dei brani di emergere. (Roberto Alba)

(Strobelight Records)
Voto: 60

http://www.lastfm.it/music/Ordeal+by+Fire

mercoledì 12 settembre 2012

Polar for the Masses - Silence

#PER CHI AMA: Post Punk, Indie, Placebo
Giuro, era da tempo che cercavo di vedere dal vivo i Polar for the Masses, ma per una serie di sventure ho perso più di una data (notare che sono originari di Vicenza e io abito da quelle parti). E fu così che alla fine mi ritrovai sotto il loro palco, reflex in mano e quasi quaranta gradi alle undici di sera. Dopo i primi scatti il loro sound mi ha talmente preso che ho riposto la macchina per godermeli, anche perché è inutile fare foto se continui a tenere il tempo con il piede... I Polar nascono nel 2007 dall'incontro di Simone, Davide, Jordan e con questo “Silence” fanno la cosiddetta tripletta in fatto di album. Quello che colpisce di loro è una personale interpretazione di rock, post punk e di un terzo ingrediente segreto (non voglio assolutamente usare quel termine che non vuol dire un cazzo, indie). Sta di fatto che i Polar offrono un sound godibilissimo, semplice da assimilare, ma allo stesso tempo con un'ombra di complessità che li stacca dal pop e dai prodotti ultra commerciali. Chitarre distorte, basso corposo e batteria energica unite ad arrangiamenti mai banali creano un mix genuino. Ovviamente farà storcere il naso agli amanti di generi più aggressivi, ma diciamoci la verità, quando la musica è di qualità, i generi non devono essere una limitazione (anche il Franz approva). La seconda traccia, "Rust", è forse il pezzo trainante del cd, ma secondo me rappresenta solo una delle diverse sfaccettature dei Polar . Questa è sicuramente quella più ipnotica. La voce di Simone molto sbruffona e svogliata, ottiene così l'effetto di insinuare il semplice ritornello nelle vostre sinapsi, di cui vi libererete difficilmente. In "Sailing Way" le sonorità si fanno cupe e malinconiche, mentre la chitarra scandisce accordi arrabbiati, in stile the Boss. Il cantato avanza lento ma deciso e confeziona un pezzo lineare, diverso dagli altri che sono più articolati. Chiudiamo con "Guilty" che riprende le vecchie sonorità dei Placebo, ma sempre in chiave "polare", british al punto giusto e molto azzeccata. Il percorso musicale dei Polar è maturo, quindi non resta che seguirlo e arrivare veramente alle masse. In bocca al lupo! (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 80 

When Nothing Remains - As All Torn Asunder

#PER CHI AMA: Death Doom, My Dying Bride, Draconian
Speravo decisamente in un’estate più solare e più allegra, poi ovviamente ha messo il suo zampino la Solitude Productions ed ecco catapultarmi nelle atmosfere plumbee ed autunnali tipiche delle band prodotte dalla label russa. Anche quest’oggi quindi una bella dose, formato famiglia, di death doom nella vena più romantica, quella della scuola svedese, con i Draconian maggiore fonte d’ispirazione e proprio come i godz appena citati, dalla Svezia arrivano anche questi When Nothing Remains, che presentano tra le proprie fila ex membri di The Cold Existence ed Algaion, affiancati da Johan Ericson dei già citati Draconian, alle clean vocals. Quindi facile aspettarsi sonorità doom dalla presa facile, complici splendide melodie sin dall’iniziale “Embrace Her Pain”, costituita da suoni maestosi, epici, malinconici, sorretti da una potentissima ritmica che trova i suoi momenti di quiete in drammatiche aperture pianistiche. “The Sorrow Within” trae ispirazione invece dalla scuola britannica, My Dying Bride in testa: suoni privi assolutamente di solarità, lenti, seducenti, con le growling vocals a tener banco e ad emozionarmi per la loro capacità di conferire grande pathos alla proposta dei nostri. Eccellente, pur non inventando nulla di nuovo. Ancora un altro pezzo dai contenuti brillanti si rivela “A Portrait of the Dying”, fluido, dinamico, raffinato ed estremamente melodico, con quel tocco gotico che dà modo a “As All Torn Asunder” di prendere le distanze dalle altre release firmate Solitude Productions. Fino a metà album, la band avrebbe meritato sicuramente un’ottima votazione, poi, nella seconda metà della release, ecco venir meno le iniziali parti vincenti, aumentare le scopiazzature dalle altre band del rooster Solitude Productions, mancare un po’ di verve e personalità e veder quindi spegnersi ogni tipo di velleità dei nostri, con un album che perde dinamismo e rischia di scadere nel già troppo sentito. Un vero peccato, perché “As All Torn Asunder” rischiava di essere una bomba. Rimandati a pienissimi voti. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 70

domenica 9 settembre 2012

The Shimmer - New Days

#PER CHI AMA: Dark/New Wave, Joy Division
E' vero, l'avvento di internet ha impattato sulla musica pesantemente e in mille modi. Uno tra tutti è possibilità a molti gruppi di emergere e farsi ascoltare, visto che i classici canali sono gestiti solo dalle grosse etichette e produttori. La cosa divertente è che ho scoperto i The Shimmer in tutt'altro modo, cioè in quello classico di qualche anno fa: ad un festival. Devo dire che tra i tanti gruppi e i diversi generi, loro mi hanno colpito come uno schiaffo quando meno te lo aspetti. I due ragazzi in questione (Max - chitarre e synth, Ricky - voce, basso e Mac) propongono canzoni che prendono a piene mani dal dark & new wave, il tutto in chiave elettronica (per quanto riguarda batteria e synth), e perfino con molta professionalità e umiltà. Poi pensi: ho mai visto in passato un gruppo così dal vivo? No. Fino ad ora mi rispolveravo i vecchi cd dei Joy Division, the Cure e Depeche Mode, ma dal quel festival le cose sono cambiate. "New Days" è il loro primo lavoro autoprodotto a cavallo tra il 2009 e il 2011, contiene nove pezzi e si presenta con un bel digipack. "Star Birds" apre il cd e le sonorità elettroniche si sentono immediatamente, synth e un semplice tastiera a cui si aggiungono poi la drum machine e chitarra creano l'atmosfera per la voce, carica di effetti e molto eterea. Il ritmo incalza e crea un pezzo malinconico, ma allo stesso dinamico. La terza traccia "Lullaby for You" ha un'atmosfera diversa, simile ad un volo pindarico tra le nuvole che cambia ed evolve. Interessante il semplice riff di chitarra che, aggiunto di delay, crea un motivo difficile da togliersi dalla testa. Maledetto Max. "House of Love" (di cui vi consiglio anche il video) è la canzone più rappresentativa dell'album e del progetto The Shimmer. Ritmica semplice ma incalzante, basso distorto e un bel riff "liquido". La voce di Ricky fa il resto, grazie al solito tocco di riverbero che ci riporta indietro ai tempi di Disorder. Il cd si chiude con "Silene", bellissimo il giro di xilofono che crea un'atmosfera fiabesca, e altrettanto l'assolo di chitarra. Grande semplicità negli arrangiamenti che arriva all'ascoltatore, senza bisogno di capirla o interpretarla. A breve uscirà il nuovo album e in base alle ultime canzoni proposte ai recenti concerti, esplorerà più profondamente il dark side of the new wave. Prepariamoci. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 80

Obscure Sphinx - Anaesthetic Inhalation Ritual

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Subrosa
Continua il brulicare incessante di talentuose band proveniente dalla Polonia e gli Obscure Sphinx ne rappresentano l’ennesimo esempio vincente, qui ad infiammare la mia estate. Il genere? Ascoltando l’inizio di “Nastiez”, mi verrebbe da indicare in Bjork e al contempo la nostra Cadaveria, le muse ispiratrici della vocalist dei nostri (in formato clean), mentre i chitarroni pesanti e lo screaming più stile “carta vetrata” della stessa damigella, aka Wielebna, mi indurrebbero ad appiccicare l’etichetta di post metal/sludge. Ma il sound dei nostri è, a dire il vero, assai camaleontico, complesso ed articolato, capace di conquistarmi tuttavia fin da subito. La proposta del quintetto di Varsavia mi ha ricondotto ad una delle più interessanti release uscite lo scorso anno, quella della female band statunitense dei Subrosa. Si, decisamente. In “Anaesthetic Inhalation Ritual” si combinano un po’ tutte le divagazioni di un genere dalle mille sfaccettature, in grado di incorporare elementi psichedelici e doomish, come negli undici minuti della già citata “Nastiez” in cui le due anime di Wielebna si incontrano e scontrano, nell’evoluzione parossistica del brano. “Eternity” mi ammalia con il suo incedere lisergico, complici splendide linee di chitarra, su cui ancora una volta, è il growling dell’inquietante e sensuale dama a stagliarsi, sovrana. La classe non è acqua, e se consideriamo che la band esiste solamente dal 2008, possiamo prevedere che, a fronte di una buona dose di promozione, i nostri mostrino tutte le carte in regola per fare breccia nel cuore di quei fan, amanti di suoni più sperimentali. “Intermission” è una breve traccia strumentale che mi prepara a “Bleed in Me” prima e seconda parte, dove l’ensemble dà sfoggio delle proprie potenzialità in una versione più intimistica, ma anche un po’ più soft e commerciale nella prima parte e più polifonica, pesante e ridondante (neppure fossero i Meshuggah) della seconda; esperimento comunque brillantemente superato. A chiudere questo inatteso debut album, ci pensano i dieci minuti di “Paragnomen”, song dai tratti post marcatamente post rock, che suggella la prova convincente di questi giovani polacchi. Bene cosi… (Francesco Scarci)

(Fuck the Tag)
Voto: 75

Sauroctonos - Our Cold Days are Still Here When the Lights are Out

#PER CHI AMA: Post Black, Folk, Agalloch
Devo ammettere di aver deciso di contattare questa band quasi esclusivamente per la cover cd di “Our Cold Days are Still Here When the Lights are Out”, che fotografa un’enigmatica scogliera, quasi interamente in bianco e nero; solo dopo, con sommo piacere, mi sono accorto infatti, che la proposta della band ucraina soddisfaceva per di più i miei gusti, proponendo un black metal dalle tinte post-folk-progressive. Questo lavoro, costituito da sei pezzi, per poco più di 50 minuti di musica, si apre col black mid-tempo di “Lights Out”, song (ma anche intero lavoro) che gioca sul brillante alternarsi di atmosfere post-rock/shoegaze, con la furia serrata tipica del black. Ed è immensamente affascinante immergersi in questi paesaggi, che ricordano le foreste della West Coast o i boschi del nord Europa, con chitarre acustiche dal forte sapore etnico, cosi come gli Agalloch (forse la maggior influenza dei nostri) insegnano, la cui quiete è scossa da lunghe sfuriate metalliche, suoni neri come la pece (Wolves in the Throne Room docet), e dal classico screaming malvagio (da sistemare). “My Name Escapes Me” è un altro sorprendente pezzo che miscela le due facce dei Sauroctonos, band non di primo pelo, ma che esiste infatti dal 2005 e che solo oggi arriva, dopo anni di gavetta, alla tanto sospirata prima release. Un ruolo importante, seppur marginale, lo svolgono anche le tastiere, essenziali nell’economia della band ucraina, portando quel plus addizionale nell’intro di “Dearest Veil” e come sottofondo delle sue epiche ma ronzanti chitarre, cosi come nella successiva traccia, dove assumono addirittura un tono cibernetico. L’album dei nostri si rivela un crescendo di emozioni, che tocca il suo apice nei dieci minuti conclusivi di “Farewell” dove forte è l’influsso post rock. Pur proponendo ancora un sound non del tutto delineato e che fatica a scrollarsi di dosso quel forte alone black old school, i Sauroctonos hanno già tante buone idee, da incanalare ora nel migliore dei modi verso una proposta più personale e meglio, se dalle atmosfere più calde e autunnali. Nel frattempo, promozione a pieni voti per I nuovi esponenti del post black, “made in Ukraine”. (Francesco Scarci)

(Visionaire Records)
Voto: 75

mercoledì 5 settembre 2012

Enthroned - Obsidium

#PER CHI AMA: Black, Marduk
La polacca Agonia Records si sta rivelando una delle più intelligenti case discografiche dell’ultimo periodo, avendo ingaggiato, nel suo sempre più nutrito roaster, le formazioni europee underground più interessanti, e penso a realtà nostrane come Aborym, Ephel Duath, Opera IX e Forgotten Tomb ad esempio; mentre fuori dai confini nazionali, Necrovation, i francesi Vorkreist e gli storici blacksters belgi Enthroned. Andiamo proprio ad indagare maggiormente, quale piega ha preso il sound di questi ultimi, dopo il mezzo passo falso di “Pentagrammation”. “Obsidium” sin dalla opening track, affascina per il lato oscuro della sua forza e fuga immediatamente tutti i dubbi che erano sorti col precedente disco più spinto verso sonorità thrasheggianti. Signori miei, gli Enthroned sono tornati più incazzati e neri che mai, con un album che traspira malvagità da tutti i suoi pori, avendo l’enorme merito di abbinare la furia iconoclasta del black metal, fatta di serratissime ritmiche e demoniache vocals, con favolose parti atmosferiche, che si materializzano con l’utilizzo di cerimoniali chorus, che si vanno ad affiancare alle screaming vocals di Nornagest. “Obsidium” si rivela una epica cavalcata che dalla sua apertura sino alla chiusura dei suoi quaranta minuti, torna finalmente ad identificare gli Enthroned, come band di spicco del panorama black mondiale e a candidare seriamente “Obsidium”, tra i migliori dischi in ambito estremo di questo avido 2012. Se vi mancavano le chitarre iper veloci della band belga, eccovi serviti “Petraolevm Salvia” che rappresenta quanto di meglio si possa avere oggi in ambito estremo. A questo aggiungete anche una discreta dose di atmosfere (da citare “Thy Blight Vacuum Docet”), che devono essere state concepite direttamente da Satana in persona, qualche melodica linea di chitarra che riesce a trovare spazio nella ferocia dei nostri, qualche lancinante momento di funeral come nella morbosa “Oblivious Shades” ed in mano avrete qualcosa di cui parlare con il vostro amichetto black preferito, per diverso tempo. Ottimo questo comeback degli Enthroned, nonostante i continui rimaneggiamenti in sede di line-up che hanno teso a destabilizzare la band nell’ultimo periodo. Oscuri e malefici. (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 80

Squat Club - Corvus

#PER CHI AMA: Math Rock, Experimental, Avantgarde
L’etichetta australiana continua a farmi compagnia in questa torrida estate, proponendomi un altro interessantissimo pezzo del proprio roaster: trattasi questa volta degli Squat Club, un quartetto che vede tra le propria fila la presenza di strumenti un po’ atipici, bouzouki, chitarra baritonale o sax tenore. Insomma, già presentandosi con questa formazione, un po’ di curiosità me l’hanno messa addosso, poi dopo aver inserito il cd nel lettore e aver visionato la durata dell’album, che sfiora gli 80 minuti, beh mi sono armato di santa pazienza per affrontare una bella montagna da scalare. “Intro” affidata ai nove minuti della title track, la song più breve (le altre viaggiano sui 14 minuti) dove inizia un bel viaggio nel sound incandescente, progressive e psichedelico dei nostri, affidato quasi principalmente a fughe strumentali, che talvolta sforano anche in territori non propriamente metal. 10! Questo è il voto che darei alla prima eccezionale song, completa, coinvolgente, tecnicamente perfetta e portatrice di calde emozioni. Parte “Reticulum”, e il sound è dapprima vellutato, morbido, caldo come una dolce carezza sul viso, ne sono sopraffatto, mi sento coccolato, al sicuro da tutto e da tutti; ogni strumento ha il suo ruolo ben definito e riconoscibile, uscendo allo scoperto con delle sorte di brevissimi assoli, prima la chitarra, poi il basso ed infine anche la batteria. Quindi, la musica del quartetto si fa più energica, stravagante, ipnotica, elettrizzante nella sua parte centrale, per tornare a chiudersi cosi come era iniziata. Con “2.75 Kelvin”, l’atmosfera si fa più claustrofobica, mi sembra quasi di essere chiuso all’interno di una cassa da morto, già seppellito sotto due metri di terra, incapace di respirare, con il freddo a penetrare nelle ossa e il terriccio a cadermi in faccia. Sensazione orribile, angosciante, opprimente, che perdura per tutti i 12 minuti del brano e la cui musicalità può ricordare quella più ambient degli Ulver. “Serpens” è un altro esempio di quanto gli Squat Club siano legati alla musica progressive e di quanta originalità possano comunque avere in corpo e poter diffondere cosi liberamente nel mondo. Frastornato, anzi quasi ubriacato dai suoni extraterrestri di questi insani individui, mi ritrovo addirittura una fuga grind nel bel mezzo della canzone, con annessa un assolo di basso di scuola Primus. Assorto ormai nei miei agonizzanti pensieri, non riesco più a capire che razza di musica stia ascoltando per la facilità con cui passa da suoni estremi ad altri più ambient, relegando in ultimo piano la performance vocale di Josh Head, ma dando largo spazio alla perizia tecnica dei singoli. Arrivato alla quinta traccia, che sul retro del cd dovrebbe rispondere a “M44 Beehive Cluster” e dovrebbe essere l’ultima, mi ritrovo nuovamente disorientato in quanto il mio lettore ne legge sei con la conclusiva che dura un altro quarto d’ora. E allora dopo un altro giro sulle montagne russe degli Squat Club, giungo alla conclusione, abbandonandomi al noise/drone dell’untitled track. Che dire, quella di “Corvus” è stata sicuramente un’esperienza interessante, che pecca forse in prolissità e scarsissimo (quasi nullo) uso delle vocals, un’esperienza però che auguro a voi tutti di fare almeno una volta nella vita. Con questo quindi, è scontato il mio invito a dare un ascolto a questo folle album, che siate amanti del prog, del post o di sonorità più estreme. Deliranti! (Francesco Scarci)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 80

Eternal Deformity - The Beauty Of Chaos

#PER CHI AMA: Black Symph,/Avantgarde, Dimmu Borgir, Arcturus
Se potessi dare un voto virtuale alle etichette nostrane, beh il primo posto andrebbe sicuramente alla Code666, che da sempre, ha mostrato una certa propensione nell’andare a scovare band talentuose in giro per il mondo, lanciarle ed eventualmente lasciarle andare, a fronte di proposte di più grandi label. Se dovessi fare un paragone con il mondo del calcio, la Code666 sarebbe sicuramente come l’Udinese, club scopritore di fenomeni, pronti ad essere proiettati nel gota del calcio internazionale dai grandi club. Oggi mi spingo nel celebrare le gesta di questi polacchi Eternal Deformity, band dedita ad un black d’avanguardia, che ha ben poco da invidiare ai ben più famosi colleghi. Partendo da un sound all’insegna del death, il quintetto polacco convoglia poi tutta una miscela esplosiva ed intrigante di influenze che non fanno altro che rendere The Beauty of Chaos” accessibile alle grandi masse. “Thy Kingdome Come”, “Lifeless” sono pezzi che si impressionano immediatamente nel mio cervello, grazie ad una graffiante ritmica, melodie ruffiane (dove si odono echi alla Children of Bodom), aperture progressive (ben più palesi in “Pestilence Claims No Higher Purpose”), e vocals che si dipanano tra il growling, lo screaming e il pulito, con le tastiere che rappresentano alla fine l’elemento portante dell’album e che disegnano splendide atmosfere e sorreggono eccellenti armonie. A tutto questo c’è poi da aggiungere un’elevata preparazione tecnica dei nostri che si lasciano andare in brillanti assoli, strutture ritmiche assai elaborate, trovate avantgarde (di richiamo Arcturus), aperture black sinfoniche stile primi Limbonic Art o ultimi Dimmu Borgir, sfuriate al limite del power (ma non temete, nulla di grave) ed intermezzi acustici, che esaltano ulteriormente la prova del combo di Zory. In sostanza, la Code666 si conferma ancora una volta ottima etichetta in grado di lanciare talenti e gli Eternal Deformity, mostrano di avere le carte in regola per diventare dei fenomeni in chiave futura. Da monitorare accuratamente. (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 80