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martedì 3 aprile 2012

Grim Monolith - Intempesta Nox

#PER CHI AMA: Black Old School, Satyricon, Emperor
“Canzoni semplici e lineari, suoni cupi e riverberati,  atmosfere sempre a cavallo tra furia e malinconia ed una costante sensazione di spleen ed alienazione. A quest’ultimo aspetto si collegano perfettamente i nostri testi. Inizialmente avevano una piega più fantasy, ma a partire da “Mooncrowned” (il loro secondo album) essi trattano principalmente di fatti personali sempre ben nascosti tra metafore e personificazioni, il tutto dominato da un forte sapore intimista”.Questo è come si raccontano i siciliani Grim Monolith, in un'intervista trovata in rete a riguardo del nuovo album. Niente di più vero! “Intempesta nox” trascina l'ascoltatore in un vortice magnetico e riflessivo continuo, dovuto alla semplicità e profondità dei brani che in sequenza progressiva, cercano di migliorare continuamente l'ottimo risultato di quello che lo precede. Tutto gode di un equilibrio perfetto: uno screaming straziante e carico di tensione, riff chitarristici che volano alti nel cielo dell'epicità e una sezione ritmica omogenea e trascinante senza fronzoli o inutili pacchiane escursioni stilistiche, ne tastieroni alla moda. Sono poche le varianti sul tema e una propensione alla old school of black metal contraddistinta da una vena intimista e malinconica, unita a velocità e alla linearità di tutti i brani ci impedisce di spegnere il cd. Questa linearità più volte menzionata (ma ovviamente, più che positiva) crea un filo conduttore tra i brani e consente l'ascolto tutto d'un fiato e senza lacune dell'intero album. Addentrandoci tra i brani, sono numerosi i rimandi a band come Gestapo 666, Satyricon ed Emperor nella loro forma più diretta e brutale, mentre la voce merita una medaglia d'onore per la qualità di espressione. Si arriva all'ultima traccia per sentire qualcosa di veramente diverso, ovvero, una song di solo organo, che sembra uscire da una cattedrale gotica immersa nella nebbia. L'intero lavoro impazza di violenta emotività. Un sano viaggio nell'ignoto dei nostri momenti più bui e intimisti, qualcosa che lascia il segno e attenti a non rimanerci imprigionati per sempre. Grande, grandissimo lavoro! (Bob Stoner)

lunedì 2 aprile 2012

Naglfar - Pariah

#PER CHI AMA: Swedish Black, Unanimated
“Le porte dell’inferno si sono schiuse ancora una volta...” Così apre lo sheet informativo del nuovo disco della band svedese. Dopo due anni dal precedente e discreto “Sheol”, il quartetto scandinavo approda nel porto della Century Media con un disco che potrebbe tranquillamente rappresentare l’ideale sequel di “Storm of the light’s bane”, dei leggendari Dissection. “Pariah”, quarto full lenght dei Naglfar, ci mostra subito una novità e cioè la dipartita di Jens Rydén, cantante e leader storico della band, sostituito degnamente da Kristoffer W. Olivius, già bassista del gruppo e anche membro dei Setherial e Bewitched. La direzione musicale della band rimane in ogni modo sempre la stessa: “Pariah” è un album di death/black metal in pieno stile svedese, carico di rabbia ma anche di ottime melodie, ben suonato e ottimamente registrato presso i Ballerina Studios. Rispetto al precedente lavoro si può notare un deciso passo in avanti; la nota più significativa è la ripresa dello spirito che caratterizzò lo spettacolare “Vittra” con quel suo sound pervaso da un’aura maligna, inoltre è da registrare un miglioramento delle vocals, con la prestazione davvero notevole di Kristoffer, più malvagio ed inquietante rispetto al suo predecessore. Per il resto, lo stile del “vascello infernale” Naglfar è sempre lo stesso: sezione ritmica senza tregua con l’inconfondibile riff “made in Sweden”, atmosfere sinistre e tecnica ineccepibile. L’unico neo del disco è forse quello di essere abbastanza ripetitivo e incapace di tirare fuori quella personalità in grado di levare i Naglfar a leader indiscussi del genere. Segnalandovi “The perpetual horrors”, “Revelations Carved In Flesh” e “None Shall Be Spread” quali migliori estratti di “Pariah”, vorrei inoltre ricordare che l’album uscirà anche in limited edition con materiale bonus. Ora, lasciatevi pure sedurre dalla fiamma nera dei Naglfar... (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 70

Klimt 1918 - Dopoguerra

#PER CHI AMA: Gothic Dark, Novembre
Il talento non lo puoi comprare. Puoi affinare la tecnica o infarcire il tuo stile di elementi che rendano la proposta musicale sempre fresca e al passo con le attuali tendenze, ma il talento no, non lo puoi acquisire con il tempo, né spendendo ore e ore in sala prove e nemmeno cercando di rincorrere un filone particolarmente fortunato. Quel che è certo è che i Klimt 1918 di talento ne hanno da vendere. Già in “Undressed Momento” ne diedero una prova, confezionando un lavoro che sarebbe alquanto banale e riduttivo apostrofare semplicemente come stupendo. Oggi, con il loro secondo album in studio i quattro musicisti romani rinconfermano tutta la loro classe, consegnandoci tra le mani un altro gioiello di musica nostalgica, intensa, profondamente ispirata. E se “Undressed Momento” non aveva tenuto nascosta la fascinazione dei Klimt 1918 per il suono di Tears For Fears e The Police, “Dopoguerra” rende ancor più manifeste tali influenze, rafforzando quel legame con la wave anni '80 attraverso retaggi pop già ampiamente percepibili nel debutto e altri più rock, posti quasi a rievocare il fantasma dei primi U2 (soprattutto nelle linee melodiche di chitarra). Ma, sia ben chiaro, “Dopoguerra” non è un album costruito sulle citazioni e l'attaccamento che il gruppo continua ad esternare per certe sonorità non ha precluso l'evolversi di uno stile personale e riconoscibile. Ciò che mi colpì dei Klimt 1918 all'epoca dell'esordio fu la loro maturità compositiva, ma oggi il gruppo si dimostra ancor più disinvolto e smaliziato nella stesura dei brani, riuscendo a gestire con perfetta maestria ogni componente del proprio suono, a partire dalla voce garbata e passionale di Marco Soellner, fino ad arrivare alla sezione ritmica, che merita una menzione particolare per la scelta più che fantasiosa di ogni singolo passaggio di batteria. Difficile, all'interno dell'album, individuare un brano che spicchi sui restanti, anche perché se “Nightdriver” e “Lomo” possono sembrare i brani più riusciti ed emozionanti, altri episodi come “Snow of '85”, “Rachel” e la conclusiva “Sleepwalk in Rome” rivelano la loro bellezza solo dopo un ascolto ripetuto. “Dopoguerra” si presenta, dunque, come un lavoro durevole e non immediatamente assimilabile, perciò sono quelli che io amo definire climax sonori ad entrare subito in testa e solleticare l'attenzione durante i primi ascolti, mentre le sfumature più nascoste si riescono a cogliere solamente con il tempo e le si apprezza con crescente trasporto man mano che l'album diventa "nostro". Sortire quest'effetto è una prerogativa di pochi o, meglio ancora, è la prerogativa dei Grandi. (Roberto Alba)

(Prophecy Productions)
Voto: 90

Landforge - Servitude to Earth

#PER CHI AMA: Sludge, Post Rock, Doom
Landforge è il progetto solista di una mente alquanto malsana (musicalmente parlando) che risponde al nome di Stephan Carter. “Servitude to Earth” è il secondo lavoro, prodotto dalla Arx Productions ed è composto da sei tracce dalla consueta lunga durata, visto il genere. E di genere parliamone, perché Landforge parte da una background post rock con influenze doom e sfumature metal, con totale assenza di cantato. Per quanto riguarda questo genere e l'album in questione, la chitarra sostituisce la linea melodica generalmente gestita alla voce, lavorando molto sui riff, sui cambi di ritmica e sui suoni. Diciamo che la parte compositiva rientra nella media, la struttura dei pezzi varia costantemente per dare una certa emotività, ma non eccelle, come spesso accade, per fantasia e innovazione. Nota dolente sono i suoni legati alla chitarra. Non voglio certo penalizzare un prodotto totalmente a carico del musicista, ma le distorsione sembrano sempre un po’ povere e fredde. Questo problema si può ovviare con accorgimenti che non impattano sul budget, quindi lascio un punto interrogativo. Giusto per partire dal fondo, cito subito "Phalanx", traccia che chiude il cd, ma che mi ha emozionato maggiormente. Infatti i riff sono più pesanti e la rimica lenta (dio salvi il doom), questo crea un "mood" drammatico a momenti, epico in altri. Ottimo pezzo, ben bilanciato e arrangiato. Risaliamo nella track list e arriviamo a "God-figure", ottima intro graffiante e visionaria, sempre con una ritmica doom e seconde chitarre che tessono una trama evocativa e visionaria. Ci sono i soliti stacchi lenti e puliti, come non prevederli? Bravo Mr. Landforge, ma prova a cogliere una provocazione: se in un contesto "post qualcosa" la chitarra solista venisse supportata da dei synth e affini, avremo forse un'evoluzione del genere? Ai posteri l'ardua sentenza. (Michele Montanari)

(Arx Productions)
Voto: 70

domenica 1 aprile 2012

Yayla - Sathimasal

#PER CHI AMA: Black Psichedelico
Celato dietro questa one man band troviamo il polistrumentista turco Emir Togrul. Il suo personale progetto è caratterizzato da una catarsi sonica perfettamente riuscita che per l'intero lavoro perseguita senza dare tregua. Il suono di Yayla è dilaniato e magmatico con un incedere talmente funereo e cerebrale che a stento si riesce a dare un giudizio tecnico alle partiture degli strumenti o alla voce, echeggiante e distante quasi quanto l'inferno! Un'atmosfera plumbea ed interminabile ci avvolge creando immagini luciferine che portano l'ascoltatore a non inquadrare mai esattamente la fonte da cui arriva il suono, tanto è compresso, marziale, fumoso e rumoroso. Il risultato di questo sound ci fa sprofondare in una palude tanto fitta, introspettiva e densa, tanto coinvolgente che per liberarci non ci resta che spegnere il lettore a forza. Come se un album dei primi Ulver fosse suonato oggi con la forza psichedelica e noise di Boris e con il fascino di Jesu; questo album è una chicca per figure romantiche e oscure, figure d'altri tempi che non esistono più! (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 80
 

lunedì 26 marzo 2012

Veratrum - Sentieri Dimenticati

#PER CHI AMA: Brutal Death/Black dalle tinte epiche, Behemoth, Nile
Non mi sono ancora ripreso dallo spargimento di “Sangue” del demo di debutto, che ecco ritornare a farmi compagnia nelle notti insonni, i bergamaschi Veratrum, freschi freschi con il loro primo full lenght, che si presenta pregno di significati già dal suo simbolico, quanto mai magico, artwork, dove domina una sorta di sacerdote incappucciato, che impugna fra le sue mani delle infuocate sfere blu mentre sullo sfondo trovano posto i simboli delle tre città perdute, menzionate all’interno di questo concept cd: Atlantide, Thule e Agarthi. Si parte subito bene quindi, almeno a livello di contenuti, in quanto io adoro la mitologia, l’archeologia e la storia, tutte cose che ben si amalgameranno all’interno di questo intrigante lavoro. Se poi, quando faccio partire il cd, la produzione cristallina esalta, in modo bombastico, il sound del quartetto lombardo, non posso che essere ancor più felice. Abbandoniamo però queste argomentazioni più futili, per concentrarci sulla musica, vera protagonista di questa seconda uscita targata Veratrum. Ebbene, tralasciando velocemente la scialba intro (l’invito della filosofa ucraina H.P. Blavatsky, ad abbandonare i sensi e avvalersi di mente e spirito, estratto dal “The Voice of Silence” del XIX secolo), mi lancio violentemente all’ascolto di questa penetrante produzione, che fin dal suo trittico di song iniziali, “Uomo”, “Lo Sventramento dei Guardiani della Terra Cava” e “I Trionfi più Grandi”, ci assale con somma prepotenza, ricalcando se vogliamo gli stilemi del demo cd, ossia un death brutale di matrice statunitense, e proprio come gli originali, la tecnica si mantiene sopraffine, con un lavoro sapiente a livello di tutti gli strumenti, per l’intera durata del cd, senza alcuna sbavatura di alcun tipo. Annientato. Ecco l’effetto esplicato sulle mie membra, dall’assetato desiderio di sangue dei quattro valorosi eroi italici. Con “Ars Goetia” invece, inizia a cambiare qualcosa: sebbene il drumming di Sabnok continui a martellare furioso con blast beat che sembrano più riprendere il sonoro dello scontro a fuoco recentemente avvenuto in Francia, dove sono stati spesi 300 proiettili in un minuto, le ritmiche si confermano potenti, ecco che la voce di Haiwas subisce un mutamento palese (al growling cavernoso si affianca infatti, anche un brillante cantato pulito); forse si tratta di quel passo in avanti narrato nelle liriche del cd (tutte rigorosamente in italiano, con traduzione in inglese annessa), quella crescita del viaggiatore, che permetterà al protagonista della storia, di domare gli Spiriti Malvagi. L’esperimento si ripete anche dopo il meraviglioso intermezzo musicale (un altro intermezzo sarà “Orizzonte”) de “I Braceri del Tempio di Thot”, con la epica “Ritorno ad Atlantide”: qui i toni sono decisamente più corali. Una brevissima intro di E.A. Poe, ci introduce alla penultima tappa di questo viaggio: siamo arrivati a “Thule” e la musica dei Veratrum, pur mantenendo indelebile quel marchio di ferocia e brutalità, lascia intravedere qualche sprazzo in più di selvaggia melodia, con un break epico centrale, che non so per quale arcano motivo abbia risuscitato in me il ricordo dei primissimi Primordial, quelli più pagani, capaci di incastrarsi a meraviglia con il sound viscerale dei Nile. L’apertura tastieristica dell’ultima “Agarthi”, sembra invece affidata a Lord Byron e i suoi Bal-Sagoth; ci pensa però la ritmica furibonda dei nostri a farci cancellare immediatamente questo sciocco paragone, perché la song è un chiaro inno di scuola black/death polacco, grondante di groove ma con aguzze chitarre spinte al fulmicotone. Se cercavate qualcosa di interessante, con cui dilettare il vostro periodo pasquale, eccovi accontentati; i Veratrum rappresentano il miglior regalo da scartare all’interno del vostro uovo di Pasqua. Impetuosi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80
 

Manes - Under ein Blodraud Maane

#PER CHI AMA: Black psichedelico, Burzum, Thorns
Alla luce dello scioglimento della band, vengo colto dall'improvviso desiderio di rituffarmi nel passato, tra le sonorità oscure del black metal più autentico, riscoprendo questo gioiello nero che tanto mi aveva emozionato e coinvolto quando fu pubblicato qualche anno fa. I Manes muovono i primi passi nell'underground norvegese agli albori degli anni '90 e registrano tre demo-tape nel periodo che va dal '92 al '95: “Maanes Natt”, “Ned I Stillheten” e “Til Kongens Grav de Døde Vandrer”. Dopo aver rilasciato queste tre registrazioni (le prime due sono state successivamente ristampate su mini-cd dalla Unveiling the Wicked, sottoetichetta della Hammerheart), dei Manes cominciano a perdersi le tracce e per un lungo periodo non giunge più alcuna notizia di questo duo, formato inizialmente da Sargatanas e da Cernunnus. L'allontanamento dei Manes dalla scena musicale sembrava dovuto ad alcuni problemi personali, uniti ad una forte repulsione che i due cominciavano a sentire per un ambiente sempre più distante dallo spirito anti-commerciale che aveva animato il black metal nei primi anni. Finalmente nel 1998 esce “Under ein Blodraud Maane”, album che era stato più volte posticipato e che può essere considerato come il vero e proprio debutto discografico della band, anche se il materiale in esso contenuto non è altro che una collezione dei brani migliori apparsi nei precedenti tre demo, riregistrati però con l'avvalsa di una strumentazione più adeguata. I sei brani che compongono l'album rappresentano quanto di meglio il black metal dei primi anni novanta abbia saputo esprimere, affiancandosi alle stesse atmosfere claustrofobiche e tetre delle quali si fecero eccezionali interpreti anche altri act più conosciuti come Morbid, Thorns e Burzum. Il suono dei Manes è terribilmente oscuro, la voce di Sargatanas agghiacciante, la produzione volutamente grezza e la presenza discreta di sinistri arrangiamenti di tastiera non fa altro che rendere più seducente la loro musica, conferendo ad ogni passaggio un tocco funereo. I tempi di drum-machine si assestano su velocità mai troppo elevate, sostenendo un lavoro di chitarre dalla struttura semplice, ma in una continua progressione di armonie, che passa da riff glaciali e taglienti a momenti più epici, fino a raggiungere la melodia allucinante ed ipnotica di assoli che sanno emozionare davvero, come in “Maanes Natt” e in “Uten Liv Ligger Landet Øde”. Dalle note riportate all'interno del booklet, l'intento di Cernunnus e Sargatanas appare chiaro ed esplicito: il duo si aspettava che l'album non venisse associato in nessun modo alle nuove generazioni appartenenti al "black" metal... un desiderio più che legittimo e comprensibile che va rispettato e condiviso ancora oggi, ricordando la prima incarnazione dei Manes come una delle poche entità realmente oscure che hanno fatto parte di questo genere. (Roberto Alba)

(Hammerheart Records)
Voto: 90
 

domenica 25 marzo 2012

Frozen Ocean - Likegyldig Raseri

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
Se non si conoscesse la storia della “Ildjam Recorded Music” - etichetta norvegese che ruotava intorno alla figura di Vidar Vaaer e che tra il 1991 e il 1997, diede vita ad una serie di collaborazioni con musicisti metal norvegesi creando una nuova costola del black metal che fondeva impulso hardcore, drum patters minimali e lo-fi, screaming tesissimi e sound da headbanger furente, monolotico e ripetitivo all'ossessione - non si potrebbe capire questo cd. I moscoviti Frozen Ocean (in realtà one man band guidata da Vaarwel e già recensiti su queste stesse pagine) hanno all'attivo numerosi lavori e sono dichiarati fan di Burzum. Questo cd ha un tiro notevole e riflette pienamente il genere che l'ha ispirato. Non possiamo dare giudizio sul fatto che su 13 canzoni, ben undici portino praticamente quasi lo stesso pattern di batteria minimale e che più di un brano non abbia ne inizi ne finali, senza assoli e molti senza un cantato. “Likegyldig Raseri” è stato costruito come un concept di nicchia con i canoni ferrei del genere in questione. Tenedo conto che i 13 brani portano tutti lo stesso titolo più la numerazione progressiva, consideriamo quest'opera come un libro occulto, qualcosa da tener custodito in segreto e musica di culto per soli illuminati del black. (Bob Stoner)

(Deleting Soul Records)
Voto: 70
 

giovedì 22 marzo 2012

Stigmhate - The Sun Collapse

#PER CHI AMA: Swedish Black, Marduk, Setherial
Dopo essere stato tramortito in sede live e averli ospitati in trasmissione nel Pozzo dei Dannati, finalmente giunge tra le mie mani il come back discografico (dopo ben sei anni!) dei violentissimi Stigmhate, con un lavoro che è più una sonora legnata nella schiena, e poi più giù all’altezza del cavo popliteo, subito dietro al ginocchio, a piegarci le gambe e a chinare il capo di fronte a cotanta furia e malvagità. Avremo anche aspettato tutto questo tempo per rivedere all’opera l’oscuro quartetto veneto, ma ne è valsa la pensa, perché i nostri sono tornati più tonici e in forma che mai, ben supportati dall’etichetta Bakerteam Records. Ebbene “The Sun Collapse” ci propone nove annichilenti tracce che, prendendo palesemente spunto dalla tradizione black svedese (quella di Marduk e Setherial), ci investe, sin dall’iniziale “Throne of the Eternal Flame” con tutta la rabbia che, verosimilmente l’ensemble ha tenuto represso, nel corso di questi anni. La musica del combo, come dicevamo, è un vertiginoso esempio di black metal, suonato alla velocità della luce, sorretto da una ritmica mostruosa e sontuosa, grazie a delle chitarre affilatissime e ad un drumming potente e chirurgico, capace poi di anestetizzarci in quei rari momenti, in cui un sound mid-tempo, assurge a ruolo di protagonista. Non temete perché questi istanti, utili soprattutto a recuperare un po’ di ossigeno, sono veramente assai sporadici. Dopo il carattere trita ossa delle prime due track, è la melodia di “Gathered of Isolation” a conquistarmi, con quel suo incedere minaccioso, grazie ad un sound a cavallo tra Dissection e Unanimated, insomma altri due mostri sacri della tradizione scandinava, a dimostrare quale eccellente esempio, la scuola italica abbia da offrire in questo filone, un tempo territorio quasi esclusivo delle band svedesi. Taglienti, feroci e tecnici, supportati peraltro da una brillante produzione, gli Stigmhate devono aver venduto l’anima al diavolo, proponendo un sound che più mefistofelico non si può. Probabilmente lo screaming maligno e brutale di Marco accompagnato dall’efferato lavoro alla chitarra di Mike, spingono gli Stigmhate a candidarsi nel minacciare il trono ai godz svedesi. Un’ultima menzione la voglio dedicare ad “Architects of Fate”, song dal forte carattere apocalittico e alla conclusiva “Luce”, song leggermente più pacata, cantata tra l’altro in italiano, che chiude le porte dell’infernale mondo degli Stigmhate. Diabolici! (Francesco Scarci)

(Bakerteam Records)
Voto: 80

Nekromorphine - Senseless Ecstasy

#PER CHI AMA: Black, Ambient
Nekromorphine è una band portoghese molto interessante, dedita ad un black metal d'ambiente e sperimentale. Lo stile è quello del black metal con una visione ampia e teatrale del genere. Una visione estesa alla “sperimentazione fantasy” come la intendono Bal Sagoth, Burzum e Sigh. I brani sono dilatati, psichedelici con stati d'animo eterei e di profonda tristezza, mai estremamente veloci, pieni d'atmosfera e carichi di sinistra emotività. L'uso della tastiera ha un vago rimando alla teatralità dei Moi Dix Mois. “Into the Grimness” sfiora una sorta di shoegaze oscuro, come se i primi Christian Death suonassero musica ambient. La voce è quasi perfetta, astratta, violenta, coinvolgente e oscura, mai banale! “To the End of Mine” è la più “black style”, “Voyage into the Realm of Smoke” è un azzardo nella sua costruzione da “concept”, un viaggio nel suo altalenarsi. Ascoltate il finale e non ditemi che non sentite un retro gusto di bubble gum music, new wave degli 80's e il visual key nipponico (innesto geniale e azzardatissimo per questo genere!). Il tutto andrebbe sofisticato un po' e meglio registrato, l'uso della batteria a volte risulta ancora primitivo e “scarico”. Non aspettatevi da Nekromorphine la solita violentissima black metal band stereotipata, c'è di più! Maligni come una black metal band, sinfonici e d'avanguardia come i Moi Dix Mois e Malice Mizer, teatrali e tetri come se Burzum suonasse una cover del miglior Alice Cooper. Di sicuro non piaceranno a tutti ma il coraggio di questa band potrebbe venir ripagato se sapranno focalizzare ulteriormente le loro idee! (Bob Stoner)

Eluveitie - Slania

#PER CHI AMA: Death Folk, Korpiklaani e Asmegin
Dopo averli visti dal vivo al Pagan Fest con Primordial, Negura Bunget, Solstafir e Heidevolk, non potevo non esimermi dal pubblicare una loro vecchia recensione: gli Eluiveitie, tornano nel 2008 con "Slania", a distanza di 2 anni da “Spirit”, e ritornano con il loro sound rude, ma atmosferico, caratterizzato dall'utilizzo di strumenti tipici della tradizione celtica (l'hurdy gurdy, la cornamusa e i flauti), tradizione alla quale si rifà la band alpina ma non solo, vista la presenza anche di altri strumenti tipicamente svizzeri come lo zugerörgeli (una specie di accordion) e il bodhràn. Più vicini alle sonorità di Korpiklaani e Asmegin, accomunati più per ideologia agli irlandesi Cruachan, l'act d'oltralpe rilascia questo interessante e suggestivo lavoro, addirittura per la Nuclear Blast e il risultato non è affatto male. Se conoscete le band sopraccitate, avrete già capito che si tratta di un death metal dalle tinte folkish, che mantiene la rudezza del genere, ma grazie a preziosi e ariosi arrangiamenti, è capace di spingerci a ritroso nel tempo di mille anni, dove i riti pagani si consumavano quotidianamente. A me questo lavoro piace senza ombra di dubbio, anche se rimango stupito di fronte all'incedere super indiavolato di un pezzo come “Bloodstained Ground” che di folk ha ben poco, se non il finale. Sorprendente è l'aggettivo che si deve dare a un disco di simile fattura, perchè in grado di rievocare con estrema efficacia, le tipiche melodie popolari irlandesi, pur mantenendo intatto l'approccio feroce del death metal: riffing veloci, nervosi e ritmiche sostenute delineano il sound di fondo di “Slania”; tocca poi al magico suono di flauti, cornamuse e violini donare quel quid in più ad un lavoro in grado di spingere la band verso il meritato successo... (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast)

Ekove Efrits - Conceptual Horizon

#PER CHI AMA: Black Ambient Post Rock, Tiamat
Non ho neppure avuto il tempo di riprendermi dall’eccitante lavoro dei francesi Netra, che tra le mie mani sbuca un’altra opera targata Hypnotic Dirge Records, che dimostra quanto oculata sia la scelta delle band del proprio rooster, da parte dell’etichetta canadese, capace di scoprire talenti addirittura nella terra della censura per eccellenza, l’Iran. Questa infatti, l’origine della one man band degli Evoke Efrits, costituita dal solo Saman N (o Count De Efrit). Il sound del nostro eroe persiano potrebbe essere inseribile nel filone suicidal black, ma circoscrivere la proposta musicale a questa sola etichetta, sarebbe limitante, se pensate che l’iniziale “Unmeaning Circle”, che denota subitamente una ricerca sonora lo-fi da parte dell’ensemble persiano, mi ha rammentato le cose più darkeggianti dei Tiamat di “A Deeper Kind of Slumber”: sound sognante, oscuro, vocals pulite molto vicine a quelle di Johan Edlund, prima che prenda il sopravvento un’epica cavalcata black. Incredibile ma la proposta musicale dell’act di Teheran mi ha già conquistato e mi fa enorme piacere constatare che dopo i Silent Path, un’altra band proveniente dall’antica Persia, popoli le pagine del Pozzo dei Dannati. La seconda “Faceless Moments” mette in mostra la componente più legata all’ambient depressive dell’artista medio orientale, che presenta come punto di riferimento per il solo riffing iniziale, l’onnipresente Burzum, prima di abbandonarsi a deliranti divagazioni lisergiche; le successive vocals campionate di bambini che popolano il brano, mi inducono a percepire una spettrale e angosciante presenza. La temperatura si abbassa, il vapore dell’alito si rende visibile, una sensazione raggelante mi percorre tutto il corpo, un forte desiderio di piangere mi stringe al petto, che diavolo mi prende? Colpa (o meglio, merito, per la sua enorme componente emotiva) va data alla musica del Conte de Efrit, che mette a freno ogni velleità black, per lanciarsi in meravigliose elucubrazioni post rock che nella struggente, epica, magniloquente (e strumentale) “All that We Lost”, trovano la loro massima espressione. Come il titolo lascia presagire “A Celebration for Sorrow” è invece un inno alla tristezza (d’altro canto cosa c’è da essere allegri al giorno d’oggi?). “Conceptual Horizon” potrebbe essere tranquillamente la fotografia del deprimente mondo in cui viviamo e le disperate chitarre che lo popolano (il cui riffing mi ha ricordato quello dei finlandesi Rapture), il potente mezzo che gli Evoke Efrits hanno per contagiarci con il loro profondo senso di inquietudine. Sprazzi di musica orientale si fondono con suoni ambient/cibernetici in “I Just Wish…”, mentre un’altra gemma incastonata in questo quasi capolavoro, è la teatrale e orrorifica “Hills of Ashes”, che cede il passo alla lenta e soffusa “We Can Fly Once More”, un altro omaggio al sound più intimista dei Tiamat e alle tetre composizioni dei Fields of the Nephilim. Dolcemente, attraverso una serie di song strumentali e ambientazioni oniriche, vengo accompagnato e abbandonato tra le braccia di Morfeo. Sorprendenti! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 85

http://www.ekoveefrits.com/

domenica 18 marzo 2012

Duality - Chaos Introspection

#PER CHI AMA: Techno Death, Avantgarde, Ephel Duath, Cynic, Atheist
Sono quasi convinto che nelle Marche ci sia qualche fungo particolare che i ragazzi si mangiano o fumano: dopo la follia cerebrale degli Infernal Poetry, la freschezza alternativa degli Edenshade, ecco giungere tra le mie mani la delirante proposta di questi Duality, nati nel 2003 grazie a Manuel Volpe e Giuseppe Cardamone. Lo so che vi starete chiedendo perché ho etichettato i nostri come deliranti, un attimo, vi tengo un po’ sulle spine. Beh, sapete com’è, quando si preme il tasto play e si viene investiti da una furia death è cosa normale a cui siamo tutti abituati, ma se dopo 30 secondi, il nostro quartetto inizia a fare un po’ quel diavolo che gli pare, uscire completamente dai binari, improvvisare con digressioni jazz schizoidi, prontamente interrotte da inequivocabile furia hardcore, non si può che rimanere attoniti di fronte ad una simile proposta. Poi, con il secondo pezzo, la title track, (in realtà un intermezzo di un minuto), il delirio aumenta: eh si perché la song sembra venir fuori dal flamencato “Elements” degli Atheist, solo che il caldo intreccio violino-chitarra spagnola ci riconduce a sonorità più vicine alla musica classica. Confusi vero, non vi aspettavate una simile proposta? Beh io lo sono ancor di più, soprattutto quando con “Intuition of Disorder” ho la pretesa di intuire, che i nostri vogliano assaltare la diligenza con la loro furia death metal, mi sbagliavo; di nuovo sprazzi di insania mentale prendono il sopravvento e cosi quello che attacca le mie orecchie come un mefitico parassita, è un sound che intreccia influenze derivanti dai Cynic, con quelle nostrane degli Ephel Duath. “Natural Seizure Syndrome” parte ancora una volta furibonda, con le chitarre del duo Diego/Giuseppe costantemente arroganti ed imprevedibili, per non parlare del basso slappato di Tiziano Paolini che sembra volerci condurre in territori funky; non temete però, perché poi le urla filtrate di Giuseppe, qui assai vicino al vocalist degli Infernal Poetry, ci tengono solo per qualche secondo con i piedi per terra, prima che i nostri ripartano per farneticanti e psichedeliche esplorazioni in suoni assai avanguardistici. Da paura! Da paura anche la conclusiva e arrembante “Hybrid Regression” che dichiara palesemente che nuovi fenomeni stanno crescendo sul suolo italico. E ora voglio il full lenght!! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

Domina Noctis - Second Rose

#PER CHI AMA: Symphonic Gothic Metal
Italianissimi, attivi dal 2001, i Domina Noctis possono essere l'alternativa più electro ai nostrani Lacuna Coil: la voce di Edera non ha nulla da invidiare a quella di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. “Second Rose” è il loro secondo lavoro, dopo “Nocturnalight” del 2005: un album energico, dinamico, come si può sentire fin da subito nella prima canzone, “Electric Dragonfly”, song dotata di suoni elettronici, ma anche di grinta e vitalità, grazie anche al ritmo veloce e alla voce dolce e grintosa al tempo stesso. In “Untold” l'animo si placa un poco per diventare più cupo, ma senza perdere comunque la sua verve: la canzone si presenta malinconica, dolce e profonda, piacevole all'ascolto, con il ritmo che ti penetra nella mente per cui alla fine non è difficile non mettersi a canticchiare il motivetto. “Into Hades” si avvale parecchio delle tastiere, mentre Asher alla chitarra, Azog al basso e Niko alla batteria accompagnano la dolcezza della voce femminile, inducendo comunque un headbanging sfrenato: se il loro scopo era quello di colpire, certamente hanno colto nel segno. “Because the Night” è la classica cover del pezzo di Patty Smith che, a mio avviso, è veramente azzeccata: questa è una delle cover meglio riuscite, da cantare e magari mettersi pure a ballare. Arriva il turno di “Lamia” e la voce viene portata ad una tonalità più alta del solito, senza stonature: questa è una delle tracce più semplici e leggere dell'album, ideale magari per chi vuole avvicinarsi al metal senza rimanere troppo schockato. “Sisters in Melancholy” riprende il sound iniziale, senza cambiarvi una virgola: verso metà le cose si fanno più toste e il sound acquisisce più aggressività, per terminare con un duetto batteria/chitarra. “Broken Flowers” ricalca il sound di “Lamia”, ma da metà in poi il ritmo rallenta e si fa più grave, mentre la voce diventa quasi sussurrata e il basso l'accompagna; Ruyen, alle tastiere, prende il sopravvento con un assolo dal gusto retrò. “Exile” si apre con un tono solenne: il cantato è pacifico, come del resto tutto il ritmo del brano; nella seconda metà del pezzo ecco un vibrante assolo di chitarra; il brano estranea, per un attimo fa scordare ciò che vi è attorno e porta lontano la mente, verso lande inesplorate. “The Mask” si avvale di sonorità orchestrali per dare un impronta più grandiosa al brano: con intervalli di chitarra acustica accompagnata da pianoforte, tutta la traccia diventa mesta, flemmatica, ma straordinaria, con la voce che viene portata ai massimi livelli giocando su tonalità sia acute che gravi: probabilmente un esame per vedere fino a che punto la voce può arrivare. Come ultima traccia vi è un'altra cover, più precisamente del brano di Sonny Bono “Bang Bang”: nonostante le molte cover, questa (esattamente come l'altra) è particolarmente riuscita, con la voce di Eden molto suadente e magica (decisamente migliore di quella languida cantata da Carla Bruni in uno spot automobilistico): un'ottima scelta per chiudere un album ricco di giochi vocali, di sensazioni ed emozioni che variano in base al ritmo variabile che ogni canzone presenta. In chiusura, ammetto che è stata una sorpresa sentire con quanto ardore questa band abbia registrato l'album: ha in sé una potenza che li porterà lontano, sicuramente da tenere d'occhio le loro prossime creazioni (magari avvicinandosi al symphonic metal). (Samantha Pigozzo)

(Black Fading)
Voto: 70