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domenica 11 marzo 2012

Frailty - Melpomene

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema e ultimi My Dying Bride
La band lettone dei Frailty fa parte dei nostri fedelissimi compagni d’avventura del Pozzo dei Dannati. Abbiamo recensito il primo cd, l’Ep omonimo, ed ora è la volta di “Melpomene”, che contiene le tracce mai ufficialmente pubblicate di “Silence is Everything”, Ep del 2010, oltre a cinque nuove song. Mi arriva direttamente dall’etichetta ucraina, Arx Productions, questo secondo lavoro e devo ammettere che all’ascolto della prima traccia mi ha istantaneamente disorientato; dove diavolo è finito infatti, il death doom atmosferico dei nostri? Mi è subito venuto in mente il cambio stilistico che i My Dying Bride fecero ai tempi di “The Dreadful Hours”, dove ampio spazio fu lasciato anche a feroci galoppate in territori black metal. Se non fosse per l’intermezzo acustico, posto a metà di “Wendigo”, penserei che il sestetto baltico possa aver cambiato decisamente genere, inasprendo di molto il proprio sound. Ci pensa però la successiva “Cold Sky” a ripristinare il tutto e a restituirmi la band che ho apprezzato più che altro, per l’incedere doomeggiante e pregno di vibrazioni malinconiche. Come scrissi per il precedente Ep, la musica dei nostri è in grado di solleticare il mio palato e i miei sensi, per quella sua innata capacità di riportarmi ai fasti del genere con l’esordio degli Anathema, quelli più oscuri e decadenti e i nostri ci riescono nuovamente con questa nuova release. La musica dei Frailty non è cambiata poi di molto e la terza traccia, seppur datata ormai 2010, ci ammorba con 14 minuti di lenti e pesanti riff di chitarra, accompagnati come sempre dai delicati e immancabili tocchi di pianoforte e dai vocalizzi animaleschi di Martins. “Underwater” è un bell’esempio di death doom ritmato, in cui trovano posto pletorici riffoni di chitarra, carichi di quell’eleganza mista a disperazione, che rappresentano un po’ il marchio di fabbrica dell’ensemble della piccola repubblica baltica. “Onegin’s Death” è un arpeggiato pezzo strumentale, in cui fa la sua comparsa anche lo spettrale suono di un violino nel bel mezzo di un temporale; la traccia fa da preludio ai quasi quindici minuti di “The Doomed Halls of Damnation”, che ci fanno sprofondare nuovamente in un minaccioso e tetro funeral doom, foriero di dolore, sofferenza e morte, soprattutto quando il sound rallenta paurosamente in versione super slow motion. Il nodo strozzatosi in mezzo al petto, viene subito spazzato via da “The Eternal Emerald”, song decisamente più andante, che vede anche le clean vocals di Edmunds, avvicendarsi a quelle di Martins e mostrare come le nuove composizioni siano decisamente meno claustrofobiche della precedente produzione targata Frailty. Non so se questo sia un bene o un male, dal momento che ho imparato ad apprezzare la band per quei suoni miscelanti angoscia ed eleganza, lenti, ossessivi e caratterizzati da pesanti ritmiche agonizzanti. Ecco, diciamo che li preferisco maggiormente in versione slow piuttosto che mid-tempo, anche se non posso negare che “Thundering Heights” mostri in chiusura un fantastico assolo che contraddice ogni mia parola. A chiudere ci pensa la strumentale, orientaleggiante e davvero notevole, “The Cemetary of Colossus”, che conferma quanto i Frailty si possano candidare ad essere tra gli alfieri del death doom in Europa, ma al contempo possano decisamente aprirsi ad altre sonorità più epiche e sperimentali. Da tenere accuratamente e obbligatoriamente sotto la lente di ingrandimento. (Francesco Scarci)

(Arx Productions)
Voto: 75
 

Klimt 1918 - Undressed Momento

#PER CHI AMA: Dark Gothic, Novembre
Cosa dire di questo album se non che si tratta di un lavoro perfetto! Potrà sembrare sbrigativo liquidare in questo modo “Undressed Momento”, eppure vi assicuro che l'album mi lasciò di stucco e fatico quasi a trovare le parole per descriverlo, tante sono le emozioni che mi travolsero durante l'ascolto. Avevo conosciuto i Klimt 1918 un paio di anni prima di questo lavoro (era il 2001!) con il loro demo “Secession Makes Post-Modern Music” e già in quell'occasione penso si intravedessero delle doti non comuni nel gruppo romano, ma è proprio con “Undressed Momento” che il quartetto dimostra tutta la sua bravura. La band infatti non si è limitata a seguire la lezione impartita dai propri gruppi ispiratori ed ha rielaborato certe influenze metal in una collezione di ottimi brani dallo stile personale e dai contorni definiti. Gli echi di Edge of Sanity e Novembre si fanno ancora sentire, ma questa volta rimangono latenti nel songwriting e si accompagnano a sfumature pop prossime a Tears for Fears e The Police. Ciò che vi colpirà immediatamente appena verrete a contatto con “Undressed Momento” è la maturità della proposta musicale, cosa che personalmente trovo stupefacente se ripenso che il gruppo era al suo debutto. Quella perfezione compositiva che una band come i Novembre ha raggiunto attraverso quattro album pare infatti sia già una ben affermata qualità dei Klimt 1918. Cito i Novembre perché le due band hanno più di un punto che le accomuna, senza poi dimenticare che proprio Giuseppe Orlando e Massimiliano Pagliuso appaiono come guest-musician nel cd. Mentre la musica dei Klimt 1918 si diffonde nella stanza, posso allora riconoscere le stesse deliziose vibrazioni che album come “Wish I could dream it Again” e “Arte Novecento” mi avevano trasmesso qualche anno prima. Parlo di melodie fragili e carezzevoli che, accompagnate dalla bella voce di Marco Soellner, descrivono gesti di intima delicatezza, parlo di chitarre vibranti, come morbidi cerchi concentrici che si propagano lentamente nell'acqua. Tutto in questo album porta ad uno stato di immobile attesa e di attonita contemplazione. Sono attimi interminabili, interrotti solamente dai sussulti di un cuore inquieto. Tra le sagome incerte di un dipinto scorgo i guizzi vitali della passione, gli inganni di un sentimento acerbo che si dissolve e la musica di “Undressed Momento” accompagna queste immagini prima con dolcezza... poi con veemenza. Rimango estasiato davanti alla sorprendente facilità con cui i Klimt 1918 sanno emozionare e lascio che i colori tenui della loro musica si diffondano attorno a me, a confortarmi nelle mie notti più solitarie. (Roberto Alba)

(My Kingdom Music)
Voto: 90

Debauchery - Continue to Kill

# PER CHI AMA: Brutal Death, Six Feet Under, Suffocation, Obituary
Non sono mai stato un grande fan della band teutonica, che a distanza di un anno dal rilascio del disco death'n roll, “Back in Blood” (che scimmiottava non poco gli AC/DC), propone il proprio quinto album, dal contenuto decisamente più brutal death splatter gore. Abbandonati i modernismi grooveggianti del precedente lavoro, “Continue to Kill” non fa altro che colpire, tramortire e continuare ad uccidere il povero ascoltatore, con il suo sound veloce, compatto, ma anche melodico. A mio avviso, il combo tedesco fa un passo in avanti rispetto al passato, abbandonando quell'eccletismo di fondo (se escludiamo le song 5, 13 e 14 che invece mantengono come matrice di fondo l'hard rock), che magari disturbava non poco, i puritsti del genere. Le tracce, come una contraerea nel cielo di Baghdad, scatenano una furia distruttiva, non sfociando però mai nel grind o nel chaos più totale. Da sottolineare la presenza della ferale "Angel of Death", cover degli Slayer, qui in versione rivista in chiave Debauchery. Gli altri brani viaggiano invece su mid tempos più ragionati e controllati, risultando però alla fine noiose. Le ritmiche sono violente con gli immancabili blast beat a dettare i tempi della mitragliatrice ritmica; un riffings affilato, con le growling vocals e lo screaming raro del vocalist, completano un lavoro, che ha il solo difetto di risultare al termine del suo ascolto, un po' troppo insipido e avaro di emozioni... (Francesco Scarci)

(AFM Records)
Voto: 65
 

venerdì 9 marzo 2012

Warshout - Grœnlendinga Saga

#PER CHI AMA: Black Epic, Bathory, Amon Amarth, Primordial
Ero preoccupato della scomparsa dei Bathory di Quorthon, quando mi ritrovo addirittura vicino casa i suoi potenziali eredi, e che diavolo, possibile che non me ne sia mai accorto? Certo mai mi sarei aspettato che in provincia di Reggio Emilia si potesse parlare di tradizioni vichinghe o di Groenlandia, sapete com’è, mi sembrava un po’ fuori mano. Eppure quando ho inserito il platter dei Warshout nel mio lettore, e ho fatto partire “Banishment of a Race”, immediatamente due nomi sono echeggiati nella mia testa, i Primordial e i già citati Bathory, beh niente male come accoppiata. Certo non saremo ai livelli delle due mostruose band appena menzionate, ma il sestetto emiliano è sulla strada giusta per porsi come potenziale rivale dei fenomeni nordici, ai quali vorrei aggiungere anche gli Amon Amarth, dopo aver ascoltato la seconda “When the Longships Arrive”. Gli elementi chiave e vincenti nella proposta dei Warshout si possono ritrovare nell’epicità che permea la release dei nostri, che affida il proprio incipit ad un mid-tempo che affonda le proprie radici proprio nel suono pagano degli irlandesi Primordial, prima di premere sull’acceleratore e lasciarsi andare in una bella cavalcata black, come la tradizione insegna, sospinta da delle ritmiche ferali, su cui si staglia potente, lo screaming di Teo. Dopo la “amon amarthiana” seconda traccia, ci è concesso il tempo di rilassarci con delle melodie ancestrali. Mentre mi appresto a gustarmi la quarta “Greenland’s Aurora” e al tempo stesso, sfogliare il booklet del cd, leggere i testi, notare qualche influenza derivante anche dai norvegesi Einherjer, mi accorgo della peculiarità della band: avere due bassisti. Questo mi spinge ad mostrare un maggiore interessa nella componente tecnico ed esecutiva dei nostri e rendermi conto del differente lavoro effettuato da Alfred e da Beppe: l’uno a costituire la base ritmica in accompagnamento a chitarre e batteria, l’altro a ricamare interessanti orpelli stilistici, in quei momenti in cui sono più le parti acustiche a prevalere. Il risultato mi piace, anche alla luce dell’ascolto della conclusiva traccia, black progressive “From Brattahlid to Infinity”; tuttavia, ci sono ancora tante piccole sbavature da sistemare qua e là: la voce non è sempre all’altezza nella sua componente screaming (mi piace invece parecchio nella sua versione pulita e growling); le sfuriate epico-metalliche lasciano trasparire talvolta, qualche peccatuccio veniale nell’uso della batteria e il rischio di creare un certo caos sonoro fine a se stesso; i suoni sono ancora un po’ troppo pastosi, avrei preferito una produzione maggiormente cristallina. Non pensate che questi miei commenti implichino però che la proposta dei nostri sei vichinghi emiliani non sia buona, anzi, vuole solo essere uno incoraggiamento a fare molto meglio per poter stare al passo dei mostri sacri nord europei e anche per far crescere una scena viking italiana, perché no? D’altro canto, anche alcune zone della nostra penisola hanno subito l’influsso dei vichinghi, quindi nulla ci vieta nel narrare di Odino, del Valhalla o di altre gesta dei guerrieri nordici. Il carattere giusto per far bene c’è, ora affiniamo semplicemente la tecnica. Epici! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

Crown - The One

#PER CHI AMA: Drone, Sludge, Post Metal
Un autentico muro sonoro, un flusso di emozioni, un mare di lava che lento e minaccioso si muove nell’improvvisato letto che si è creato, l’universo che si espande costantemente seguendo l’effetto Doppler, un tumore che si propaga metastatizzando tutte le cellule che lo circondano. Ecco, l’inaspettato effetto che il sound iper dilatato dei francesi Crown, ha suscitato in me, dopo il suo primo famigerato ascolto. Sono allibito e frastornato al tempo stesso, dall’irriverenza sonora creata da questi due loschi figuri posti alle chitarre di ques band transalpina, coadiuvati solo dalla quanto mai calda, drum-machine. Il duo di Colmar, località più famosa per l’abbigliamento sportivo che per altro, ci cinge fin da subito con la propria miscela sonora costituita da suoni industriali, drone, sludge, doom, post e chi più ne ha più ne metta, ma sicuramente sempre melodici. Si inizia con “Cosmogasm” e l’ensemble francese ci mostra immediatamente il proprio lato più ispirato, quello alle sonorità drone d’oltreoceano. La successiva title track ha un effetto ipnotico, come se mi fossi sparato dei barbiturici direttamente in vena, ma credo piuttosto che sia l’utilizzo della voce cibernetica, che si accompagna egregiamente ad un fantastico possente growling, o più probabilmente il campionamento del drumming, che finisce per creare delle atmosfere crepuscolari, ad avere tale effetto su di me. Le ambientazioni diventano molto più tenebrose e lente nella successiva “100 Ashes”, song tra l’altro intrisa di un profondo velo di malinconia. Arriviamo alla velocità della luce alla quarta “Mare”, song che esordisce in versione ambient, ma che sfodera ben presto un riffing corposo in tipico sludge/post style; un altro inquietante giro nei meandri più intimi degli abissi della nostra mente. Non mi è dato sapere di cosa trattano i testi, ma se li avessi scritti di mio pugno, di certo avrei parlato degli effetti del LSD sulla psiche. Un suono tribale apre invece la lunga e conclusiva “Orthodox” e il battito del suo drumming, il suo incedere marziale e ossessivo, lo sento vibrare nel mezzo del mio petto, soffocante, penetrante, allucinante e alla fine delirante. Mi sento a disagio, le immagini rimangono sfocate davanti ai miei occhi, la fronte madida di sudore; solo il risveglio improvviso dai miei incubi peggiori mi riporta alla realtà e alla tanto agognata calma del mio cuore completamente impazzito. Ragazzi, che diavolo mi sono fumato ieri sera, non ricordo più nulla, se non i suoni schizoidi di un duo francese; ah si ora ricordo, i Crown, peggio dei funghi allucinogeni! Sperimentali… (Francesco Scarci)

(Superstrong)
Voto: 85
 

mercoledì 7 marzo 2012

Waning - The Human Condition

#PER CHI AMA: Black Progressive, Blut Aus Nord
Nuova etichetta discografica per gli svedesi Waning, e nuove sonorità che prendono le distanze da tutti i trend estremi del momento. Il quintetto di Gothenburg non guarda di certo in casa propria e non si lascia infinocchiare dalle sonorità della propria città e si lancia invece in estremismi sonori che trovano nella più vicina (ma sarebbe alquanto limitante) definizione di post black, l’etichetta che più si potrebbe appioppare alla brillante proposta del combo scandinavo, formato tra l’altro per 4/5 da ex membri degli Slaughtercult. In casa Antonym Records ci hanno visto alla grande, decidendo di puntare su “The Human Condition”, come loro primo lavoro. Una release decisamente moderna, al passo con i tempi, competitiva al massimo, che di sicuro farà la gioia di chi come il sottoscritto, si ciba quotidianamente di sonorità estreme, ma pur sempre dotate di eccellenti melodie, il tutto, già ampiamente constatabile, dalla opening track, “Beneath a Septic Sun” o dalla selvaggia e più diretta, ma pur sempre melodica, “End Assembly”. Diciamo che il punto chiave della proposta dei nostri è la ritmica, sorretta da chitarre che assomigliano piuttosto ad acuminati rasoi che ad altro, che viaggiano costantemente in territori di disarmonia avanguardistica; la produzione non è troppo bombastica, ma ben si allinea con la musica espressa, gracchianti le vocals maligne di Robert, mentre la ritmica infine, si mostra abbastanza secca e nevrotica (complice anche un basso delirante), capace di lasciare dietro a sé, una sensazione di inspiegabile illogicità. La band crea decisamente un qualcosa di fresco ed innovativo, ricco di energia, un sound irrequieto, talvolta straripante, che cerca di trovare la propria valvola di sfogo nel suo incedere palpitante. Splendido il refrain di “Continuum”, song peraltro avvolgente per il costante senso di angoscia che è in grado di emanare, vicino come atmosfere ai suoni degli ultimi lavori dei Blut Aus Nord. Ma non lasciamoci ingannare da dei nomi messi qua e là, giusto per provare a configurare il sound di questi Waning, citando solo delle improbabili influenze. L’act svedese ha delle idee abbastanza chiare, variopinte e talvolta geniali, che di sicuro devono ancora trovare una propria ben definita espressione o esplosione; black, doom, suoni industriali-cibernetici, post, trovano tutti un loro angolino nelle note di questo quanto mai inatteso e stravolgente “The Human Condition”. Da citare a tal proposito, la title track, in cui il pout pourri musicale, si fonde uniformemente in un unico ammaliante sound, attraverso un riffing suonato con la tecnica del tremolo picking. Il disco si chiude che ne vorrei ancora per capire al meglio le potenzialità, a quanto pare enormi, dell’ennesima band proveniente dalla sempre più prolifica e sorprendente Svezia. (Francesco Scarci)

(Antonym Records)
Voto: 80

martedì 6 marzo 2012

In Loving Memory - Negation of Life

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Saturnus
Gli In Loving Memory fanno sentire un po’ meno soli i connazionali Helevorn, in una scena death doom spagnola, che non appare proprio cosi affollata. Ma ben venga, se comunque le sole due realtà che esistono, messe tra l’altro sotto contratto dalla potente Solitude Productions, rilasciano ottime release. “Negation of Life” costituisce il secondo lavoro per la band di Bilbao, che propone un sound minaccioso nel suo incedere, tetro, oscuro e quanto mai affascinante, sin dalla opening track “Even a God Can Die”, un esempio lampante di death doom emozionale, legato alle trame chitarristiche che si intrecciano con un nostalgico pianoforte e un pesante growling. “Skilled Nihilism” appare invece con un fare molto più vicino alle melodie ariose dei finlandesi Insomnium, prima di lasciare posto ad una robusta ritmica e alle vocals di Juanma B. che provano a ricercare un’intuizione più cibernetica, che potrebbe conferire un pizzico di originalità in più al prodotto, se solo usate in maniera più massiccia; comunque al termine del suo ascolto, “Skilled Nihilism” si rivela proprio vincente, forse perché cosi easy listening, con le sue facili melodie che si stampano immediatamente nella testa. Il cd prosegue e con esso la voce cerca di mutare, trovare nuove strade, come pure la maglia musicale degli In Loving Memory, che prova a sfuggire agli stilemi del genere, in cui appare ancora palesemente cosi imbrigliata. Leggo un forte desiderio da parte del quintetto basco, di proporre qualcosa di diverso, che si traduce in linee più armoniche delle chitarre o nell’uso di vocals sussurrate. La title track si apre con un bell’arpeggio, anche se poi a prevalere è la componente death doom malinconica, di chiaro (e consueto) riferimento ai danesi Saturnus. Passo avanti, fiducioso di poter trovare qualche nuova intuizione, qualche lampo di genialità inespressa nei solchi di questo platter, che pur proponendo un genere assai roccioso, non scade mai nella noia. Un sussulto, si ecco quello che cercavo, “November Cries”, sembra estratta da “The Angel and the Dark River”, capolavoro dei My Dying Bride. Lo so, lo percepisco, gli In Loving Memory hanno la luce di chi ha la voglia di cambiare le regole, di chi non vuole stare più al gioco, solo che sono ancora intrappolati, ma sono certo che ben presto la loro vera natura potrà emergere ed esplodere. Ulteriori segnali emergono chiari con “Shimmering Divinity”, song lenta, meditativa, capace di creare un evidente senso di sospensione, come se qualcosa di brutto stesse per accadere, ma che in realtà non riesce a trovare forma. Si prosegue con una serie di song che fanno del senso di inquietudine ed inadeguatezza su questa terra, il loro punto di forza, per un album i cui temi (trattasi di concept) sono in realtà legati all’inesauribile lotta fra bene e male (evviva l’originalità). Poco importa, si arriva in fondo al cd soddisfatti per aver scoperto una nuova interessante realtà, all’interno del sempre più popoloso marasma musicale, una nuova band che se riuscirà a percorrere una sua strada, potrebbe aprire nuove frontiere in un genere il cui rischio è quello del collasso su se stesso. Ora o mai più per osare. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

www.inlovingmemory.es

domenica 4 marzo 2012

In the Woods - Live at the Caledonien Hall

#PER CHI AMA: Avantgarde, Progressive
Quanti ricordi sovvengono all'ascolto di questo doppio live degli In The Woods! Sono passati ben otto anni dall'uscita del loro primo album “Heart of the Ages”, ma tra note tanto familiari il tempo sembra annullarsi. Posso affermare di aver amato tanto la musica degli In the Woods e di averli seguiti ai loro esordi con un trasporto veramente raro. Non sono di certo il solo, perché in tanti considerano “Heart of the Ages” e il successivo “Omnio” delle autentiche pietre miliari e sebbene il terzo ed ultimo album “Strange in Stereo” non si possa considerare all'altezza dei suoi predecessori, è comunque fuori discussione che gli In The Woods abbiano scritto pagine importantissime della storia musicale più recente, entrando nei cuori di molti ragazzi che ora possono solo rimpiangere il tempo in cui la band era ancora attiva. Era la sera del 29 dicembre 2000: nella hall dell'Hotel Caledonien di Kristiansand (Norvegia), tra le urla e il vociare di un pubblico giunto da tutt'Europa, si diffondono le note psichedeliche di “Yearning the Seeds of a New Dimension”, brano di cui il gruppo suona solamente un estratto, per sfumare poi tra i riff rugginosi della splendida “The Divinity of Wisdom”. Dispiace che in questo medley, come nella successiva “Heart of the Ages”, non vi sia traccia dell'urlato black metal, ma si può anche comprendere che per ottenere una maggiore omogeneità nella scaletta alcuni "tagli" fossero indispensabili. Seguono l'inedito “Beer”, la cover dei Jefferson Airplane “White Rabbit” e “Mourning the Death of Aase”, uno degli episodi più intensi e ben suonati dell'intero live, con la cantante Synne Diana protagonista di un assolo superlativo. Si chiude un primo ciclo ed è la volta dell'album “Omnio”, eseguito integralmente rispettando l'ordine dei brani così come apparivano sulla tracklist originale. Durante l'intera esibizione, membri vecchi e nuovi della formazione norvegese si alternano sul palco ai vari strumenti: X-Botteri, Oddvar A:M, Christer A. Cederberg e Bjorn H. alle chitarre, C.M. Botteri e Stain al basso, A. Kobro alla batteria e, non per ultimo, il grandissimo Jan Transit, che assieme alla soprano Synne offre un'interpretazione vocale stupefacente, reggendo senza cedimenti più di tre ore di concerto. Quando terminano le ultime note di “Omnio” siamo già nel secondo cd, dove viene proposto parecchio materiale tratto da “Strange in Stereo” e altri brani dai 7", tra i quali vanno assolutamente segnalati “Karmakosmik” e la meravigliosa “Epitaph” dei King Crimson. Da incorniciare anche “Closing In”, alla quale viene dato il compito di chiudere il concerto e non poteva esservi conclusione migliore, considerando che quest'ultima è una delle canzoni più emozionanti che gli In The Woods abbiano scritto. Al termine la band ringrazia, saluta e tra lo scrosciare degli applausi esce di scena, lasciando in sala un pubblico commosso ed entusiasta, che serberà per sempre il ricordo di una serata irripetibile e di una band straordinaria alla sua ultima esibizione dal vivo in assoluto... (Roberto Alba)

(Prophecy)
Voto: 90
 

Vicious Art - Pick Up This Sick Child

#PER CHI AMA: Death, Dismember, Grave
La formazione svedese dei Vicious Art, che rilasciò questo disco a distanza di tre anni dal precedente “Fire Falls and the Waiting Waters” (e del 2006 è l'EP “Weed the Wild”), non è altro che una succursale di “rifugiati politici” di grandi band scandinave; tra le sue fila trovavamo (la band si è sciolta nuovamente) infatti ex membri di Grave, Entombed, Dark Funeral, Guidance of Sin e Dominion Caligula. L'esperienza nelle precedenti band viene traslata in un qualche modo nelle note di questo “Pick Up This Sick Child”, disco che è ormai uscito nel lontano 2007. La seconda release per il quintetto nordico è un vero assalto sonoro ai nostri timpani, in memoria dei bei vecchi tempi, quando infuriavano le violente cavalcate dei crunchy riffs (di cui oggi solo i Dismember continuano ad esserne alfieri) dei Sunlight Studio di Tomas Skogberg. La musica dei nostri, pur non proponendo più nulla di innovativo, riesce comunque a tenerci incollati allo stereo e terminato il loro sfogo brutale, mi ritrovo comunque ansimante per la furia e la brutalità qui contenuta. Se siete amanti di dischi come “Left Hand Path” degli Entombed, “Massive Killing Capacity” dei Dismember o “Into the Grave” dei Grave, beh anche la nuova uscita dei Vicious Art, meriterà di stare sui vostri scaffali. Chitarre super veloci, vocals terrificanti, iper blast beat, assoli nella vena degli Slayer vi schiacceranno come una scarpa su una formica. Undici funamboliche tracce che vi metteranno al tappeto! (Francesco Scarci)

(Mighty Music)
Voto: 70

Zimmers Hole - When You Were Shouting At the Devil...

#PER CHI AMA: Thrash, Strapping Young Lad, Devin Townsend, Nevermore
...”We Were In League With Satan”... Un titolo venato da un malato senso dello humor, non può far altro che celare dietro al suo nome, personaggi geniali: e infatti gli Zimmers Hole sono il chitarrista degli Strapping Young Lad, Jed Simon, il bassista dei Fear Factory Byron Stroud, accompagnati dall'eccellente vocalist (sia in formato growl che heavy classico) The Heathen e dall'onnipresente mostruoso Sir Gene Hoglan alla batteria. La band, alla sua terza release (uscita a distanza di sette anni da “Legion of Flames”), confeziona un lavoro di pregevole fattura, nonché di difficile catalogazione: la musica contenuta nelle undici tracce infatti ha come base un thrash metal molto variegato, tecnico, imprevedibile, a tratti addirittura epico, in cui l'ironia poi la fa da padrone. Le songs della “Colonna Sonora del Diavolo” sono tutte travolgenti: vuoi per la breve durata, per le intuizioni geniali, per la forte componente melodica/ironica, per quei suoi richiami alla follia di Devin Townsend, i suoi forti rimandi rock'n roll, l'eccellente produzione che ne esalta i suoni e l'esemplare perizia tecnica dei suoi esecutori. “When You Were Shouting At the Devil...” rappresenta un ottimo esempio di heavy metal, in cui vanno a confluire influenze provenienti dal prog, dal death, dai classici riffs del passato, dal doom, dal sound dei Black Sabbath, Celtic Frost, Running Wild, Slayer, Candlemass, Dark Angel e King Diamond, influenze, che rendono l'ascolto di questo disco un must per tutti gli amanti della musica metal in genere. Suoni ispirati da gente ispirata, da avere assolutamente! (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 80

Eskeype - Legacy of Truth

#PER CHI AMA: Death/Thrash grooveggiante
Concept album degli svizzeri Eskeype, release di quelle che lasciano il segno. Il sound della band del Canton Vallese, si può definire come death metal melodico, ritmato e profondo. Essendo il loro primo lavoro, bisogna ammettere che non è per niente male, anzi; di sicuro unirà diversi metaller (cosa non semplice, nel vasto universo metal). Prima di parlare dell’album, preferisco focalizzarmi sulla peculiarità della copertina: due pianeti, uno più scuro e l’altro un po’ più luminoso, uno accanto all’altro, in un universo nero come la pece, illuminato fiocamente da una luce azzurra di una galassia lontana. Il booklet contiene i testi con la foto dei componenti della band dentro un groviglio di cavi. Ma veniamo alla musica: si parte dolcemente, come in ogni prologo che si rispetti, con note di pianoforte: l’intenzione è di narrare una storia epica, ambientata su Andremid, un pianeta lontano, dove Acherus, il padre dell’eroe Frost, si troverà a combattere contro il cyborg Arachno, che assieme alle sue truppe hanno conquistato e sterminato la vita su quel pianeta. La prima traccia sottolinea la gravità dei sentimenti del protagonista, preparando l’ascoltatore ad un’avventura decisamente unica e particolare. La peculiarità dell’album, che salta subito all’orecchio, è che le canzoni si susseguono uniformemente: sembra quasi il flusso ispirato di un unico brano, il che può essere un bene o male in quanto tutti i capitoli sono suonati allo stesso modo, con lo stesso sound: se da un lato aiuta a concentrarsi sulla vicenda, dall’altro può apparire a tratti noioso. Il terzo capitolo (o terza traccia a dir si voglia), continua nella narrazione delle vicende del padre dell’eroe e dell’eroe stesso. Nel quarto movimento il ritmo si fa più serrato, con il protagonista Frost che si desta e inizia la sua battaglia, che sarà descritta nel nono capitolo (ma non prima di scoprire la città distrutta, ascoltare i capitoli 6-7-8). Andando avanti con l’ascolto, la somiglianza con il metal scandinavo si fa sempre più preponderante: il ritmo cambia di frequente, con l'ensemble che arriva addirittura ad avvalersi di un violino, suonato dal vocalist in “Exposure of a Nation (Scartezia)” e in “A New Reason to Live”. L’ausilio del violino non compromette il sound che si avvicina parecchio a quello scandinavo, anzi. Grancassa, rullante e growl/scream, fanno da padrone dall’ottava traccia, “A Night in the Unknown”, fino alla decima “Resurrection for the Ray of Light”, sottolineando musicalmente il pathos che l’epica battaglia comporta. “The Way of Silence” cambia le carte in tavola: silenzio, interrotto da una chitarra acustica e dal violino, con la voce fattasi melodica e pulita; quasi un’oasi di pace in tanta energia espressa al meglio. “The Deathmachine” propone un doom/thrash, caratterizzato da un sottile velo di malinconia creato ancora una volta dal magnifico suono del violino, che enfatizza la furia della battaglia e descrive il compimento del fato da parte del nostro eroe. Con la conclusiva “The Survivors” si arriva alla fine di questo fantastico ed eroico racconto: lasciato spazio alla parte melodica all’inizio, il pezzo ritmico torna a prevalere per rievocare gli ultimi atti di Frost: il nemico è stato sconfitto e il regno ripreso, per riportarlo ai fasti di una volta. Note di pianoforte chiudono – per ora - il primo capitolo della saga: come si può leggere dal retro del booklet infatti, “… to be continued”. E allora aspettiamo pazientemente di conoscere il nuovo secondo capitolo. Ammetto che questo lavoro mi abbia lasciato sorpresa ed entusiasta: nonostante le song siano estremamente compatte ed omogenee tra loro, il lavoro è comunque degno di ascolti ripetuti e la band promette grandi cose. Speriamo l’attesa sia breve, nel frattempo sarà meglio continuare a tenerli d’occhio. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80
 

Cronian - Enterprise

#PER CHI AMA: Avantgarde, Epic, Progressive, Borknagar, Vintersorg
Che meraviglia! Per chi, come me è fan di Borknagar e Vintersorg, avrà da che leccarsi i baffi ascoltando il cd degli scandinavi Cronian, che altro non sono, che Andreas Hedlund (aka Vintersorg) e Oystein G. Brun, songwriter dei Borknagar. La direzione musicale del duo? Beh facile intuirlo: prendete il lato più atmosferico dei Borknagar, abbinatelo alla bellissima voce di Mr. V (sia in versione pulita, un po’ meno nella versione gracchiante), aggiungete un pizzico di avantgarde e sonorità molto simili alle colonne sonore e il gioco è fatto. Nove splendide perle musicali, che vi porteranno in un universo parallelo, fatto di suoni epici, orchestrali e ariosi, con gli affondi black che si sono fatti sempre più rari, rispetto al passato. I Cronian hanno preso le distanze dal precedente “Terra” e con questo secondo capitolo si gettano in territori decisamente più progressive, più ricercati, raffinati e più a passo con i tempi, con una costante ricerca della perfezione dei suoni, ben bilanciati nel loro incedere armonioso. Segno della maturazione dei, senza ombra di dubbio, ma indice che il mercato stia diventando sempre più difficile e competitivo e solo se si hanno idee vincenti si può andare avanti. I Cronian hanno grandi idee e classe da vendere, ma questo lo sapevamo già, vedendo le altre esperienze dei nostri. La parte centrale di “Enterprise” regala comunque i momenti più ispirati dell’album con “Project Hibernation” e “Deportation”, due pezzi uniti dall’intermezzo “Cirque”, capaci di sorprendere l’ascoltatore con le sue accattivanti melodie, le sue brillanti orchestrazioni e lo strabordante uso di sintetizzatori. Peccato solo che talvolta la voce di Mr. V si lasci andare in screaming, che ormai hanno ben poco ha che fare con il genere proposto. Grandissimo comeback per i nuovi alfieri del metal d’avanguardia... (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 85

sabato 3 marzo 2012

Tears of Mankind - Memoria

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Katatonia
Ennesima one man band proveniente dalla Russia, più precisamente dalla sconosciuta località di Surgut, Khanty-Mansi, con già due album all’attivo per il gruppo Solitude Productions e il consueto sound all’insegna del death doom, quello più orientato verso gli esordi dei Katatonia però, piuttosto che di scuola britannica. Comunque, classica intro ad aprire, prima che il mid-tempo canonico di “In the Embrace of Eternal Sunshine” ci avvinghi e ci faccia sprofondare nel torpore più cupo. Si perché, se devo essere sincero, non ci sono cosi tanti momenti vincenti in questo lavoro, che fa della anonimia delle chitarre la sua, ahimè, nota dolente. Si tratta infatti di ritmiche assai cadenzate, in cui trovano spazio fortunatamente, inserti di tastiere, che, nonostante la loro elementarità, provano a donare quel pizzico di malinconia al tutto, o forse tentano di impreziosire una release che non brilla di certo in termini di originalità. Mi spiace e mi sembra al contempo strano, cogliere in fallo la BadMoodMan Music, con una release non completamente all’altezza. E dire che il pedigree dei Tears of Mankind è di tutto rispetto, con una miriade di demo alle spalle (9!) e “Memoria” che costituisce il quarto lavoro in studio. Le tracce procedono stancamente, sempre prive però di quella verve che un genere simile, dovrebbe avere. Insomma anche la terza “Deadly Desire” si rivela noiosetta, se non fosse per quelle keys che cercano di salvare il salvabile, donando un po’ di interesse alla musica del mastermind russo; pure con la quarta “Passion Blackfathom Deeps” si corre il rischio di affossarci del tutto, con quella sua ritmica rilassata, su cui trovano posto le (poco entusiastiche) growling vocals di Philipp. Insomma neppure il cantato mi soddisfa, lo trovo decisamente poco espressivo e questo può costituire un problema, quando lo scopo del nostro eroe dovrebbe essere quello di emozionarci; fortunatamente la song si riprende nella sua seconda metà, complice un’atmosfera più appassionante che ne riaccende l’interesse e un giro di chitarra che sembra in realtà preso da “Shades of God” dei Paradise Lost. Strano ma vero, l’album inizia a decollare con “Under the Great Dome”, merito di un sound decisamente più fresco e vivace, che si mantiene comunque sempre in territori death doom. Con “So Long and So Recently”, ripiombiamo nella bulimia di suoni, che si limitano ad imitare quanto fatto una ventina d’anni fa dai maestri del genere. Con la settima song, si apre la seconda parte del cd, dedicato a pezzi cantati in lingua madre, le cui liriche sono ad opera di Sergey Terentjev, le quali mostrano un piglio decisamente più introspettivo rispetto alle precedenti: le chitarre sono quasi ovunque arpeggiate e le vocals, spesso pulite, assumono un tono bizzarro nel loro manifestarsi, mentre l’aura che avvolge le composizioni, ora si fa più legata al gothic dark anziché al doom. Peccato non riesca a tollerare il cantato (non proprio intonato) in lingua madre, altrimenti qualcosa in più l’avrei anche concesso. Comunque la prova dei Tears of Mankind non rimarrà certo negli annali della musica death doom, ci sarà da rimettersi a lavorare duramente alla ricerca di un ben più delineata personalità, cercando magari di ripartire dalla proposta della palpitante ultima traccia. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 60

venerdì 2 marzo 2012

Diseaase Illusion - Backworld

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity
Che gran piacere incontrare nuovamente i Disease Illusion, dopo averne recensito positivamente nel 2008 l’EP che segnò il loro esordio sulle scene, averli additati ad essere una promettentissima new sensation del belpaese e ritrovarmeli ora tra le mani con questo nuovo “Backworld”; vuol dire che ci avevo visto giusto, quindi. Il quintetto di Bologna, segnato profondamente dal sound di Gothenburg, dopo quasi quattro anni arriva al tanto sospirato full lenght di debutto, un album che conferma quanto di buono fatto in passato dal combo emiliano, che abbandonati del tutto gli ammiccamenti al melo death dei Children of Bodom, fatica invece decisamente a scrollarsi di dosso quelli dello swedish death. Non che sia grave, però la sensazione che si ha fin dall’iniziale ascolto di “The Last Murder”, è quello di avere fra le mani il nuovo platter dei Dark Tranquillity. Nulla di allarmante direi, dal momento che la fattura del prodotto in questione è davvero buona: ritmiche al fulmicotone, malinconiche linee di chitarra, le vocals incazzate di Fabio, sempre a cavallo tra l’urlato e il growling. Figo, mi piace! Torno nuovamente a scuotere la testa al ritmo, in realtà mai troppo forsennato, dei nostri; “Eyes of Medusa” e “Predator” (già contenuta nel precedente EP) sono due altri begli esempi di come prendere in prestito le idee dei godz svedesi e reinterpretarle, mantenendo comunque intatto il feeling di matrice svedese. Si beh ecco, mettiamola cosi, se avessi inserito “Backworld” nel mio lettore, senza sapere si trattasse dei Disease Illusion, avrei scommesso una sostanziosa somma che la band potesse provenire dalla Svezia. Prendetelo pure come una critica, ancor meglio come un complimento, perché a me, che sono un fedele sostenitore del genere, la proposta del combo felsineo piace e non poco. Si, è chiaro che tra le mani non c’è nulla di originale, ma dove sta scritto che necessariamente si debba proporre un qualcosa di unico, se cosi fosse probabilmente le band in circolazione sarebbero cento anziché un milione, quindi avanti cosi, se le emozioni che i nostri sanno infondere sono quelle di una forte carica adrenalinica, malinconia per quelle chitarre che danzano nella terza “Predator”; ansia per l’incedere minaccioso di “From Ashes to Dust” (anch’essa contenuta nel primo EP); rabbia per le ritmiche tirate di “Denied”. Confermo ancora una volta la bontà in chiave esecutiva dei nostri, che vede sempre nelle due asce, Dario e Federico, degli abili strumentisti. Ultima menzione per un altro paio di brani che mi hanno entusiasmato: “One Last Breath”, che se avesse mostrato delle clean vocals avrei potuto immaginare come estratto di “Projector” e peraltro song da cui i nostri hanno estrapolato un video ed “Everything into Nothing”, per quel suo riffing nevrotico ed il suo struggente break centrale. Davvero un’altra bella prova dei Disease Illusion, che mi fanno ancora guardare fiducioso al futuro, sperando che prima o poi questi ragazzi ottengano tutta l’attenzione che meritano. Non mollate! (Francesco Scarci)

(Ultimhate Records)
Voto: 75