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venerdì 9 marzo 2012

Warshout - Grœnlendinga Saga

#PER CHI AMA: Black Epic, Bathory, Amon Amarth, Primordial
Ero preoccupato della scomparsa dei Bathory di Quorthon, quando mi ritrovo addirittura vicino casa i suoi potenziali eredi, e che diavolo, possibile che non me ne sia mai accorto? Certo mai mi sarei aspettato che in provincia di Reggio Emilia si potesse parlare di tradizioni vichinghe o di Groenlandia, sapete com’è, mi sembrava un po’ fuori mano. Eppure quando ho inserito il platter dei Warshout nel mio lettore, e ho fatto partire “Banishment of a Race”, immediatamente due nomi sono echeggiati nella mia testa, i Primordial e i già citati Bathory, beh niente male come accoppiata. Certo non saremo ai livelli delle due mostruose band appena menzionate, ma il sestetto emiliano è sulla strada giusta per porsi come potenziale rivale dei fenomeni nordici, ai quali vorrei aggiungere anche gli Amon Amarth, dopo aver ascoltato la seconda “When the Longships Arrive”. Gli elementi chiave e vincenti nella proposta dei Warshout si possono ritrovare nell’epicità che permea la release dei nostri, che affida il proprio incipit ad un mid-tempo che affonda le proprie radici proprio nel suono pagano degli irlandesi Primordial, prima di premere sull’acceleratore e lasciarsi andare in una bella cavalcata black, come la tradizione insegna, sospinta da delle ritmiche ferali, su cui si staglia potente, lo screaming di Teo. Dopo la “amon amarthiana” seconda traccia, ci è concesso il tempo di rilassarci con delle melodie ancestrali. Mentre mi appresto a gustarmi la quarta “Greenland’s Aurora” e al tempo stesso, sfogliare il booklet del cd, leggere i testi, notare qualche influenza derivante anche dai norvegesi Einherjer, mi accorgo della peculiarità della band: avere due bassisti. Questo mi spinge ad mostrare un maggiore interessa nella componente tecnico ed esecutiva dei nostri e rendermi conto del differente lavoro effettuato da Alfred e da Beppe: l’uno a costituire la base ritmica in accompagnamento a chitarre e batteria, l’altro a ricamare interessanti orpelli stilistici, in quei momenti in cui sono più le parti acustiche a prevalere. Il risultato mi piace, anche alla luce dell’ascolto della conclusiva traccia, black progressive “From Brattahlid to Infinity”; tuttavia, ci sono ancora tante piccole sbavature da sistemare qua e là: la voce non è sempre all’altezza nella sua componente screaming (mi piace invece parecchio nella sua versione pulita e growling); le sfuriate epico-metalliche lasciano trasparire talvolta, qualche peccatuccio veniale nell’uso della batteria e il rischio di creare un certo caos sonoro fine a se stesso; i suoni sono ancora un po’ troppo pastosi, avrei preferito una produzione maggiormente cristallina. Non pensate che questi miei commenti implichino però che la proposta dei nostri sei vichinghi emiliani non sia buona, anzi, vuole solo essere uno incoraggiamento a fare molto meglio per poter stare al passo dei mostri sacri nord europei e anche per far crescere una scena viking italiana, perché no? D’altro canto, anche alcune zone della nostra penisola hanno subito l’influsso dei vichinghi, quindi nulla ci vieta nel narrare di Odino, del Valhalla o di altre gesta dei guerrieri nordici. Il carattere giusto per far bene c’è, ora affiniamo semplicemente la tecnica. Epici! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

Crown - The One

#PER CHI AMA: Drone, Sludge, Post Metal
Un autentico muro sonoro, un flusso di emozioni, un mare di lava che lento e minaccioso si muove nell’improvvisato letto che si è creato, l’universo che si espande costantemente seguendo l’effetto Doppler, un tumore che si propaga metastatizzando tutte le cellule che lo circondano. Ecco, l’inaspettato effetto che il sound iper dilatato dei francesi Crown, ha suscitato in me, dopo il suo primo famigerato ascolto. Sono allibito e frastornato al tempo stesso, dall’irriverenza sonora creata da questi due loschi figuri posti alle chitarre di ques band transalpina, coadiuvati solo dalla quanto mai calda, drum-machine. Il duo di Colmar, località più famosa per l’abbigliamento sportivo che per altro, ci cinge fin da subito con la propria miscela sonora costituita da suoni industriali, drone, sludge, doom, post e chi più ne ha più ne metta, ma sicuramente sempre melodici. Si inizia con “Cosmogasm” e l’ensemble francese ci mostra immediatamente il proprio lato più ispirato, quello alle sonorità drone d’oltreoceano. La successiva title track ha un effetto ipnotico, come se mi fossi sparato dei barbiturici direttamente in vena, ma credo piuttosto che sia l’utilizzo della voce cibernetica, che si accompagna egregiamente ad un fantastico possente growling, o più probabilmente il campionamento del drumming, che finisce per creare delle atmosfere crepuscolari, ad avere tale effetto su di me. Le ambientazioni diventano molto più tenebrose e lente nella successiva “100 Ashes”, song tra l’altro intrisa di un profondo velo di malinconia. Arriviamo alla velocità della luce alla quarta “Mare”, song che esordisce in versione ambient, ma che sfodera ben presto un riffing corposo in tipico sludge/post style; un altro inquietante giro nei meandri più intimi degli abissi della nostra mente. Non mi è dato sapere di cosa trattano i testi, ma se li avessi scritti di mio pugno, di certo avrei parlato degli effetti del LSD sulla psiche. Un suono tribale apre invece la lunga e conclusiva “Orthodox” e il battito del suo drumming, il suo incedere marziale e ossessivo, lo sento vibrare nel mezzo del mio petto, soffocante, penetrante, allucinante e alla fine delirante. Mi sento a disagio, le immagini rimangono sfocate davanti ai miei occhi, la fronte madida di sudore; solo il risveglio improvviso dai miei incubi peggiori mi riporta alla realtà e alla tanto agognata calma del mio cuore completamente impazzito. Ragazzi, che diavolo mi sono fumato ieri sera, non ricordo più nulla, se non i suoni schizoidi di un duo francese; ah si ora ricordo, i Crown, peggio dei funghi allucinogeni! Sperimentali… (Francesco Scarci)

(Superstrong)
Voto: 85
 

mercoledì 7 marzo 2012

Waning - The Human Condition

#PER CHI AMA: Black Progressive, Blut Aus Nord
Nuova etichetta discografica per gli svedesi Waning, e nuove sonorità che prendono le distanze da tutti i trend estremi del momento. Il quintetto di Gothenburg non guarda di certo in casa propria e non si lascia infinocchiare dalle sonorità della propria città e si lancia invece in estremismi sonori che trovano nella più vicina (ma sarebbe alquanto limitante) definizione di post black, l’etichetta che più si potrebbe appioppare alla brillante proposta del combo scandinavo, formato tra l’altro per 4/5 da ex membri degli Slaughtercult. In casa Antonym Records ci hanno visto alla grande, decidendo di puntare su “The Human Condition”, come loro primo lavoro. Una release decisamente moderna, al passo con i tempi, competitiva al massimo, che di sicuro farà la gioia di chi come il sottoscritto, si ciba quotidianamente di sonorità estreme, ma pur sempre dotate di eccellenti melodie, il tutto, già ampiamente constatabile, dalla opening track, “Beneath a Septic Sun” o dalla selvaggia e più diretta, ma pur sempre melodica, “End Assembly”. Diciamo che il punto chiave della proposta dei nostri è la ritmica, sorretta da chitarre che assomigliano piuttosto ad acuminati rasoi che ad altro, che viaggiano costantemente in territori di disarmonia avanguardistica; la produzione non è troppo bombastica, ma ben si allinea con la musica espressa, gracchianti le vocals maligne di Robert, mentre la ritmica infine, si mostra abbastanza secca e nevrotica (complice anche un basso delirante), capace di lasciare dietro a sé, una sensazione di inspiegabile illogicità. La band crea decisamente un qualcosa di fresco ed innovativo, ricco di energia, un sound irrequieto, talvolta straripante, che cerca di trovare la propria valvola di sfogo nel suo incedere palpitante. Splendido il refrain di “Continuum”, song peraltro avvolgente per il costante senso di angoscia che è in grado di emanare, vicino come atmosfere ai suoni degli ultimi lavori dei Blut Aus Nord. Ma non lasciamoci ingannare da dei nomi messi qua e là, giusto per provare a configurare il sound di questi Waning, citando solo delle improbabili influenze. L’act svedese ha delle idee abbastanza chiare, variopinte e talvolta geniali, che di sicuro devono ancora trovare una propria ben definita espressione o esplosione; black, doom, suoni industriali-cibernetici, post, trovano tutti un loro angolino nelle note di questo quanto mai inatteso e stravolgente “The Human Condition”. Da citare a tal proposito, la title track, in cui il pout pourri musicale, si fonde uniformemente in un unico ammaliante sound, attraverso un riffing suonato con la tecnica del tremolo picking. Il disco si chiude che ne vorrei ancora per capire al meglio le potenzialità, a quanto pare enormi, dell’ennesima band proveniente dalla sempre più prolifica e sorprendente Svezia. (Francesco Scarci)

(Antonym Records)
Voto: 80

martedì 6 marzo 2012

In Loving Memory - Negation of Life

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Saturnus
Gli In Loving Memory fanno sentire un po’ meno soli i connazionali Helevorn, in una scena death doom spagnola, che non appare proprio cosi affollata. Ma ben venga, se comunque le sole due realtà che esistono, messe tra l’altro sotto contratto dalla potente Solitude Productions, rilasciano ottime release. “Negation of Life” costituisce il secondo lavoro per la band di Bilbao, che propone un sound minaccioso nel suo incedere, tetro, oscuro e quanto mai affascinante, sin dalla opening track “Even a God Can Die”, un esempio lampante di death doom emozionale, legato alle trame chitarristiche che si intrecciano con un nostalgico pianoforte e un pesante growling. “Skilled Nihilism” appare invece con un fare molto più vicino alle melodie ariose dei finlandesi Insomnium, prima di lasciare posto ad una robusta ritmica e alle vocals di Juanma B. che provano a ricercare un’intuizione più cibernetica, che potrebbe conferire un pizzico di originalità in più al prodotto, se solo usate in maniera più massiccia; comunque al termine del suo ascolto, “Skilled Nihilism” si rivela proprio vincente, forse perché cosi easy listening, con le sue facili melodie che si stampano immediatamente nella testa. Il cd prosegue e con esso la voce cerca di mutare, trovare nuove strade, come pure la maglia musicale degli In Loving Memory, che prova a sfuggire agli stilemi del genere, in cui appare ancora palesemente cosi imbrigliata. Leggo un forte desiderio da parte del quintetto basco, di proporre qualcosa di diverso, che si traduce in linee più armoniche delle chitarre o nell’uso di vocals sussurrate. La title track si apre con un bell’arpeggio, anche se poi a prevalere è la componente death doom malinconica, di chiaro (e consueto) riferimento ai danesi Saturnus. Passo avanti, fiducioso di poter trovare qualche nuova intuizione, qualche lampo di genialità inespressa nei solchi di questo platter, che pur proponendo un genere assai roccioso, non scade mai nella noia. Un sussulto, si ecco quello che cercavo, “November Cries”, sembra estratta da “The Angel and the Dark River”, capolavoro dei My Dying Bride. Lo so, lo percepisco, gli In Loving Memory hanno la luce di chi ha la voglia di cambiare le regole, di chi non vuole stare più al gioco, solo che sono ancora intrappolati, ma sono certo che ben presto la loro vera natura potrà emergere ed esplodere. Ulteriori segnali emergono chiari con “Shimmering Divinity”, song lenta, meditativa, capace di creare un evidente senso di sospensione, come se qualcosa di brutto stesse per accadere, ma che in realtà non riesce a trovare forma. Si prosegue con una serie di song che fanno del senso di inquietudine ed inadeguatezza su questa terra, il loro punto di forza, per un album i cui temi (trattasi di concept) sono in realtà legati all’inesauribile lotta fra bene e male (evviva l’originalità). Poco importa, si arriva in fondo al cd soddisfatti per aver scoperto una nuova interessante realtà, all’interno del sempre più popoloso marasma musicale, una nuova band che se riuscirà a percorrere una sua strada, potrebbe aprire nuove frontiere in un genere il cui rischio è quello del collasso su se stesso. Ora o mai più per osare. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

www.inlovingmemory.es

domenica 4 marzo 2012

In the Woods - Live at the Caledonien Hall

#PER CHI AMA: Avantgarde, Progressive
Quanti ricordi sovvengono all'ascolto di questo doppio live degli In The Woods! Sono passati ben otto anni dall'uscita del loro primo album “Heart of the Ages”, ma tra note tanto familiari il tempo sembra annullarsi. Posso affermare di aver amato tanto la musica degli In the Woods e di averli seguiti ai loro esordi con un trasporto veramente raro. Non sono di certo il solo, perché in tanti considerano “Heart of the Ages” e il successivo “Omnio” delle autentiche pietre miliari e sebbene il terzo ed ultimo album “Strange in Stereo” non si possa considerare all'altezza dei suoi predecessori, è comunque fuori discussione che gli In The Woods abbiano scritto pagine importantissime della storia musicale più recente, entrando nei cuori di molti ragazzi che ora possono solo rimpiangere il tempo in cui la band era ancora attiva. Era la sera del 29 dicembre 2000: nella hall dell'Hotel Caledonien di Kristiansand (Norvegia), tra le urla e il vociare di un pubblico giunto da tutt'Europa, si diffondono le note psichedeliche di “Yearning the Seeds of a New Dimension”, brano di cui il gruppo suona solamente un estratto, per sfumare poi tra i riff rugginosi della splendida “The Divinity of Wisdom”. Dispiace che in questo medley, come nella successiva “Heart of the Ages”, non vi sia traccia dell'urlato black metal, ma si può anche comprendere che per ottenere una maggiore omogeneità nella scaletta alcuni "tagli" fossero indispensabili. Seguono l'inedito “Beer”, la cover dei Jefferson Airplane “White Rabbit” e “Mourning the Death of Aase”, uno degli episodi più intensi e ben suonati dell'intero live, con la cantante Synne Diana protagonista di un assolo superlativo. Si chiude un primo ciclo ed è la volta dell'album “Omnio”, eseguito integralmente rispettando l'ordine dei brani così come apparivano sulla tracklist originale. Durante l'intera esibizione, membri vecchi e nuovi della formazione norvegese si alternano sul palco ai vari strumenti: X-Botteri, Oddvar A:M, Christer A. Cederberg e Bjorn H. alle chitarre, C.M. Botteri e Stain al basso, A. Kobro alla batteria e, non per ultimo, il grandissimo Jan Transit, che assieme alla soprano Synne offre un'interpretazione vocale stupefacente, reggendo senza cedimenti più di tre ore di concerto. Quando terminano le ultime note di “Omnio” siamo già nel secondo cd, dove viene proposto parecchio materiale tratto da “Strange in Stereo” e altri brani dai 7", tra i quali vanno assolutamente segnalati “Karmakosmik” e la meravigliosa “Epitaph” dei King Crimson. Da incorniciare anche “Closing In”, alla quale viene dato il compito di chiudere il concerto e non poteva esservi conclusione migliore, considerando che quest'ultima è una delle canzoni più emozionanti che gli In The Woods abbiano scritto. Al termine la band ringrazia, saluta e tra lo scrosciare degli applausi esce di scena, lasciando in sala un pubblico commosso ed entusiasta, che serberà per sempre il ricordo di una serata irripetibile e di una band straordinaria alla sua ultima esibizione dal vivo in assoluto... (Roberto Alba)

(Prophecy)
Voto: 90
 

Vicious Art - Pick Up This Sick Child

#PER CHI AMA: Death, Dismember, Grave
La formazione svedese dei Vicious Art, che rilasciò questo disco a distanza di tre anni dal precedente “Fire Falls and the Waiting Waters” (e del 2006 è l'EP “Weed the Wild”), non è altro che una succursale di “rifugiati politici” di grandi band scandinave; tra le sue fila trovavamo (la band si è sciolta nuovamente) infatti ex membri di Grave, Entombed, Dark Funeral, Guidance of Sin e Dominion Caligula. L'esperienza nelle precedenti band viene traslata in un qualche modo nelle note di questo “Pick Up This Sick Child”, disco che è ormai uscito nel lontano 2007. La seconda release per il quintetto nordico è un vero assalto sonoro ai nostri timpani, in memoria dei bei vecchi tempi, quando infuriavano le violente cavalcate dei crunchy riffs (di cui oggi solo i Dismember continuano ad esserne alfieri) dei Sunlight Studio di Tomas Skogberg. La musica dei nostri, pur non proponendo più nulla di innovativo, riesce comunque a tenerci incollati allo stereo e terminato il loro sfogo brutale, mi ritrovo comunque ansimante per la furia e la brutalità qui contenuta. Se siete amanti di dischi come “Left Hand Path” degli Entombed, “Massive Killing Capacity” dei Dismember o “Into the Grave” dei Grave, beh anche la nuova uscita dei Vicious Art, meriterà di stare sui vostri scaffali. Chitarre super veloci, vocals terrificanti, iper blast beat, assoli nella vena degli Slayer vi schiacceranno come una scarpa su una formica. Undici funamboliche tracce che vi metteranno al tappeto! (Francesco Scarci)

(Mighty Music)
Voto: 70

Zimmers Hole - When You Were Shouting At the Devil...

#PER CHI AMA: Thrash, Strapping Young Lad, Devin Townsend, Nevermore
...”We Were In League With Satan”... Un titolo venato da un malato senso dello humor, non può far altro che celare dietro al suo nome, personaggi geniali: e infatti gli Zimmers Hole sono il chitarrista degli Strapping Young Lad, Jed Simon, il bassista dei Fear Factory Byron Stroud, accompagnati dall'eccellente vocalist (sia in formato growl che heavy classico) The Heathen e dall'onnipresente mostruoso Sir Gene Hoglan alla batteria. La band, alla sua terza release (uscita a distanza di sette anni da “Legion of Flames”), confeziona un lavoro di pregevole fattura, nonché di difficile catalogazione: la musica contenuta nelle undici tracce infatti ha come base un thrash metal molto variegato, tecnico, imprevedibile, a tratti addirittura epico, in cui l'ironia poi la fa da padrone. Le songs della “Colonna Sonora del Diavolo” sono tutte travolgenti: vuoi per la breve durata, per le intuizioni geniali, per la forte componente melodica/ironica, per quei suoi richiami alla follia di Devin Townsend, i suoi forti rimandi rock'n roll, l'eccellente produzione che ne esalta i suoni e l'esemplare perizia tecnica dei suoi esecutori. “When You Were Shouting At the Devil...” rappresenta un ottimo esempio di heavy metal, in cui vanno a confluire influenze provenienti dal prog, dal death, dai classici riffs del passato, dal doom, dal sound dei Black Sabbath, Celtic Frost, Running Wild, Slayer, Candlemass, Dark Angel e King Diamond, influenze, che rendono l'ascolto di questo disco un must per tutti gli amanti della musica metal in genere. Suoni ispirati da gente ispirata, da avere assolutamente! (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 80

Eskeype - Legacy of Truth

#PER CHI AMA: Death/Thrash grooveggiante
Concept album degli svizzeri Eskeype, release di quelle che lasciano il segno. Il sound della band del Canton Vallese, si può definire come death metal melodico, ritmato e profondo. Essendo il loro primo lavoro, bisogna ammettere che non è per niente male, anzi; di sicuro unirà diversi metaller (cosa non semplice, nel vasto universo metal). Prima di parlare dell’album, preferisco focalizzarmi sulla peculiarità della copertina: due pianeti, uno più scuro e l’altro un po’ più luminoso, uno accanto all’altro, in un universo nero come la pece, illuminato fiocamente da una luce azzurra di una galassia lontana. Il booklet contiene i testi con la foto dei componenti della band dentro un groviglio di cavi. Ma veniamo alla musica: si parte dolcemente, come in ogni prologo che si rispetti, con note di pianoforte: l’intenzione è di narrare una storia epica, ambientata su Andremid, un pianeta lontano, dove Acherus, il padre dell’eroe Frost, si troverà a combattere contro il cyborg Arachno, che assieme alle sue truppe hanno conquistato e sterminato la vita su quel pianeta. La prima traccia sottolinea la gravità dei sentimenti del protagonista, preparando l’ascoltatore ad un’avventura decisamente unica e particolare. La peculiarità dell’album, che salta subito all’orecchio, è che le canzoni si susseguono uniformemente: sembra quasi il flusso ispirato di un unico brano, il che può essere un bene o male in quanto tutti i capitoli sono suonati allo stesso modo, con lo stesso sound: se da un lato aiuta a concentrarsi sulla vicenda, dall’altro può apparire a tratti noioso. Il terzo capitolo (o terza traccia a dir si voglia), continua nella narrazione delle vicende del padre dell’eroe e dell’eroe stesso. Nel quarto movimento il ritmo si fa più serrato, con il protagonista Frost che si desta e inizia la sua battaglia, che sarà descritta nel nono capitolo (ma non prima di scoprire la città distrutta, ascoltare i capitoli 6-7-8). Andando avanti con l’ascolto, la somiglianza con il metal scandinavo si fa sempre più preponderante: il ritmo cambia di frequente, con l'ensemble che arriva addirittura ad avvalersi di un violino, suonato dal vocalist in “Exposure of a Nation (Scartezia)” e in “A New Reason to Live”. L’ausilio del violino non compromette il sound che si avvicina parecchio a quello scandinavo, anzi. Grancassa, rullante e growl/scream, fanno da padrone dall’ottava traccia, “A Night in the Unknown”, fino alla decima “Resurrection for the Ray of Light”, sottolineando musicalmente il pathos che l’epica battaglia comporta. “The Way of Silence” cambia le carte in tavola: silenzio, interrotto da una chitarra acustica e dal violino, con la voce fattasi melodica e pulita; quasi un’oasi di pace in tanta energia espressa al meglio. “The Deathmachine” propone un doom/thrash, caratterizzato da un sottile velo di malinconia creato ancora una volta dal magnifico suono del violino, che enfatizza la furia della battaglia e descrive il compimento del fato da parte del nostro eroe. Con la conclusiva “The Survivors” si arriva alla fine di questo fantastico ed eroico racconto: lasciato spazio alla parte melodica all’inizio, il pezzo ritmico torna a prevalere per rievocare gli ultimi atti di Frost: il nemico è stato sconfitto e il regno ripreso, per riportarlo ai fasti di una volta. Note di pianoforte chiudono – per ora - il primo capitolo della saga: come si può leggere dal retro del booklet infatti, “… to be continued”. E allora aspettiamo pazientemente di conoscere il nuovo secondo capitolo. Ammetto che questo lavoro mi abbia lasciato sorpresa ed entusiasta: nonostante le song siano estremamente compatte ed omogenee tra loro, il lavoro è comunque degno di ascolti ripetuti e la band promette grandi cose. Speriamo l’attesa sia breve, nel frattempo sarà meglio continuare a tenerli d’occhio. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80
 

Cronian - Enterprise

#PER CHI AMA: Avantgarde, Epic, Progressive, Borknagar, Vintersorg
Che meraviglia! Per chi, come me è fan di Borknagar e Vintersorg, avrà da che leccarsi i baffi ascoltando il cd degli scandinavi Cronian, che altro non sono, che Andreas Hedlund (aka Vintersorg) e Oystein G. Brun, songwriter dei Borknagar. La direzione musicale del duo? Beh facile intuirlo: prendete il lato più atmosferico dei Borknagar, abbinatelo alla bellissima voce di Mr. V (sia in versione pulita, un po’ meno nella versione gracchiante), aggiungete un pizzico di avantgarde e sonorità molto simili alle colonne sonore e il gioco è fatto. Nove splendide perle musicali, che vi porteranno in un universo parallelo, fatto di suoni epici, orchestrali e ariosi, con gli affondi black che si sono fatti sempre più rari, rispetto al passato. I Cronian hanno preso le distanze dal precedente “Terra” e con questo secondo capitolo si gettano in territori decisamente più progressive, più ricercati, raffinati e più a passo con i tempi, con una costante ricerca della perfezione dei suoni, ben bilanciati nel loro incedere armonioso. Segno della maturazione dei, senza ombra di dubbio, ma indice che il mercato stia diventando sempre più difficile e competitivo e solo se si hanno idee vincenti si può andare avanti. I Cronian hanno grandi idee e classe da vendere, ma questo lo sapevamo già, vedendo le altre esperienze dei nostri. La parte centrale di “Enterprise” regala comunque i momenti più ispirati dell’album con “Project Hibernation” e “Deportation”, due pezzi uniti dall’intermezzo “Cirque”, capaci di sorprendere l’ascoltatore con le sue accattivanti melodie, le sue brillanti orchestrazioni e lo strabordante uso di sintetizzatori. Peccato solo che talvolta la voce di Mr. V si lasci andare in screaming, che ormai hanno ben poco ha che fare con il genere proposto. Grandissimo comeback per i nuovi alfieri del metal d’avanguardia... (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 85