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domenica 13 marzo 2011

Vomitory - Terrorize Brutalize Sodomize


Ahia, quando ho letto sul pacchetto Vomitory, ho temuto il peggio per le mie orecchie già malandate di questo periodo. Torna la storica band svedese (in giro ormai dal 1989) con il sesto album, un attacco al fulmicotone costituito dal classico violento sound death a metà strada tra il brutal americano e il feroce death scandinavo. Dieci songs belle compatte, veloci e indiavolate, che costruiscono tonnellate di riffs, lanciate a mille contro l’ascoltatore. Gli ingredienti utilizzati dai Vomitory poi, sono sempre gli stessi: ritmiche efferate, growling catacombali, sfuriate al limite del grind, ma anche rallentamenti sconfinanti nel thrash. Rispetto al precedente “Primal Massacre”, le differenze sono assai poco rilevanti: forse in questo terrificante “Terrorize...”, i pezzi sono più brutali e diretti, contraddistinti comunque, sempre da un’eccellente produzione, pulita e potente, avvenuta presso i Leon Music Studios. Difficile identificare un brano piuttosto che un altro, perchè tutte le dieci tracks sono delle saette in grado di trafiggere il nostro costato. Le influenze dei vari Dismember e dei primi Entombed, nonché delle extreme gore bands americane, sono sempre ben identificabili nel background musicale dei nostri. 17 anni sono passati dal loro esordio, ma nulla è cambiato, il sangue continua a sgorgare a fiotti... Solo per amanti di sonorità estreme! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Ver Sacrum - Tyrrenika


In tutta sincerità mi aspettavo qualcosa di meglio da questa release, da più parti osannata per la scelta del combo toscano di celebrare le gesta di un popolo leggendario quanto mai sfortunato, gli Etruschi. E cosa c’è di meglio del black più feroce e tirato per compiere questa commemorazione? Mah in effetti la scelta dei nostri mi sembra quanto mai discutibile e scontata, ma si sa che quando si parla di orgoglio patriottico, non c’è miglior genere che quello oltranzista del black metal. C’è da dire però che il sound estremo proposto in questo lavoro non si limita ai suoni puramente graffianti del genere suddetto, ma convergono anche sonorità più tipicamente classicheggianti come quelle taglienti del death scandinavo o quelle corpose del thrash mittleuropeo. “Tyrrenika” rappresenta il debut album per questo quintetto senese e un po’ di ingenuità è ancora palese nei 40 minuti scarsi di questo platter. 40 minuti di ritmiche tiratissime sostenute da una batteria che più che uno strumento musicale sembra la contraerea delle notti senza stelle di Baghdad, per la sua spaventosa velocità. Le vocals gracchianti di Filippo "Veltha" Piermattei (evocative e suggestive, nei momenti in cui canta in latino) declamano, nel loro straziante incedere, la storia e le difficoltà incontrate dal popolo etrusco nella loro breve vita. In definitiva, nulla di nuovo all’orizzonte, anche se l’auspicio è che questo concept cd, sia un punto di partenza per i nostri e un punto di svolta per il black pagano italico, fiero dei suoi illustri antenati e della sua memorabile storia. Monolitici! (Francesco Scarci)

(Rock Over Records)
Voto: 65

sabato 12 marzo 2011

Grenouer - Lifelong Days


Ottima prova dei Grenouer, quartetto russo di Perm che con questo “Lifelong Days”, reissue di un album precedente uscito solo in Russia col titolo “Presence With War”, entra nel mercato europeo grazie alla Locomotive Records. Si tratta di un disco che abbraccia l’ascoltatore con un’atmosfera industrial per tutta la sua durata e che saprà soddisfare le esigenze di molti di quei metallari “duri ma non troppo”. Si inizia con la roboante “Indecent Loyalty” che introduce il disco senza troppi convenevoli per preparare lo spazio ai suoni incisivi e sincopati di “Addicted to You”: un piacevole e “diverso” momento, atto a drogare la mente di chi sa ascoltare. Stupenda “With no Concern” dove brevi e ben congegnate iterazioni, invitano la testa del metallaro al più sfrenato headbanging. La successiva “Away From Now” è solo preparatoria alla più congeniata e cattiva “Finding the One” dove la voce, a tratti growl, la distorsione delle chitarre, unitamente ad una buona prova del batterista, invitano al pogo più violento, trascinandoci in un’estasi mistica in cui tutto è concesso. La cattiveria si affievolisce solo debolmente in “Off the Back of Others” per poi essere ancora una volta riabbracciata in “The Unexpected”: una sapiente amalgama di chitarre, batteria e pause ben cadenzate tecnicizza “quanto basta” il pezzo senza scadere in eccessi. Con “Employed Beggar”, invece, il programma cambia: le chitarre diventano dissonanti, abbandonando il sound precedente. Ottima “Re-Active” di cui l’album offre anche il videoclip. A chiudere il disco la lenta, tranquilla e dalla voce questa volta pulita, “Patience” che ci riporta, purtroppo, alla cruda realtà, dalla quale le suadenti melodie di “Lifelong Days” hanno saputo solo momentaneamente strapparci. Coinvolgenti! (Rudi Remelli)

(Locomotive Records)
Voto: 80

Enough to Kill - A Reason for...


Finalmente giungono al debutto sulla lunga distanza i milanesi Enough to Kill, dopo anni di gavetta: basti pensare che il Mcd d’esordio della band è addirittura datato 2000 per capire da quanti anni il combo calca la scena. Noti originariamente come Legion, fautori di un death melodico, i nostri hanno pensato bene di sterzare il tiro e andare verso sonorità, passatemi il termine, più ruffiane, o forse dovrei dire più al passo con i tempi? Si, infatti le dieci tracce contenute in “A Reason for…” pescano un po’ qua e là nel panorama metal internazionale, lasciandosi soprattutto influenzare da sonorità tipiche swedish (In Flames e Soilwork), dal metalcore di stampo americano (As I Lay Dying e Killswitch Engage) ma anche da suoni nu metal. Quindi, niente di nuovo sotto il sole penserete voi; in effetti il disco non brilla certo in fatto di originalità, tuttavia, pur non nutrendo grossa stima nei confronti di questo genere, che altro non è che una forma involuta del death metal svedese melodico, devo dire che ho potuto apprezzare non poco la release in questione. Le chitarre si presentano belle possenti, arrembanti nella loro andatura ma al tempo stesso assai melodiche e ricche di groove, anche con qualche pregevole assolo tipo in “Lost Forever”, dove peraltro ha prestato la sua voce nel ritornello Flegias dei Necrodeth. Altre songs estremamente valide, pur non offrendo granché di nuovo ad un genere per cui più volte ho detto non aver più nulla da dire, risultano essere “Dark Way” e “New Dawn”, due ottimi pezzi che rappresentano la sintesi perfetta di quello che è l’Enough to Kill sound: ritmica incalzante (ma talvolta anche rallentata in una vena vicina a quella dei Meshuggah), ottime linee melodiche, clean and growling vocals, qualche spruzzatina di synths a riempire in modo consistente il sound del quintetto meneghino guidato da GL (bassista tra l’altro dei già citati Necrodeth). In sostanza, pur trattandosi di un disco notevolmente derivativo, devo ammettere che mi è piaciuto parecchio ascoltarlo e riascoltarlo. Magari non rientrerà nella mia top ten dell’anno, tuttavia credo che se i nostri abbandonassero un po’ i cliché tipici del genere, puntando un po’ di più su degli arrangiamenti fantasiosi e sulla creazione di ambientazioni più oscure (come in “Slivers of a Wrong Age”), grazie all’abuso indispensabile dei synth, in un futuro ne sentiremo davvero delle belle da questi ragazzi. Non perdeteli di vista e seguite attentamente la loro evoluzione! (Francesco Scarci)

(Deadsun Records)
Voto: 70

Nakaruga - Nakaruga


Band di giovanissima formazione quella che ho fra le mani: i Nakaruga, band svizzera del Canton Ticino, si è infatti formata solamente nel 2008, rilasciando nello stesso anno questo Mcd omonimo di 5 pezzi. Forti di una solida pregressa esperienza musicale, il sestetto di Lugano ci aggredisce con il loro sound moderno e ficcante, futuristico e industriale, una piccola perla per tutti coloro che amano sonorità cibernetiche vicine ai maestri di sempre Fear Factory o per tutti coloro che amano i suoni ipnotici di scuola “Meshugghiana”. L’ensemble alpino parte subito alla grande con “Nakatomy Warzone”, song che evidenzia subito le eccelse qualità di questi ragazzi: ottime le ritmiche, altrettanto buone le vocals ad opera del duo Thomas e Idris Davide che alternano il cantato growling a quello pulito, interessanti gli inserti di matrice elettro-industrial all’interno di un contesto assai grooveggiante. L’entusiasmo è già alle stelle già dalla prima song, interessante anche per quelle sue ambientazioni oscure di sottofondo. La seconda “Youth in the Matrix” attacca con le sue ritmiche sincopate di chiara matrice svedese, con il cantato che gioca un ruolo primario nella struttura delle song e il finale che evidenzia chitarre ribassate estremamente potenti. “Converter” è decisamente la migliore song del lotto: tempi dispari, melodie psicotiche grazie anche alle ottime orchestrazioni create dalle efficaci partiture tastieristiche (accattivanti anche nella quarta furente traccia) che sul finale del brano minacciano la fine del mondo. Da un punto di vista lirico, i nostri analizzano poi il pattern e i comportamenti dell’uomo nei confronti della vita di tutti i giorni. Questo è un piccolo antipasto di quello che sarà il full lenght schedulato per metà 2010 e già, devo ammettere, ho un po’ di acquolina in bocca… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

domenica 6 marzo 2011

Dark End - Assassine


Tornano i Dark End, con il loro secondo lavoro, dopo il loro discreto debutto, "Damned Woman and a Carcass". Bene, diciamo subito che da quel primo acerbo album, concentrato di black death melodico vampiresco dalle tinte sinfoniche, poche differenze si colgono, se non una certa maturazione nel song writing; per il resto, la proposta del sestetto emiliano, viaggia sulle medesime coordinate stilistiche del precedente cd. L’apertura è affidata ad un inquietantissimo “Pater Noster” un po’ rivisto nella sua recita al limite della satanica litania, che lascia ben presto posto al black sinfonico, perennemente influenzato dalla band di Dani Filth e soci (periodo “Cruelty and the Beast”), di “Mater Terribilis”, song dalle raffinate orchestrazioni e da un uso ben dosato delle tastiere. “A Bizarre Alchemical Practice” cela nel suo interno una lunga parte cantata in italiano che ha rievocato nella mia mente quei 2 pezzi, sempre cantati in italiano, contenuti nell’album di debutto degli Aborym, da brividi. Decisamente i Cradle of Filth rimangono il punto di riferimento della band nostrana, per quella ricerca costante di atmosfere orrorifiche e per quel suo riffing, non certo originalissimo, ma che comunque al giorno d’oggi ben poche band sanno eseguire. Eh si perché, cari amici, il black sinfonico non fa più tendenza come nella metà degli anni ’90 e quindi ascoltare ogni tanto dischi di questo tipo (ricordo che in Italia esistono anche i veronesi Riul Doamnei a cimentarsi in questo genere di sonorità) non fa altro che alleviare la mia sofferenza per la perdita di quello che da sempre è stato il mio genere preferito. I nostri proseguono nel loro cammino, martellando selvaggiamente l’ascoltatore con ritmiche tirate, inframmezzi acustici gotico vampireschi e da qualche pomposa orchestrazione e, udite udite, da assoli di scuola tipicamente heavy. Rispetto al debutto, di sicuro è sparita la componente più progressive lasciando esclusivamente spazio alla malvagità di suoni black, coadiuvate da una produzione pulita e da una componente tecnica medio alta. Se a ciò aggiungiamo anche che le liriche del cd ruotano intorno ad un concept legato agli assassinii compiuti dalle serial killer donne nel corso delle varie epoche storiche, la release in questione acquista ancora più fascino. Altro passo in avanti verso la maturazione, ma ci vuole ancora tempo, sudore, tanto lavoro e pazienza, ma sono convinto che ci sarà chi come me, apprezzerà non poco questa tipologia di proposta musicale. Avanti cosi! (Francesco Scarci)

(Crash & Burn Records)
Voto: 70

Black Sun Aeon - Routa


Torna il buon vecchio Tuomas Saukkonen, già mastermind dei Before the Dawn, con uno dei suoi innumerevoli progetti (Dawn of Solace, Bonegrinder, Rajavyöhyke, Jumalhämärä, The Final Harvest, gli altri). “Routa” rappresenta il secondo capitolo della saga Black Sun Aeon, album particolare perché diviso in 2 cd: il primo “Talviaamu” che significa mattino invernale e il secondo “Talviyö” ossia notte invernale. E proprio su questa alternanza giorno/notte d’inverno, giocano le musiche di questo interessante lavoro di dark death doom. Aiutato da Mikko Heikkila (Sinamore), Janica Lonn (Lunar Path) e forte della presenza in fase di stesura delle liriche, di Sami Lopakka (Sentenced) e Ville Sorvail (Moonsorrow), Tuomas sfodera ancora una volta una prova, all’altezza delle aspettative, che renderà felici tutti i fan delle sue band. Riprendendo in mano il discorso iniziato lo scorso anno con il debut “Darkness Walks Beside Me”, i nostri sono bravi nell’amalgamare suoni malinconici, cupi e gotici, ben orchestrati da melodiche linee di chitarra e da un buon song writing nella prima parte del cd, quella un po’ più calda, capace di dipingere tiepidi paesaggi polari, in cui un lieve manto di neve ricopre le verdeggianti foreste e dove il sole sfiora timido l’orizzonte. “Frozen”, “Sorrowsong” e “Wreath of Ice” sono caratterizzate da suoni decadenti, in cui la componente heavy è comunque sempre ben presente (basti ascoltare la title track per intenderci). La seconda parte del cd abbandona per cosi dire la componente più intimistica del buon Tuomas, per lasciar posto a suoni più glaciali, caratterizzanti la lunga notte delle latitudini polari. Messe da parte le atmosfere plumbee delle prime sette tracce, i nostri si lanciano in songs un po’ più selvagge, dove comunque riescono pur sempre a trovar spazio i dualismi vocali (growl-clean) dei due vocalist e i tipici rallentamenti al limite del doom, del combo finnico. Sinceramente delle due parti ho apprezzato maggiormente la prima, dove tra l’altro in “Dead Sun Aeon”, compare anche la voce angelica di Janica, e dove il sound emozionale dei nostri è in grado di animare maggiormente il nostro spirito romantico… (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire)
Voto: 75

sabato 5 marzo 2011

SKW - Numbers


Allora, partiamo subito col dire che il disco non è male. Ecco, magari lo senti una volta e non rimani fulminato, non si scorgono grandi segnali di originalità e alcune canzoni sono più lunghe del dovuto. È, però ben prodotto e ottimamente suonato. L’ultima fatica degli italiani SKW (ex Skywalker), prodotta da Frank Andiver (Labyrinth, Oracle Sun) e registrata in Italia, non ha molto da invidiare ad altri prodotti d’oltreoceano. L’idea generale che si ricava è quella di un disco molto compatto e che segna una successiva evoluzione dello stile della band verso un suono più duro. Le tracce, prese singolarmente, sono apprezzabili, ben suonate e la voce del singer Marco appare sempre pulita. Menzione per l’introduttiva “1Minute2Lie” e “Cow(ard)” che hanno in comune piacevoli inserti di chitarra. Più aggressive “C.U.C.K.”, “Hate3” e “2Muchwords”, anche se quest’ultima parte con una certa velocità per poi rallentare e ha certe parti vocali forse fuori luogo. Tranquilla e sognante “Sleep”, spicca come una piacevole pausa, con sonorità particolari che fanno da contraltare alle altre songs. Le altre canzoni, pur mantenendo il livello, paiono dotate di minor personalità, talvolta dilungandosi o perdendosi troppo: spiace davvero. Da notare anche il remix di chiusura di “Hate3”, che porta un certo sapore elettronico alla canzone originale. Batteria precisa e basso efficace: molto meglio di quello che si sente in giro. Impossibile non citare le chitarre di Simone (colleghi più rinomati dovrebbero sperare in sue lezioni), sempre potenti e con assoli di pregio. Un solo appunto sulla prestazione del frontman: la voce è un po’ troppo lineare, da rivedere in futuro. Niente di stupefacente riguardo ai testi delle canzoni, che seguono l’idea del titolo dell’ellepì. Una parola sull’artwork del CD che personalmente trovo molto ben curato dalla Carosellolab, ma qualcuno li avverta che su iTunes glielo hanno pubblicato a testa in giù… Un lavoro alla fine concreto, che sicuramente piacerà agli amanti del genere, ma se cercate qualcosa di mai sentito o qualche alchimia particolare, potreste anche non trovarla. (Alberto Merlotti)

(AdverseRising)
Voto: 65

Monstrosity - Spiritual Apocalypse


A volte ritornano... stranamente ancora death ferale in casa Metal Blade, che ultimamente ha pensato bene di non assoldare alcuna band metalcore bensì sfornarci grandi gruppi del passato. Gradito ritorno quindi sulle scene, di un altro storico combo death metal americano dei primi anni ’90. Quinto cd per la band di Fort Lauderdale (Florida), che ricordo ancora, aver esordito nel 1992, con il terremotante “Imperial Doom” (con alla voce il mitico George "Corpsegrinder" Fisher), un fulmine a ciel sereno nel panorama death dell’epoca. Dopo 15 anni ci troviamo ancora l’act statunitense in forma strepitosa, capace di produrre musica estremamente brutale, ma al tempo stesso caratterizzata da riff accattivanti, assoli perfetti e una furia inaudita, che già li contraddistinse agli esordi. Registrato presso i mitici Morrisound Studios, “Spiritual Apocalypse” ci consegna un quartetto che, dopo innumerevoli cambi di line-up e problemi vari, ha ancora voglia di suonare, divertirsi e farci divertire, con la loro musica. Il nuovo disco è l’ennesimo assalto sonoro in tipico Monstrosity style: ritmiche devastanti contraddistinte da hyper blast beat, vocals terrificanti del buon Mike Hrubovcak e ineccepibili assoli, opera dell’ascia Mark English; fortunatamente, sporadici mid-tempos ci danno l’opportunità di rifiatare un attimo, giusto per prepararci all’incalzate distruzione. È emozionante notare, come il livello tecnico dei Monstrosity vada sempre migliorando disco dopo disco, e che il vino diventi più buono invecchiando. Da segnalare infine la presenza in veste di guest star di Kelly Shaefer (Atheist), Matt LaPorte (Jon Oliva's Pain, Circle II Circle), John Zahner (Savatage, Crimson Glory), Jason Suecof (Capharnaum), e James Malone (Arsis). Monstrosity, adrenalina allo stato puro, portatori dell’Apocalisse! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 75

Asura - Only Death for my Warriors


In questa mattina grigia, uggiosa e malinconica di fine febbraio, mi appresto ad ascoltare e commentare un mini-cd (ahimè di soli 3 pezzi) autoprodotto, di una band formatasi in quel di Olbia/Sassari nel non troppo lontano 2005. Si tratta degli Asura, act sardo, il cui sound viene definito come “melanchonic black&death metal”. Si può quindi già intuire fin dalla prima traccia “Requiem for My Warriors”, che cosa passa il mio lettore cd: song dall'incedere nostalgico cantata in growling, con ritmi che si alternano tra sferzate veloci (in pieno stile black sinfonico) e frangenti meditativi, grazie all'inserto di struggenti parti orchestrali. Il drumming è veloce e preciso, cosi come il riffing chitarristico (anche se un po' sottotono), quasi a voler equilibrare la calma e pacatezza delle tastiere, vero e proprio elemente predominante di questo lavoro. Giunta alla conclusione di questo brano, sono tornata a riascoltarne l’intro: il “coro” (ma non saprei bene come definirlo) mi ha rievocato i tipici canti popolari sardi, quasi a metter in luce una vena folk dell'ensemble isolano. La seconda traccia “Escape from Death” si apre con un delicato arpeggio, accompagnato da un basso il tutto suonato come se fosse uscito da un album dei vecchi Metallica: semplici lenti accordi che lasciano qualche secondo di silenzio tra una nota e l’altra; il cantato è sempre in growl, mentre le tastiere continuano a caratterizzare con personalità il sound dei nostri, palesando una vena più melodica (e, oserei dire, anche un po’ progressive) di questa giovane band. La conclusiva “Only Hate” si divide in tre parti: la prima è caratterizzata da un ritmo furioso e veloce, la seconda diventa più melodica (vedi brano precedente), mentre la terza riprende il ritmo furioso dell’inizio. E con questa traccia si chiude il demo cd del sestetto sardo: song molto sperimentale ma con una potenzialità nascosta che potrebbe portarli molto lontano, soprattutto se i nostri riescono a dare maggior equilibrio al dualismo chitarra/tastiere (per ora maggiormente spostato verso un utilizzo massiccio ma notevole delle keys di Psycho). Non ci resta che attendere un nuovo lavoro, sperando che sia un po’ più lungo e magari meglio prodotto, in modo da poter dare un giudizio più approfondito. Siamo comunque sulla strada giusta. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 70

This Weary Hour - No Hand to Comfort You


Debut album per questa band irlandese, in puro stile doom metal che ci riporta ai fasti dei “vecchi” Paradise Lost ("Gothic" e "Draconian Times", tanto per capirci), ricchi di quel pizzico di cattiveria e angoscia che aiuta a rilassare i sensi. L’album si apre con “Algor Mortis”, un brano strumentale che farebbe la sua bella figura come sottofondo per i telefilm in stile “crime” o “medical drama” (ma anche sul fermo immagine di Laura Palmer avvolta nel nylon o sul lettino dell'obitorio). Il brano infatti è composto praticamente da batteria e basso seguenti un ritmo lento e inesorabile, nonché inquietante: in una parola, algido. Lo stesso ritmo si prolunga fino alla seconda traccia, “Frozen”: in cui il cantato è si presenta come un growling comprensibile, roco e disperato; il ritmo continua ad esser lento e greve, il che accompagna perfettamente le tematiche cupe conferendoci quel senso di pesantezza interiore. Sebbene il ritmo permanga indolente, la voce si alterna tra situazioni di pura rabbia a quelle (più pulite) di tristezza: un connubio che rende il tutto ancora più emozionante e cattivo. Con “Harvest” la miscela tristezza/malinconia si fa più accentuata, grazie anche alle tematiche di distruzione di tutto ciò che si ha creato: quasi un inno all'abbandono di ogni speranza. Questo è uno dei brani più duri di tutto l'album (ed il più lungo in assoluto, ben 8.36 minuti di cattiveria!), una sorta di valvola di sfogo per il combo irlandese (ed è anche uno dei miei preferiti, soprattutto in giornate all'insegna del nervosismo). "The Lure of Prominence" è il secondo brano strumentale, incentrato particolarmente sul gioco di chitarra e basso, concentrando poi il proprio sound verso un ambito “dark” (parola di cui ormai si sta abusando, ma che calza a pennello in questo caso), che ci prepara all'ultimo brano dell'album: "The Wordsmith". La lunga traccia conclusiva si snoda in tre parti: la prima (nominata “Master of the Craft”) tratta l'illusione di ricevere dei frutti da ciò che si intende creare, vedendo coi propri occhi che qualcosa c'è; la seconda parte, “Threads Begin to Fray”) è più che altro strumentale, e l'illusione diviene reale e lo sconforto inizia ad impadronirsi di noi. La terza e ultima parte, “The Veil Descends” è il post rovina, dove tutte le buone speranze sono state spazzate via e rimane solo la disperazione, con la tarda consapevolezza che è tardi per qualsiasi altra cosa da poter fare. Cosi come le parole, la musica segue perfettamente i sentimenti, le emozioni e frustrazioni, diventando furiosa nel suo epilogo, accompagnata da un eccellente Eamonn O' Neill che dà sfoggio delle sue eccellenti doti canore. Si conclude così "No Hand to Confort You", senza alcuno strascico o nota dolce, come se tutte le forze ci avessero abbandonato. In conclusione oso dire che, nonostante l'album si componga di sole 5 tracce, ha una potenziale esplosivo dirompente. Da notare che la band, subito dopo l'uscita dell'album, ha cambiato nome in People of the Monolith, quindi se voleste cercare l'album (e vi suggerisco di farlo), è molto più probabile che lo troviate sotto questo nome, piuttosto che This Weary Hour. Tenebrosi! (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80

A Cold Dead Body - Harvest Years


Della serie "Italians do it better", oggi vi parlo di un gruppo rivelazione 100% italiano. A Cold Dead Body sono quattro ragazzi di Udine e Pordenone che consolidano la formazione e quindi il loro sound nel 2007, trasformando il noise iniziale in una perfetta fusione di doom metal, folk, wave psichedelico che non può lasciare indifferenti. In effetti navigando superficialmente in internet o dando un' occhiata al cd, lo stiling è molto post rock ma per fortuna c'è un' anima profonda che guida questa band e che mi ha colpito particolarmente. "Harvest Years" è l' opera prima dei A Cold Dead Body e c'è proprio tutto, dalla tecnica alla ricerca di suoni per dare un' espressione artistica completa. L' album apre con l' intro "Semen", pezzo breve e abbastanza impersonale che finisce con uno scream breve ma d' impatto. Giocando con l' assenza di pause tra le tracce, subito veniamo catapultati in "The Womb": qui l' ottima voce maschile di Stefano accompagna una costruzione che cresce insieme alle chitarre e al violino che da un tocco folk al tutto. Il terzo brano è "Madre Pt.1", introspettivo e crepuscolare e che conferma la vena ambient e psichedelica dell'act friulano, che per veder prodotto il proprio album ha dovuto volgere lo sguardo a Est, alla russa SlowBurn Records. Il pezzo risulta essere l' intro del successivo "Our Best Years", aggressività pura data dal basso distorto e dolcezza incontaminata data dalla chitarra e dal violino che giocano con la voce, una breve comparsa in questi sei minuti. Da menzionare poi "Madre Pt.2", breve intro dal taglio lirico (incredibile a dirsi) guidata da una voce femminile suadente, il tutto per condurci fino a "Collapse", dove inizialmente la voce del frontman è ingabbiata da un effetto"gregoriano" che si trasforma in puro scream pochi secondi dopo. Devo dire che alla fine delle due tracce, il rischio di rimanere senza fiato è altissimo. "Harvest Years"si chiude con la nona traccia, "Divinity", otto minuti in cui i nostri mostrano tutta la loro maturità artistica, il loro infinito talento e l'altissimo potenziale, raccontando una storia che non lascia per nulla indifferenti. Solo pregi dunque, pochi difetti e tanta sostanza. E se non l'avete capito decisamente consigliatissimi e secondo me ancora meglio in sede live, quindi da non perdere! (Michele Montanari)

(SlowBurn Records)
Voto: 80