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Live Report: Aucan + Placebo

PLACEBO + AUCAN Castello di Villafranca di Verona, 03/08/12


Io e la mia migliore amica abbiamo deciso di assistere al secondo concerto al Castello di Villafranca (l'altro è stato nel luglio 2009) dei Placebo. Stavolta erano supportati dagli italianissimi Aucan (formatisi nel 2005 a Brescia). La loro musica electro-math rock-noise si è rivelata molto coinvolgente, con la batteria e il basso suonati dal vivo ma collegati, a dire il vero, ad un campionatore in modo tale da "uscire" più elettronici. Le note utilizzate dai nostri semplici e ripetute (nessun spazio alle sperimentazioni), ma che dal vivo hanno creato un impatto così forte che il cuore nel costato, ha vibrato per tutto il tempo della loro performance (durata poco meno di un'ora). Degno di nota il connubio batteria-drum machine: non si capiva dove finiva una e iniziava l'altra. Le canzoni sarebbero state cantate, ma l'acustica del Castello non era delle migliori, così non si capivano minimamente né le vocals (se acuto, urlato, basso, growl), né le parole. Da aggiungere c'è che, dopo averli ascoltati sul loro sito ufficiale, dal vivo erano decisamente migliori, potenti e piacevoli da ascoltare. Un'altra visita ad un loro concerto è d'obbligo, almeno per apprezzarne al meglio la voce. Il gioco di luci devo ammettere esser stato molto carino: addirittura la batteria è stata ricoperta di neon azzurri, viranti al viola, creando un'atmosfera gelida. Ma non sufficiente per rinfrescarci!

Tempo mezz'ora ed è ecco toccare ai Placebo: spaziando nel tempo della loro storia discografica (da "Placebo" a "Meds", da "Black Market Music" a "Battle for the Sun", da "Sleeping with Ghosts" per finire a "Without You I'm Nothing"), la band inglese ha rapito i fan senza celare una nota di nostalgia.
Con “Every Me Every You” il pubblico si è scaldato e ha iniziato ad ondeggiare: rispolverando anche una delle prime canzoni, "I Know", sembrava che il tempo fosse tornato indietro, a quando ancora andavo alle medie. Con la partecipazione di Steve Forrest alla batteria, che dagli inizi del 2008 ha sostituito Steve Hewitt, il tutto è risultato magico ed indimenticabile.


Brian Molko non è affatto cambiato durante questi anni: l'immagine femminiel è sempre quella, la voce malleabile che riesce a passare da un'intonazione roca ad una più acuta in pochi secondi e il suo aspetto fisico (cosa che, sinceramente, mi è sempre piaciuto) hanno fatto nuovamente breccia. Persino Steve Olsdal al basso ha avuto dei momenti solisti in cui ha offerto il meglio di sé, addirittura introducendo per un bel po' di secondi la famosa canzone dell'omonimo disco, “Battle for the Sun”.
Tra "Meds" cantata lentamente e scandendo le parole, per arrivare al clou suonato con grinta e velocità, e nuovamente chiudendola con la flemma dell'inizio, e "Slave to the Wage" (che io ho ritenuto particolarmente attuale e con le tematiche reali, come fossero un grido di ciò che siamo e continueremo ad essere) che ha reso il coro unico, è stato uno dei momenti più spettacolari del concerto.
In scaletta, rinfrescando la memoria degli album passati, si sono sentite anche "Special Needs", "Kitty Litter", "Post Blue", "Black-eyed". Non dimentichiamoci assolutamente dell'esplosione vera e propria: "Infra-red". Appena sentite le prime note di chitarra e basso, è scoppiato un boato tra il pubblico e si è proprio potuto vedere la mole di persone che saltavano: quasi una gara a chi saltava più in alto.


Sui 4 schermi a led sopra il palco, venivano trasmesse le riprese delle varie telecamere sparse sul palco: addirittura durante "Infra-red", le immagini erano sia all'infrarosso, che termiche: si poteva notare come la chitarra fosse fredda, mentre la band era di un rosso acceso (e scommetto che anche noi, sudati e ammucchiati come sardine, lo saremmo stati). Le luci passavano dal verde al viola al blu: ogni tanto qualche faro veniva puntato sul pubblico per poi tornare sulla band.


Con "Song to Say Goodbye" il concerto sembra chiudersi (e lì urla di disapprovazione insieme all'ovazione): ma i nostri sono stati tanto gentili da concedere una coda con "The Bitter End" (altre mani che si ergevano al cielo e voci portate al limite vocale, tanto che io sono rimasta roca fino all'ora di pranzo). Mai scelta fu migliore, in quanto il concerto si è chiuso lasciando proprio una punta di amarezza e di delusione (dopotutto è durato appena un'ora e un quarto circa); io mi sarei aspettata come minimo "Nancy Boy", "Pure Morning", "The Neverending Why", "Twenty Years", "Special K", "English Summer Rain" (che avrebbe fatto ballare tutti) e "You Don't Care About Us". Insomma, tutti i singoli che li hanno portati alla fama internazionale e che hanno lasciato un'impronta indelebile nei loro fan (e anche che ne hanno creato di nuovi). Avrei anche voluto vederli suonare la cover dei T-Rex 20th Century Boy (come nel film "Velvet Goldmine"), ma sarebbe stato troppo un sogno. Grazie comunque per la bella emozionante serata che ho passato. (Samantha Pigozzo)