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lunedì 30 gennaio 2017

Scratches - Before Beyond

#PER CHI AMA: Rock Blues, Nick Cave
Una voce femminile, calda e sofferta al punto giusto, è il primo elemento che contraddistingue gli Scratches, band svizzera originaria di Basilea, ma dalle sonorità decisamente americane. La band nasce nel 2010 nell’ambito dalla collaborazione tra Sarah-Maria Bürgin, cantante-tastierista e Sandro Corbat, chitarrista. Il teatro come passione comune per entrambi. Dopo un primo album come duo realizzato nel 2014, 'Fade', la formazione si completa con Jonas Prina alla batteria e Marco Nenniger al basso. Il loro secondo album 'Before Beyond', uscito in questo freddo mese di gennaio, è un pregevole lavoro, dove è possibile riscontrare un’antica passione per certe linee ritmiche di derivazione tipicamente trip hop, coniugata con l’amore per le colonne sonore intrise di blues. Il disco si apre con “Medusa’s Hair”, riff di chitarra in loop e ritmica rallentata. La voce di Sarah-Maria è carica di soul e roca quanto basta per richiamare alla memoria grandi cantanti americane degli anni sessanta e nel terzo brano, intitolato “Beautiful”, qualcuno potrebbe persino scorgere il fantasma di Janis Joplin. Echi di Nick Cave invece si possono sentire nella successiva “Give Me Your Pain”, profonda nelle parti di chitarra e sussurrata nella voce. Il disco prosegue con “The Crow & The Sheep”, in cui il quartetto elvetico privilegia sonorità decadenti, da murder ballad. È questo il mood generale dell'ottimo lavoro targato Scratches, una narrazione delle sofferenze umane filtrata attraverso i colori scuri del blues. Un buon album in definitiva, consigliato agli amanti di sonorità ipnotiche e malinconiche, prodotto egregiamente dalla sempre attenta Czar Of Crickets. (Massimiliano Paganini)

(Czar Of Crickets - 2017)
Voto: 80

https://www.facebook.com/scratchesband/

Neglected Fields - Splenetic

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Progressive/Techno Death, Atheist, Cynic
Ho aspettato con ansia il terzo lavoro della band lettone, autrice nel 2000 di un fantastico album di techno death, 'Mephisto Lettonica' (edito dalla nostrana Scarlet Records), come erano tempi che non se ne sentivano. A distanza di sei anni da quell’opera brillante, il quintetto fa uscire un nuovo entusiasmante album, 'Splenetic', connubio di death e black estremamente tecnico ma altrettanto melodico, vero punto di incontro tra Death ed Emperor. Prodotto egregiamente ai Finnvox studio da TT Oksala (Tiamat, Stratovarius), 'Splenetic' comprende otto tracce più intro per 35 minuti di musica: una musica potente, un techno death arricchito da incursioni negli oscuri meandri del black metal. Diciamo che la base musicale dei ragazzi del piccolo paese baltico è un death abbastanza ricercato, con riffs originali, cambi di tempo, percussioni strane, momenti atmosferici, assoli raffinati e stacchetti jazz in cui i richiami ai vari Pestilence, Atheist o Cynic si sprecano. Sul sound robusto e schizzato della band s’insinuano poi le maligne vocals di Destruction; ottima poi la prova di George alle tastiere, abilissimo nel creare momenti atmosferici di assoluto prestigio e altri episodi dalle forti tinte progressive, ma comunque è da segnalare la prova di tutti i membri della band, assoluti virtuosi con i loro strumenti. Difficile identificare un brano piuttosto di un altro, in quanto assai elevata è la qualità del prodotto in questione. I Neglected Fields si confermano band di assoluto valore, peccato che da quel 2006 vige soltanto il silenzio ed io continuo a rimanere in trepidante attesa. (Francesco Scarci)

(Aghast Recordings - 2006)
Voto: 80

https://www.facebook.com/neglected.fields

Kiuas - Reformation

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Power Thrash, Nevermore, Ensiferum
Vedendo le facce di questi ceffi avrei scommesso 100 € che si trattasse di una band finlandese, poi la casa discografica prima e il sound dei nostri dopo, non hanno fatto altro che confermare le mie ipotesi. Trattasi dei Kiuas, band dedita ad un power thrash, che con 'Reformation' il loro secondo album del 2006, hanno sicuramente contribuito alla gioia degli amanti del genere. Tecnica squisitamente all’altezza delle mie aspettative, gusto per la melodia tipica finlandese, composizioni orecchiabili e di facile presa: ci sono tutti gli ingredienti affinché i Kiuas potessero conquistarsi un posto di diritto nell’olimpo dei grandi di questo genere (e forse per un po' ci hanno creduto anche loro, prima dello scioglimento nel 2013). Ottime e ben strutturate le linee di chitarra; bravo il vocalist, capace di spaziare da timbriche più suadenti ad altre più urlate ed aggressive, eccellente il tastierista, sempre in primo piano a creare momenti atmosferici. Ottimi pure gli assoli, con i due axemen che si incrociano e sfidano in interessanti duelli chitarristici. C’è poco da fare, la Finlandia è da sempre fucina di talenti e i Kiuas non hanno fatto altro che confermare la regola. Da segnalare la sesta traccia, “Black Winged Goddess”, song dall’inizio furioso, dalla ritmica bella tosta e dal growl profondo del vocalist, peccato poi vada un po’ a scemare d’intensità. Interessante poi, qualche inserto dal vago sapore folk, soprattutto udibile nella title track posta a chiusura dell’album. Band davvero buona, peccato non abbia ottenuto il successo che forse meritava (Francesco Scarci)

(Spinefarm Rec - 2006)
Voto: 70

https://www.facebook.com/kiuasofficial 

domenica 29 gennaio 2017

Palmer - Surrounding the Void

#PER CHI AMA: Post Metal/Prog, Neurosis
Sarò franco: sebbene gli svizzeri Palmer calchino la scena da oltre 16 anni, io non ne avevo mai sentito parlare, almeno fino ad oggi. La Czar of Bullets contribuisce infatti a diradare la mia ignoranza, inviandomi quello che è il terzo album della band alpina, 'Surrounding the Void'. Un digipack contenente nove brani che "oscillano da qualche parte tra il post metal e il prog rock con timbriche sferiche". Ecco come desiderano essere identificati gli elvetici, che con la classica formazione a quattro (voce, basso, batteria e chitarra), sfoderano una prova, per dire in modo semplicistico, robusta. "Home is Where I Lead You" colpisce per il suo growling rabbioso e l'incisività delle ritmiche, grazie ad un riffing corposo che coniuga gli insegnamenti di molteplici band, da Neurosis a Black Sabbath, passando attraverso High on Fire, Meshuggah e primi Mastodon. Insomma, idee chiare su dove collocare stilisticamente i Palmer? "Misery" dice che la ritmica si fa ancor più rallentata, ben più profonda e che addirittura c'è spazio per qualche fuga in territori post rock, grazie a qualche simpatica parte acustica, che taglia la tensione saturante l'aria. Le song non appaiono di certo cosi lineari nel loro svolgimento e una certa carenza in fatto di melodie, non ne agevola l'ascolto, che alla fine risulterà parecchio impegnativo. Ma l'impegno nel dover ascoltare questo disco non è necessariamente un fatto negativo, spinge semmai a molteplici ascolti, ed in generale ad una più estesa longevità del disco. "Divergent" ha un incedere dilatato che evoca inesorabilmente le ultime cose più sludge di Scott Kelly e soci, con una seconda parte affidata ad una visionaria, nonché noisy, rivisitazione del sound della band californiana. Che gli svizzeri non fossero degli sprovveduti, l'avevo già intuito da tutta una serie di piccoli segnali, ma dopo aver sentito di che cosa sono capaci qui ma soprattutto nella successiva "Artein", mi ritrovo a sottolineare le notevoli capacità tecniche di questo quartetto. A parte che mi sembra di aver a che fare con una nuova band, questa volta dedita ad un prog rock strumentale; dovreste sentire con quale classe ed eleganza, i nostri si destreggiano con la loro strumentazione. Con "Digital Individual" si torna a pestare sul pedale dell'acceleratore con un'altra song irrequieta, che nel break centrale si concede questa volta a divagazioni prog/jazz, che consentono al combo bernese di prendere un po' più le distanze dai gods citati ad inizio recensione e togliersi l'etichetta di meri emulatori. Direi a questo punto che è nella seconda parte di questo disco che si racchiudono le peculiarità di questi musicisti: dall'intimismo di "Fate Hope", in cui il vocalist Steve prova anche a modulare maggiormente la propria timbrica, alla più tumultuosa "Importunity", granitica nel suo rifferama, qui a tratti melodico. Il disco è lungo, oltre i 60 minuti e quando si arriva verso il fondo, mi sento ormai piegato sulle gambe, sfiancato dal lavoro tortuoso a livello ritmico, di cui farei un plauso al bravissimo Remo dietro alle pelli e a Jan alle chitarre, per l'eccellente lavoro proposto in una traccia dinamica com'è "Rising". Non posso soprassedere a questo punto nel non citare anche Ueli, preciso con quei suoi fendenti di basso, che completano il quadro di una band matura al punto giusto per fare quel salto di qualità che ci si aspetterebbe da una band sulla scena da parecchio tempo. D'altro canto, io non li conoscevo proprio fino a ieri, ma oggi posso certamente affermare che i Palmer sono una band da supportare alla grande. (Francesco Scarci)

(Czar of Bullets - 2016)
Voto: 80

sabato 28 gennaio 2017

Dawn on Sedna - Our Sky Has Changed

 #PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Isis
Credo di avere sottovalutato quest'album e questa band, indi per cui devo fare immediatamente ammenda per la mia superficialità. Forse non mi convinceva un artwork troppo semplicistico o un sound che di primo acchito non ho trovato cosi cristallino causa forse suoni troppo impastati, mah. Fatto sta che invece 'Our Sky Has Changed' denota una certa conclamata maturità artistica dell'ensemble toscano, che conferma ancora una volta il buon stato di salute di cui gode la scena italiana, almeno a livello di uscite discografiche; tralascerei poi gli aspetti più puramente legati al music business. A parte questo, il debut dei Dawn on Sedna è un bel disco di post metal, contenente sei canzoni più la classica intro. I nostri partono con convinzione con "Amniotic Sea", una traccia sicuramente roboante a livello ritmico con una potenza da far tremare i polsi, al contempo con delle suadenti atmosfere ambient/post rock da brividi, in cui il vocalist modula un cantato che si muove tra il classico animalesco growling e qualcosa di molto vicino ai Fields of Nephilim. Davvero niente male. Soprattutto perché le cose vanno migliorando di brano in brano, in cui i nostri danno maggior spazio alla componente post metal/sludge senza tralasciare tuttavia le immancabili e fondamentali parti acustiche che stemperano la causticità di un suono profondo, infausto, dilatato, a tratti apocalittico ("The Rest"), dove la voce assolve ancora una volta un ruolo fondamentale nel rendere il tutto decisamente più armonico. L'arpeggio malinconico non manca in apertura di "Adlivun Rituals", una traccia straziante a livello emotivo, in cui Alex, dietro al microfono, offre una prestazione sofferente nella sua componente pulita, mentre la song cresce piano insieme ad una musica ipnotica e celestiale, grazie ai riverberi chitarristici in tremolo picking degli axemen, sussurri musicali che rendono questa monumentale song la mia preferita di un disco che ha ancora da regalare ulteriori sussulti. Penso infatti alla tribal/ritualistica “Five Degrees on the Sky Line”, una sorta di semi ballad, almeno la prima metà, post metal; poi le cose cambiano drasticamente e dalle sue morbide melodie iniziali si passa ad una disarmonica e caotica struttura conclusiva. Ultima menzione per la sferzante "Descending Path", malvagia quanto basta per affermare che i Dawn on Sedna sono una gran bella scoperta da tenere strettamente monitorata in futuro. Mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

Intervista con Shores of Null


In occasione del tour autunnale dei Shores of Null, abbiamo incontrato la band capitolina e fatto due chiacchiere per sapere un po' di più del loro passato, presente e futuro. Di seguito il link all'intervista:

The Pit Tips - Best of 2016

Caspian Yurisich

Vektor - Terminal Redux
Metallica - Hardwired... To Self Destruct
Nadja - The Stone is not hit by The Sun, nor Carved with a Knife
Recitations - The First of the Listeners
Conan - Revengeance

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Francesco Scarci

Thy Catafalque - Meta
Fallujah - Dreamless
Coldworld - Autumn
Saor - Guardians
Cult of Luna and Julie Christmas - Mariner

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Don Anelli

Inquisition - Bloodshed Across the Empyrean Altar Beyond the Celestial Zenith
Wormed - Krighsu
Maze of Terror - Ready to Kill
Untimely Demise - Black Widow
Decimated Humans - Dismantling the Decomposed Entities

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Eric Moreau

Striker - Stand In The Fire
Cauldron - In Ruin
The Hazytones - S/t
Asteroid - III
Sumerlands - S/t

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Kent

David Wohl - Holographic
Mélanie De Biasio - Blackened Cities
Sleepwalker - 5772
Lifeless - Unstable Structures
Laura Cannell - Simultaneous Flight Movement

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Five_Nails

Trees of Eternity - Hour of the Nightingale
Drudkh/Grift - Betrayed by the Sun/ Hagringar
Homicidal Raptus - Erotomaniac Hallucinosis
Waldgefluster -Ruinen
Black Sabbath - The End

Horn - Turm am Hang

#FOR FANS OF: Epic Folk Black, Drudkh, Waldgefluster
Horn is the kind of one-man black metal band that many of today's bedroom black metal blasters can take some inspiration and notes from. With the album 'Turm am Hang', which (as aptly illustrated on the cover) quite literally translates to 'Tower on the Slope', the old German mainstay of being as literal as possible is beautifully demonstrated alongside the forthright power of some dead-on exhilarating music. So far the title track is the only single of this album and has a great video of the process of illustrating the cover, but I'm sure that metal fans can easily understand why this reviewer believes there to be a striking series of superb songs on this album that can each be considered hits. Horn's matchless mind, Nerrath, has built a formidable structure, composed a captivating aesthetic, and etched it into an imposing black metal monolith.

The album opens with a dour long-winded sigh of a guitar melody that morphs into an intoxicating and inspiring sound. This uniquely frenzied approach is forcibly freed from the fetters of familiar forlorn folk pieces that bridge on banality as they endlessly echo each other. While most black metal accentuates the morose, Horn celebrates the beauty of the melancholy. Riffs revel in dissonant resonating guitars, proudly wailing in an anthemic obscurity, drawing the listener into pensive melodies that, in defiance of their frigid arrangements, become inspirational reveries with an upbeat percussive heat and beer hall style harmonic bliss. This is some after-the-battle beer drinking, fist pumping, headbanging black metal that's not all up its own ass about being cold, kvlt, and hiding in a cave. Instead Horn is celebrating another great evening in Valhalla surrounded by brethren in victory or defeat. Horn also lyrically appreciates nature and the forest, a common theme with many of this band's black metal contemporaries. The fury and structuring of each song puts the band closer on par to the likes of Drudkh and Waldgefluster as riffs round out with some folk and Celtic edges, smatterings of influences that enhance the echoes of fellowship and camaraderie without just repeating the same stances just so say he went there. “Verhallend in Landstrichen” is where you will experience the first major turn from a pair of songs that seemingly go their separate ways to a sound that builds an increasing energy flowing forth from the next three songs. As these pieces grow in intensity they keep a common rhythmic core with a correspondence from the treble issued throughout these marvelous four. The high water marks of 'Turm am Hang' happen in this series of songs where the chorus in “Totenraumer” is signaled by the toll of a bell, the Maidenesque opening of “Die mit dem Bogen auf dem Kreuz” becomes a headbanging hail to badass black metal, and “A(h)renschnitter” envelopes you in shredding melodies undulating around the robust snare hammering. This is an album that must be played live, loud, and to a very drunk crowd. It would be a privilege to see such a spectacle.

After a short interlude called “Lanz und Spiess”, a delirious and unusual track that sounds like the machinations of a restless mind sleeping off the delusions of the drink, the album closes with two strong but slower songs. Like awaking and setting off to task, “Bastion, im Seegang tauber Fels” wearily marches to a new position, forming up and stretching its martial rhythm in preparation for today's predestined practice. “The Sky Has Not Always Been This” sings of the rise and fall of civilizations, the birth and rebirth that humanity has always undergone while the soil underfoot was tread bare by man's ambition. There is some interesting and well-thought arrangement in these songs, some experimentation with different concepts, and a keen ear for production quality throughout Horn's 'Turm am Hang'. While most one-man bedroom black metallers would be quick to describe loneliness, Horn creates a unifying atmosphere throughout the meat of this album. This is a welcome difference to the style of this branch of black metal that has carved out a unique notch in the overall musical tree. (Five_Nails)

(Northern Silence Productions - 2017)
Score: 80

giovedì 26 gennaio 2017

Rudra - Enemy of Duality


#FOR FANS OF: Black/Death
Count me in as pretty impressed. Rudra made a big impression on me on 'Kurukshetra'? Think it was that one. Back then I was an 18 year old belatedly getting into extreme metal who was blown away by just how different it sounded. These days I'm much harder to please, but to my surprise, I found myself digging this album just as much.

I reckon the obvious comparison here would be Nile. I mean they don't exactly sound all that alike, but Rudra's thrashing, often death-ing metal has a lot of similar hallmarks- namely a dedication to going for exactly one and one vibe only, fascination with a bunch of old, dusty things and a tendency to use the same scale over and over again. The ancient, mystical culture they're trying to invoke is just a bit further east, that's all.

And they're really good at it. It's arguably a team effort - the guitarist throws out a lot of pretty decent riffs - but it's really a percussion and vocal based thing. The vocals - this big midranged snarling thing, growling away in a bunch of languages and really adding a powerful, rich, very fierce vibe to proceedings. There's this tendency in tracks like "Hermit in Nididhysana" for him to get into a fairly repetitive, ritualistic mood and it's freakin' great. All up it's those moments - much of "Hermit", the epic closer and "Roots of Misapprehension" to pick a few examples - where Rudra are at their finest. They can do fairly decent, crunchy death metal but it's when the drums start getting increasingly off beat and things get a bit trancey that the band takes off and things get really fun.

There's a few nit-picky criticisms, perhaps - the production could certainly be a bit beefier, and the bass is reduced to a rumbling somewhere in the distance, and a few of the riffs, particularly earlier in the album, are a bit weak. I really like this album, but you certainly get the feeling that if Rudra just went a bit more off the deep end - a few more far-out parts, and perhaps a more intense riffset at times - then you'd really have an all-time band on our hands.

As it stands though, I'm still playing this regularly a month or so after the initial promo download, which says a lot. Well worth your time, 'Enemy of Duality' is definitely a quality album. (Caspian Yurisich)

(Transcending Obscurity - 2016)
Score: 80

https://rudrametal.bandcamp.com/

Tystnaden - Sham of Perfection

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic, Lacuna Coil
Tra le band che ho tenuto a battesimo fin dai loro esordi, quando i nostri mi spedirono il loro demo Cd omonimo nel 2000, ci sono i Tystnaden. Di strada ne hanno fatta parecchia questi sei ragazzi friulani, che con 'Sham of Perfection' giunsero al debutto. Era il 2006 e il sound dei nostri nel frattempo era già mutato dagli inizi, quando l'act italico proponeva uno swedish death, frutto della innata passione per In Flames, Dark Tranquillity e Sentenced. Ascoltando questo disco, è palese invece la virata della band verso sonorità più soft, che richiamano di primo acchito Lacuna Coil o i ben più famosi Evanescence. La voce di Laura infatti, grazie alla sua notevole estensione, garantisce un’ottima performance vocale; un po’ più fuori posto per il genere invece, i saltuari gorgheggi del vocalist, retaggio di un passato non ancora sopito. La musica dei Tystnaden, abbandonati gli estremismi degli esordi, viaggia qui su coordinate stilistiche più progressive e classiche. Non aspettatevi quindi le cavalcate alla Dark Tranquillity o i riff alla In Flames, nulla è rimasto di tutto ciò. I Tystnaden del 2006 sono una band rinnovata, con buone idee, preparata tecnicamente (ottime le strutture e le linee di chitarra), che apparentemente ha trovato la propria dimensione con questo genere più commerciale, che comunque è ancora in grado di regalare profonde emozioni. Gli amanti di sonorità gotiche non si lascino sfuggire l’ascolto del disco d’esordio dei Tystnaden, una band che tanto aveva da dire e che negli anni si è forse un po' persa per strada. (Francesco Scarci)

(Limb Music - 2006)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Tystnaden

mercoledì 25 gennaio 2017

Olÿphant - Expedition to the Barrier Peaks

#FOR FANS OF: Heavy/Speed Metal, Judas Priest, The Sword
Formed in 2009, Massachusetts metallers Olÿphant were originally conceived as a classic metal cover band before quickly moving on to writing original music that brings a classic metal with doom and stoner influences to prog and thrash elements alongside. Basically dripping with sprawling, mid-tempo dirges, the album’s main focus becomes quite clear early on with the ability to effortlessly shift from these wide-ranging elements as there’s a strong showing of spindly, galloping heavy metal, swirling stoner riff-work and plodding, oppressive doom rhythms that all come together here. This wide-ranging set of influences creates a wide-ranging sense of free-flowing and unpredictable work, never really journeying through the expected realms of the genres in order to continually warp themselves into a finely-tuned effort that’s quite enjoyable when it drops these vastly-varying elements into the journey without warning. At times, though, that does the album a slight disservice as this rarely manages to feel like it shifts all that cohesively, being essentially a wide-ranging hodgepodge of influential elements coming together to create a seemingly jarring and discordant array of tracks without a singular connecting vibe between any of it, and is an issue to contend with as the band carries on. Efforts like ‘Brown Jenkin,’ ‘Incidents in the Butterfly Garden’ and ‘The Expedition’ offer up the most nominal and enjoyable variations of the style, featuring these elements coming together into a stylistic whole to be the highlight tracks on the album. The multi-faceted ‘The Grey Havens (To the Sea)’ offers a fine look at these elements shifting continuously throughout it’s epic passages that makes for quite a winding journey, while ‘Before the Fall’ abandons the vast majority of what came before in order to turn into a raging speed-metal mosher. Still, this isn’t that problematic of an effort and still has a lot to like. (Don Anelli)

lunedì 23 gennaio 2017

Derhead - Via

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
Sebbene 'Via' sia nelle mie mani da soli pochi giorni, ci tenevo a recensirlo con una certa celerità. Il disco della one man band genovese include nove tracce, di cui sei appartenenti a due vecchi demo (di cui uno addirittura del 2003 e il più recente del 2013) e tre nuovi pezzi. Si apre ovviamente con la più recente produzione: "Cenere", "Piombo" e la title track che, nere come la pece, si abbattono sulle nostre teste con sonorità distorte, allucinate ma di sicuro fascino, poggiando su ritmiche forsennate di scuola post black cascadiana, che chiamano in causa i maestri del genere, su tutti i Wolves in the Throne Room. Il mastermind ligure picchia di gusto, ma è probabilmente nelle parti più rallentate e controverse che dà il meglio di sé. "Piombo" è una song di sicuro impatto, che scomoda ben più facili paragoni con la tempesta cervellotica dei Deathspell Omega o con le atmosfere più ipnotiche dei Blut Aus Nord. Non male a tal proposito un break stralunato che impera a metà brano, e che ha il merito di generare una certa sensazione di soffocamento, per poi lasciar modo ad un sound più arrembante, di incalzarci fino al termine della seconda traccia con fare angosciante. "Via", la title track, prosegue su quest'onda anomala di suoni belligeranti, fatti di vocals arcigne e ritmiche infauste, che ci conducono fino alle tre successive tracce, incluse originariamente nel Demo 2013. La differenza sostanziale che colgo con l'ultima produzione dell'artista ligure è sicuramente relativa a brani più corti (con durate che sono circa la metà delle nuove track), ove inalterate rimangono comunque le pulsioni nevrotiche del musicista italico che in "Lamina" dà addirittura maggior spazio alla componente atmosferica, anche se in questo caso non ho apprezzato invece il suono troppo innaturale della drum machine. "Circle" ha un incipit più tranquillo, prima di concedersi alle consuete mitragliate inferte dal suono infernale di ultra blast beat; qui segnalerei il mood malinconico delle chitarre che viene riproposto anche nella successiva demoniaca "End". Sembra un viaggio all'Inferno quello che in cui ci accompagna il buon Giorgio Barroccu, in una song spiritata che trae linfa vitale dalla produzione dei primi Aborym ma anche da qualcosina dei Cradle of Filth, soprattutto nel modo di cantare del frontman. Nel frattempo ci si avvia verso la musica più datata della band e le differenze si fanno più sostanziali, forse perché nel 2003 il concetto di post black non era ancora stato completamente sviscerato. A parte un sound più ovattato ed una registrazione decisamente più casalinga, nel flusso sonico primordiale dei Derhead compaiono influenze più death oriented che nelle ultime tracce erano rimaste parzialmente celate. Non mancano comunque le sfuriate sinistre, complici probabilmente l'utilizzo di keys che sembrano evocare lo spirito dei Nocturnus di 'Thresholds', in una matrice sempre oscura ed insana, che trova modo in "II" di svelare anche un lato barocco del bravo Giorgio, che già nel 2003, poteva vantare di proporre musica estrema d'avanguardia. (Francesco Scarci)

(Via Nocturna - 2016)
Voto: 70

https://derhead.bandcamp.com/album/via

Transilvanian Beat Club - Willkommen Im Club

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death Rock
Facciamo un salto indietro nel passato per conoscere un act ormai sciolto, non proprio fortunatissimo e brillantissimo. Sto parlando dei Transilvanian Beat Club che nel 2006 proposero il loro debut album, 11 tracce di un death rock influenzato da sonorità gotiche, dark e doom, interamente cantato in tedesco, lingua che notoriamente faccio fatica a digerire in ambito musicale. Comunque sia, la band tedesca, che includeva membri di Eisregen e Ewigheim, nonché come guest star Martin Schirenc dei Pungent Stench, propina uno strano mix di suoni: un gothic-black sporcato da sonorità rock punk e musiche da B-movie horror, su cui fanno capolino female vocals e un sax (credo, ma non ne sono certo), che richiama parecchio i suoni degli ungheresi Sear Bliss. Per il resto, se potessi azzardare un paragone un po’ folle, mi verrebbe da dire che il disco è un po’ come se i Motorhead suonassero brani dei Rammstein, quindi in modo grezzo e privo ma dotato di quella pomposità che contraddistingue la band tedesca. Se il lavoro fosse stato curato maggiormente, soprattutto a livello di suoni, di sicuro avrebbe ottenuto un riscontro più positivo da parte del sottoscritto. Da segnalare infine, che l’ultima traccia dell’album è la cover “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone, forse il pezzo più interessante di questo 'Willkommen Im Club'. A meno che non siate dei grandissimi fan degli Eisregen, ne farei a meno. (Francesco Scarci)

(Massacre Records - 2006)
Voto: 50

http://www.transilvanian-beat-club.com/

domenica 22 gennaio 2017

Countless Skies - New Dawn

#PER CHI AMA: Melo Death/Doom, Insomnium, Be'lakor
Quelle volte in cui parto ad ascoltare un disco con le aspettative sotto soglia, sono quelle volte in cui in realtà vengo conquistato maggiormente dalla proposta di una band. Ho ricevuto questo cd con una descrizione un po' sotto tono per la band inglese e quindi potete immaginare il mio scarso entusiasmo nel dover recensire il lavoro. E invece, dopo aver infilato il cd nel lettore ed averlo ascoltato uno, due e tre volte, mi sono lasciato travolgere dal sound fresco di questi Countless Skies (moniker che deriva da una song degli australiani Be'lakor) e del loro debutto 'New Dawn', edito dalla nostrana Kolony Records. Otto tracce che, a parte l'intro strumentale, irrompono con "Heroes" e le sue melodie tipicamente scandinave (penso ai Dark Tranquillity o agli Insomnium quali primi nomi) ma che strizzano l'occhiolino anche all'ensemble da cui traggono il loro nome. I nostri corrono via veloci con brani che si susseguono tra cavalcate melodiche, pregne di una certa emotività, cori azzeccatissimi, growling vocals e tutta una serie di ingredienti che possono dar modo a 'New Dawn' di essere un album vincente. Buoni anche per quel che concerne il songwriting, gli inglesi si confermano addirittura entusiasmanti in "Solace", traccia assai ritmata ma dal forte mood malinconico, impreziosita da una chiusura assai doomish. Si torna a correre con "Daybreak", song spiritata, carica di groove e con il vocalist che si lancia in urla che ecco, non appartengono proprio a questo genere, e su cui si può anche sorvolare. Con "Wanderer" i quattro britannici scomodano gli Swallow the Sun, con un sound robusto, intimista e malinconico al punto giusto, per un risultato conclusivo di sicuro accattivante, che rapisce in intensità, melodia, atmosfere e gusto estetico in generale, soprattutto a livello chitarristico, dove la band si diletta con tagli acustici ma anche con ottimi assoli. Chiusura per l'orientaleggiante "Return", dieci minuti di sonorità ben calibrate che confermano la solidità di un ensemble di cui sentiremo a lungo parlare in un futuro non troppo lontano. (Francesco Scarci)

James Murray - Eyes to the Height

#PER CHI AMA: Ambient, Minimal, Soundtrack
Nella musica di James Murray ci si può perdere con leggerezza, con quel sentore settembrino appena fresco ed intenso, immergersi in colori autunnali, liberi di sfoderare un'emotività multicolore, contenuta ed accesa, alla ricerca di una forma d'essere che sia pura come l'acqua più cristallina. È di queste cose che si ricopre il nuovo album dell'artista inglese, piccoli battiti di musica elettronica rubati alle pulsazioni del cuore, un suono caldo, avvolgente e profondo, rarefatto, come se la musica di Daniel Lanois virasse sicura verso i lidi della migliore elettronica minimale, passando per dovere tra Mùm, le magie di Eno, shoegaze vari e certe cose ambient di Robert Rich e Tangerine Dream. In "Holloways" (brano stupendo) troviamo un musicista in forma fantastica che trasuda classe e stile da vendere, in orbita tra galassie ambient, ritmi lievi, bassi profondi e foreste sacre, che lo uniscono di fatto al concetto di suoni per una natura incontaminata. Si continua con il sogno diviso a metà tra meraviglia e oscuri presagi di "What Can be Done", tra drone e leggerissimi innesti ritmici, un mantra sonico affascinante ed avvolgente come una fitta nebbia mattutina in aperta campagna. La peculiarità e la cura maniacale per un sound perfetto, si mette in mostra in tutta la durata del disco e la ricerca di un suono che possiamo definire tridimensionale, è centrata in pieno. Composizioni quelle di James, che ammaliano e pongono l'ascoltatore di fronte ad un'esperienza sonora atta alla rigenerazione sensoriale, rispolverando downtempo e cariche emotive in voga ai tempi della migliore new age music ed al trip hop più lisergico e misterioso. Una colonna sonora dell'anima senza fissa collocazione nel tempo e nei generi. Una decina di brani che potevano essere, in veste elettronica e strumentale, la colonna sonora di una nuova opera di Wenders, con in prima fila un pezzo sopra le righe come "Ghostwalking", che reputo un vero e proprio gioiellino. Splendida compilation in perfetta linea qualitativa con le produzioni d'alta classe dell'etichetta d'oltralpe Ultimae Records, anche se, per certi aspetti, in questo bel disco, si nota una controtendenza che lo diversifica dai lavori dei compagni di scuderia (se si pensa al mitico viaggiatore spaziale Martin Nonstatic) che optano per un sound più tecnologico, futurista e moderno. Un contrasto ricercato ed originale, che si fa notare mostrando volutamente un suono più umano, sognante e parecchio analogico, per certi aspetti, più legato ad un effetto vintage e retrò dell'elettronica. L'ascolto di quest'ultima fatica del compositore britannico, uscita sul finire del 2016 per la sempre più rosea etichetta francese, è indubbiamente un'esperienza che merita di essere fatta, una full immersion rigenerante e inebriante, in definitiva un ottimo lavoro. (Bob Stoner)

Spektr - Near Death Experience

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black, Blut Aus Nord, Bathory, Khold
Gli Spektr sono un duo di origine, manco farlo apposta francese, che con 'Near Death Experience' taglia il traguardo del secondo lavoro. Era il 2006 e i nostri proponevano un mix di black metal primordiale e atmosfere maledettamente rarefatte. Nove brani più un video di 12 minuti costituiscono questo sulfureo lavoro, partorito da menti assai malate, che fece sicuramente la gioia degli amanti del black più primitivo unito a quelle malsane ambientazioni da film dell’orrore. Non so se realmente quest’album mi sia mai piaciuto, tuttavia devo ammettere che mi risultò estremamente affascinante per quel suo mood tenebroso, oscuro e insano. Le chitarre, sempre molto grezze, possono ricordare i primi riff messi su disco da Quorthon nei Bathory o dal buon Conte Grisnack nei suoi Burzum, così come pure i vagiti del vocalist, non fanno altro che richiamare tempi ormai andati. Molteplici e di lunga durata sono poi i momenti più d'atmosfera, in cui i nostri si dilettano nel creare situazioni angoscianti, fin apocalittiche. Difficile sottolineare gli apici espressivi di un lavoro, che pecca forse di una eccessiva ripetitività, un album che va comunque gustato dall’inizio alla fine in una stanza senza luci e finestre. Se volete impazzire, questo disco farà al caso vostro. (Francesco Scarci)

venerdì 20 gennaio 2017

Queen Elephantine – Kala

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
La cosa che non si può negare a questa ottima band, ora stabilitasi a Providence in US ma in passato residente ad Hong Kong, è la capacità di sconfinare facilmente e in maniera sofisticata e contorta tra lo stoner, la psichedelia, l'avanguardia ed il post rock. Con queste premesse, il disco in questione, uscito nel 2016, sembra non stimolare un granchè. Potrebbe rientrare in un calderone inflazionato di nomi, senza risultare in nessun modo una novità e la vostra potrebbe essere una considerazione esatta, ma per fortuna, vi dovrete ricredere in fretta. Vi dovrete ricredere perchè, ascoltando il nuovo album dei Queen Elephantine, con un titolo ispirato alla divinità orientale Kala, scoprirete che esiste ancora chi riesce a sfornare ottima musica, comunicativa ed originale, pur rimescolando vecchie carte da gioco. Prendete il pathos degli OM ed il loro misticismo, unitelo ai deliri compositivi dei June of 44 di 'Four Great Points', create un parallelo compositivo con il sound astratto, avanguardistico e cacofonico del geniale 'Deceit' dei This Heat, la spinta alternativa e desertica dei Fatso Jetson, il passo lento e pesante degli Earth, il doom sonico e rumoroso dei Fister di 'Bronsonic' e qualche scorribanda in territori kraut/psych rock e avrete l'esatta equazione che vi dà una vaga idea di cosa si nasconda nella quinta uscita ufficiale di questa particolarissima band. L'album è pane per i soli palati più fini, dato che va in contrasto con ogni canone di stoner rock da cassetta, pertanto ci si deve avvicinare a cuor sereno e mente libera da preconcetti di genere. Fatevi trafiggere dall'iniziale "Quartered", memore di un suono grunge dilaniato e rallentato a dismisura; amate il paranoico, folle e infinito grand canyon di "Quartz", lasciatevi poi cadere nel psicotico, sabbioso, noise/blues di "Ox", e fatevi rapire dal sentore etnico delle percussioni di "Onyx" (brano splendido!) ed il suo anarchico composto sonoro, acido e contorto, oppure, perdertevi nel vortice scuro di "Deep Blue", in gloria agli Ulan Bator post ogni cosa. Per finire inoltratevi nel vuoto cosmico dei dieci e più minuti di "Throne of the Void in the Hundred Petal Lotus", il doom visto con gli occhi degli Slint. Tante cose, tanti suoni e concetti hanno costruito questo album pieno di ambizione e meritevole di tanto rispetto, un collettivo di intelligenti musicisti pronti ad accendere ancora una volta, la fiamma dell' heavy psichedelico, rivisto e ridisegnato con nuovi colori e forme. Un album di confine che non convincerà tutti ma coloro che lo apprezzeranno, lo ameranno alla follia, come il sottoscritto. Il santo graal dello stoner rock è nascosto in questo album! Non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

https://queenelephantine.bandcamp.com/album/kala

Theatres des Vampires - Bloody Lunatic Asylum

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic Metal
Devo ammetterlo, non sono mai andato pazzo per la musica dei Theatres Des Vampires, una formazione che calca la scena metal da oltre vent'anni ma che prima d'ora non si era resa protagonista di lavori esaltanti; i primi due album infatti ('Vampyrisme...' del '96 e 'The Vampire Chronicle' del '99), pur essendo ben suonati e supportati da un discreto livello compositivo, mancavano, a mio avviso, di quella brillantezza che li facesse emergere dalla mischia, brillantezza che però è magnificamente espressa nel loro terzo album, 'Bloody Lunatic Asylum'! A risollevare le sorti dei Theatres des Vampires è proprio questo disco, prodotto da Tim Fraser (già produttore di Christian Death e Anathema) e pubblicato dalla Blackend, uno staff molto professionale che ha sicuramente aiutato la band a compiere il salto di qualità! Non fatevi ingannare però: a fare grande 'Bloody Lunatic Asylum' non è solo un produttore d'eccezione o una casa discografica potente, ciò che lo rende speciale è il valore degli undici brani in esso contenuti, tutti molto coinvolgenti e ricchi di nuove idee! Lord Vampyr e soci dimostrano di aver raggiunto un'invidiabile maturità compositiva e questa volta ci consegnano tra le mani un prodotto competitivo, un disco di sanguinario e dannato gothic metal, intriso di pazzia e perdizione, elementi che ricordano il famoso 'The Principle Of Evil Made Flesh' dei Cradle Of Filth, formazione alla quale la band italiana si avvicina, non tanto per lo stile, quanto per le atmosfere morbose e vampiriche che riesce a ricreare. Alle classiche black screams viene alternata una voce pulita che conferisce al lavoro un tocco di suggestiva teatralità mentre le tastiere di Necros giocano un ruolo dominante e si fondono a degli indovinatissimi cori polifonici (bellissima "Lilith's Child"!!). Frequenti sono anche le parti recitate da sensuali voce femminili, presenti anche nei cori e nell'evocativa chiusura affidata a "Les Litanies De Satan", song basata su Moonlight Sonata di Ludwig Van Beethoven. In definitiva, 'Bloody Lunatic Asylum' è un disco geniale ed ispirato che segna l'affermarsi sulla lunga distanza di una band che non ha mai mollato. (Roberto Alba)

Draugsól - Volaða Land

#PER CHI AMA: Black/Death, Immortal, Morbid Angel, Enslaved
L'Islanda colpisce ancora, non con l'esplosione di un altro vulcano, ma con l'emergere di una nuova band dai suoi abissi infernali. I Draugsól si formano infatti solamente nel 2015 e arrivano alla stampa del loro debutto assai velocemente, grazie al supporto della Signal Rex. Il genere proposto è ovviamente un black metal che del nero metallo mantiene probabilmente solo le vocals arcigne, perchè poi le ritmiche si dimenano tra un death alla Morbid Angel e un black in stile Immortal, proponendo velocità ben sostenute, blast beat martellanti, sonorità disarmoniche e imprevedibili assoli. Ecco qui il biglietto da visita del terzetto di Reykjavík che non sottraendosi al morbo dell'intro liturgico, ci conducono poi nel loro mondo, con i quasi nove minuti di "Formæling". Superato in apparenza lo scoglio di una proposta non troppo semplice da digerire, si sbatte contro la vulcanica e brutale efferatezza di "Bót Eður Viðsjá Við Illu Aðkast", altri nove minuti di musica battagliera, selvaggia, che propone riff di matrice epic black (echi di Windir ed Enslaved nelle sue note) però poggianti su un pattern di violenza tipicamente death, che contribuisce a rendere la proposta del combo islandese decisamente più varia ed imprevedibile rispetto ai grandi classici. I Draugsól non sono certo immuni a sbavature od imperfezioni, vista anche una certa ridondanza nel caotico approccio del trio nordico. Per fortuna che c'è spazio anche per un'apertura acustica in "Spáfarir og Útisetur" (e più brevemente anche nella successiva "Váboðans Vals"), altrimenti il rischio di essere maciullati dall'irruenza dei nostri, si fa più alto. La song mantiene un andamento mid-tempo tra un break acustico e un affondo affidato a vorticose accelerazioni. Le danze si chiudono con la malefica "Holdleysa" dove saggiare per l'ultima volta le qualità dell'ennesima new sensation proveniente dalla fredda Isola di Ghiaccio. (Francesco Scarci)

Pater Nembrot – Nusun

#PER CHI AMA: Heavy Psych Stoner
Terzo album, dopo 'Mandria' (2008) e 'Sequoia Seeds' (2011), per la band cesenate che acquista sempre più peso e personalità e sforna con questo 'Nusun', un disco di grandissimo spessore, il migliore finora, e comunque destinato ad avere un ruolo e un peso molto “ingombrante” nella discografia dei Pater Nembrot. Perchè 'Nusun' è uno di quei lavori che lasciano facilmente a bocca aperta, un piccolo capolavoro di stoner psichedelico da salutare con gioia, rispetto e un pochino di incredulità, una volta appurato che si tratta di una produzione tutta italiana. I Pater Nembrot rinforzano la line-up con l’aggiunta di una seconda chitarra e ispessiscono il loro suono fino a renderlo scuro, pastoso e pesante, come il risultato di un ibrido tra Black Mountain, Comets on Fire, gli ultimi Motorpsycho e ovviamente Black Sabbath. Incastonati tra la ballata pianistica “Lostman” e gli echi westcoast della conclusiva e acustica “Dead Polygon”, ci sono 46 minuti tra i più pregni e infuocati che mi siano capitati per le mani in quest’ultimo anno, fatti di riff mastodontici che farebbero la felicità dei Black Mountain di 'In the Future' (“Stitch”) e che, di quando in quando, si fanno cavernosi e quasi doom (“The Rich Kids of Teheran”), oppure incorniciano prestazioni vocali degne dei migliori Soundgarden (“Overwhelming”). Trovano poi spazio dilatazioni riflessive che evocano i più ispirati Motorpsycho (“Architeuthis”) e brani che esprimono appieno una maturità anche compositiva davvero invidiabile, come “El Duende”, costruita su un riff che sembra la versione rallentata di quello di “Airbag” dei Radiohead. Un disco pressochè perfetto in tutti i suoi aspetti, a partire dalla splendida grafica di copertina. Se siete un minimo avvezzi alle sonorità heavy psych, non fatevelo scappare per nessun motivo.(Mauro Catena)

(GoDown Records - 2016)
Voto:80

https://pater-nembrot.bandcamp.com/album/nusun

martedì 17 gennaio 2017

GC Project - Face the Odds

#PER CHI AMA: Prog Rock
GC Project è il lavoro solista di Giacomo Calabria, eclettico batterista che calca la scena musicale italiana e non, da parecchi anni e che vanta collaborazioni con un gran numero di musicisti. Il suo amore per il prog metal lo ha portato a scrivere 'Face the Odds', full length che contiene undici brani autoprodotti con il supporto di innumerevoli artisti che si avvicendano ad aiutare il loro amico. "The Spring and the Storm pt. I" è la seconda traccia del cd e nei suoi cinque minuti racchiude il fulcro della musica di Giacomo. Un brano che trasuda prog misto a rock anni novanta, caratterizzato dalla sua sezione ritmica impeccabilmente pulita e trascinante. Le chitarre fanno il loro sporco lavoro, con riff potenti e con distorsioni adatte al genere. I brevi fraseggi di tastiera e l'assolo completano gli arrangiamenti ben fatti, insieme ad un cantato che si destreggia molto bene nei vari passaggi. "Southern Confort" ci catapulta in Asia grazie al suono del sitar e alla ritmica incentrata sui fusti della batteria che richiama lontani battiti tribali. La melodia ci culla per prepararci alla perentoria chitarra elettrica e ai suoi riff distesi. Nel frattempo i tocchi di hammond addolciscono il tutto e sostengono la vocalist (questa volta c'è una lei dietro al microfono) che ben si muove tra cantato e parlato. La pronuncia a volte risulta un po' troppo marcata, in compenso sale di tonalità con decisione, mentre basso e batteria si divertono ad intrecciarsi, il tutto poi a a finire in fade out. Il prog vecchio stile torna in "Water in the Desert", dove la sezione ritmica la fa da padrone, correndo e rallentando a piacere, permettendo a tutti gli strumenti di allungarsi in fraseggi sempre all'altezza. Molto azzeccato l'assolo di tastiere che sfuma naturalmente e lascia spazio a quello di chitarra, mentre nei vari break fuoriescono suoni elettronici di tutti i tipi. Un pezzo classico se vogliamo essere sinceri, ma eseguito ad opera d'arte. Tutto il meglio della PFM, Goblin ed affini è stato digerito e studiato con cura da musicisti con del gran pelo sullo stomaco. Chiudiamo con "18 Circles of Life", un vero inno alla vita, dove le atmosfere, a volte oscure dei precedenti brani, sono state messe completamente da parte per lasciare spazio a pura positività che trasuda dai riff e dagli arrangiamenti. Anche qui Giacomo mette in campo tutta la sua bravura con ritmiche complesse e mai scontate, veloci e che conducono alla fine del brano ancora quando stiamo canticchiando il ritornello. In 'Face the Odds' è stato fatto un buon mixaggio e soprattutto il mastering è minimo, pochissima la compressione che dà un gran senso di ariosità ai suoni che si liberano nelle frequenze permettendo di raccogliere tutte le sfumature. Di contro, alcuni punti sembrano su viaggiare su piani staccati; alla fine però ne è valsa la pena perché ci troviamo tra le mani un piccolo gioiellino che trascende il genere e dovrebbe comparire nelle collezioni di molti musicisti che aspirano a raggiungere livelli eccelsi. (Michele Montanari)

Kalmankantaja - Kuolonsäkeet

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Sono infine giunto, al buio, circondato da antiche rovine Quechuas, con l'unica compagnia di un freddo gelido, a Pueblo Fantasma, Bolivia, 4690 metri sul livello del mare. Eolo sul mio volto sferza il suo fiato ove scanna runiche rughe intrise nel mio sangue con i suoi invisibili aghi, rune che brillano e pulsano nell’oscurità. Mi chiamo Kalmankantaja e sono un druido votato al male. Non mi ricordo nemmeno come ci sono arrivato fin qui. Dev'essere l'effetto delle troppe foglie di coca che ho masticato per resistere al freddo, alla fame e per riuscire a trascinarlo. Una cosa, però, me la ricordo bene: il motivo per cui sono lì. Scelgo la chiesa, ove accendo, con uno dei miei incantesimi occulti, un arcano fuoco. Lo pronuncio: “Sieluton Syvyys” e le fiamme divampano poco lontano da me. È stata per l’appunto “Sieluton Syvyys”, entry-track strumentale di 'Kuolonsäkeet', dei finnici Kalmankantaja ad evocare questa mia storia: la sua tastiera occulta, geopardata da rare ed arcane parole, ci inizia all’arte con note che da profonde, sulla scia dell’organo, si trasformano, s’innalzano e mi portano con loro nell’alto dei cieli. Accedo all’Empireo tenendo per mano Beatrice ma dimenticandomi di Dante. Ecco che odo i primi lamenti, i primi strazi, della mia vittima. Ebbene, non sono solo, l’ho portato con me. Finora aveva taciuto, sotto l’ipnotico effetto del mate de coca. Ora si sta risvegliando, tossisce. Quindi urla. Non oso immaginare quali oscure creature si annidino lì, nel posto in cui mi trovo, quali lugubri presenze stia per evocare, ma non ho paura. Io non ho paura di niente. Io non temo nessuno. Nessuno al di fuori di me. Sì, al di fuori di me, perché di me ho paura. Di me ho davvero paura: so come sono. Dentro. Tanto gentile e tanto onesto appaio ma chi mi calpesta… muore. No. Non subito: attendo buono per anni, con paziente disciplina. Faccio maturare per anni il mio silente odio proprio come si fa con il buon vino o come fa il più bastardo dei virus e solo quando tutto sembra tranquillo, quando sono certo che tutti abbiano dimenticato, solo allora colpisco. E vado fino in fondo, senza paura di insozzarmi. Calo la mia falce. Scanno, squarto. Ma non lascio mai tracce. Le sue urla. Sono le sue urla a dare inizio a “Yhdessä Kuoleman Säkeet Kohtaavat” lo strazio di uno che viene torturato e che mi chiede disperatamente di non venire ammazzato. Io semplicemente lo ignoro, anzi, dentro di me godo nel prolungarne le sofferenze. Lui per primo mi ha fatto del male. Senza motivo. La batteria scandisce un ritmo semplice, cadenzato, un quattro quarti lento, con brevi incursioni in ottavi, tipico del genere. Convince il gioco di velocità aumentata solo a tratti, dà corpus e magnificenza a questo brano. Le urla di strazio aumentano ed in quest’armonia s’incarnano alla perfezione in uno screaming potente. Bel lavoro ragazzi, ben fatto davvero. Chitarre distorte all’ennesima potenza punzecchiano ed infastidiscono con pure note di sana ultraviolenza la mia vittima che mai smette di lamentarsi, di contorcersi, come se a ripetizione fosse punta da migliaia di vespe mandarinia japonica. Urla. Urla nell'oscurità. Ma no, no, la mia falce non ha ancora mietuto la sua vittima, c’è ancora così tanto tempo e così poche cose da fare. La sua lama brilla perché ancora non ha assaggiato e non percola, lungo il suo filo, lacrime di sangue. Del suo sangue. Punto il mio bastone, mi concentro, rivolgo lo sguardo al cielo, levito ed al mio comando “Ruoskittu Ja Revitty”, lingue di fuoco all’improvviso si animano, s’innalzano e quindi tracciano un complesso e rotondo sigillo sul terreno con al centro la vittima che ancora urla. I suoi pochi stracci vengono divorati dalle fiamme che assaggiano fameliche anche qualche brandello delle sue carni ma niente di più: non vi sono infatti nuovi ingredienti rispetto la precedente track, non percepisco alcun gusto nuovo. Anzi lo schema si ripete. Belli i dieci minuti di "Yhdessä..." ma forse i successivi dieci di "Ruoskittu..." non vanno ad aggiungere molto. Non sono poi così tanto diversi, forse qui l’agonia viene prolungata un po' troppo. Sulle note di “Memento Mori”, la vittima inizia non solo a prendere atto che deve morire ma che la morte è ormai vicina. Mai giocare con i sentimenti di qualcuno. A meno che non si voglia finire… così. Le sapienti pennellate in solo di tastiera di “Oman Käden Teuras” ed i suoi crescendi, sanno risvegliarmi dal torpore, dandomi qualcosa di nuovo da assaporare. Di mio gusto le interruzioni di batteria. La vittima adesso viene tatuata agli occhi con aghi incandescenti. È questo il mio modo per dire: buona la prova di voce. Nuove sonorità e vocalizzi mi colgono impreparato in “Minun Hautani”: bella questa sorta di dialogo tra vittima e carnefice ovvero il gioco di voci pulita e screaming. Di fronte a “Synkkä Ikuisuus Avautuu” non mi resta che lanciare una moneta per decidere le sorti di questo 'Kuolonsäkeet': testa promosso, croce si muore… …ma la mia è una moneta speciale, dedicata a Giano… e Giano si sa… ha due facce. Invece con la mia vittima non sarò così buono: pollice verso. Morte! Morte! Morte! Mai giocare con… (Rudi Remelli)

lunedì 16 gennaio 2017

Sybernetyks - Dream Machine

#PER CHI AMA: Industrial Rock
I Sybernetyks sono degli industrial rocker francesi attivi dal 2013 che ci regalano quello che potremmo chiamare il primo vero LP della band, 'Dream Machine'. Si tratta di un disco poliedrico, con parecchi pezzi e una certa varietà compositiva, con suoni elettronici utilizzati come dilatatori di ambiente in abbinata con delle chitarre dalla distorsione presente ma controllata, che creano un’atmosfera confortante a tratti e a tratti lucida ma mai inesorabile. Mi vengono in mente i Porcupine Tree per le atmosfere dense di effetti e per molte risoluzioni repentine su fangosi riff sludge piuttosto che su tappeti di delay e tastiere celestiali. Per avere una chiara idea di chi o cosa siano i Sybernetiks, ascoltare "Downstream" è obbligatorio. Probabilmente si tratta del pezzo più riuscito del disco, dotato di un tappeto elettronico iniziale che introduce una sezione pesantemente rock con notevoli arrangiamenti vocali. Un altro must è rappresentato dalla title track che chiude il disco e che racchiude le migliori peculiarità della band, dagli eterei ambienti dove la voce si adagia piano sulla musica fino al potente assalto delle chitarre che la porta invece alla sua massima espressione, con una coda nebbiosa vagamente drone. Per molti versi 'Dream Machine' è un buon ascolto, anche se una visione d’insieme dell’opera avrebbe giovato di più al progetto che seppur qualitativamente molto alto, a volte risulta ridondante. Un gruppo sicuramente da tenere sott’occhio per le capacità dimostrate ma soprattutto quelle potenziali; per di più sul loro bandcamp campeggia la confortante scritta “we take care of your future”, una bellissima idea che tutte le band dovrebbero fare propria! (Matteo Baldi)

Cosmic Jester - Millennium Mushroom

#PER CHI AMA: Blues Rock/Jazz/Psichedelia
I Cosmic Jester sono una band nata nel 2015 e questo è il loro debutto discografico, nonostante sembrino in tutto e per tutto usciti dalla California acida degli anni '60. Di stanza a Berlino, i nostri sono in effetti un duo composto da Lucifer Sam, chitarrista e polistrumentista originario delle coste del Mar Baltico, e Roboo, batterista statunitense di impostazione jazz. La musica racchiusa in quest’elegante confezione cartonata fatta a mano, declina per poco più di settanta minuti un concentrato di rock blues rilassato e jazzy, che sembra trarre ispirazione tanto dalla San Francisco dei Jefferson Airplane, quanto dal kraut rock più acido e meno rigoroso degli Ash Ra Tempel. Il disco ha la capacità di calare immediatamente l’ascoltatore in una dimensione pacificata e positiva, con quell’ibrido tra Crazy Horse e Quicksilver Messenger Service che è “Muddy Waters”, acida ed elettrica opening track, al contempo pacata e riflessiva. Lo stesso mood, un po’ più jazzato, viene mantenuto in “Skin” e nella strumentale “Noise From Beyond the Sea”, mentre l’album assume forme sempre più dilatata ed elettroacustiche, che non disdegnano alcune incursioni nel folk indiano (“Millennial Mushroom” e “The Psyfolk Experience Jam”) o nella psichedelia weird inglese tra Syd Barrett e Robyn Hitchcock (“Joker in the Paper Cup”), passando per il quasi prog di “Polarity”, fino ad un nuovo irrobustimento delle trame nella parte finale, con la lunga “The Wake”. Il caleidoscopio sonora allestito dai Cosmic Jester impressiona per varietà e sicurezza con la quale i due si muovono tra stili e una strumentazione ricca e variegata, e promette molte ore di ascolto piacevole e fruttuoso, soprattutto se si è avvezzi alle coordinate di riferimento. Unico neo, a mio avviso, una certa frustrazione provata per via di un missaggio non sempre perfetto, che rende alcune parti di chitarra quasi inudibili. (Mauro Catena)

domenica 15 gennaio 2017

Lilium Sova – Lost Between Mounts and Dales / Set Adrift in the Flood of People

#PER CHI AMA: Mathcore/Noise, Zu
Quando parlai di 'Epic Morning', eccellente esordio dei ginervini Lilium Sova datato ormai 2012, mi ero interrogato sul futuro della band, allorché all’indomani dell’uscita del disco, la formazione che l’aveva registrato, già non esisteva più. Ad abbandonare la nave era stato un elemento fondamentale quale Michael Brocard (sax e tastiere), lasciando la granitica sezione ritmica composta da Cyril Chal (basso) e Timothée Cervi (batteria) a dover reinventare da zero un suono che faceva gran conto sulle furiose incursioni free del sax dei Brocard. La nuova line-up è ora completata da Loïc Blazek che si cimenta al violoncello e alla chitarra. Quattro anni dopo vede finalmente la luce questo nuovo lavoro, che di quel cambiamento è figlio. Diviso idealmente in due facciate distinte, ognuna col proprio titolo, una propria tematica e una propria identità musicale, sottolineata dall’uso esclusivo del violoncello per la prima parte, identificata come 'Valley' e da quello della sei corde per la seconda, denominata 'City'. Dopo un’intro atmosferica, “Pakeneminem” mette subito le cose in chiaro col suo martellante incedere post-hardcore/noise. Basso e batteria sono una macchina inarrestabile su cui si innesta il violoncello, usato in modo molto poco rassicurante. In generale, tutta la prima parte del lavoro si distingue per una certa drammaticità e per atmosfere maestose e inquietanti, non prive di un certo respiro largo come nella lunga “Ofkaeling”. La seconda parte è invece caratterizzata da toni decisamente più nervosi e taglienti. La batteria non lascia scampo e l’affilatissima chitarra hardcore toglie il respiro come lo smog metropolitano, arrivando a ricordare certe cose degli Unsane in 'Forlorn Roaming' e flirtando pericolosamente con un post metal di impronta sludge davvero tosto. I Lilium Sova hanno cambiato pelle, si sono lasciati alle spalle certe influenze free-jazz e hanno addirittura beneficiato del cambiamento, risultando forse meno imprevedibili ma più quadrati e potenti. (Mauro Catena)

sabato 14 gennaio 2017

Bròn - Ànrach

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
La Kunsthauch è da sempre sinonimo di sonorità black ambient. Non sono immuni nemmeno i Bròn, one man band scozzese (guidata da tal Krigeist) che con 'Ànrach', arriva all'agognato debut album. Come spesso accade, le band scozzesi, gallesi o irlandesi ricorrono alla lingua celtica per trasmettere il legame profondo con le loro radici antiche e cosi il titolo del cd è una parola gaelica che sta ad indicare l'abbandono. Un abbandono ha sempre una connotazione malinconica che in questo caso si traduce nel mood nostalgico di un disco che include tre lunghissime tracce caratterizzate da un flusso sonico mid-tempo interrotto da brevi sfuriate black, con le chitarre venate di quell'aurea epica in stile Windir. A differenza della mitica band norvegese però, qui ci sono molte più tastiere, con una certa predominanza quindi di lunghi interludi atmosferici che evocano inevitabilmente il conte Grishnackh (alias Burzum). Ecco in soldoni la opening track che dà anche il titolo al disco. Con "Lutalica" (parola di provenienza serbo croata) non ritroviamo troppe variazioni al tema, se non una seconda parte del brano che si avvicina sempre di più all'ambient e che forse farà storcere il naso agli amanti del black più puro, ma tranquilli perché lentamente la song cresce in intensità e pure in velocità, con un finale furibondo. Tuttavia il disco stenta a rapirmi, forse perché troppo statico o dotato di suoni di synth troppo noiosi e scontati. Stancamente si arriva all'ultima "Tipiwhenua" (parola stavolta maori), il cui inizio tastieristico di certo non mi aiuta nella valutazione complessiva di un disco lungo, troppo lungo, ridondante e che non apporta nessuna novità in un genere di nicchia come quello dell'ambient black, in una song comunque avara di sussulti. 'Ànrach' non è un disco da bocciare, in quanto il mastermind di Edimburgo sa il fatto suo, però non è neppure un album che mi sento di consigliare a cuor leggero. Dategli un ascolto approfondito prima dell'acquisto, rischiereste di utilizzarlo per fermare un tavolo traballante. (Francesco Scarci)

(Kunsthauch - 2016)
Voto: 60

venerdì 13 gennaio 2017

Dysylumn - Chaos Primordial

#PER CHI AMA: Post Black/Death
Che diavoli questi francesi! La scena transalpina cresce che è un piacere e questi Dysylumn si vanno ad aggiungere alla già nutrita scena che ogni settimana sembra far affiorare nuove interessantissime leve da oltralpe. Il duo di oggi arriva da Lione e ci propone il secondo EP della propria discografia che conta anche un full length uscito nel 2015, 'Conceptarium'. 'Chaos Primordial' è un lavoro malato che riparte laddove l'album di debutto aveva chiuso. Il dischetto consta di tre pezzi più intro ed outro, che propinano palesemente anguste sonorità angoscianti. La title track apre i battenti, con i suoi suoni cupi e cadenzati, in cui death e black coesistono lungo i binari di una malsana dissonanza musicale semplicemente da brividi. Il suono dei nostri si muove poi sinuoso attraverso striscianti aperture progressive e vocals maligne, in un coacervo di stili che ingloba anche ambigue forme di doom e sludge. "Œuf Cosmique" irrompe con la classica ritmica martellante del post black, ma poi trova pace nella sua andatura mid-tempo tra urla lontane, improvvise accelerazioni e aperture astrali, mantenendo comunque intatta la vena melodica dei nostri. La lunga "Régénération" continua nel suo approccio sincopato tra distonici pattern ritmici, atmosfere occulte e urla che si tramutano in chorus epici, in una musicalità che trova anche modo di fuggire in psichedeliche fughe strumentali e riesplodere in efferati slanci di brutalità. Il disco si chiude con l'ambient onirico dell'"Outro". Che altro aggiungere se non invogliarvi a scoprire molto di più a proposito di questi due enigmatici musicisti francesi (Francesco Scarci)

(Egregor Records - 2016)
Voto: 75

https://dysylumn.bandcamp.com/