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mercoledì 28 dicembre 2016

Lost Opera - Hidden Sides

#PER CHI AMA: Power/Prog, Kamelot, Epica
Sono diverse le influenze che si trovano all’interno di quest'ultimo lavoro dei Lost Opera, 'Hidden Sides': dal power basilare a qualche ritmica prog. Si ascoltano anche derivazioni da generi più ruvidi, in cui il front-man Loic Conti, sfoggia le sue growling vocals come accade nel brano più duro dell’album, “O.P.S.”, che diventa quasi un pezzo in puro stile death. Le sonorità che però emergono su tutte nel resto del disco, sono quelle melodiche "kamelotiane" come si sentono in “Betrayal”. Le parti orchestrali ben studiate di “The Inquisitor”, “So Wrong” o “The Sinner, potrebbero invece ben figurare negli intermezzi di un qualsiasi disco degli Epica. Le onnipresenti tastiere si muovono su orchestrazioni semplici, che appaiono tuttavia spesso troppo deboli, e non riescono pertanto a conferire una seria componente sinfonica ai pezzi, lasciandoli sospesi cosi, a mezza via. Questo accade anche nel singolo "Follow the Signs", seppur si tratti di un brano mica male. I suoni electro e le contaminazioni death non trovano la perfetta amalgama con l’impianto melodico del disco e alla fine la resa non è delle migliori. Sebbene questo secondo full-length della band normanna rappresenti comunque un notevole passo in avanti rispetto al precedente lavoro uscito nel 2011, che mostrava ancora acerbe sonorità, in realtà non riesce ancora veramente a convincermi. Ci sono delle buone premesse, ma c’è bisogno di lavorare ancora un po’ per imboccare la giusta via, che non sappia di “già sentito (un sacco di volte)”, anche se un ambiente quasi saturo come quello del melodic francese non sia di troppo aiuto. Le idee sono tante ma bisogna metterle in ordine, cercando di accantonare quelle troppo scontate. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Dooweet Records - 2016)
Voto: 60

https://www.facebook.com/lostoperametal/

THE PIT TIPS

Five_Nails

Trees of Eternity - Hour of the Nightingale
Agalloch - Ashes Against the Grain
Gorgoroth - Under the Sign of Hell
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Francesco Scarci

Dopemachine - S/t
Celtefog - Sounds of the Olden Days
Klimt 1918 - Sentimentale Jugend
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Don Anelli

Bloody Blasphemy - Total Death Celebration
Profanatism - Hereticon
Surgikill - Sanguinary Revelations
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Caspian Yurisich

Visigoth - Revenant King
Whirr - Pipe Dreams
Blind Guardian - Follow the Blind

Mare Cognitum - Luminiferous Aether



#FOR FANS OF: Progressive Black Metal, Darkspace
Interesting old album this one. I want to like it, and I kinda do but it's just a bit headache inducing. Perhaps one of those releases where you find the concept/general idea really good, but the execution leaves you wanting.

The most obvious description with 'Luminiferous Aether' is a hi-fi, somewhat maximalist Darkspace. Whereas those swiss guys do a fantastic job conjuring up a cold, lifeless universe populated sparsely by primal, unyielding alien evil, Mare Cognitum basically get something closer to a darker Mass Effect universe. Somewhat grim still, but here the nebulae are in that blazing false colour we're used to, the explosions are bright yellow, and the sound effects are physics defyingly-loud and vibrant.

I have no problem with this- I'm a cheerful guy myself and am perfectly happy to lose myself in a musical version of a jam packed space opera. The main problem is basically that there's not enough dynamics, and there's not enough riffs.

They're pretty intertwined problems, I think. There's enough bands that stay in a forteissmo dynamic for 70 minutes straight and pull it off because good riffs flow from one to the next- things build, despite staying fully loud the whole time. That doesn't really happen here; most of the songs have very promising sections but then there's a tendency to wander off into aimless blasting where nothing much happens, where nothing much progresses. Call it New-Metallica syndrome if you want; you get the feeling that you could cut 25% of each song quite comfortably.

Things just float on in these overtly layered tunes until the songs end. I found myself drifting in and out of focused listening fairly often with this- there's just not enough to grab your attention for the whole album. I reckon a few parts like the album intro would've been a good addition. Mellow parts, when done properly don't have to be soppy or an Opethian exercise in song lengthening; they can make the songs flow better and establish new moods, they can draw a listener's attention back to the song. I'd refer to Spectral Lore's mind boggling 'III', an album of similar ambition and scope, but one that use dynamics one hell of a lot better.

I know I've whinged about this album for much of the review - but honestly I don't hate it or anything. You flick to any particular part of it and for a few minutes you'll be all "jeez, this is pretty cool" as your mind imagines some super futuristic space battles with all sort of mind blowing, space-time shattering weaponry. Problem is a few minutes later you'll likely be absentmindedly checking your email. Worth a look if you're into big, spacey BM - you may well like it more than me. Personally I think I'll stick with Darkspace. (Caspian Yurisich)

martedì 27 dicembre 2016

NAG - S/t

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore, Kvertelak
I NAG sono un trio proveniente da Stavanger - e cito testualmente - Norway's West Coast. Il loro nome deriva dalla parola norrena atta ad indicare la rabbia repressa. Leggendo la presentazione della band ci si potrebbe disperare al pensiero dell'ennesimo clone che evoca le parole "black metal", "hardcore punk", "crust", "punk metal" e qualche riferimento al Nord Europa. È difficile per il sottoscritto comprendere poi se il tono dell'ensemble è ironico o meno, quando affiancano espressioni riguardanti l'attuale erosione della socialdemocrazia con la necessità di formare una band punk hardcore. Tornando alla musica, il trio norvegese riesce a superare le aspettative grazie ad una vena che oserei definire "allegra". L'iniziale "Mute" è una piacevole opener grazie al quel suo mood tipicamente raw black metal. Un'atmosfera che si ritrova ancora marcatamente in "Back to the Castle" e più sporadicamente in alcuni tratti di altre tracce. Il punk dei NAG è più vicino a gruppi hardcore e crust britannici o svedesi, basta passare in rassegna le successive "Fray", "Empire" e soprattutto l'ultima "What If You Are Right", per cogliere questa peculiarità. Ogni tanto però, i nostri cadono vittima di clichè "americani" o quei tipici tremolo picking che ormai ritroviamo ascoltando qualsiasi band che non vede l'ora di usare l'aggettivo "blackened" per autoreferenziarsi. "Soon" è la song che mi ha colpito maggiormente: in un pur breve minutaggio, riesce a fondere canti corali e riffs che potrebbero ricordare gruppi come i Thyrfing e offrire inoltre accelerazioni belle tirate con una delle poche apparizioni dei blast-beats in questo disco. "The Last Viking", ascoltata con leggerezza, potrebbe essere confusa con "Utanforskapet" dei Martyrdod. "Ancient Wisdom" è invece il singolo estratto da questo debut album, e a mio parere è una delle tracce che meno rappresenta l'act scandinavo. La biografia dei NAG batte il tasto su parole come aggressivi, primitivi, oscuri, in realtà la produzione è mediamente brillante, la registrazione incredibilmente pulita, il suono è leggero e con poca saturazione. Tutto assai lontano dal caos, dall'oscurità e dalla violenza, che ci si aspetterebbe da un gruppo punk. Tutto di più lontano dal "NAG". In conclusione, il gruppo presenta un disco con canzoni varie come approccio, moderatamente originali e disomogenee, conferendo in tal modo freschezza e dinamismo al proprio sound. Se cercate del punk/metal pesante, oppressivo e senza respiro, lasciate stare; se invece apprezzate la ritmica old school e non disdegnate qualche sprazzo di malvagità black metal, allora ve ne consiglio l'ascolto. (Kent)

(Fysisk Format - 2016)
Voto: 65

https://naghardcore.bandcamp.com/releases 

lunedì 26 dicembre 2016

Beneath a Godless Sky - S/t

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore, Meshuggah, Tesseract
Quando rifletto su generi che si sono un po' persi per strada, mi viene da pensare al djent: un'esplosione incredibile, una crescita esponenziale e un'implosione altrettanto veloce. Tuttavia, a parte le solite tre-quattro band di grido, c'è ancora un sottobosco che sta germogliando. E quel mondo nascosto non poteva che essere in Francia, paese rigoglioso in fatto di trend musicali. Ecco da dove arrivano i Beneath a Godless Sky, autori di un EP omonimo di sei pezzi, sotto l'egida della Dooweet Records. Il genere ovviamente ci riporta al djent, sia per quel che concerne l'approccio poliritmico delle chitarre che scomoda inequivocabilmente nomi quali Meshuggah o Textures, che all'utilizzo di vocals più o meno pulite. La classica intro e poi è il tempo di "The Wall", che parafrasandone proprio il titolo, innalza un muro ritmico fatto di chitarre meshugghiane, voci ancestrali ed aperture progressive, il tutto condensando cascate di groove a non finire. "Divided", pur seguendo il medesimo pattern chitarristico, trova addirittura modo di impantanarsi in rallentamenti doomish, con le vocals del frontman sempre a cavallo tra il pulito e un growling mai troppo cattivo, tipico del genere. Continuano comunque le bordate sonore anche in "Broken Streets", con il classico rifferama tra Meshuggah e Tesseract, architetture chitarristiche ubriacanti ed aperture quasi space rock. "Fake Smile" prosegue sulla falsariga senza vere e proprie soluzioni alternative, e forse risiede proprio qui il rapido declino di questo stile: non bastano infatti i muri roboanti di chitarre se poi non si creano delle variazioni al tema. E quindi, sebbene fin qui l'EP non mi stesse dispiacendo, mi rendo conto che mi ritrovo alla quinta traccia con le orecchie già un po' sature di tali sonorità. E dire che i nostri sono ben preparati tecnicamente, hanno qualche buona idea, usano con oculatezza l'impianto tastieristico e il cantante ha una buona voce (eviterei però quel cantato quasi rappato che ad un certo punto si sente in "Faith + One"), ma evidentemente non basta. Dopo un po' infatti mi stufo e l'effetto è confermato anche in questo disco. Manca il sussulto, la trovata ad effetto, la divagazione ritmica, la genialata che faccia svoltare questo (e mille altri) dischi. Un EP quello dei Beneath a Godless Sky comunque piacevole, che necessita tuttavia di una maggiore ricercatezza, il rischio infatti è di scivolare nell'oblio totale. (Francesco Scarci)

(Dooweet Records - 2016)
Voto: 65

domenica 25 dicembre 2016

Silent Moriah - Wise Murders And Natural Evil

#PER CHI AMA: Thrash Progressive, Pantera, Anacrusis
La scena underground italiana è viva e vegeta. Ce ne dà oggi prova il quartetto bolzanino dei Silent Moriah, band in giro già da un lustro ma che solo in questo 2016, è riuscita a sfornare la prima release ufficiale. 'Wise Murders And Natural Evil' è un EP di sei pezzi all'insegna di un thrash metal caratterizzato da alcune contaminazioni doom, fughe death, ammiccamenti alternative e metalcore. Insomma, c'è di tutto un po' negli oltre 33 falsi minuti di musica qui contenuti (dico falsi perché ci sono nove minuti di silenzio). Si parte dalla classica intro arpeggiata e si prosegue con "Dead Tool" che tratta, da un punto di vista lirico, del mostro di Milwaukee, un serial killer statunitense resosi famoso per la pratica del cannibalismo e della necrofilia. Se qualcuno di voi si aspetta che anche da un punto di vista musicale, le ritmiche seguano le tematiche con sonorità splatter gore, vi sbagliate di grosso. Menzionavo infatti il thrash metal e qui ne troverete a palate anche con qualche divagazione in territori più angusti ed anfratti più bui, tipici del doom, con le vocals di Leo che passano dal growl al pulito con una certa efficacia e dove le chitarre si divertono nell'offrire affilate rasoiate e brillanti assoli. L'atmosfera si fa più tenebrosa in "Under Your Skin", con i nostri che trattano di un altro serial killer, del Wisconsin questa volta, che era solito mutilare in modo cruento le proprie vittime. Si insomma non certo dei temi leggeri, eppure la musica prosegue con sonorità accattivanti, melodiche, in linea con alcune cose dei primi Pantera e dei Testament, ma anche dei più avanguardistici Anacrusis, in cui le vocals provano a seguire degli sperimentalismi quasi cibernetici e in cui le chitarre, sempre assai catchy, comunque assurgono al vero ruolo di protagoniste nell'economia del brano, sia a livello ritmico che solistico, per un risultato dotato di spiccate qualità esecutive, ma anche in dinamismo sonoro e groove. Con "Bleed Honey Bleed" si prosegue il racconto dei serial killer e questa volta facciamo conoscenza di un altro alfiere della necrofilia. Da un punto di vista musicale, le linee, sempre assai melodiche, di chitarra si confermano costantemente ondulatorie nella loro progressione, grazie all'installazione di frequenti cambi di tempo, che permettono di catalizzare al meglio l'attenzione dell'ascoltatore. Non poteva certo mancare un brano per il serial killer più famoso di tutti i tempi, ossia Charles Manson: eccoci accontentati, in quanto "Enigma" è proprio focalizzata sull'efferato omicida di Cincinnati. La musica invece alterna un riffing thrash a sonorità sperimentali, a tratti progressive, non risultando di certo mai scontata o banale. I quattro giovanotti dell'Alto Adige convincono appieno con la loro performance strumentale, ma anche da un punto di vista tecnico-compositivo. Dicevo all'inizio della famosa traccia fantasma: "Natural Evil" è una breve outro di un 120 secondi a cui seguono minuti di nulla e poi improvvisamente ecco materializzarsi interferenze sonore boogie rock. Insomma, 'Wise Murders And Natural Evil' è un lavoro interessante che se verrà sviluppato adeguatamente in futuro, potrà regalare succosi frutti a questi giovani musicisti. Bravi! (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

Avast - S/t

#PER CHI AMA: Post Black/Metal, Wolves in the Throne Room, Isis
Il 2016 può considerarsi l'anno di consacrazione (e chissà, forse già di saturazione) del post-black. Ne abbiamo sentite di tutti i colori e da quasi qualsiasi parte del mondo, con una certa prevalenza tuttavia negli Stati Uniti, in Francia ed in Germania. Pensavo che a questo fenomeno, spaventosamente brulicante in tutto il pianeta, fosse rimasta indenne la sola Norvegia, cosi ancorata ai fasti di un passato ormai dimenticato. Mi sbagliavo perché il terzetto degli Avast (da non confondere con il famoso antivirus) ha rilasciato nella prima parte dell'anno un EP omonimo di due pezzi, devoti totalmente a questa imperante forma di black estremo, e che delizia per i miei timpani. "Declare" soffia gelida come il vento che sferza la banchisa alle isole Svalbard, grazie a ritmiche tiratissime e melodiche, cosi cariche di rabbia, cosi intrise di un'emotività irrequieta e malsana. Un'inquietudine di fondo che nemmeno nell'acustico break centrale trova pace al proprio tormento interiore, fatto poi di ritmiche al fulmicotone come solo i Wolves in the Throne Room sanno fare, sporcate però di una vena blackgaze che sembra apparentemente ammorbidire un lavoro che in realtà di morbido ha gran poco ma che aggrega in modo eccellente il post black con venature semplicemente post (metal e rock che siano). "Fire and Ice" ha una lunga parte introduttiva strumentale, poi è il battito tribale del drummer Ørjan a catturare la scena, accompagnato dalle urla infernali di Hans Olaf e dalle malinconiche chitarre in tremolo picking di Trond. La song scivola in un catartico sogno ad occhi aperti in cui avrete modo di ritrovare gli idoli di sempre, gli Isis, in una cangiante traccia di puro post metal, in grado di regalare attimi di piacere estatico come se immerso tra il candore dei ghiacci polari. Spaventosamente efficaci, peccato solo che questa onirico viaggio duri solo quindici minuti. Ora attendo con ansia il comeback discografico di questi guerrieri per infondere nuova linfa vitale ad un genere che sembra già avviato al tramonto. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 80

L'Homme Absurde - Monsters

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven
Si può fare centro al primo colpo? Ascoltando l'album di debutto dei moscoviti L'Homme Absurde si direbbe quasi di si, considerato che la band si è formata solamente nel 2016 e in bacheca vanta già un EP e quest'album d'esordio intitolato 'Monsters'. Ovviamente i quattro russi non sono gli ultimi pivellini sbarcati nel mondo del music business, vantando pregresse esperienze in altre realtà quali Comatose Vigil, Who Dies in Siberian Slush o Mare Infinitum, creature che abbiamo già avuto modo di conoscere qui nel Pozzo dei Dannati. L'ensemble sforna otto pezzi dediti ad un post black prorompente che vede come unico punto debole, l'assenza di un batterista in carne ed ossa in formazione. Peculiare infatti la scelta di avere due chitarristi, basso e voce in line-up e lasciare ahimè alla finta elettronica, l'esecuzione di martellare come un fabbro a livello ritmico. Le song si succedono con un piglio vincente sin dall'opener "Sold", brano caratterizzato da buone melodie di fondo, uno screaming disperato, aperture meno spigolose e più votate ad un post rock d'atmosfera, corredate però da un drumming che tanto mi fa incazzare per asetticità quanto per la freddezza nei suoni che ne consegue. Un peccato veniale per carità, che mi sarei aspettato da ragazzini in erba e non da musicisti navigati come i nostri. Il disco prosegue nella sua attività tellurica con la stentorea "Villains", brano che oscilla tra feroci accelerazioni post black e digressioni dal sapore più spettrale, fino ad arrivare a rallentamenti più doomish nella seconda metà, prima di un assalto conclusivo in pieno stile Deafheaven. "Apathy" è un pezzo più calibrato nelle sue note iniziali, grazie ad un approccio più indirizzato verso lo shoegaze, almeno fino a quando il vocalist non fa la sua comparsa. Con le voci latrate di A. si induriscono infatti anche le linee di chitarra e la ritmica in toto, che tuttavia non trascende mai a velocità esasperate. Con "Disillusion" si torna a percorrere sentieri pericolosi, fatti di blast beat infuocati, chitarre in tremolo picking e urla disumane. Fortunatamente si trova un po' di quiete verso metà brano con un riffing più compassato che tenderà a salire d'intensità nel giro di una manciata di secondi. In "Wanderer" coesistono più umori: dalla classica calma prima della tempesta con suoni in stile Alcest, ci si muove verso strali di vorticose ed arrembanti cavalcate black, tra dinamici e dirompenti chiaroscuri ritmici. In "Strayed" le chitarre si fanno meno zanzarose anche se assistiamo alla consueta martellante ed estenuante corsa ritmica tipica del genere. Tuttavia ad un certo punto sembra quasi di scorgere il sound dei primi The Cure (o se preferite degli An Autumn for Crippled Children) in un paio di break acustici ben congeniati. "Escapist" è una traccia un po' più complicata da digerire, complici melodie più estranianti e dissonanti rispetto ai brani precedenti. Lo stesso dicasi della conclusiva "Wires", song più breve delle altre ma non per questo priva di saliscendi ritmici incalzanti. In conclusione, 'Monsters' si rivela sicuramente un buon album con le sue pecche ben evidenza, da colmare assolutamente (il drumming in testa!!), ma anche con punti di forza che lo rendono un album di piacevole ascolto ed i nostri una realtà da seguire con interesse. (Francesco Scarci)

(More Hate Productions - 2016)
Voto: 70

sabato 24 dicembre 2016

Eternal Samhain - Storyteller Of The Sunset And The Dawn

#PER CHI AMA: Symph Black/Death
La RNC Music rilascia finalmente il tanto atteso primo full length dei veronesi Eternal Samhain, , 'Storyteller Of The Sunset and the Dawn', che ci consegna una band in eccellente stato di forma, sebbene siano passati ben cinque anni dal mini cd di debutto, 'Obscuritatis Principium, Proxima Est Omnibus Damnatio'. Freschi peraltro di un nuovo contratto con la label russa Φono Records (la Metal Blade d'oltrecortina), il quintetto veneto, che abbiamo già avuto modo di ospitare sulle nostre pagine ed un paio di volte in radio, torna quindi con nove tracce nuove di zecca. Dopo il declamatorio intro in latino, si scatena l'inferno grazie al black sinfonico di "Cathedral", che chiama in causa interessanti paragoni per la band: se da un lato l'apporto delle orchestrazioni, erette da intelligenti keys (ad opera del turnista Hati), evocano inequivocabili accostamenti con Dimmu Borgir e Old Man's Child, l'architettura spesso elaborata dei brani, tra cambi di tempo e stop'n go, chiama in causa invece il devastante e sinfonico approccio dei nostrani Fleshgod Apocalypse. Insomma, mica male no? Il fatto poi che questa traccia, cosi come le successive, non si dilunghi in inutili trame ritmiche, agevola non poco, una più semplice assimilazione del sound. Tra i vari pezzi, vorrei citare "Ode al Vento", song da cui è stato estratto anche un video e che vede lo screaming comprensibilissimo di Taliesin, misurarsi con l'italiano a livello delle liriche, mentre la canzone, oltre ad offrire un ottimo break centrale, propone un'epica cavalcata sorretta da sontuose tastiere, accompagnate da una sempre elegante sezione ritmica affidata a zanzarose chitarre in tremolo picking. L'esperimento ben riuscito dell'utilizzo dell'italiano tornerà anche in "Cenere", lunga traccia sinfonica mid-tempo, che nella sua ottima progressione, propone uno spettacolare parlato, sulle orme dei primi Maldoror e Aborym, in un brano di sanguinolento black vampiresco che mi ha evocato anche i disciolti Seed of Hate e i teutonici Ancient Ceremony. Si prosegue con la magniloquenza della quarta "Vox Populi, Vox Dei", song che accentua ancor di più la componente orchestrale del quintetto italico, ma che allo stesso tempo, vede la proposta dei nostri, più devota alla fiamma nera. Un breve intermezzo ambient e si sfocia nel riffing brutale di "Trinux Samonia", che avvicina maggiormente gli Eternal Samhain ai più famosi colleghi umbri dei Fleshgod Apocalypse. Anche la voce in questo caso, abbina al cantato in scream, soluzioni più vicine al growling. La musica prosegue intanto sulla stessa matrice, abbinando melodiche chitarre black (qui anche con uno splendido solo) con teatrali synth, che divengono più preponderanti (forse troppo) con "King of Yourself", in cui, il flusso sinfonico della band viene investito, nella seconda parte del brano, da un'interpretazione al limite del death metal. Detto della traccia più bella del disco, "Cenere", l'album si chiude con la tiratissima title track che sancisce un come back discografico in grande stile (anche per ciò che concerne il formato in digipack con un artwork colmo di simbolismi); per questi ragazzi, che ora possono contare anche sull'importante appoggio di una grande etichetta, si può anche sognare, mantenendo però sempre i piedi ben saldi al terreno, perché per emergere di lavoro ne serve ancora parecchio. (Francesco Scarci)

(RNC Music - 2016)
Voto: 75

mercoledì 21 dicembre 2016

Celtefog - Sounds of the Olden Days

#PER CHI AMA: Epic Black, Windir, Rotting Christ
Le one man band, ne sentivo quasi la mancanza. Oggi ci trasferiamo in Grecia, ad Alexandria per l'esattezza, per ascoltare quello che è il secondo album dei Celtefog, creatura guidata dal misterioso Archon. 'Sounds Of The Olden Days' è un disco di black metal che scomoda un facile paragone col passato, immediatamente dopo lo schiudersi delle melodie di chitarra dell'opener "My Last Sight to the Known Universe". Il nome? Facile, i compianti Windir. Si, quell'epicità intrisa nelle linee della sei corde del mastermind ellenico, evocano inevitabilmente la proposta della band norvegese, a cui aggiungerei, probabilmente per il forte gusto folklorico (e l'utilizzo di strumenti etnici), anche i Negura Bunget. Insomma, la proposta del musicista greco non sembra affatto male, se considerate che nelle parti più aggressive, vedo emergere la maestosità dell'Hellenic sound con in testa i Rotting Christ. Ribadisco, da tenere d'occhio. La seconda, "Tombs of Memories", è un feroce assalto black che trova nelle tastiere un valido alleato per stemperarne la brutalità e avvolgere la musica con una sottile coltre di nebbia in grado di regalare comunque ispirate atmosfere. Il canto di alcuni uccellini accompagnato dal suono mediterraneo di strumenti tipici, apre "Call of the Ancestors" e l'impressione è quella di essere proiettati in un passato assai lontano, prima che irrompa il rigore ritmico del black, qualche voce in background pulita e qualche arzigogolato giro di chitarra, e ancora nella seconda parte, straripanti melodie e momenti acustici che chiamano inevitabilmente in causa anche i Bathory più epici. Un'intro ambientale apre il brano seguente, "Three Nights in the Mediterranean Sea", che sebbene offra un titolo dal forte sapore mediterraneo, rappresenta il punto di contatto più vicino con i Windir. Nonostante le chitarre siano cosi secche, lo screaming assai arcigno o la drum machine tenda a "robotizzare" il sound, la traccia si conferma forse come la più calda del lotto, anche di più della successiva e splendida strumentale "Into the Mist", ove fanno la loro comparsa anche soavi flauti dolci. A chiudere questa piacevole sorpresa, gli oltre 10 minuti di "Nykta" l'ultimo solenne brano di black metal pagano che tributa alle divinità dell'Olimpo ma anche a quelle del Valhalla, con un suono decisamente spettrale che rappresenta la summa di quanto ascoltato fin qui in questo 'Sounds of the Olden Days', album che merita definitivamente tutta la vostra attenzione e fiducia. (Francesco Scarci)

martedì 20 dicembre 2016

Our Blond Covers - Die & Retry

#PER CHI AMA: Alternative Rock, Incubus, Radiohead
Gli Our Blond Covers sono una band originaria di Parigi, formatasi nel 2013 da tre amici d'infanzia, Maxime, Vincent e Floriant, a cui un anno dopo, si è aggiunto anche Alexandre. L'obiettivo dei nostri era proporre un qualcosa che combinasse il sound di Incubus e Queens of the Stone Age. 'Die & Retry' ne rappresenta il risultato conclusivo. L’impressione generale dell’album è positiva, non saprei dire se per un vero e proprio talento insito alla band o se è determinato dal fatto che ogni singola traccia mi ha ricordato un che di altre band ben più famose: penso ai Pearl Jam, agli Hoobastanck o ai Foo Fighters. Per tale motivo definirei i nostri un po’ ruffiani nel loro approccio, considerati quei riff presi in prestito dai loro predecessori. Chiaro è che per superare gruppi di tale portata, gli Our Blond Covers debbano calcare molti palchi e sperimentare di più, soprattutto in termini di estensione vocale del vocalist (frecciatina diretta al frontman del gruppo, spingi di più! oppure fate cantare colui che nella prima traccia accompagna come seconda voce, decisamente più potente). Sette le tracce incluse in 'Die & Retry', apparentemente non molto legate tra loro, con l’unico comun denominatore affidato ad una scelta dei titoli di carattere introspettivo. Il primo brano “Die & Retry” è un ottima antipasto, ma è come mangiare il gusto più buono del gelato da subito e sapere che quello che si troverà al di sotto non darà la medesima soddisfazione. Ci si ricrede però con “Left Away Without a Trace” e “Deaf Tones”, rispettivamente terza e quarta traccia, più che un buon gusto è quel bel momento in cui arrivi alla granella e alle scaglie di cioccolato nascoste sotto, che danno sostanza sia al palato sia alla musica in questo caso. La prima comunque è una semi-ballad di alternative rock, mentre la seconda risente di qualche influenza alla Radiohead. Il resto dei pezzi non mi hanno entusiasmato particolarmente, ma coscientemente non sono disprezzabili; il suono è chiaro, aggressivo, a tratti atmosferico, ho solo qualche dubbio sulla voce del frontman che ha uno strano potere soporifero. In conclusione, 'Die & Retry' non è un album affatto male, che sicuramente non tradirà le attese di chi ama sonorità contaminate rock. (Alpha Rotter - Francesco Scarci)

(Dooweet Records - 2016)
Voto: 65

https://ourblondcovers.bandcamp.com/

Rosario - And The Storm Surges

#PER CHI AMA: Sludge/Stoner
Siano lodati i Rosario che, dopo la bella prova di 'Vyscera', recensito sulle nostre pagine quasi due anni fa, tornano con un nuovo lavoro, 'And The Storm Surges'. La band padovana nel frattempo di strada ne ha fatto parecchia e, cosciente del proprio potenziale, ha dato una grossa spinta ai live in patria e oltre confine, curando parecchio il sound e la composizione dei brani. Questa volta quindi puntano sull'all-in con un risultato finale davvero ottimo, dopo aver compreso che la via del successo è quella di far tesoro delle influenze e dell'esperienza per ricercare un proprio stile. Si può dire che i nostri si siano scrollati di dosso il cliché basato sui volumi e il muro sonoro, lavorando su quel groove che rapisce l'ascoltatore e te lo fa tenere stretto come un seguace pronto a seguirti ovunque tu vada. Già forti di una sezione strumentale solida e creativa, la parte vocale li aiuta a spiccare tra le tante band che affollano l'ambiente stoner/doom/sludge e la cordata di etichette a supporto, spingerà al massimo questo nuovo album. La versione che abbiamo ricevuto è quella digisleeve, ma lo troverete anche su un godurioso doppio LP da 180 gr. con un fitto merchandising fatto di t-shirt, cappelli e quant'altro. L'artwork è spettacolare, curato dagli stessi Rosario che hanno optato per il classico bianco e nero dal tema lugubre e vintage. Ma passiamo ai brani, cuore pulsante di questo full length dove tutto inizia con "To Peak and Pine", una bordata stoner/sludge dall'impronta heavy metal/thrash che i nostri padovani si portano dietro come bagaglio musicale di chi suona da qualche anno. La sezione strumentale, nonostante sia trascinata dai possenti riff delle chitarre, esce in maniera piena e maestosa, ricordando i Mastodon per i suoni azzeccati e gli arrangiamenti. Subito si viene coinvolti dal cantato, una voce ruvida e potente che si destreggia con classe e riesce a rincarare la dose nei passaggi cruciali del brano. Un brano carico, trascinante e messo in apertura al disco per mettere subito in chiaro che i Rosario sono qui per picchiare duro puntando su brani ben fatti, come il successivo "Vessel of the Withering". L'introduzione è perfetta nella sua semplicità, gli arpeggi di chitarra al limite del ambient/post rock sono il cancello che ci permette di accedere al mare di oblio che i nostri faranno attraversare con il loro vascello fantasma. Le note dissonanti instillano ansia e desiderio di fuga che portano al ritornello, ma poi si innesca un cambio di ritmo dove batteria e basso la fanno da padrone, martellando a più non posso e giocando su stop & go che danno dinamicità al brano che supera abbondantemente i sei minuti. Le accelerazioni ricordano la scuola thrash death di Pantera e Sepultura, ove velocità e dinamica ci conducono fino alla fine provati ma con il sorriso sulle labbra. Arriva il turno di "Radiance" e la vostra sanità mentale verrà messa alla prova definitivamente con un'introduzione dal sapore quasi grunge e southern rock, ove le chitarre duettano con il cantato trasognante e onirico che ci porta nella fredda notte del deserto sotto un cielo stellato. Un momento intimo e spirituale che ad occhi chiusi innesca la risonanza delle vostre molecole che seguiranno il crescendo e la successiva esplosione distorta. Gli arrangiamenti permettono di apprezzare appieno l'evoluzione del brano che pulsa, si allunga e poi ritorna su suoi passi, coinvolgendo l'ascoltatore che rende grazie anche per suoni sempre all'altezza. Ma i Rosario sono anche dei vecchi thrasher che badano al sodo e alla botta, come in "Monolith", dove corrono veloci e senza freni, ma sempre con un taglio personale. Particolare e ben riuscita anche "Dawn of Men", un ritorno alle origini tra chitarre acustiche e vocalizzi, con la band che si spoglia dei suoni pesanti ed elettrici per alleggerirsi e tornare, anche se per poco, ad una musica primitiva che va ascoltata e non capita. L'album chiude con "And Then... Jupiter", altro pezzo complesso dalle sonorità a cavallo tra post metal e stoner/doom, a conferma che i Rosario hanno lavorato tanto e duramente per centrarsi interiormente e trovare la propria identità nel vasto panorama musicale di questo momento storico. Non ho dubbi, un album bello ed appagante, meritevole di un ascolto attento per essere apprezzato in toto, cosi come pure i live della band che regalano trip lisergici ad alto contenuto di watt. (Michele Montanari)

(Brigante Rec/Dio)) Drone/Electric Valley/In the Bottle Records/Taxi Driver
Red Sound Records - 2016)
Voto: 85

https://rosariomusic.bandcamp.com/

lunedì 19 dicembre 2016

Waldgeflüster - Ruinen

#FOR FANS OF: Post Black, Ulver, Agalloch
A Bavarian black metal band that features some Ulver and Agalloch style guitar harmonies with high doses of furious blast beats, Waldgeflüster alternates between raw, aggressive old-school black metal style and melancholic, heartfelt post-black modernism in 'Ruinen'. Post-black is an interesting arrangement on its own. Bands who play this style honor the under-produced, low-fi atmosphere of the progenitors of the second wave of black metal while they seek to display a maturation of the style and, in my opinion, sometimes try too hard to say they've outgrown the aggression of their youth. Giving the post title to any style seems to say that whatever a sub-genre or movement set out to do was already accomplished and now the new breed is playing with what was worthy of surviving their scrutiny. With black metal being a very anti-establishment style that breaks down many metal walls and constructs, the post-black style seeks to sift through the debris and pick up the few solid pieces that survived the apocalyptic assault of the legions that came before them. Major originators in this matured post-black realm like Ulver, Agalloch, and Enslaved, broadened the horizons of the initial second wave and experimented with just how far they could take the initial approach. However, this new territory comes with the caveat of too many post-black hipster bands jumping on the bandwagon of a style that was initially created to make you get into it rather than be too easily accessible to exactly that sort of fair weather audience. Luckily with Waldgeflüster the hipster bits are toned down enough while a focus on the common forest reverence and atmosphere are the main compliments of their style posing the question of where to take things after the smoke has cleared. Unfortunately, it's been done so many times that to truly stand out becomes far more difficult in such a small but saturated sphere.

Despite how cleanly produced the vocals, bass, and drums are, the guitars have a very raw sound to them. This treble is a staple of the style but it's too high in Waldgeflüster's mix to compliment the bass end and it becomes grating too easily despite how beautifully employed the instruments are. Something less airy and thicker in the lower registers would improve this quite a bit. It's not a major flaw, but enough to make the music a bit less pleasing on the ear than it could be and it makes the drums less pronounced that I'd prefer. The main single from this album, “Weltenwanderer”, is a thesis of this band's focuses. From an airy opening with vocals raging against the guitars' melancholy, plateauing with destructive blasts, and the entire band falling into an introspective but determined wandering segment, this song integrates the complex combination of thoughts and emotions that black metal has pondered for decades. “Trummerfestung” already passes as great piece of music after the first three and a half minutes and then goes on to become an expository piece elaborating on the majesty witnessed in the lyrics. Some electrifying blast beats, fantastic tempo changes, and humbling harmonies make this an epic and memorable song. The blast near the main transition, around 1:20 is unsettling in how fast it comes into the mix, however it is unseated by a relentless tremolo harmony with a backdrop of a more melodic and expected speed in the next blast. These first two songs are the biggest standouts of 'Ruinen' while “Und Immer Wieder Schnee” begins a turn towards a deepening depression and the title track comes in as a simpler cleanly sung depressive piece, combating the structures created by the former songs. With more ripping drumming falling upon a strong guitar change-up, the energy of “Grastufen Novembertage” has a reverential, epic, and foresty sound combined with a return to the rage from the opening of the album while “Aschephonix” claws its way out of the doldrums its guitar keeps pulling it into. “Susitaival” is an acoustic closer to the album. Very much a more folksy approach to Agalloch style, this flowing piece seems to get its name from a hiking trail in Finland that translates to the “Wolf's Path” and earns this album some serious points for how gorgeous it sounds.

Waldgeflüster has a great grasp on where they want to go throughout this album and guide you through a dense forest of sounds and emotions where every copse of trees has a memory attached to it. The blizzards of blasts and icy treble make this band's domain a harsh environment at times but the shelter of this thick and grizzly territory hides the spirit of a style that is being examined with the reverence of retrospect. In all, Waldgeflüster's 'Ruinen' is a complex sort of beast that approaches black metal with a more matured outlook but cannot help but ponder what pieces should be picked up after the great structures have been razed. (Five_Nails)

venerdì 16 dicembre 2016

Dopemachine - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal/Drone/Math Rock
Un'odissea... Quasi sei mesi ci sono voluti infatti a quest'album per giungere tra le mie mani; credo abbia percorso migliaia e migliaia di km in giro per l'Europa, un po' come fece Ulisse per ritornare alla sua amata Itaca, ma tant'è che ne è valsa la pena. Sto parlando dei russi Dopemachine, originari di San Pietroburgo e quando penso a quella magnifica città, confido sempre di ritrovare nelle band originarie di quella zona, la genialità degli ahimè scomparsi Follow the White Rabbit. Non siamo certi a livelli di follia e menti superiori di quell'incredibile realtà sparita ahimè troppo presto, ma i Dopemachine la sanno lunga e nella loro proposta, coniugano con sapienza e una certa raffinatezza, sonorità densissime che si rifanno a post metal, sludge, drone, math, post-rock, doom, noise e psych in un crogiolo di stili che si condensano amabilmente nei due pezzi semi-strumentali a loro disposizione (per oltre 40 minuti di musica). "Dope" apre (chiuderà ovviamente "Machine") con sonorità circolari che vanno via via ingrossandosi a livello di fragore delle chitarre, le cui linee, perennemente instabili, acquisiscono strane forme, liquide, massicce e compatte, e infine gassose, materializzandosi quindi nei diversi stati della materia, con delle urla in background che rendono il tutto ancora più precario ed allucinato, riflettendosi in un'alternanza stilistica pregna di significati. Nelle sue circonvoluzioni, il sound dei quattro musici russi assume sembianze eteree, sognanti o addirittura paranoiche, asfissianti ed ossessive, che vengono assorbite anche dalla seconda traccia. "Machine" si infila fin da subito in reconditi luoghi misteriosi e da li si districa in contorte e convulse sonorità droniche che per oltre sei minuti ci mantengono ipnotizzati. Poi è nuovamente quella mutevolezza a prendere il sopravvento ed ecco la psichedelia ad emergere dal suono desolato e malinconico delle chitarre su cui si stagliano, per una manciata di minuti, anche dei flebili ed incomprensibili vocalizzi in background, in un sound in costante ma effimero equilibrio con se stesso, che trova modo di accelerare pericolosamente in uno schizoide finale. Due tracce avvincenti, sicuramente non facili da digerire, ma di dotate di grande fascino. (Francesco Scarci)

giovedì 15 dicembre 2016

Foxton Kings – Crooked Tales

#PER CHI AMA: Alternative Rock
A vederli nella foto presente nell’artwork (un digipack sobrio ed elegante), questi cinque australiani di Perth, li si assocerebbe ad un combo di hardcore più o meno emotivo. Questione di look, di pettinature, di sensazioni generali. E invece. Già, perché questo 'Crooked Tales' mette in fila otto tracce per poco meno di mezz’ora (album? Ep? Poco importa) di un rock (chiamiamolo alternative, per quel che vale) tanto ispirato ai classici southern e blues, quanto moderno ed assolutamente attuale nelle sonorità e nell’esecuzione. Perché se è vero che i riff e la costruzione dei brani sono quelli tipici del blues-rock, è anche vero che i Foxton Kings non fanno sconti in termini di compattezza sonora e nessuna concessione a facili cliché del genere, suonando con un approccio che si può definire quasi post-hardcore. Chitarre sature, grosse, potenti e affilate che non si perdono mai in ricami leziosi, una sezione ritmica chirurgica e tellurica. La voce e il modo di cantare, quelli si, sono piuttosto classici, ma ben si sposano con il resto, creando un mix davvero ben riuscito. I brani sono discretamente vari e di buona fattura (su tutti segnalo “Thief” e “Bottom of the Bottle”, oltre a “Got a Gun”, con un bel numero giocato solo con voce e chitarra acustica) e riescono a farsi largo negli ascolti seppur accompagnati da un’inevitabile senso di deja-vu, forti di un piglio un po’ ruffiano (la tripletta iniziale “Hell Cat”, “22 Minutes” e “Autumn”) che rende tutto il lavoro assai godibile anche per un pubblico ampio. Forse, alla fine, l’insieme risulta un po' troppo pulito ed educato e rimane la sensazione che i Foxton Kings possano fare decisamente di più con poco, magari spingendo poco di più sui contrasti. Comunque interessanti nel loro approccio alla materia. Da tenere d’occhio. (Mauro Catena)

mercoledì 14 dicembre 2016

Soothsayer - At This Great Depth

#FOR FANS OF: Black/Doom
Leaping lizards! I'm baffled! How can a band release a thirty six minute long EP comprised of three tracks, then follow up a year later with a "full-length" debut limited to just two (yes, 2!) tracks which add up less than a half-hour?! Well, these are precisely the mysterious steps taken by an enigmatic outfit from Cork, Ireland. Say hello to Soothsayer as it plods along a bizarre and forlorn voyage on the far-out fringes of doom metal, namely atmospheric doom for lack of a better term. Released yesterday under Transcending Obscurity Records, 'At This Great Depth' is comprised of a mammoth, sixteen minute-long track, "Umpire" (which bears no relation to Major League Baseball) and a half as mammoth track, "Of Locusts And Moths", clocking in at eight minutes. Needless to say, there's only so much I can recount in regards to this unquestionably odd full-length debut, as much by its brief duration as musical queerness. Then again, nothing's too bizarre or avant-garde for those who take the much less travelled road which is this little known doom sub genre. While it's definitely not my cup of tea - I prefer upbeat, hard-driving doom - I see its appeal as it sets the tone for a melancholic yet cosy mood/state-of mind while also making for interesting background music to introspective thought processes. However short, this release is aptly titled as it does indeed make one feel like they're submerged underwater. Imbued with dark and mournful undertones, "At This Great Depth" unfolds at a snail's pace. The band mates pour heart and soul in their respective vocations, from a tribal driven Will Fahley on drums, Steve Quinn with his glum, spaced out bass lines, or guitarists Marc O'Grady and Con Doyle who manage to coax an intense gallimaufry of discordant and unorthodox sounds out of their instruments. Considering the genre at hand, it's unsurprising druid front man Liam Hughes pops up late in the game, lazily integrating himself with the sporadic musical experimentation at hand. "Umpire" really does make one feel like they're slowly sinking towards the Ocean floor, away from the bright, dry comfort zone of every day life. (Hence my irrepressible impulse to re-surface thirteens minutes in, which is a heck of a long time to hold your breath!). Nevertheless, I'm impressed no keyboards or artificial sounds were employed in the making of this production. The entire affair is rendered with standard heavy metal equipment. It's rather the apparent abuse Hughes subjects his vocal chords to which is unforgivable (yet thankfully forgettable). His spastic nothings can be described as an unsettling cross between a hiss and a screech. Any kind of lyrical clarity is nonexistent, while the bass playing and drumming doesn't quite amount to a comprehensive and steady rhythm section. In fact, they sound like nothing more than thunderously irregular accompaniment. In general, the spotlight (er, dark light?) is placed on Hughes and the guitarists. To sum this up and avoid a tedious, thousand word play-by-play, I'll simply place At This Great Depth in the realm of well established atmospheric doom who'll probably enjoy this recording if only for its esoteric nature. To Soothsayer's credit, the desired atmosphere - one of a cold numbing grace - has been adequately achieved. Unfortunately, it also lacks any kind of memorable passages or singular musical thrills. Therefore, I strongly urge "regular" doom and/or heavy metal fans to tread lightly when giving this release a cursory listen. Adventurous as it was, one glacial plunge was enough for me. Proceed with caution. (Eric Moreau)

(Transcending Obscurity - 2016)
Score: 45

https://soothsayerdoom.bandcamp.com/

martedì 13 dicembre 2016

You Win Again Gravity - Let Go Lightly/What's Left of the Distance


#PER CHI AMA: Alternative/Post-Hardcore, Adventurer, Oceansize, Fightstar
Windsor, Regno Unito. No, non vi voglio parlare della casata reale britannica, ma semplicemente della cittadina in cui sorge il castello omonimo, e località da cui proviene anche la band di oggi, i You Win Again Gravity. Nelle mie mani due EP, 'Let Go Lightly' del novembre 2014 e 'What's Left of the Distance', uscito a fine ottobre di questo 2016 che volge al termine. A rigor di logica dovrei iniziare a parlarvi del primo lavoro per arrivare ad elencare le progressione musicali mostrate nel secondo dai nostri. Invece che attenermi a questo rigido canovaccio, ho deciso che partirò dal nuovo dischetto perché è il primo che in realtà ho ascoltato. Potrei dirvi intanto che stiamo parlando di un sound dall'approccio tipicamente djent (Tesseract è il primo nome che mi viene in mente e che rimarrà in realtà ancorato solo alla traccia posta in apertura) che si miscela con la rabbia del post-hardcore, l'inquietudine ritmica del math rock e certi fraseggi progressive. Tutto chiaro no? Questa era solamente la opening track, "A Lack of Clairty", dove facciamo peraltro la conoscenza della duplice anima del vocalist, una versione pulita ed una screamo, mentre le chitarre si divertono in saliscendi armonici che richiamano gli Oceansize di 'Frames'. Con "Seamless", le cose sembrano ancor più orientate verso un rock venato di progressive, mantenendo comunque intatta una certa rabbia primordiale, probabile retaggio dei primi episodi più feroci dei nostri. La schizofrenia math torna ad esibirsi a livello ritmico nella terza "Swept to the Waves and Lost", song che nel corso dei suoi cinque minuti, vede mutare il proprio spirito un incredibile numero di volte, con una linearità ritmica facilmente accostabile a quella del tracciato elettrocardiografico di una persona tachicardica. Questo per dirvi quanto l'imprevedibilità delle linee chitarristiche dei You Win Again Gravity rendano il lavoro vario, ma anche di non cosi facile assimilazione. Veniamo ora al lavoro precedente che rappresenta comunque già il terzo atto della band, dopo gli EP datati 2012 e inizio 2014. Altri tre brani inclusi, "Composer", "Snakes on Paper" e "Skyline", che rappresentano verosimilmente un ponte tra il passato più burrascoso della band e un futuro che potrebbe lasciar presagire qualche variazione stilistica. Apparentemente, sembra che nella prima traccia ci sia un maggior uso dello screamo hardcore, ma riascoltando il brano credo che i due modi di cantare si bilancino equamente. La musica si conferma comunque arrembante, in costante evoluzione, un dilagare di cambi di tempo, rallentamenti, pause e accelerate improvvise, con l'approccio prog magari più relegato in secondo piano. Francamente però, dopo svariati ascolti, mi ritrovo a confutare anche le mie stesse parole, dicendo che probabilmente non sono cosi palesi le differenze tra i due EP. Potrei infatti affermare che le sei tracce ascoltate quest'oggi, potrebbero coesistere tranquillamente su di uno stesso disco. Solo la terza "Skyline" potrebbe in apparenza sembrare più aggressiva, ma la furia iniziale è stemperata da ritmiche sicuramente nervose (sempre collocabili in territori math), ma comunque ben calibrate da una performance vocale davvero convincente. I You Win Again Gravity alla fine si confermano una bella scoperta per il sottoscritto per poter allargare la mia visione del mondo più alternativo. (Francesco Scarci)

domenica 11 dicembre 2016

Wedingoth - Alone in the Crowd

#PER CHI AMA: Prog Rock/Gothic
Ciò che salta subito all’occhio quando si viene a contatto con questo disco, 'Alone in the Crowd', è sicuramente il suggestivo artwork, con i suoi colori sgargianti e i bei contrasti tonali. All’interno della cornice (su cui sono incise peraltro due date che non riesco ad interpretare, 1945-2012) viene rappresentato uno scorcio su di una scogliera da cui emerge un faro, che si eleva isolato in lontananza. La pittoresca veduta sembra scaturire dalla violenta tempesta che inghiotte una metà del dipinto con la sua oscurità. Pare sia proprio questa tenebra ad essere raffigurata dai francesi Wedingoth nella prima parte del loro terzo lavoro, i cui brani presentano delle liriche a tematica appunto “decadente”, in stile gothic, con uno sprazzo luminoso sul finale, in cui si assiste ad una sorta di salvazione dalla rovina iniziale. L’album, cosi come tutto il progetto Wedingoth, è opera del mastermind Steve Segarra, ufficialmente chitarrista, ma che in realtà si occupa anche della composizione di tutti i pezzi, suonando anche tutte le parti di tastiere (non poche tra l’altro) presenti nel cd. È innegabile dunque che di lavoro dietro ce ne stia parecchio, e che idee e impegno di certo non manchino al musicista transalpino, questo va riconosciuto. Il risultato che si avverte però in questo full-length lascia un po' perplessi. Attorno alla emotiva femminilità delle vocals, si articola la struttura sonora dell’ensemble di Lione, che suona un prog molto melodico e ricamato, evitando sonorità più potenti e prediligendo una certa pulizia e leggerezza. Questa trova la sua massima realizzazione nel brano "Sing The Pain", quasi completamente acustico, molto pop-eggiante, insomma, non troppo piacevole per come messa in pratica. Si avverte qualche leggero sprazzo progressive nelle tempistiche spesso articolate dei brani e qualche sonorità che in certi momenti richiama i gods Dream Theater (senza però poter osare nessun tipo di paragone), per esempio nella prima parte dell’ultima traccia “Alone in the Crowd pt.2”. Per il resto, il disco non è riuscito ad attirare particolarmente la mia attenzione, a causa di un eccessivo "piattume" di fondo: mancano infatti quegli spunti che lo renderebbero godibile ed interessante. Da apprezzare comunque il gran lavoro di Segarra, per cui sono sicuro che, trovando la giusta formula per i suoi Wedingoth, potrà realizzare presto qualcosa degno di nota. Mezzo punto in più per la grafica! (Emanuele Norum Marchesoni)

(Dooweet Records - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/Wedingoth/

Fiave – Dall’Alto di una Roccia

#PER CHI AMA: Black, primi Ulver, Borknagar, Enslaved
Mi affascinano le band che utilizzano l'italiano nei titoli, nelle liriche o che si rifanno a leggende locali, mi permettono di sentirmi più vicino a loro e di capirne maggiormente l'essenza. I trentini Fiave sono una di queste realtà, un gruppo che vede la sua fondazione addirittura nel lontano 1998 e da allora, un demo nel 2001 e questo primo lavoro, intitolato 'Dall’Alto di una Roccia', nel 2016. Si tratta di un cd di sei pezzi che mi proietta indietro nel tempo, proprio sul finire dei mitici anni '90 e mi colloca fisicamente in mezzo ai boschi norvegesi. Si, perché questa è l'essenza che riesco a cogliere dalle note di queste sei tracce. Il primo accostamento che ho fatto ascoltando l'opera prima dei Fiave è quello con gli Ulver primordiali, vuoi perché l'intro è un arpeggio acustico di chitarra che accompagna quelli che credo essere passi di una persona sulla neve, vuoi perché nel '96 usciva quel capolavoro intitolato 'Kveldssanger', album che trova molti punti di contatto con la opening track, cosi vicina al folk ancestrale di quel disco. Un secondo dopo, ecco "E il Custode Accoglieva con Sé Cenere e Morti", un pezzo che evoca invece il furioso 'Nattens Madrigal', per il rigore delle sue linee di chitarra, per la bestialità dei suoi screaming infernali, cosi come per l'elementarità di una batteria martellante. Poi, quei cori di epica passione nella sua seconda metà (che ritorneranno anche in altri brani), mi smuovono il leggendario 'Bergtatt', prima fatica dei norvegesi capitanati da Garm, ma anche 'Vinterskugge' degli Isengard o ancora l'album omonimo dei Borknagar e 'Svartalvheim' degli Ancient. Comunque sia è l'aria della Norvegia quella che respiro in questi solchi dei Fiave. Sono passati vent'anni da quel tempo in cui mi dilettavo con gli ascolti delle famigerate band dell'Inner Circle e ora i Fiave tornano a far bruciare la fiamma del verbo nero, e speriamo che si limiti solo questo a bruciare. La quarta "E con Sé Tutti i Lamenti, Lasciando il Loro Significato al Tempo" prosegue nel suo percorso alla scoperta delle origini del black, con ritmiche serrate, cavalcate mai sbiadite nel tempo, urla feroci che narrano di leggende antiche. Nel caso di 'Dall’Alto di una Roccia', la storia ruota infatti intorno ad Irone, piccolo borgo medievale che al tempo della peste del 1630, vide uno dopo l'altro tutti i suoi abitanti morire a causa di una pestilenza a parte un ultimo superstite che, probabilmente in preda alla follia, si rifugiò in cima ad una roccia, scrisse su un pezzo di carta il proprio testamento, lo avvolse attorno a un sasso e lo gettò nel vuoto; e dopo essersi fatto il segno della Croce, si buttò nel vuoto pure lui. Angosciante di sicuro, ma intrigante non poco. E i Fiave proseguono il loro racconto con un tumpa tumpa primordiale che apre "Delle Parole Restava il Silenzio", un pezzo che per certi versi mi ha ricordato a livello ritmico 'Vikingligr Veldi' degli Enslaved, mentre a livello vocale, nelle parti pulite, gli Arcturus. Il brano, assai ritmato, continua proponendo i classici riff zanzarosi del black made in Norway, conducendoci per mano fino all'ultimo atto, "E le Memorie si Liberarono nell'Ultimo Canto di Preghiera", traccia strumentale che rappresenta il momento in cui l'ultimo sopravvissuto si lancia dalla rupe nel vuoto e il cui finale acustico dipinge tutta la drammaticità del momento. 'Dall’Alto di una Roccia' alla fine è un discreto album di black metal norvegese, che non aggiunge nulla a quanto già detto nel corso degli ultimi venticinque anni, ma che comunque si lascia apprezzare per la sua genuinità di fondo, nonostante la sua elementarità e una produzione non proprio cristallina. (Francesco Scarci)