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sabato 29 ottobre 2016

This Burning Day - Elemental

#PER CHI AMA: Metalcore/Djent, Tesseract
La scena rock/metal bulgara, questa sconosciuta: non riesco nemmeno a citare glorie passate e presenti del fiero paese dell'est Europa (chiedo venia per questo), quindi nella mia valutazione, mi sono basato più in generale sulla scena mondiale che ha influenzato la band di Sofia. I This Burning Day (TBD) nascono nell'inverno del 2011 nella capitale bulgara e hanno alle spalle la produzione di diverse tracce, ma solo dopo svariati live e festival, decidono di ritirarsi in studio per date alla luce il loro primo EP, 'Elemental'. I tempi lunghi di gestazione sono stati probabilmente investiti per affinare i suoni, gli arrangiamenti e riallineare gli obiettivi quando qualche elemento della band ha deciso di lasciare il progetto. I risultati sono sicuramente ottimi, a livello di sound i TBD raggiungono livelli professionali, non avendo nulla da invidiare a grandi nomi come Bring Me the Horizon, Tesseract e tutta la scena metalcore e djent da cui traggono ispirazione. Il quintetto è infatti cazzutissimo, con chitarre veloci e aggressive accompagnate da un basso che ricalca le linee melodiche, ma che insieme alla furente sezione ritmica, regalano brani incisivi e variegati. Il vocalist supera perfettamente la prova, districandosi tra un cantato melodico, growl e scream senza battere ciglio, aiutato da seconde voci che, messe nei punti giusti, aumentano l'impatto sonoro delle tracce. "A Former Life" è il concentrato di quanto appena detto, con i suoi quasi cinque minuti ben sviluppati con un'ottima contrapposizione tra sezioni ad alto contenuto di tensione ed oscurità che si risolvono in allunghi ariosi e distesi con ottima sinergia delle parti. Gli spunti elettronici aiutano nel complesso, anche se non sono determinanti, necessiterebbero di più spazio per esprimersi al meglio. Questo succede in "If You Feel the Same", in particolare verso la fine quando una timida tastiera tesse un semplice rintocco di note che, ricche di riverbero, evocano un suono astrale ed etereo. Gli assoli e i riff di chitarra sono come ci si aspetta, ma non diamo per scontato cotanta tecnica e varietà, anche se il livello generale degli ultimi anni è in netta crescita. Registrazione, mix e mastering sono da manuale, sarei curioso di ascoltare un live e vedere se tutto ciò è almeno in parte sostenibile fuori dall'ambiente ovattato e sicuro dello studio di registrazione. Dopo aver ascoltato i video della band sul tubo, sembra essere proprio cosi, e allora il quintetto può dirsi maturo anche in questa parte. Ben fatto il digipack e leggendo anche i testi, si nota la cura nel ricreare atmosfere oscure dove, tra ambientazioni urbane e opprimenti, lo spirito cerca una via di fuga e un modo per riscattare un'esistenza apparentemente circondata da sofferenza. Una band che dopo aver fatto i compiti per casa, ovvero aver studiato per bene la scena metalcore/djent attuale, ora è pronta a contribuire con la propria creatività. Speriamo sia così, sarebbe una gran bella sorpresa per il full length che arriverà, prima o poi. (Michele Montanari)

(Self - 2016)
Voto: 75

Martin Nonstatic – Nebulae Live at the Planetarium

#PER CHI AMA: Ambient/Electro/IDM
In un contesto particolare quale può essere il planetario Zeus A Bochum in Germania, la Ultimae Records ha proposto ai suoi artisti di suonare live, un'occasione ghiotta di vedere questi illuminati dal vivo, in una situazione almeno in parte non consona al mondo musicale. Nel febbraio di quest'anno, Martin Nonstatic, supportato dalle proiezioni di Tobias Wiethoff, ha portato la sua musica visionaria in sintonia con l'ambiente circostante, creando un legame psicofisico con l'illusione spettacolare che può creare un planetario, geniale invenzione, che tra le tante proprietà, è in grado di riprodurre i principali movimenti dei corpi celesti e gli spostamenti apparenti dei pianeti e della Luna sulla sfera celeste. Così tra una costellazione e l'altra, nasce 'Nebulae', con il suo artwork di copertina esemplare, curatissimo e raffinatissimo, come spesso accade con l'etichetta di Lyon. La registrazione live della performance è di alta qualità e di sicuro effetto estatico. Martin centra perfettamente la sintonia con il viaggio interstellare, creando rumori e suoni ipertecnologici e futuristi, inflazionati da un concetto di infinito e spazio aperto senza confine, ammaliato da spettacolari corpi celesti. Una musica d'ambiente che vira profondamente verso la colonna sonora di un film di fantascienza, per un'ora di suoni elettronici hi-fi che comunicano con Kraftwerk e robot vari, che trasformano l'ambient di Brian Eno in un sogno cyborg, senza dimenticare l'elettronica anarchica degli Autrechre, rivista in una forma rallentata e rarefatta a dismisura, e dotata di una venatura chill-out da outsider, rifiutante le mode, rendendo alla fine il tutto attraente e affascinante. Le capacità dell'artista austriaco sono indubbie e la sua sensibilità compositiva merita apprezzamento e rispetto. La sua volontà di ricerca è assai propositiva e rivolta ad un pubblico che ama un ambient impegnativo ma anche coinvolgente, una sorta di rigenerazione sonora fatta di grappoli sonici minimali, rumori e ritmi profondi, ancestrali, ipnotici e cinematici. Una lunga colonna sonora eseguita dal vivo che testimonia una serata di grazia creativa e una maturazione raggiunta che può accompagnare il musicista di Linz ovunque nell'universo sonico. Martin Nonstatic sta scrivendo pagine interessantissime della musica ambient sperimentale, pagine che non possono passare inosservate. 'Nebulae' è un ottimo lavoro d'introspezione sonora, di esplorazione ambientale con un tocco di elettronica raffinata e intelligente, un'altra pietra miliare aggiunta alla discografia di un talento tutto da scoprire ed apprezzare. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2016)
Voto: 80

venerdì 28 ottobre 2016

Ekstasis – The Adversary

#PER CHI AMA: Neofolk acustico
L'universo della musica folk è talmente inconsueto e trascendentale che se si evita il tradizionale e quindi omologato, per ovvi motivi, standard d'esecuzione, si hanno sempre nuove e ottime sorprese. La super band in questione viene da Olympia, Washington (anche se il loro sound non ha nulla di americano) e suona come una sorta di neofolk dalle tinte color pastello molto calde e avvolgenti, con una componente mistica di elevata intensità e, cosa che li contraddistingue dalla grande massa, è un confine labile tra classicismo barocco e folk acustico di rara bellezza e forte emotività. Al secondo album, uscito in collaborazione con la Pest Productions via Invisible Oranges, Johnny DeLacy alla chitarra e voce (Faun, Threnos, Fearthainne), coadiuvato alla seconda chitarra da Ray Hawes (Skagos, Iskra), e con Mara Winter ai flauti, Mae Kessler al violino, Marit Schmidt alla viola (Sangre De Muerdago, Vradiazei, Memory boys) e Michael Korchonnoff (Alda, Fiume, e Novemthree) alle percussioni e voce, i nostri Ekstasis sfornano un disco decisamente di alto livello riuscendo a compiere quel salto finale che li colloca tra le migliori uscite in ambito neofolk degli ultimi tempi. Già nell'album precedente, il paesaggio acustico era portato ad una bellezza senza tempo mentre in questo secondo lavoro la bellezza diviene infinita con picchi di qualità che sfiorano la divinità. In primis, il gusto espresso per un sound colto e rurale (passatemi il termine), una produzione egregia, e un suono talmente naturale che sembra di entrare in un paesaggio medievale immerso nella natura fin dalle prime note d'ascolto; poi, il legame con album epocali come 'Beautiful Twisted' di Sharron Kraus, 'Quaternity' dei Sabbath Assembly o le alchimie ancestrali dei bretoni Triptyque e del folk senza tempo dei mitici Sedmina, è indissolubile e inevitabile per una comune capacità di reinterpretare il folk in termini futuristi senza mai tagliare il cordone ombelicale che lo lega alle radici più oltranziste del genere. Nei sei brani spettacolari contenuti in 'The Adversary' troviamo diverse provenienze musicali riprese da mondi diversi, tutte attinenti al folk più radicale, ma sia chiaro, nessuna parentela con il folk metal o affini, qui c'è un totale isolamento dalla musica di routine ed un'enfasi estatica memorabile tradotta in influenze celtiche, musiche dell'est Europa e tanto altro. Non vi è un brano meno splendido dell'altro, tutti insieme formano una sorta di lungo pellegrinaggio verso una terra di nuova speranza, sofferta e cercata, passando da un impatto epico, sognante e malinconico. Musicisti navigati ed esperti gli Ekstasis, si mostrano oggi desiderosi di creare nuove pagine di una tipologia di folk concettuale, legata saldamente al passato ma lanciata più che mai nel costruire nuovi territori sonori acustici, affascinanti, intimi e barocchi. Senza tempo né origine geografica, universali connessi alle visioni eteree di band quali Ataraxia, Dead Can Dance e The Moon and the Nightspirit. Se il mondo si affidasse alle musiche di artisti come questi, la vita spirituale di tutti sarebbe di uno spessore decisamente più elevato. Capolavoro tutto da scoprire! (Bob Stoner)

giovedì 27 ottobre 2016

Trust Your Heart - Not by the Sword But by the Cross

#PER CHI AMA: Dark/Christian Black Metal, Sine Macula
Erano i primi anni '90 quando sentii parlare per la prima volta di Christian death metal, in particolare di una band australiana, i Mortification, che inneggiavano alla cristianità e alla lotta al maligno. Da li in poi il fenomeno del metal cristiano (o anche white metal), ha visto qualche paladino elevarsi più di altri, e penso ad esempio ai Saviour Machine. Quest'oggi mi trovo fra le mani una one-man-band italiana dedita al medesimo genere, più che altro a livello di contenuti lirici. Si tratta dei Trust Your Heart, band capitanata da Cesare Sannino, mente per un decennio fra gli altri, degli Anima Capronii. 'Not by the Sword But by the Cross' è il sesto album nel giro di poco più di un anno per l'atipico mastermind italico. E ahimè, credo fosse meglio concentrarsi maggiormente sull'uscita di un singolo lavoro piuttosto che rilasciarne addirittura sei, quasi un record. Questo perché l'album, rilasciato in formato cd-r, suona terribile già a livello di produzione, proponendo poi un (un)black metal contaminato da litanici sermoni cristiani. Alla pessima registrazione si aggiunge poi l'orribile suono della drum machine, che dal primo tocco nella opening track, fino alla conclusione del cd, non cela le lacune tecniche del musicista di Sondrio. Il suggerimento in primis che mi sento di dare è quindi di assoldare un batterista in carne ed ossa e dare un'anima più viva al progetto, ne beneficerebbe fin da subito la musica, in cui peraltro il buon Cesare prova ad inserire qualche richiamo folk o addirittura rievocare il sound dei Sine Macula, band electro-dark-metal, che trovò un po' di visibilità all'inizio del 2001. Il disco alla fine contiene sei brani, in cui il musicista lombardo imbastisce dei semplici riff di chitarra, certamente non memorabili, su cui poi alterna uno screaming arcigno poco convincente e un cantato pulito scadente e in cui le parti più acute, risultano davvero stonate. I tentativi da parte di Cesare nel rendere vivace il proprio sound ci sono tutti, ad esempio l'utilizzo di caterve di synth elementari e atmosfere che verosimilmente potevano andare bene 30 anni fa; penso alla conclusiva "Victory Belongs to Jesus Christ" con i suoi richiami dark alla The Cure. Oggi, con tutta la tecnologia che si ha a disposizione, non è plausibile avere come risultato un lavoro di questo tipo. Bisogna fermarsi a riflettere quali siano i reali obiettivi nel rilasciare un lavoro come questo, se quello di catturare l'attenzione dei metalheads (fallito), se destare scandalo tra le 'zine (centrato in pieno) o semplicemente per divertirsi a far musica pur tenendo in considerazione gli scarsi risultati. Chiuderei pertanto la mia recensione con un celebre aforisma di Oscar Wilde, "Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”, che forse alla fine è il reale scopo dei Trust Your Heart. (Francesco Scarci)

mercoledì 26 ottobre 2016

Eterna Rovina - Metamorfosi

#PER CHI AMA: Black Depressive, Movimento d'Avanguardia Ermetico
Le one-man-band rischiano di essere fin troppo inflazionate ultimamente; l'ultima arriva da Urbino, gli Eterna Rovina, ed è opera di tal F., membro peraltro di Batrakos e Sonnenrad. Il giovanissimo musicista marchigiano (21 anni), ci presenta 'Metamorfosi', disco uscito per diverse etichette, tra cui la messicana Silentium in Foresta Records, che ha dato alle stampe la prima release di 'Metamorfosi' e la nostrana Adimere Records, che ha ristampato un cd che era andato velocissimamente sold-out. Questo potrebbe lasciar presagire le ottime qualità del mastermind italico, ma andiamo con ordine e cerchiamo di analizzare pregi e difetti di questo lavoro d'esordio. Intro rumoristica e poi il suono del mare ci conduce a "Decadendo nel Flusso", traccia di black mid-tempo, che sottolinea la vena atmosferica degli Eterna Rovina e di un sound che a più riprese, apparirà ispirato dalla natura e dalla cosmologia filosofica, ma che in termini di suoni, risulterà invece penalizzato da una registrazione a tratti imbarazzante. Peccato, perché la traccia d'apertura (che ritroveremo anche ne "Il Respiro del Silenzio") mette in luce un sound ancestrale, primigenio, condito da serratissime ritmiche su cui si stagliano gli aspri vocalizzi di F., ma che aprono anche a desolati paesaggi evocanti lo spirito del maestro Varg Vikernes. A questo aggiungete poi una diffusa vena malinconica che permea e dona una aurea di mistero all'intero lavoro, contribuendo anche ad una certa alternanza ritmica che si sposa egregiamente con la proposta degli Eterna Rovina. "Memorie del Caos" è un brano più ritmato, che dall'inizio alla fine non ha da offrire grossi sussulti se non una coerente linearità ritmica sovrastata dall'arcigna performance vocale di F. che ci accompagna fino al secondo intermezzo noise "Eco Astrale II". "Ombre di Cenere" non si discosta poi molto dalle precedenti, garantendo sonorità adombrate (quasi funeral doom) di cui sottolineerei il cantato in italiano facilmente intellegibile e uno spaccato di musica lirica da brividi, che eleva qualitativamente, anche se per pochi secondi, la proposta dell'oscuro individuo che si cela dietro al moniker Eterna Rovina, che si avvia verso un epico finale. Ancora una manciata di secondi all'insegna di suoni misteriosi e tocca a "Il Respiro del Silenzio" regalarci squarci di musica emozionale che si muovono tra depressive e post black (in un finale pazzesco), evocando a più riprese la proposta dei piemontesi Movimento d'Avanguardia Ermetico. Quel che stona però nella proposta del musicista italiano è una certa artificiosità nei suoni di batteria (ah, maledette one-man-band con la drum machine!!) e poi il grossolano errore a livello di volumi a fine brano (e inizio successivo) in cui sembra ci sia qualcuno che si diverta a fare su e giù con la leva dei volumi, un vero peccato, che comunque non pregiudica la prova dignitosa di un giovane musicista che ha davanti a sé tutto il tempo per migliorare, imparando dagli errori passati. Alla fine 'Metamorfosi' è un disco per certi versi interessante, ma che necessità di una maggior cura nei dettagli per evitare quei grossolani errori che rischiano di oscurare la buona riuscita di un album. (Francesco Scarci)

martedì 25 ottobre 2016

The Pit Tips

Francesco Scarci

Chiral - Gazing Light Eternity
Fjord - Portrait for a Reflection
They Seem Like Owls - Strangers

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Don Anelli

Untimely Demise - Black Widow
Brutally Deceased - Satanic Curse
Sin of God - Aenigmata

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Kent

16 Horsepower - Sackcloth 'N' Ashes
Nudist - See The Light Beyond The Spiral
Zippo - Maktub
 

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Stefano Torregrossa

Meshuggah - The Violent Sleep Of Reason
Brain Tentacles - Brain Tentacles
Monolord - Lord Of Suffering / Die in Haze
 

Except One - Haunted Humanity

#FOR FANS OF: Melo Death/Metalcore, Eths, The Agonist
Emerging from the French underground, the new EP from Melodic Death Metal/Metalcore hybrid Except One have quickly become a vibrant part of the scene with the five-piece honing into a fine mixture of aggression and beauty. As is the case for most modern female-fronted efforts in the style, the main crux of the band is the ability to shift between the deep, heavy churning riff-work with the accompanied gruff, violent vocals while still maintaining a clear balance of lighter, groove-centered work throughout here that gives this a strong overall variety between the aggressive rhythms and relaxed melodies. While it’s somewhat of a one-note approach without really bringing any kind of differentiatly throughout here, for the most part there’s not a lot to dislike here with the consistency ringing true throughout here. Intro ‘Rise’ whips along through a series of tight chugging breakdowns and stylish mid-tempo groove-centered riffing that carries along nicely through the rather charged final half for a solid, impressive opening highlight. ‘Lost’ offers along a slightly more up-tempo and energetic variation with a greater emphasis on deep, heavy chugging and twisting metalcore-styled rhythms while ramping up the breakdowns and sprawling patterns into the finale for another strong highlight. ‘Schizofriend’ takes on slightly more melodic swirling riffing alongside some ferocious and strong grooves wrapping around the sprawling massive rhythms that chugs along into the final half for a fine if solid enough effort. ‘Revenge’ returns to the strong and tightly-wound chugging patterns found here with plenty of fine breakdowns amongst the groove-filled chugging into the finale for a much stronger effort. ‘Elm Street’ features a strong plodding chug rhythm and swirling breakdowns alongside the slower pace while bringing in the stronger and less intensive charging rhythms leading into the grinding finish. ‘Disease’ brings forth plenty of strong and straightforward grooves among the swirling riff-work offering ferocious and charging blasts of strong swirling melodies into the final half for another fine highlight. Lastly, album-closer ‘7even’ moves past a trinkling opener into another strong, swirling blast of grooves and churning riffing to a fine, melodic whole offering the charging breakdowns and grooves heading into the finale for another nice effort and a good lasting impression. On the whole there’s quite a lot to like here. (Don Anelli)

lunedì 24 ottobre 2016

Monkey3 - Astra Symmetry

#PER CHI AMA: Stoner/Prog Rock
I Monkey3 sono tornati e con molto piacere ho avuto modo di ascoltare il nuovo album da poco uscito, 'Astra Symmetry', gentilmente fornitomi direttamente dalla band. Per chi non li conoscesse, i Monkey3 sono una band svizzera nata nel 2001 che ha all'attivo quattro album, tra cui 'The 5th Sun' uscito nel 2013, osannato dalla critica internazionale come un masterpiece nel genere prog/stoner rock strumentale. La band infatti ha calcato i palchi dei più grandi festival sempre con ottimi riscontri da parte del pubblico. Le nostre scimmie tornano dopo tre anni di incubatrice sonora e sfornano un lavoro monumentale, un concept album incentrato sui quattro elementi fondamentali e le costellazioni che popolano il nostro cielo. La versione digitale pervenutami è infatti divisa in quattro cartelle (fuoco, aria, acqua e terra) per un totale di dodici brani che vanno dai quattro minuti scarsi agli otto abbondanti. Il quartetto, composto da batteria, basso, chitarra e tastiere, ha rivoluzionato il proprio sound, diventando più riflessivi nella composizione, concedendo largo spazio alla psichedelia stile Pink Floyd come ad esempio accade in "Arch". Un trip che parte da un'intro lunghissima, fatta di suoni drone a cui si aggiungeranno batteria e basso per costituire una colonna sonora eterea e liquida. Le chitarre entrano con calma, con feedback ed effetti space a rincarare la dose e quando la nostra mente è ormai sull'orlo dell'oblio senza fine, arriva l'esplosione ritmica con un assolo "gilmoriano" che vi farà scorrere un brivido lungo la schiena. "Seeds" esplora i confini del prog, ritornando ad un rifferama più vicino ai precedenti album, ma caratterizzato da una minor arroganza e da una certa ariosità, con uno studio maniacale dei suoni che rivestono un ruolo di pari importanza con quello delle linee di chitarra. La struttura infatti è articolata e segue un'evoluzione dinamica, sempre mantenendo un'impronta più introspettiva. Anche "Dead Planet's Eyes" segue questo filone, con archi che danno un tono epico, stavolta supportati da un cantato che si destreggia bene sulle note, dosando sapientemente dinamica e timbrica. Le ascese delle tastiere lasciano libertà alla chitarra che non deve occuparsi dei tappeti sonori e quindi tornano a srotolare i assoli classici del genere, decisamente ben fatti. Probabilmente il miglior brano se dovessimo sceglierne uno, ma preso da solo non ci fa apprezzare appieno le diverse sfaccettature che i Monkey3 hanno scolpito in questo 'Astra Symmetry'. "Crossroad" è inizialmente un brano più oscuro, viscerale, caratterizzato da chitarre più aggressive e da un cantato spirituale che ricorda gli OM. Poco dopo il mood cambia, come una raggio di luce che trafigge la spesse nubi e riporta la vita su un terreno sterile che aspetta solo una scintilla per ritornare rigoglioso. Con "Mirrors" la band affronta invece la psichedelia/prog degli anni '70, con chitarre leggere (anche acustiche) e un flauto sintetizzato che trasuda atmosfere folk da tutti i pori. Dopo circa settanta minuti di musica, possiamo dire che i Monkey3 sono cresciuti proiettandosi in avanti, lasciando (per il momento) indietro sonorità più aggressive, per regalare un album corposo, mistico e maturo, una intelligente evoluzione del loro sound e non un cambio di rotta. Evviva Darwin. (Michele Montanari)

(Napalm Records - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/monkey3band/

Astral Path - An Oath to the Void

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
Formatisi solamente lo scorso anno ad Ottawa, i canadesi Astral Path si confermano già band abbastanza matura sotto il profilo musicale. Questo non è passato ovviamente inosservato alla sempre attenta Avantgarde Music, che scandagliando tutto il globo, ha pensato bene di mettere sotto la propria egida il duo composto da Ana Dujaković, basso e tastiere e Justin Bourdeau, che siede dietro alle pelli, viaggia a ritmi poderosi con la sua sei corde ed è anche voce dei nostri. Cinque brani che oscillano tra sonorità ambient (quelle del lungo interludio iniziale di "Maroon Sea") e post black atmosferico che divampano nella seconda parte della opening track, con un sound minaccioso, ritmiche incalzanti e uno screaming posseduto. Con la title track, i due continuano a correre come indemoniati con ritmiche propulsive costituite da abrasivi riff zanzarosi e blast beat schizoidi, anche se poi le ottenebranti atmosfere contribuiscono a rendere il flusso sonico più controllato e arioso, andando quasi a toccare un che degli Agalloch. "Between Appalachia and the Shield" ha una andatura più compassata, un black doom introspettivo dal forte flavour malinconico, le cui melodie aleggiano nell'aria come il vento gelido del Polo Nord, tagliente e spettrale, e con un finale affidato alla chitarra acustica di Justin. Furia iconoclasta contraddistingue invece "A Virulent Delusion", un pezzo di cui si poteva anche fare a meno, non aggiungendo nulla a tanta musica piattina che gira sul web. Gli ultimi undici minuti sono affidati a "To Vega... Nebulous Anatomy" e a quel suono cosmico proveniente dalla stella Vega, scandagliato da Jodie Foster nel film "Contact". Speravo in una migliore evoluzione della traccia, in realtà il brano si lascia andare tra cavalcate black e intermezzi strumentali in una song fatta di melodie siderali. 'An Oath to the Void' è un discreto punto di partenza da cui spiccare il volo verso la volta celeste. (Francesco Scarci)

domenica 23 ottobre 2016

Aanod - Yesterday Comes Tomorrow

#PER CHI AMA: Metalcore, In Flames
Che non sia un fan del metalcore è risaputo da tempo, quando poi ricevo i cd in formato CD-r tendo ad innervosirmi parecchio e propendere per il mio sport preferito, il lancio del disco fuori dalla finestra. Questa volta devo ammettere di aver cercato di mitigare il mio caratteraccio per dare una chance ai francesi Aanod, concedendogli qualche attenuante che non starò qui a spiegare. Placata la mia furia, eccomi all'ascolto di 'Yesterday Comes Tomorrow', dischetto di sette pezzi, votati a sonorità metalcore. Gli Aanod sono parigini e si dilettano nel proporre pezzi immediati, energici, un po' ruffiani sebbene attingano le proprie influenze anche dall'hardcore, cosi come pure da tutta quella miriade di band che fa dell'utilizzo di ritmiche sincopate il proprio credo, non dimenticandosi ovviamente il dualismo vocale pulito (emo?)/growling. Ebbene, immagino anche voi abbiate già capito dove incasellare la proposta di questa band, tuttavia non è tutto da buttare nel cestino del già sentito il disco degli Aanod. Sebbene le prime due tracce puzzino lontano un miglio di già sentito, è in realtà con la terza traccia che i nostri iniziano a svoltare e catturare la mia attenzione. Date pertanto un ascolto veloce alle prime due canzoni ma concentratevi piuttosto su "Resource" e il suo stile che omaggia in primis gli In Flames, ma che poi s'incupisce in un riffing più ritmato e decisamente oscuro, in un brano che vede ricordare, a livello di cori, anche un che dei Deftones. "Pariah" è un'altra song che coniuga il metalcore melodico con una certa vena cibernetica, in cui comunque sottolineerei la performance, parecchio convincente, del vocalist. Si prosegue sulla stessa scia anche con i successivi brani, dove i synth provano a regalare una maggiore freschezza a brani altrimenti un po' piattini. Sebbene ci sia ancora da lavorare parecchio alla ricerca di una propria ben definita personalità che qui fa fatica ad emergere, il disco si lascia ascoltare piacevolmente, tra piacevoli alti e noiosissimi bassi. Per ora, per soli fan del genere. (Francesco Scarci)

venerdì 21 ottobre 2016

Seventh - The Herald

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Neurosis
Sette sono i colori dell'arcobaleno, sette sono i giorni della settimana; sette sono i colli di Roma e sette sono i mari secondo gli antichi Greci. Ancora, sette sono i peccati capitali e sette sono le virtù, sette è tante cose, il numero simbolo per eccellenza della ricerca, che rappresenta ogni forma di scoperta e conoscenza. Con il numero sette si va poi all’esplorazione delle parti più intrinseche dell’esistenza fino ad arrivare alla scoperta del suo significato più profondo. Questo preambolo per introdurvi i Seventh (settimo), il nome della band veneziana che ci regala questo 'The Herald', un concept album contenente (ovviamente) sette pezzi che ci conducono in un viaggio cosciente della mente e dell'anima. E il disco è concepito come un viaggio allegorico di un uomo comune che sostiene la libertà e nega la religione e le restrizioni culturali di ogni genere, una storia dai contenuti assai interessanti. Cosa di meglio allora di una perfetta colonna sonora per accompagnare questo intrigante racconto? Detto fatto, i Seventh ci regalano quasi tre quarti d'ora di musica che si muove negli anfratti più oscuri del post metal, con sette piccole gemme, di cui vi citerei immediatamente le mie preferite: la opening track, "The Apostate", che dischiude l'irruenza, la morbosa schizofrenia e l'imprevedibilità di questo trio, in una traccia che, se fosse stata scritta dai Neurosis, avremmo gridato al miracolo. "The Desert" ha un incipit più marziale e un'andatura successivamente più ipnotica, calda, addirittura anthemica. Un break centrale ne spezza l'incedere ritmato e lo screaming caustico di Maximilian si tramuta per alcuni istanti in un cantato pulito e rassicurante, in una traccia comunque dal forte sapore sperimentale, che troverà la sua naturale continuazione in un'altra apparentemente più delicata, la successiva "The Tower", in grado di regalare una prima metà decisamente soft a cui fa da contraltare una seconda parte più feroce. Contorta non poco invece "The Exile", forse la song più complessa del lotto, in cui rabbia, melodia, malinconia, ambient, post metal, alternative, progressive (e tanto altro) convivono beatamente in un flusso magmatico che talvolta appare liquefatto e in altri casi si rivela duro come la roccia. "The Monarch" è un altro esempio di sonorità intimiste, complice nuovamente l'uso di vocalizzi puliti inseriti in un contesto musicale rilassato, almeno per una manciata di minuti, prima che la traccia muti forma e natura, volgendosi verso un riffing di matrice statunitense che chiama nuovamente in causa i paladini Isis e Neurosis, con le vocals che qui si palesano verso uno stile più votato all'hardcore. "The Dawn" ha un piglio decisamente ambient, per quel cantato quasi litanico del frontman e per una traccia che va insinuandosi nei meandri del noise/drone. "The Throne" è l'ultimo pezzo, un'ultima rivisitazione da parte dei Seventh, del post metal americano qui intrisa da pesanti atmosfere doomish. A proposito, che sbadato, dovevo menzionarvi solo i miei brani preferiti e alla fine li ho descritti tutti, forse perché realmente sono meritevoli di un approfondito ascolto. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 80

https://seventhofficial.bandcamp.com/releases

giovedì 20 ottobre 2016

All You’ve Seen - Elements – Part II/Translucence


#PER CHI AMA: Post Rock/Ambient, Mogway, Mono
Di questi All You’ve Seen si sa ben poco, se non che si tratta di un trio proveniente dalla Svizzera, e che 'Elements – Part II' (di cui però non mi risulti esista anche una 'Part I') dovrebbe essere il loro secondo album sulla lunga distanza, in una discografia che, dal 2009, conta peraltro un paio di EP. L’artwork elegante del cd non contribuisce a svelare il mistero, recando informazioni che si limitano ai titoli dei brani e ai crediti delle fotografie e dei field recordings. Il loro è un rock strumentale in cui le chitarre sussurrano e gridano come nella migliore tradizione post rock di modelli come Mogwai o Mono, con una spiccata capacità di costruire crescendo emozionali davvero importanti. Non sono certo dei virtuosi, ma la loro musica tende a toccare ben altri tasti, tutta improntata all’impatto emotivo, al fragore contrapposto ai silenzi, in una perfetta sintesi di quella che sembra essere l’ispirazione del disco, ovvero la potenza degli elementi naturali. Se 'Elements – Part II' viveva di contrasti molto forti e molto fisici, 'Translucence', lavoro del 2016, è un album dai toni più lenti e riflessivi. Il disco ha un andamento ondivago, dall’impatto fragoroso della traccia di apertura "Glass Outline" alle rarefazioni di brani come "Veiled" o "Sinus", gli otto brani sembrano immergersi l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, come diversi movimenti di un’unica sinfonia. Mentre il disco precedente era improntato essenzialmente sulle chitarre, in 'Translucence' la sei corde è anche capace di defilarsi e lasciare il campo a tappeti sonori di stampo quasi ambient, tanto che il vero e proprio strumento guida dell’intero lavoro sembra essere la batteria, che scandisce il tempo in maniera solenne, come fosse la pulsione vibrante di un qualche organismo vivente. Il suono degli elvetici sembra fatto di una materia gassosa, capace di diradarsi fin quasi a rendersi impalpabile, tanto quanto poi di espandersi improvvisamente occupando tutto lo spazio a disposizione e saturando l’atmosfera. È una musica fatta di movimenti ampi e lenti, che si muove al ritmo di un respiro largo, consapevole, mai affannoso. Due dischi alla fine non facili ad un primo ascolto (soprattutto l’ultimo), per quanto risultino fin da subito conturbanti. Ma è un fascino sottile e scuro, fatto di strati sottili e semitrasparenti che si depositano uno sull’altro lasciando però intravedere quello immediatamente sottostante, fino a costruire architetture ardite e sempre fortemente guidate da un’emotività mai sopita. (Mauro Catena)

mercoledì 19 ottobre 2016

Leaving Passenger - When It's Done


#PER CHI AMA: Alternative Rock, Nickelback
Salite in auto e caricate nel vostro lettore 'When It's Done', EP di debutto dei francesi Leaving Passenger. Vi accorgerete che ad un certo punto non ricorderete più la vostra direzione; e questo sembrerebbe un bene se il vostro cervello è aggrovigliato almeno quanto il mio. L’album, composto di sei brani, è decisamente il prodotto di un’attenta e accurata selezione di musica alternative rock che vede nei Nickelback alcuni punti di riferimento per i nostri. Quindici giorni di ascolto intensivo valgono un plauso, perché non credo che farei a meno di nessuno dei sei pezzi qui inclusi, anche se prediligo maggiormente il primo, "Running Back" e l’ultimo, "Scream", per una questione di puro ritmo cardiaco (in mezzo addirittura una ballad, la title track e una semiballad, "Better Place"). Inizialmente avevo trovato il dischetto un po' monotono, dai primi ascolti infatti non emerge nessun diamante, un po’ l’accusa che spesso si fa a molti artisti, cioè quella di non avere la classica hit da classifica. Ma questo va letto anche da un altro punto di vista, sono sicuramente fedeli a loro stessi. E come scritto precedentemente, perché cercare un diamante quando i nostri transalpini te ne offrono sei? Avete presente quando la vostra ragazza monopolizza la radio in cerca di una canzonetta soft e iper trasmessa? Ebbene, quest'album potrebbe essere un valido compromesso tra il vostro e il loro genere. Un alternative rock dal piglio mainstream che scivola via mentre voi guidate, osservate il mondo, e loro suonano indisturbati, ammiccando qua e là anche a Hoobastank e Linkin Park. Credo che valga la pena averlo tra le scelte musicali personali, perché prima o poi vi capiterà quel giorno in cui avrete realmente bisogno di dimenticare la vostra direzione e di osservare il mondo senza che nessuno metta mano al lettore cd. Ricordo poi che 'When It's Done' è il loro EP d'esordio, auspico quindi che il quartetto parigino lavori duramente per ottenere in futuro i medesimi risultati, se non migliori, con lo stesso e acuto taglio di editing. Pochi brani, ma bellissimi. Bidimensionali. (Alpha Rotter)

martedì 18 ottobre 2016

Stormtide - Wrath of an Empire

#PER CHI AMA: Symph Death, Whispered, Tengger Cavalry
L'artwork del debut album degli Stormtide concede largo spazio alla fantasia: montagne incantate, templi e druidi, lasciano presagire ad un che di epico e fantasy che potrebbe tradursi in suoni power metal. Mai ipotesi fu cosi azzardata e soprattutto sbagliata dal sottoscritto. I sei australiani si lanciano infatti in sonorità death sinfoniche che incorporano pesanti elementi orientaleggianti. La title track apre le danze con un sound che in alcuni frangenti mi ha evocato i taiwanesi Chthonic e il loro black folklorico ricco di sonorità della cultura dell'estremo oriente o, per rimanere in Cina, la musica degli Stormtide potrebbe essere assimilabile a quella dei Tengger Cavalry, mentre se guardiamo in Europa, l'accostamento più plausibile sarebbe con i finlandesi Whispered ed il loro "samurai" sound. Fatto sta che gli Stormtide mi piacciono e mi convincono sin dal primo pezzo in cui, complice una ricerca spasmodica di melodie dell'estremo oriente, identificano le tastiere come elemento cardine su cui si vanno poi ad inserire tutti gli altri strumenti, compreso il growling del frontman, Taylor Stirrat. Certo, questo potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio per chi mal sopporta brani stracarichi di orchestrazioni sinfoniche, ma a quel punto meglio lasciar perdere e volgere la propria attenzione altrove. Qui tutto quello che dovete e potete aspettarvi, sono brani stracolmi di melodie che scomodano in un modo o nell'altro altre influenze derivanti dal viking ("As Two Worlds Collide") che chiamano in causa Einherjer e Amon Amarth. I nostri provano a essere un po' più aggressivi con robuste linee di chitarra ("Dawnsinger"), ma inevitabilmente si torna a cavalcare quello che è il genere che identifica gli Stormtide: un melo death aggressivo per ritmiche e vocals, corredato da fiumi di tastiere che guidano l'intero evolversi dei brani. Immaginate dei Children of Bodom in versione più orchestrale, anche se poi in un brano come "Conquer the Straits", i ragazzi di Melbourne hanno il merito di picchiare come fabbri e, sebbene le cinematiche tastiere rispolverino un non so che dei Bal Sagoth, ci ritroviamo fra le mani una traccia ruggente ed incazzata. La durata delle song si assesta quasi ovunque sui 4-5 minuti, permettendo una più facile memorizzazione delle stesse, sempre traboccanti di groove. La cosa che convince è poi un approccio musicale che volge il proprio sguardo all'heavy metal classico piuttosto che agli estremismi sonori di altri esponenti di questo genere. Anomalo il break di basso centrale di "Sage of Stars", che mostra una ricerca di originalità da parte dell'ensemble australiano, in un genere ove è parecchio difficile inventarsi qualcosa di mai sentito. In fatto di liriche, inevitabile che i testi contengano storie di rovina (la ballata folk "Ride to Ruin"), eroismi ("A Heroes Legacy") o gesta malvagie. 'Wrath of an Empire' non può che essere un album epico che trova ancora il tempo di sorprendere con quella che è la mia canzone preferita, "Ascension", non la song più veloce del lotto, ma quella che a suo modo, trova anche punti di contatto con il black metal. Il disco si chiude con un pezzo, "The Green Duck", che invece sembra strizzare l'occhiolino ad un viking/power che, per quanto mi riguarda, non apprezzo più di tanto, ma che comunque non modifica il mio personale giudizio di un disco che, pur non presentando grandi novità, ha comunque il merito di coinvolgerci per oltre 42 minuti di buona musica. (Francesco Scarci)

domenica 16 ottobre 2016

Bodie - First

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Folk/Ambient
Con le prime piogge e il grigio che accompagna le corte giornate d’autunno, i tempi sono maturi per introdurre il lavoro di Bodie (datato 2013), musicista parigino che predilige sonorità elettro-acustiche piuttosto evocative. 'First', il titolo del suo primo lavoro, è un EP composto da cinque brani originali in lingua inglese le cui coordinate sono quelle di un folk carico di pathos e lento nella sua esecuzione. Il brano di apertura, intitolato “Under the Sea” è introdotto da un coro maestoso che fa poi da contrappunto ad un arpeggio acustico mentre l’ingresso della voce di Bodie potrebbe quasi ricordare quella di Thom Yorke, non fosse che il brano termina quasi subito. Il successivo “All These Days” si muove sulle stesse sonorità, anche in termini di armonia, solo che la ritmica è sostenuta questa volta da una chitarra elettrica che doppia basso e batteria, mentre l’organo libera la sua fantasia. “Church”, il terzo pezzo del disco, si rivela una ballata onirica caratterizzata da una voce raddoppiata e dal contrappunto di pianoforte. L’EP prosegue con “So Be It” e termina con la lunga traccia intitolata “The River” dove qualche sonorità più progressive spunta tra le righe, senza comunque snaturare il mood dell’intero album. Un disco breve ma certamente ben caratterizzato, con una potente vocazione cinematografica nel suo incedere e una sapiente gestione dei canali strumentali. Consigliato a chi cerca una personale colonna sonora per l’autunno e anche a chi ha amato, qualche anno fa, il disco di Danger Mouse e Daniele Luppi intitolato 'Rome'. (Massimiliano Paganini)

(Self - 2013)
Voto: 75

https://bodiemusic.bandcamp.com/

Interview with Crown of Asteria


Follow this link to know the thoughts of Meghan, mastermind of the US band Crown of Asteria:

sabato 15 ottobre 2016

Oracles - Miserycorde

#PER CHI AMA: Swedish Symph Death, Arch Enemy, Fleshgod Apocalypse
I belgi Aborted non sono mai sazi e cosi, tre dei suoi membri (voce, batteria e chitarra), hanno pensato bene di mettersi in affari con tre ex membri dei System Divide (voce, chitarra e basso), tra cui Sanna Salou (l'eccellente ex voce femminile anche di Dimlight, Ad Inferna ed Emerald Sun), e dar vita agli Oracles (dal look molto "Assassin's Creed" style), che arrivano all'esordio con questo 'Miserycorde'. La cosa non si ferma qui perché al disco partecipano anche tre guest stars, Jeff Loomis ascia dei Nevermore, Per Nilsson alfiere degli Scar Symmetry e Ryan Knight, ex chitarrista dei The Black Dahlia Murder, a completare quello che sembrerebbe essere un super gruppo a tutti gli effetti. Leggendo la line-up, le attese non possono che essere altissime, e alla fine non verranno affatto deluse, dopo aver infilato il platter nel lettore e pigiato il tasto play dello stereo. La classica breve intro dà subito un assaggio delle capacità vocali della leggiadra vocalist ellenica e poi ecco esplodere "The Tribulation of Man", che delinea immediatamente la proposta dei nostri, fatta di ritmiche serratissime in blast-beat e l'alternanza vocale, growl ed ethereal, dei due cantanti, che danno prova della loro bravura su linee di chitarra vertiginose, assolutamente catchy e corredate da formidabili assoli. Non fosse per la voce di Sanna, potrei affermare che la proposta degli Oracles è una vera mazzata nello stomaco, invece la soave performance della donzella greca, riesce ad interrompere quelle selvagge trame chitarristiche che in "Catabolic (I Am)", palesano le influenze "meshugghiane" dei nostri, in un pezzo concreto, violento, moderno e melodico, soprattutto nel suo inebriante assolo conclusivo, che gli vale per questo la palma di mia song preferita del lotto. In “Quandaries Obsolete” vengo investito dalla devastante dirompenza ritmica dei nostri, con chitarre sghembe e vocals belluine da parte dell'ottimo Sven de Caluwé, bestiaccia feroce degli Aborted, che viene qui sempre tamponata dalla vena lirica della brava Sanna, che alla lunga però corre il rischio di stufare o addirittura non piacere a chi preferisce i soli estremismi sonori degli Oracles. Ciò che colpisce è però la dinamicità che emerge dalle note di questo pool di musicisti, una vena sinfonica estrema che in un qualche modo, è comparabile a quella dei nostrani Fleshgod Apocalypse, forse la band più vicina agli Oracles per sonorità. Chiaro che gli assoli marcatamente di matrice heavy classico, avvicinano la super band di quest'oggi anche agli Arch Enemy (e non solo per la presenza di Jeff Loomis, che negli ultimi due album dell'act svedese, ha dato una grossa mano a livello di chitarre). Si prosegue attraverso canzoni che come nei migliori roller coaster, arrivano a spingere il cuore in gola, grazie ad accelerazioni esagerate, ottimi rallentamenti e velocità sostenute, in cui a mettersi in luce alla fine sono le rasoiate ad opera delle due sei-corde, in mano a dei veri maestri della chitarra. "Remnants Echo" è un pezzo più atipico in cui, sugli scudi rimane la sola Sanna, ad evocare i bei tempi andati di Anneke van Giersbergen nei The Gathering, con le melodie che si confermano ispiratissime, qui più rilassate ed intimiste. Il disco prosegue sui binari dell'alternanza dell'estremismo sonoro e di suoni sinfonici, accompagnati rispettivamente dalle caustiche voci dell'esagitato vocalist degli Aborted e dalla delicata ugola di Sanna. Prodotti egregiamente da Mr. Jacob Hansen (Volbeat, Epica, Amaranthe e gli stessi Aborted), la band arriva addirittura a coverizzare “The Beautiful People” di Marilyn Manson, testimoniando cosi l'eclettismo musicale di un ensemble che non ha alcuna paura a mettersi in gioco. E noi, non possiamo far altro che godere di fronte a questa dimostrazione di forza degli Oracles e gustarci 'Miserycorde' tutto di un fiato. (Francesco Scarci)

(Deadlight Entertainment - 2016)
Voto: 80

venerdì 14 ottobre 2016

Das Röckt - Odile

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Post Grunge
Il grunge dopo la sua prima fase esplosiva non ha avuto vita facile negli anni a seguire. La sua sopravvivenza è stata graziata dalla sua capacità di evolversi e intersecarsi con realtà parallele come il metal e la psichedelia che in parte erano già nel suo DNA, di fondersi con lo stoner rock e usare la spinta di certo punk/hardcore meno estremo, questo per garantirsi un futuro dignitoso. Il caso degli svizzeri Das Röckt è da manuale in quanto riescono a fondere al meglio e con ottimi risultati, la musica degli ultimi Queens of the Stone Age con il buon vecchio stoner della band di culto dei Lowrider, passando per il supergruppo Wellwater Conspiracy e gli intramontabili Sixty Watt Shaman, dando vita ad uno speciale connubio di potenza e orecchiabilità, inaspettato e coinvolgente. I primi quattro brani volano veloci, trascinati da riff centratissimi alternati a fasce di musica psichedelica venata di sfumature hardcore, dal taglio melodico ma sempre molto abrasivo (il brano d'apertura, "Run Your Course Crazy Star", è memorabile). Una certa psichedelia pesante e claustrofobica, etichetta i brani con quell'intensità sonora che caratterizza gli ultimi più orecchiabili album dei Mastodon ("Where's the Acid Party") svanendo immediatamente dopo, per immergersi in un indie rock alternativo radiofonico di sicuro impatto con il brano "My Meat Car", spiazzante creatura a metà tra 7Zuma7, Therapy? e i primi And You Will Know Us by the Trail of Dead. Brani di ottima fattura e tanta cura in fase di produzione, belli i suoni, mentre la copertina dovrebbe a parer mio riflettere maggiormente il lato pesante e tagliente della band, anche se, bisogna ammetterlo, si nota nella sua grafica così originale, una certa voglia di fuggire dai soliti cliché omologanti del genere pseudo stoner/rock psichedelico contemporaneo. Quaranta minuti di musica potente e fantasiosa che accomuna gusti differenti in ambito rock, dove il grunge acido degli Stone Temple Pilots e il metal dei The Almighty, incontra il sound alternativo e trascinante degli Arctic Monkeys, suonato come se a farlo fossero gli Apollonia, gli At the Soundown o addirittura i More Than Life. Voi potreste dire che è un frullato di musica troppo esagerato, che un miscuglio così non può portare a niente, tuttavia, credetemi senza indugio quando vi dico che sin dal primo ascolto, dalla prima nota, vi convincerete dell'esatto contrario. Questa band elvetica ha superato il confine, ha centrato in pieno il bersaglio, creando un piccolo gioiellino con questo album, inventando un'esplosiva, originalissima e godibilissima miscela di pesante rock intelligente, abrasivo, adulto e fantasioso, distante dalla solita routine. Una band tutta da osannare! Ascoltatevi il trittico conclusivo costituito da "1981", "Georgia O'Kneefe" e "Spinning Glass" e ditemi come vi siete sentiti dopo averlo fatto...meravigliati? Un disco esemplare. (Bob Stoner)

(Cold Smoke Records - 2015)
Voto: 90

giovedì 13 ottobre 2016

NightMyHeaven - Across the Dark Side


#PER CHI AMA: Black/Death atmosferico, Emperor
Gli Emperor hanno fatto scuola negli anni '90, e i NightMyHeaven, formatisi all'inizio degli anni 2000 in quel di Guimarães in Portogallo, possono essere annoverati nella schiera di adepti della band di Samoth e soci. Il genere? Facile no, black death atmosferico, certificato sin dall'intro del cd che ci introduce a "Nights Dark Side", song che a livello ritmico, segna un riffing tipicamente death metal, mentre a livello di atmosfere, evoca un che dei Cradle of Filth e appunto dei succitati maestri norvegesi, anche se lungo il corso di questa song, il pensiero mi ha spinto più volte verso i Limbonic Art, cosi come pure ai primi Samael, con la performance vocale di Alfredo abbastanza convincente, nel suo screaming molto borderline con un growling stile orco cattivo. I lusitani proseguono con questo registro anche con la successiva "Riders of the Apocalypse", brano parecchio ruvido, che sta più vicino al "metallo della morte" che a quello "nero". E "Kill Your King", scandita dal suono di spade brandite in cielo e di una battaglia che si sta consumando in campo aperto, continua in tal senso, mettendo a ferro e fuoco l'ascoltatore, con ritmiche dritte in cui a eccedere un po' troppo è il cantato del frontman; avrei prediletto infatti che venisse lasciato più spazio alla musica e alla melodia. In "Channel of Doom" invece, sembra che il quintetto portoghese abbia già intuito i miei pensieri e virato pertanto verso uno stile che lascia più spazio a musica e assoli, anche se ancora un po' elementari. E il disco da questo punto in poi, sembra subire un netto miglioramento anche con le successive "Slayer of Deities" e "Amidst the Wolves", dove le atmosfere trovano terreno fertile, pur mantenendo intatto lo spirito battagliero del death metal, con un riffing comunque scorbutico, spezzato da qualche solo che invece punta diritto all'heavy metal classico. "Daughter of Hecate" ha un approccio più orientato al black sinfonico e per questo più accessibile e anche più piacevole, grazie all'uso massivo di tastiere molto stile anni '90, che replica il suo mood anche nelle conclusive "The Flight of the Harpies" and "Hades Hellhound". 'Across the Dark Side' è alla fine un album onesto, anche se ormai suona piuttosto anacronistico nei suoi suoni e nella sua proposta in generale, il che dovrebbe indurre i cinque guerrieri lusitani a svecchiare un po' la propria proposta (anche in fatto di cover cd), visto che ormai siamo sul finire del 2016 e gli Emperor si sono ormai sciolti da tre lustri. (Francesco Scarci)

mercoledì 12 ottobre 2016

Fyrnask - Fórn

#PER CHI AMA: Cascadian Black, Emperor, Deathspell Omega, Agalloch
La profondità degli abissi è pronta ad inglobare voi tutti. I Fyrnask sono tornati con quello che è il loro terzo album, quello dell'attesa consacrazione, il primo per la Ván Records, dopo gli esordi per la Temple of Torturous. 'Fórn' è il nuovo mostro a sette teste partorito dalla mente di Fyrnd, colui che si cela dietro al combo di Bonn (ora una band a tutti gli effetti, dopo gli esordi come one-man-band), pronto a tracciare il proprio sentiero, grazie alla peculiare forma di malatissimo e roboante black metal che essi propongono. Escludendo l'intro acustica di "Forbænir", la malvagità dei nostri è certificata dal malefico sound di "Draugr", che nei suoi quasi otto minuti, ha modo di assemblare il black più atmosferico di scuola norvegese con le disarmonie della scuola francese (Deathspell Omega e Blut Aus Nord), non dimenticando citazioni che chiamano in causa anche la furia claustrofobica degli Altar of Plagues e un che del black metal cascadiano d'oltreoceano. Signori, questo cd si candida ad essere uno dei top album nella scena black di questo 2016, che con la violenza di "Niðrdráttr", spinge per affermare la superiorità dei Fyrnask in quest'ambito musicale. "Vi Er Dømt" risuona come un rito sciamanico, atto a regalare al disco anche una certa ritualità di fondo che arricchisce, in termini contenutistici, la proposta dell'ensemble della Renania. Dopo questa pausa rumoristica, si riprende con "Agnis Offer", una song davvero strana, inedita per la band e per questo anche più difficile da inquadrare. I suoni non sono infatti quelli canonici dato che l'approccio della band verge verso una certa solennità di fondo che evoca addirittura gli Urfaust. Ancora un intermezzo ritual e poi il vuoto viene colmato dalla ferocia insana di "Blotàn", pezzo pirotecnico e anche il mio preferito, che alterna epiche sfuriate black a schizofrenici mid-tempos, con la voce di Fyrnd che sbraita invasata per tutti i suoi sei minuti. Un altro rito proferito da una litanica voce, scandita dal suono di una campana, ed eccoci approdare a "Kenoma", un episodio nebuloso per la discografia della band, che ha avuto l'intelligenza di riarrangiare il proprio sound, progredendo verso un'evoluzione sonica che li ha portati in poco più di cinque anni, a divenire una delle più interessanti realtà dell'underground black. Le ultime menzioni di quest'oggi vanno allo splendido digipack e relativa cover, a cura dell'artista irlandese Glyn Smyth e infine per l'edizione in vinile, che include la bonus track "Vitran". Fyrnask, c'è da fidarsi. (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2016)
Voto: 85

https://fyrnask.bandcamp.com/

Hella Comet – Locust Valley

#PER CHI AMA: Indie Rock, Sonic Youth
Uno spesso muro di feedback chitarristici, pastoso, fitto e dissonante, è la prima cosa che ascoltiamo, quasi investendoci, una volta premuto play su “Secret Body Nation”, prima traccia dell’ultimo album di questo quartetto austriaco di Graz, e immediatamente non possiamo non pensare che a due parole: “Sonic” e “Youth”. Il modo di usare le chitarre infatti richiama in modo evidente lo stile di Thurston Moore e Lee Ranaldo, e allo stesso modo, la voce della bassista Lea ricorda una Kim Gordon più sognante e più intonata (e dal timbro che ricorda la Björk degli esordi); solo la batteria è più essenziale e quadrata, ma non per questo, meno efficace. Rispetto alla storica band newyorkese, gli Hella Comet paiono meno interessati alle divagazioni sperimentali e più concentrati su una struttura più propriamente rock, tanto che questo 'Locust Valley' si avvicina nelle atmosfere, agli album più diretti di Moore & Co., come 'Dirty' o l’ultimo 'The Eternal'. Rispetto al passato però, gli austriaci paiono aver parzialmente accantonato una certa tendenza al pop-shoegaze e anche le loro inclinazioni post-rock vengono confinate di fatto, solo nelle fragorose esplosioni di “Idiots and Slavery” e nello strumentale conclusivo “Conk Out”. Quello che emerge maggiormente da questo disco, e che lo rende davvero interessante, è l’altissima qualità di scrittura, unita ad una produzione potente e fragorosa. I dieci brani che compongono l’album (uscito peraltro solo in vinile) sono uno meglio dell’altro, dall’impatto della già citata ”Secret Body Nation”, di “Sid” o “Death Match Figure”, alle splendide cavalcate mid-tempo di “Fortunate Sleepers” e “Midsummer Heat”, fino alle schegge noise di “43goes79goes43” e “The Wicked Art To Fake It Easy”. Disco splendido, perfetto per albe brumose in riva all’Hudson River, sere piovose negli appartamenti di Brooklyn, ma che va benissimo anche per qualsiasi luogo in cui vi troviate ora. (Mauro Catena)

lunedì 10 ottobre 2016

They Seem Like Owls - Strangers

#PER CHI AMA: Progressive/Post/Death Sperimentale, Opeth, Katatonia, Riverside
Dislocati tra Portland, Chicago e Washington DC, i They Seem Like Owls sono un progetto di quattro individui, che ognuno nella comodità di casa propria, hanno concepito questo interessante 'Strangers'. Influenzati da una mistura di prog rock e frangenti di death metal sperimentale, quello che balza all'orecchio durante l'ascolto della opening track, "Chasm", oltre ad una certa perizia tecnica e un notevole gusto per le melodie, è l'influenza esercitata dai Ne Obliviscaris, in fatto di utilizzo di clean vocals e di quella atmosfera che caratterizza la band di Melbourne, che immediatamente mi ha fatto sobbalzare dalla sedia e ascoltare il cd con una dose di attenzione decisamente sopra la media. I cambi umorali dei nostri si riflettono nel flusso musicale che procede dinamicamente nella prima brillantissima song. Speriamo solo non si tratti di un fuoco di paglia e che le conferme arrivino anche dalle successive tracce. Con una curiosità quasi spasmodica, mi avvio quindi all'ascolto di "Vertices", brano numero due, in realtà un interludio di synth che introduce a "Elevator". La song si preannuncia tutta in salita, complice un inizio timido su cui si va a posizionare la voce pulita di Jason Margaritis in un contesto sonico più spostato ora verso sonorità marcatamente progressive rock, e che solo nel finale trovano modo di irrobustirsi grazie al rientro del growling del frontman. Si torna a correre con "Thanksgiving", ma la ritmica qui sembra virare verso il djent, in una commistione sonora che diventa ancor più complicata da inquadrare, per quell'alternanza di voci, ma anche per un continuo lavoro che vedono i nostri cambiare tempi con una certa frequenza, rallentare paurosamente, spezzettare il proprio sound e poi et voilà, ecco l'ingresso inatteso del sax di Michael Schiavoni a incorniciare un brano che suona come una girandola di emozioni per quell'infinita miscela musicale che esso sprigiona. Si va avanti increduli a quanto nel frattempo sta accadendo nell'impianto stereo. Le atmosfere con "Light Field" si fanno più plumbee, il sound sembra quasi post rock, il sax irrompe nel buio della notte, in un'atmosfera che assomiglia molto più a quella di un lounge bar piuttosto che di un club dove si sta suonando heavy metal. Ma i quattro sembra stiano facendo una jam session, improvvisano musica, sperimentano e io non posso far altro che godere davanti all'eclettismo di questi fantastici musicisti e prendere atto che qui nulla è scontato. Grazie a Dio. Un altro intermezzo soft e arriva "Shooter", e i suoi suoni che sin dai primi secondi presagiscono indubbia follia. Non mi sbaglio, la song è sicuramente irrequieta, basti ascoltare il lavoro dietro alle pelli di Billy Cole, mentre l'ottimo Dan Cutright si prende cura di basso, chitarre e synth, con la ritmica che nel frattempo corre veloce, si ferma e riparte neppure fosse una gara di Formula 1, in una traccia che forse strizza l'occhiolino ai polacchi Riverside, ma che comunque possiede nella seconda metà un piglio quasi psichedelico. Diavolo, ho ascoltato sette brani ma in realtà mi sembra di aver passato nel mio lettore 5-6 cd. Straordinari, anche se il loro eccessivo trasformismo rischia quasi di diventare un'arma a doppio taglio, ossia di non piacere a coloro che non hanno una visione del tutto trasversale della musica. Con me vanno assolutamente a nozze, considerato che la traccia successiva sembra evocare in poco tempo Katatonia, gli ultimi Opeth, e per una manciata di secondi anche Tool, Ne Obliviscaris e Porcupine Tree, e sono certo che se vi metteste anche voi le cuffie a tutto volume,sareste in grado di scovare mille altre influenze, in un disco che ha il grande merito di offrire un cosi vasto spettro musicale che non potrà far altro che colpire anche i vostri pretenziosi sensi. Bella scoperta. (Francesco Scarci)

domenica 9 ottobre 2016

Interview with Malevolentia


Follow this link to know much better the content of the new album 'Repvbliqve' by Malevolentia, the French Symph Black band:

http://thepitofthedamned.blogspot.it/p/in-thick-fogs-of-city-of-lion-motley.html

Heretic - Underdogs of the Underworld

#PER CHI AMA: Punk Rock, Motorhead, Misfits
Il comeback discografico degli olandesi Heretic suona come il più classico "back in time", un vero e proprio tuffo nel passato alla ricerca delle radici del punk, per un disco che scomoda facili paragoni con band del calibro di Motorhead o Misfits. Il quartetto tulipano, che ha celebrato lo scorso anno il ventennale dalla propria fondazione, non è quindi quel che si dice una band di primo pelo, di erba i nostri ne hanno mangiata parecchia, creandosi la propria folta schiera di fan. Io, ahimè, non faccio parte di quella cerchia, però non posso far altro che alzare le mani, apprezzarne l'indubbia professionalità (e genuinità) e sottolineare la prova decorosa che i quattro punkers dei Paesi Bassi ci regalano: trentatré minuti di scorribande affidate a chitarra/basso e batteria, suonate in modo scarno e senza la ricerca di tanti orpelli artistici, su cui si stagliano le rozze vocals di Thomas Goat. Dimenticatevi pertanto synth, tastiere, violini o voci di gentili donzelle che popolano le ultime produzioni metal, 'Underdogs of the Underworld' offre il classico rock'n roll sporco e cattivo, suonato comunque con passione da una band che calca i palchi di tutto il mondo dal lontano 1995. E cosi il quinto album della loro lunga carriera, costellata peraltro da una miriade di split album, sciorina dieci tracce brevi (la durata complessiva è di 33 minuti) ed incazzate, di cui sottolineerei "Black Metal Punks" con il suo spirito thrashettone in un qualche modo vicino a 'Kill'em All' dei Metallica. Ed ancora perché non citare la melmosa "Hellbound Doomslut" o le schegge tipicamente punk di "Nuclear Pussy" e "Bitchfuck", vere e proprie arroganti citazioni di gente tipo Ramones o Sex Pistols. Un'ultima menzione va a "This Angel Bleeds Black", altro pugno nello stomaco, dotato di un peculiare groove. Insomma, se siete in vena di rievocare vecchi tempi ormai andati o di rivivere un'epoca che mai avete vissuto, mettete questo platter nel vostro lettore, infilatevi gli anfibi Dr. Martens e il vostro giubbotto di pelle e lanciatevi nel pogo selvaggio degli "Eretici". (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2016)
Voto: 70

https://hereticvanrecords.bandcamp.com/

sabato 8 ottobre 2016

Fjord - Portrait for a Reflection

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze
Romania, terra di fascino e mistero. Queste qualità si traducono in musica nella delicata essenza dei Fjord, band originaria di Bucarest, dedita ad un elegante post rock strumentale, che merita assolutamente tutta la vostra attenzione. Più volte abbiamo scritto delle difficoltà che si riscontrano nel descrivere un disco post rock e nella facilità di cadere in una ripetitività di fondo nell'uso di parole che possono risuonano banali ai più. Però la fortuna aiuta gli audaci e quindi se proponi tale genere e lo arricchisci con una personalità fuori dal comune, ovvio che si superano tutte le difficoltà del caso e alla fine, anche l'ascoltatore più esigente come il sottoscritto, finisce per lasciarsi guidare dallo spirito mansueto che anima un lavoro cosi fortemente intimista com'è questo 'Portrait for a Reflection'. Un lavoro maturo che si snoda lungo cinque lunghe tracce che fanno breccia nella mia testa già dalle effusioni iniziali di "Stars in an Ocean of Darkess", languido brano dal forte mood malinconico, incorniciato dalle sue minimalistiche chitarre che nel corso della song trovano modo di incupirsi e coprirsi di un manto oscuro, quasi catramoso, travolgendo i miei sensi e riempiendo i miei neuroni, con una iper stimolazione sinaptica. Peccato manchi un cantato, anche solo sussurrato o lamentoso, come accadde invece in "On Icy Shores" nel loro primo album (peraltro ad opera del "nostro Manuel Vicari dei Plateau Sigma), perché a quel punto sarebbe stata la classica ciliegina sulla torta. "There is Life Inside This Sapphire" è la seconda traccia di questo brillante disco, onirica nel suo incedere, una song inserita in una guaina di misticismo ancestrale che evoca suoni lontani, quasi intrisi di magia. "Phoenix" è la terza tappa di questo alchemico viaggio che ci conduce in territori più ruvidi di sonorità che comunque rimangono nell'ambito del post rock, ma che trovano modo anche di percorrere i sentieri astratti dell'ambient e di affini sonorità eteree, quasi shoegaze. E mentre la prima mezz'ora del disco se n'è praticamente andata, arriviamo a "A Breath as a Promise", una song che conferma la tendenza meditabonda del combo rumeno e che comunque regala attimi di quiete e relax, per un finale affidato all'inquietudine di "Island of Commitments", un brano dalla forte vena cinematografica che sancisce la maturità di questi cinque ragazzi di Bucarest che, come scrivevo nelle note introduttive, necessita assolutamente di tutta la vostra attenzione. Sensoriali. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 80

Colossus Fall - Hidden into Details

#FOR FANS OF: Post Hardcore, When Icarus Falls, Abenakis
The debut full-length from Swiss post-hardcore rockers Colossus Falls offers a rather engaging if flawed variant on the style which is a loud, raucous affair without much else going for it. This is the loud, stuttering style of post-hardcore that offers up bland, chug-heavy patterns offset with plenty of sprawling riff-work that further drags the pace to a halt and it’s mainly when they drop that extended sprawling sections in their tracks that they really generate some fiery and enthusiastic work here. The riffing becomes bouncy and dynamic in these sections and the livelier tempos give this a stylish series of drum-work that brings the tempo back up significantly, but those other pieces here just really make this one quite a bland effort overall. Opener ‘Rise of Adrenaline’ features tight and frantic riff-work with plenty of tough, jangly riffing and scattered, schizophrenic patterns that creates a series of frantic and urgent rhythms leading into the blistering finale for a strong opener. Both ‘The Errorist’ and ‘Visions of Inhumanity’ go for extended swirling sprawling sections and a rather dragging, droning pace that rumbles along with a few rather energetic bits with plenty of vicious rhythms and pounding patterns that are dropped for favoring the droning bits here leaving these quite bland overall. ‘Bullseyes’ packs more of an energetic rhythm into a loud, raucous series of riffing with a stuttering pace and plenty of frantic paces that drop off in favor of rather bland post-rock sprawling before bringing the clanging rock back in favor for the album’s highlight. ‘Disgusting Secrets’ is a series of dinkly acoustic trinkling that carries on the light melodies with the heavier chugging coming into play with the final half as a pretty bland effort overall. ‘Kabuki - 歌舞伎’ offers some rather tight chugging and plenty of swirling rhythms that bring about a rather dynamic charge that works rather well leading into the heavier sprawling for the finish for a fine if quite too short effort. ‘(We were) Gatekeepers’ features plenty of strong swirling riffing and a rather strong swirling series of groove-based chugging that brings along the sprawling swirling here that leads into the stuttering finish for a rather enjoyable effort. ‘Nonversation’ plods along with light chugging and frantic pounding that really works along a series of frantic chugging with plenty of rather chaotic drumming alongside the rumbling riffing that leads into the final half for a solid enough effort. Finally, album-closer ‘F.A.T.’ takes straightforward swirling chugging and atmospheric sprawling into a stuttering series of rhythmic chugging that features the endless patterns churning along throughout into the clanking finale for a lackluster finish. On the whole, it’s not terrible but it does have some troubling factors involved. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 65