Interviews

giovedì 30 giugno 2016

The Apparatus - Heathen Agenda

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Black Sperimentale
A volte mi domando per quale assurdo motivo i gruppi scelgano nomi brutti, buffi o assurdi da pronunciare o da scrivere. Gli Apparatus, ennesima dimostrazione di questo trend, appartengono certamente alla prima categoria, de gustibus. Continua la nostra rassegna alla scoperta di vecchi album e oggi ci troviamo di fronte ad una band norvegese, proveniente da Trondheim, che si proponeva di suonare una sorta di “Melodic Extreme Metal”. Nati nel 1999 e dopo essere stati di supporto a bands del calibro di Mayhem, Deicide, Vader e Keep of Kalessin, il sestetto scandinavo si è autoprodotto questo 'Heathen Agenda' nel 2004, lavoro che ha catturato l’attenzione della inglese Dream Catcher Records che ne ha ristampato l’album e gli ha permesso una distribuzione più consona. Il genere proposto dai ragazzi, è un death/black/doom atmosferico, vagamente influenzato dagli Ancient Wisdom, dai primi Fleurety, dalla stramberia dei Ved Buens Ende e dal viking metal, ma anche da un certo groove assai ispirato; insomma c’è né per tutti i gusti. L’album, pur non godendo di una produzione cristallina, è piacevole da ascoltare e soprattutto costituisce l'unica uscita ufficiale prima dello scioglimento della band nel 2005. Assai godibile è l’ottimo lavoro del bassista, ispiratosi fortemente al grande Steve Di Giorgio; la batteria invece appare leggermente ovattata, mentre le chitarre imbastiscono riff non del tutto ortodossi, ispirati appunto alle disarmonie dei Ved Buens Ende. Infine le vocals spaziano dal growl a tonalità leggermente più alte. La musica del combo norvegese è sofferente, malata, con passaggi atmosferici e meditativi, grazie all’abile lavoro ai synths di Per Spjøtvold (ora negli Atrox), che ci permettono di tirare il fiato e rituffarci nella follia degli Apparatus. Un album sicuramente acerbo che lasciava trasparire tuttavia grandi sviluppi per il futuro, peccato... (Francesco Scarci)

(Dream Catcher Records - 2004)
Voto: 65

https://myspace.com/theapparatus

Wendigo – Anthropophagist

#PER CHI AMA: Black'n Roll/Thrash, Venom
L'antropofagia è la pratica di consumare carne umana, spesso sinonimo principalmente di cannibalismo umano, ma è anche il titolo dell'album d'esordio di questo pazzesco duo norvegese, formatosi solo nel 2014 in quel di Oslo. Ingegnosi nel cavalcare una somma di generi molto popolari e spettacolari, nel rivisitarli con un'estrosità ed una maestria tale da renderli unici. Horror thrash metal con punte rivolte verso i Venom ed i Motorhead, quanto al black metal di Carpathian Forest, God Dethroned e Cobolt 60 ed ai quanto mai perversi Cryfemal, il tutto volto ad un universo malato e sacrilego infinito, correlato di istinto punk lacero ma geniale. Kvalvaag suona tutti gli strumenti, mentre il verbo insano è opera della violentissima e teatrale voce insalubre di Jon Henning, uno stupendo Iggy Pop degli albori, indemoniato e in salsa metal, in preda a convulsioni e tetri spasmi. La loro prima opera è a dir poco esaltante, un mix di vero rock sanguinario e sottogeneri del metal, dal thrash allo speed, passando per il black'n roll, un mix perfetto, originale e squisito per tutti i palati, una gemma imperdibile. Generato come fosse un nuovo nato in casa Venom di tanti anni fa, suonato alla velocità della luce come gli ultimi Children of Bodom (ma poco ha a che fare con la proposta dei finnici), omaggiando il Motorhead sound più violento, quindi senza far superstiti, il tutto condito con un glamour nerissimo da far invidia ai 69 Eyes più gotici ed all'horror punk più underground dei seminali e dimenticati T.S.O.L. Lo ammetto, i Wendigo mi hanno letteralmente folgorato: "The Anthropophagist", che dona il titolo all'album, è incredibile nel suo tiro vetriolico, mentre "Wendigo Psychosis" risulta devastante con il suo progredire in stile punk'n roll dal sapore noir. Una carrellata di brani strappabudella, carica di coscienza e conoscenza rock, stradaiola, putrida e malata, infetta e letale. Impossibile resistere ad un album così completo, curato nel sound e creato con l'intento di dare al metal il suo antico significato, generare trambusto e scompiglio e quando si aggiunge il maligno al rock, si sa, nasce una formula violenta, magica, incontrollabile, anarchica e indomabile, degenerata e dal fascino incredibile. Usciti nel 2015 e distribuiti dalla coreana Fallen Angels Productions, i Wendigo non possono passare inosservati. L'artwork di copertina è poi scarno e sotterraneo, ma soprattutto sbandiera apertamente la pericolosità di un disco del genere. Black'n roll e thrash all'ennesima potenza, un disco di carattere e personalità, tanto umore nero, niente di nuovo sia chiaro, ma sicuramente un disco dall'impatto paragonabile ad una pistola puntata dritta alla tempia della moralità. Album da ascoltare a tutti i costi. (Bob Stoner)

(Fallen-Angels Productions - 2015)
Voto: 85

https://wendigonorway.bandcamp.com/releases

Desecration - Process of Decay

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Suffocation, Morbid Angel
Ancora uno sguardo ai vecchi album del passato questa volta con gli inglesi di Newport, Desecration, che hanno fatto sfracelli oltremanica nel primo decennio del nuovo millennio. Sarà, ma 'Process of Decay' non mi convince per nulla: per essere il 2005, questo era uno tra i tanti album di un banale death metal, che andava a pescare qualche influenza un po’ qua e là tirando a campare, nel tentativo di mischiare il death metal alla Morbid Angel/Suffocation con ritmiche dal forte sapore “slayeriano”, periodo 'Reign in Blood' e altre cosine che strizzavano l’occhio al death nord europeo. I ventotto minuti che compongono quest’album sono di un piattume estenuante: gorgheggi dall’oltretomba, chitarre marcissime e una batteria al limite del disumano, fanno capire che siamo nel più profondo girone dell’inferno e solo degli stop’n go, presi in prestito dai Pantera, ci riportano alla realtà; poi i soliti vagiti brutali e le velocità al fulmicotone del terzetto proveniente dalla terra d’Albione, ci rispediscono diretti tra le braccia di Lucifero. Questo è death metal putrido al 100%, accompagnato da una cover artwork macabra e da relative liriche malsane, nonché da una produzione altrettanto grezza, che non rende appieno la potenza effettiva che scaturisce da questo tremebondo e isterico Lp. Chi è estraneo a queste sonorità, continui a restarne distante, per gli amanti di un sound così mefitico, non so quanto effettivamente valga la pena spendere soldi e tempo per pochi minuti di musica che hanno ben poco da dire, meglio continuare ad ascoltare 'Reign in Blood' fino alla nausea. (Francesco Scarci)

mercoledì 29 giugno 2016

The Pit Tips

Francesco Scarci

Germ - Escape
Skyforest - Unity
Wyrding - S/t

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Bob Stoner

Radiohead - A Moon Shaped Pool
Blixa Bargeld & Theo Teardo - Nerissimo
Elusive Sight - Beyond Light

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Don Anelli

Scolopendra - Cycles
Paradox - Pangea
Nervosa - Agony

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Kent

My Dying Bride - Evinta
Steve Reich - Daniel Variations
Machinefabriek - Stillness Soundtracks
 

Everything Behind - Man From Elsewhere

#PER CHI AMA: Metalcore/Alternative
Il metalcore è un genere tosto. L'ho dato per morto una miriade di volte in quanto svuotato da ogni tipo di significato poichè consumato, usurato, esaurito in fatto di contenuti. Eppure, ogni volta si rialza, si reinventa e ha sempre modo di proporre una variazione al genere, magari contaminandolo con altre sonorità. Un plauso va quindi ai francesi Everything Behind che nel loro 6-track, sono riusciti a buttare dentro alla loro proposta metalcore, un qualcosa di hardcore, un pizzico di heavy metal, una spruzzata di rock e addirittura una glassa di elettronica (e "Welcome to the End" ne è un bell'esempio e anche la mia traccia preferita). Il risultato è questo dischetto intitolato 'Man From Elsewhere', uscito a dicembre 2015 che tra lo scetticismo generale, compreso quello del sottoscritto, è riuscito a sorprendermi non poco. Chiaramente, come detto più volte, c'è ben poco da inventare in questo ambito, ma forse è un discorso che potrebbe essere esteso a tutto il metal in generale. Tornando agli Everything Behind, l'alternanza tra i classici riffoni sincopati, qualche break math o qualche accenno alternative, nonchè la buona prova del vocalist soprattutto a livello di clean vocals, mi fanno considerare questo lavoro un buon lavoro. Per carità, talvolta suonerà ruffiano, inutile nasconderlo, perchè anche voi percepirete in "Will You Let Love" un po' di quella puzza Nu Metal, però 'Man From Elsewhere', nel proseguio del mio ascolto, continua ad essere sempre più piacevole e addirittura imprevedibile. Onirico nella strumentale "13.11.15", feroce e un po' più banale in "Reborn", una traccia che tuttavia vive di saliscendi ritmici e che, nel su spettrale finale, ci introduce alla title track. Quest'ultima song rappresenta un po' la summa di quanto ascoltato fin qui nei 30 minuti di questo secondo lavoro firmato dalla band parigina. C'è sicuramente ancora da lavorare per identificare una propria identità ben definita, smussare gli spigoli e le banalità in cui facilmente l'act transalpino cade per inesperienza (come ad esempio una orribile cover cd); malgrado questo le potenzialità sono assai elevate. Li aspetto al varco, attenzione a non deluderci con il prossimo passo... (Francesco Scarci)

Shyy - Demo 2016

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze
Nel 2012 i brasiliani Shyy uscirono con uno split album in compagnia dei nostrani ... (dotdotdot). A distanza di quattro anni, il quartetto di San Paolo torna a farsi sentire con un demo di due pezzi e un sound che sembra essersi incattivito rispetto al passato. Se a quel tempo avevo avvicinato la proposta dei nostri ad uno shoegaze di derivazione francese, "Desfalecer" prima e "Afogar-se" sembrano offrire un qualcosa di più grezzo che soffre già in partenza di una produzione non troppo limpida, con un riffing un po' troppo caotico e un vocalist che sembra aver fatto un salto indietro rispetto al passato sia nella componente scream che pulita. Certo, le potenzialità ai nostri non mancano, ma questo 'Demo 2016' ha tutte le fattezze di un prodotto troppo "casalingo" che rappresenti semplicemente una forma embrionale di quello che i quattro carioca vorrebbero realmente esprimere. Francamente mi aspettavo qualcosina in più dagli Shyy anche se ci sono delle discrete melodie, il rifferama è acuminato quanto basta, il cantato caustico, ma ciò che manca è quell'accattivante sensazione di benessere che mi aveva conquistato ai tempi dell'uscita per la Pest Productions. C'è da lavorare e anche parecchio per tornare a convincermi pienamente. Per ora, si tratta solo di una sufficienza risicatissima. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 60

https://shyybr.bandcamp.com/

Soulhenge - Anachronism

#PER CHI AMA: Djent/Metalcore, Tesseract, Meshuggah
Il Lussemburgo, pur essendo un piccolo paese, inizia ad avere una scena metal che pian piano prende forma, grazie anche al supporto del ministero della cultura (cose impensabili per il nostro paese). Cosi, dopo aver recensito quest'anno gli Sleepers’ Guilt, ecco che facciamo la conoscenza dei Soulhenge, quintetto di Diekirch, dedito a una forma di modern metal. Nei quattro pezzi inclusi in questo EP, intitolato 'Anachronism', non possiamo che farci investire dal loro djent venato di influenze metalcore e mathcore (che erano assai più marcate nel precedente album 'Fragments'). Le danze aprono con "A New Dance", dove palese è la carica di groove che esonda dalle note della opener track, che ha modo di mostrare il dualismo vocale, in pulito e growl, del frontman Ozzy, il chiaro contrapporsi tra il riffing distorto, creato dal duo di asce formato da Yannick e Milian e la delicatezza dei synth, in una traccia che assimila inevitabilmente gli insegnamenti dei Meshuggah su tutti. I dettami dei gods svedesi vengono fusi nella successiva "The Atomic Age", con il suono accattivante del djent dei Tesseract e dei Born of Osiris, in poliritmici pattern ricchi in melodia, breakdown acustici, vocalizzi catchy e chi più ne ha più ne metta, per risultare ai più, decisamente easy listening. Non vi soffermate però su queste sole parole e lasciatevi trascinare dal ritmo coinvolgente e travolgente dei Soulhenge, capaci di fondere nel loro sound anche influenze progressive e ipnotici intermezzi di tastiera (ascoltate "Serenity" per questo e non ve ne pentirete). Giungiamo con una certa velocità alla conclusiva traccia, la title track di questo EP, che segna senza ombra di dubbio un grande passo in avanti rispetto al debutto, pur senza inventare nulla, ma semplicemente arricchendo il proprio sound a livello di arrangiamenti, pulizia di suoni e ottime melodie, costituendo un buon e solido punto di ripartenza per la band del piccolo granducato europeo. (Francesco Scarci)

(SACEM - 2016)
Voto: 70

https://soulhenge.bandcamp.com/

Master's Hammer - Formulæ

#PER CHI AMA: Occult Black Sperimentale
Era il 1993 quando uscì 'The Jilemnice Occultist', un album che ebbe un forte impatto nella mia crescita di metallaro, grazie ad un sofisticato e progressivo sound black metal, fino ad allora senza precedenti. Sono passati 23 anni da quel lavoro e, dopo una serie di vicissitudini che hanno tenuto la band in standby per quasi tre lustri, i cechi Master's Hammer (MH) sono tornati a produrre dischi con una certa continuità. Ed ecco l'ultimo arrivato, 'Formulæ', una release contenente ben 15 nuovi psichedelici pezzi di black ipnotico ed occulto, chiaramente cantato in lingua madre, come da tradizione in casa MH. L'attacco, affidato a "Den Nicoty", ci consegna l'act di Praga in un buono stato di forma, con un pezzo non troppo lungo ma con una bella melodia di fondo, ancora in grado di riportarmi ai fasti di quel capolavoro che fu 'The Jilemnice Occultist'. È già con la seconda "Maso z Kosmu" che la proposta dei nostri viene contaminata pesantemente dall'elettronica, in un pezzo mid-tempo in cui affiorano più forti che mai gli sperimentalismi obliqui del terzetto ceco. Le caratteristiche di fondo della band sono comunque rimaste immutate nel corso di tutti questi anni: la voce inconfondibile di Franta Štorm cosi come le chitarre distorte e malate di Necrocock, mentre una lunga serie di elementi innovativi, ha trovato posto nella spina dorsale dei MH. Si parlava di sperimentalismi e 'Formulæ' ne è ben ricco: in "Votava" c'è l'utilizzo di un quello che credo che sia un trombone, mentre la successiva "Shy Gecko", oltre ad essere un pezzo assai tirato, offre un chorus molto ruffiano che mi lascia quasi del tutto disorientato. I Master's Hammer filano dritti che è un piacere con pezzi che si assestano tutti sui quattro minuti, contraddistinti da una carica di groove non indifferente e dall'utilizzo di una matrice elettronica davvero ispirata, talvolta addirittura un po' troppo spinta che per certi versi mi ha evocato il periodo più sperimentale dei Samael. Cosi, i synth, in stile elicottero, si affiancano alle vocals e all'impianto ritmico dei nostri in "Arachnid", in una traccia minacciosa e ossessiva. Una serie di break visionari spezzano l'irruenza di "Všem Jebne", mentre il riffing di "Biologické Hodiny" ha un che di spaziale nel suo incedere che la elegge quale mia song preferita dell'album. Nelle note di 'Formulæ' aspettatevi di trovare ben poco di convenzionale: "Phenakistoscope" è un brano etnico e tribale che sancisce il distacco quasi totale dei nostri dal black metal e apre la strada a nuove forme musicali assolutamente fuori dai normali schemi compositivi, cosi come accade nella frammentata "DMT" o nella delirante "Podburka", che ci conduce in altri territori inesplorati del mondo metallico. C'è anche modo di rievocare il passato con il riffing acuminato di "Jazyky", ma delle tastiere liquide e psicotiche, avranno il merito di deviarvi la mente verso la follia più totale. L'unico neo che potrei trovare al disco è relativo all'elevato numero di pezzi che lo costituiscono, forse avrei fatto a meno di almeno un paio di questi, certo non della southern western "Rurální Dobro" o dell'orientaleggiante finale affidato a "Aya", a confermare l'imprevedibile originalità di questo trio che da quasi 30 anni ci travia con le loro suggestive musiche aliene. (Francesco Scarci)

(Jihosound Records - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/MastersHammerOfficial

Interview with Wyrding



A funereal echo emanates from deep within the abandoned outskirts of Antigo, Wisconsin... 
Follow this link to know the incredible guys of Wyrding:

martedì 28 giugno 2016

Suicide Commando - Axis of Evil

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: EBM
Era il 2003 quando mi ritrovai tra le mani il nuovo album di Suicide Commando, senza ombra di dubbio l'uscita discografica che quell'anno attendevo con maggior impazienza! Vi posso assicurare che fu veramente sorprendente ciò che Johan Van Roy era riuscito a fare in 'Axis of Evil', un album che ad un primo ascolto poteva anche sembrarvi molto diverso dalla precedente produzione dell'artista belga. In particolare con 'Construct Destruct' e 'Mindstrip', Johan ci aveva infatti abituato ad una forma di EBM talmente personale ed inconfondibile che ogni singolo aspetto della sua musica sembrava perfetto esattamente così com'era, senza bisogno di cambiar nulla e senza che nessun fan si fosse mai aspettato in verità alcun stravolgimento di sorta. Suicide Commando rientrava insomma in quella categoria di progetti musicali ai quali non chiedi altro che i soliti ingredienti per rimanere soddisfatto, come se la forte dipendenza da una formula ormai ben consolidata e familiare ti facesse apparire poco attraente qualsiasi prospettiva di cambiamento. Così anch'io ho dovuto ascoltare 'Axis of Evil' alcune volte prima di riuscire ad abituarmi alla sua diversità che, seppure non eclatante, si poteva sicuramente avvertire in una maggior varietà delle vocals, in una produzione più morbida e soprattutto nella tendenza dei brani ad assumere una struttura più complessa che in passato. Il risultato fu un'apertura intelligente verso un suono che legava violenza e melodia dosando entrambe in quantità pressoché perfette ed eccedendo nell'una o nell'altra solamente quando ne convenisse ad un effetto complessivo di immediatezza, la quale sarebbe stata difficile da ottenere se non fosse che il responsabile di tali equilibri era un musicista con alle spalle già un'esperienza più che decennale nell'ambito dell'elettronica. Quello di 'Axis of Evil' era un flusso ininterrotto ed avvolgente di beat che instaurava un dialogo continuo con i vari campionamenti utilizzati e con le urla rabbiose di Joahn, il quale alternava alla sua tradizionale prestazione vocale inedite vocals robotiche che meglio si adattavano alla vena dance-floor di episodi quali "Face of Death", "Reformation" o "One Nation Under God". Trovo non vi sia nulla di studiato o di "sornione" nell'accessibilità di questi brani moderati ed orecchiabili, ma vi si intraveda piuttosto il desiderio di voler allargare lo spettro emozionale della propria musica su un campo più vasto, che potesse ricoprire una varietà di umori differenti. La fusione tra linee di basso distorte e pesantissime percussioni non venne comunque relegata in secondo piano trovando il suo sfogo più aggressivo in "Plastik Christ", il cui testo confermava ancora una volta la posizione fortemente critica di Johan nei confronti della religione. Ma il concept lirico dell'album affrontava in maniera dura e provocatoria numerosi altri argomenti d'attualità per l'epoca, dal tema del suicidio fino a quello spinoso dell'allora situazione politica internazionale. Non so se fosse corretto chiamarlo capolavoro, le premesse c'erano comunque tutte! Io non posso fare altro che consigliarne l'ascolto a tutti coloro che non conoscono Suicide Commando e a farsi conquistare da 'Axis of Evil', avvicinandosi in questo modo all'esempio forse più attendibile e convincente di quale significato assumesse il termine EBM nel 2003. (Roberto Alba)

(Dependent Records - 2003)
Voto: 85

http://www.suicidecommando.be/

lunedì 27 giugno 2016

Utuk Xul - Goat of Black Possession

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Satanic Black
Mi sa tanto che con questo album rilascerò la recensione più breve della mia vita, perchè prodotti di questo genere non ha alcun senso che esistano. In Italia ci sono tanti gruppi validi senza contratto e questi colombiani di Calì riuscirono nel 2005 a firmare addirittura con la Displeased Records (attraverso la sottoetichetta From Beyond Production)? Ci sarà pur una giustizia divina a questo mondo. Ridicola l’intro in apertura, dove si sente un rito di LaVey che declama i nomi di tutti i demoni dell’infermo. Dopo di che scatta il putiferio: produzione rozzissima, batteria tuntuntuntun, chitarre al vetriolo e urla da girone dantesco. Queste caratteristiche, insieme alla carenza di tecnica e alla totale assenza di soluzioni interessanti, sono valide dalla prima all’ultima traccia, ad eccezione di “Allax Xul”, dove fa capolino una flebile tastiera a smorzare il sound dannato di questo 'Goat of Black Possession' (titolo peraltro quanto mai banale, degno di una band di serie B degli anni ’90). Gli Utuk Xul dichiarano che il loro è un furioso Satanic War Black Metal (sulla scia, direi io, di Marduk o primi Enthroned), con un killer sound supremo; per quanto mi riguarda è soltanto una presa per i fondelli per chiunque debba sborsare la paghetta settimanale per acquistare tale immondizia. Forse sarò stato troppo duro, però per fare metal, non serve avere il face painting, essere satanisti convinti e suonare tre banalissimi accordi con la chitarra. Pollice verso anche per la casa discografica, che in passato è sempre stata attenta nel selezionare le band da mettere nel proprio roster. (Francesco Scarci)

(From Beyond Production - 2005)
Voto: 40

https://myspace.com/utukxul

domenica 26 giugno 2016

Skoll - Grisera

#PER CHI AMA: Black/Epic, Bathory, Summoning
Skoll. Abbiamo avuto modo di recensirli con la loro ultima release, 'Of Misty Fire We Are', di fare due chiacchiere interessanti con M (the bard) in un'intervista qui nel Pozzo dei Dannati, e ora ho pensato di riesumare il precedente album, 'Grisera', che segnava il ritorno sulla scena del "bardo" (nel 2013), dopo ben cinque anni di silenzio dal secondo lavoro, 'Misty Woods'. La versione in mio possesso (l'edizione coreana della Fallen Angels Productions), a differenza dell'edizione europea edita dalla Ewiges Eis Records, include anche la bonus track "The Bard", ma andiamo pure con ordine. Iniziamo la nostra carrellata da "Grush", una song che palesa in modo lapalissiano, l'amore viscerale di M nei confronti dei Bathory (come dichiarato anche da lui stesso in sede di intervista) e della loro epicità dei tempi migliori. Arpeggi acustici, cori epici, lo stesso vento che soffiava in 'Twilight of the Gods' e le sue aperture ariose, sottolineano la vena ispirata degli Skoll. Quello che mi lascia un po' perplesso è semmai una produzione un po' approssimativa che penalizza enormemente il risultato conclusivo, anche se magari è una cosa voluta appositamente per restituire alla musica, quello spirito genuino che è andato perduto nel corso degli anni. La title track continua la sua opera di rievocazione dello spirito di Quorthon, questa volta affidando l'evocazione ai testi in italiano, al suono di quello che credo essere uno scacciapensieri e all'arrembante proposta di M, che tuttavia affida la seconda parte del brano ad una emozionante parte acustica, in cui ad emergere è il violino di Laura. Con "Hrothahaijaz" a venir fuori è la componente più atmosferica degli Skoll, in un black metal mid-tempo, influenzato da Summoning ed Emperor, per un risultato comunque interessante. Di nuovo brividi di piacere corrono lungo la mia schiena, grazie ad un breve inserto di violino che introduce a "Wolves in the Mist", prima che i toni si facciano un po' più accesi, in una canzone che tuttavia stenta a decollare. Giungiamo infine alla bonus track, "The Bard", che oltre a mostrare una registrazione casalinga, sembra essere un messaggio diretto di M, colui che canta del tempo andato, degli eroi dimenticati e dei miti perduti. Epici. (Francesco Scarci)

(Fallen Angels Productions - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/BandSkollIta

Ogmasun - Out of the Cold

#PER CHI AMA: Psichedelia/Stoner/Post Metal
La piccola realtà crescente della Cold Smoke Records ci offre un appetibile cd su cui sfogare le nostre più svariate voglie psichedeliche. Uscito nel 2015, 'Out of the Cold' è il primo lavoro di questa splendida band di Friburgo, un riassunto live dell'elevata qualità compositiva ed esecutiva del quartetto svizzero, registrato e mixato da Christoph Noth (FireAnt Music) al Blend Studio in Svizzera nell'autunno del 2014. La performance in studio del quintetto è a dir poco stratosferica, impeccabile sia per tecnica che per varietà d'esecuzione, cosa che prende la sua forma eccelsa in "Cutty Sark, Pt.2", quando l'incedere nevrotico del brano, oscuro e complicato, sfocia in un intermezzo (ascoltate al minuto 04:13 cosa succede...una vera perla!) inaspettato fluido e caldo, classico e dal profumo estraniante, come solo Bugge Wesseltoft's, in certa musica acid jazz di classe, era riuscito a fare in un album come 'New Conceptions of Jazz', negli anni d'oro. Tornando ai nostri eroi Ogmasun invece, dobbiamo dire che musicalmente il disco si divide in quattro lunghe suite (in realtà tre, poiché "Cutty Sark" è divisa in due parti) indicate come nipoti di quel capolavoro che fu dei Pink Floyd 'Ummagamma' e tutta la progenie del genere che negli anni ha seguito, dai 35007 ai Russian Circle passando per i Long Distance Calling, disturbati dall'introduzione di muscolosi e lisergici atti sonici, con una velata punta di stoner alla Karma to Born, con trasversali scorribande nel mondo complicato e indomito del mathcore dei Candiria fino ad arrivare al post metal dei Callisto. Una miscela esaltante ed affascinante che richiede un ascolto impegnativo ma agevolato da una buona produzione e da una egregia regia che ne esalta la registrazione live, senza denigrare l'aspetto qualitativo del risultato finale, una specie di John Peel Sessions all'ennesima potenza, moderna e soprattutto fatta da musicisti capaci, produttori esperti, amanti e sperimentatori del genere. Un album da ascoltare tutto d'un fiato, immergendosi nelle variegate atmosfere e intercalandosi nei suoi meandri più cerebrali. Una via di fuga, un bagno cosmico ricostituente, pieno di vitalità, ricco di spunti riflessivi, di intelligente energia rock lisergica e free style, fatto da musicisti che hanno voluto varcare il confine cercando di spingersi oltre, al di là del già sentito ed anche se i paragoni sono quelli classici della psichedelia, questo live ci offre la possibilità di accostare nomi contrastanti tra loro come 35007, il Tricky più drammatico e sulfureo di 'Pre-Millennium Tension' e il post metal alla The Ocean. Album pazzesco! (Bob Stoner)

(Cold Smoke Records - 2015)
Voto: 90

https://www.facebook.com/cuttysarkofficial

mercoledì 22 giugno 2016

Master Crow - Die for Humanity

#FOR FANS OF: Melo/Techno/Deathcore, Arsis, Gorod
Hailed as a supergroup of French talent, this second full-length from the melodic/technical death metallers Master Crow bringing along plenty of highly enjoyable elements to make for one of the most explosive and enjoyable offerings in the style. The main segment at play here is the fact that the riff-work is just simply overwhelmingly technical and frantic, whipping up sizeable storms of complex chugging patterns driven along with plenty of ferocious industrial intensity, leaving this one to bring along the sort of blistering rhythms and cold, mechanical feel that’s simply devastating. The approach works in spades with the differing rhythm styles come along with the melodic leads that adds an accessible tone to those mechanical chugging patterns, furthering the overall enjoyment factor of the album with the wholly appealing facet where it’s complex and challenging rhythms that retain a wholly listenable approach with some appropriate and engaging melodies thrown into the mix. Though this does make the album seem somewhat one-note and without a whole lot of variation it’s still engaging and enjoyable enough for a wholly enjoyable listen. The tracks here represent that with a lot to like overall here. The opening title track takes an epic series of swirling rhythms before turning into ravenous pounding drumming and ferocious chugging riff-work leading through the stylized industrial rhythms and polyrhythmic patterns swirling along throughout the solo section and carrying into the frantic chugging patterns in the finale for a highly enjoyable opener here. ‘Down from the Sky’ features blistering technical polyrhythmic riff-work and light melodic drumming chugging along at a frantic mid-tempo pace offering plenty of stylish technical breakdowns alongside the swirling melodic leads bringing the tight riffing patterns through the final half for another highlight effort. ‘Road of Vice’ brings polyrhythmic technical charging patterns and blistering technical drum-work along through plenty of ravenous riffing and plenty of dynamic drum-blasts that bring the melodic flurries in small doses against the dynamic chugging whipping along through the finale for a decent enough effort. ‘Katyusha’ takes a slow, swirling series of droning riff-work and dexterous, technical drumming whipping along through highly complex rhythms full of feverish tempos blasting along through the breakdowns in the chugging rhythms through the solo section and keeping the frantic technical energy along through the chugging final half for another strong highlight. ‘Scream in the Night’ blasts through dynamic chugging riffing and pummeling drumming with plenty of driving technical rhythms firing along through the explosive series of overwhelming technical patterns blasting away against the melodic leads augmented with the clean vocals into the breakdowns of the finale makes for a wholly impressive offering. ‘Staind in Blood’ uses buzzing chug rhythms and mechanical patterns through a series of furious breakdowns that whip along through a wholly frantic and furious blast of blazing technical chugging alongside the blasting drum-work that chops along through the final half for a blazing highlight. ‘Born to Be Crucified’ takes stuttering technical rhythms and frantic mechanical rhythms with pummeling drum-work carrying along through the stuttering tempo as the melodic rhythms carry along through the explosive swarm of up-tempo rhythms along through the breakdown-laden solo section and on through the finale for a strong and overall enjoyable effort. ‘Eye of the Troll’ takes blistering, blazing drumming with plenty of tight, choppy technical rhythms alongside the furious technical, challenging riffing with plenty of stellar polyrhythmic runs along through the tight breakdowns as the choppy melodic leads carry the frantic paces along through the sprawling final half for a decent and enjoyable offering. Closing with the Theo Holander version ‘Down from the Sky’ which doesn’t really offer much of a difference from the earlier normal version and doesn’t offer enough of a change that there’s any reason for it to be included here as it’s the same blasting drumming over frantic technically-challenging chugging that appeared on the other version, leaving it a curious inclusion overall. Overall this one had quite a large amount to fully like here. (Don Anelli)

martedì 21 giugno 2016

Nekhen – Entering the Gate of the Western Horizon

#PER CHI AMA: Doom/Drone/Dark Sperimentale
Sarà l'oscurità e l'aura mistica che circonda questa one man band italiana nata nel 2014, senza dichiarata dimora all'interno dei patri confini e capitanata dal polistrumentista Seth Peribsen, che rende spettrale ed appetibile questo primo ispiratissimo e sperimentale lavoro, uscito nel 2015 autoprodotto. Il tema trattato è l'antico Egitto, per l'esattezza il 'Trattato della Camera Nascosta', un libro connesso alla sepoltura trovato nella tomba del sovrano Menkheperra Thutmose. La band spiega sul proprio bandcamp l'esposto sonico in questo modo: l'album è inteso come un unico brano diviso in 12 tracce, composto seguendo la struttura del trattato stesso, come rappresentato nella tomba, raccontando il viaggio notturno del Dio Sole Ra nell'Amduat, ossia "Ciò che è nel mondo sotterraneo, nell'aldilà". La copertina, che rigorosamente richiama temi egizi e geroglifici, è ben curata graficamente mentre le dodici tracce, tutte di breve durata, sono legate dal filo unico conduttore di rendere l'ascolto un unico intenso viaggio nei misteri di un mondo sommerso e misterioso, espresso tramite una musica carica di evidenti aperture cinematiche e postrock, caratterizzate da sonorità doom influenzate da Electric Wizard, Ramesses, in parte dai Nibiru, dai Goatpsalm e dai Cathedral del brano "Halo of Fire", ovviamente senza il cantato, visto il concept strumentale proposto, il tutto corredato poi da un'alta concentrazione di suoni sperimentali e soluzioni musicali vicine anche allo sludge e all'ambient, con l'utilizzo di una strumentazione e percussioni di carattere folk etnico, ideali per ricreare il giusto pathos, dal sapore antico e dalla forte propensione mistica e sciamanica. Difficile trovare un brano sopra gli altri perchè l'album va apprezzato in toto ed ascoltato a volume alto o ancora meglio isolati da un paio di cuffie, in clausura e concentrazione, per assaporarne il vero valore. Anche se di non facile comprensione, dopo alcuni ascolti ripetuti, il concept diviene catartico ed ammaliante grazie ai suoi chiaroscuri e ad una macabra acidità sonica che colpisce, complice il retaggio degli immancabili Black Sabbath, i padri assoluti del genere doom. Il suono pesante delle distorsioni si incrocia sovente alle percussioni tribali ed etniche mediorientali, formando un'unica, infinita marcia funebre, un'iniziazione, un rituale pronto a farci scoprire segreti inimmaginabili. Questa fatica mastodontica di trenta minuti appena, deve essere valorizzata ed ascoltata perchè dischi del genere non escono tutti i giorni. Considerate poi l'autoproduzione che corrisponde ad una qualità impeccabile corredata da un'ottima produzione, 'Entering the Gate of the Western Horizon' dovrebbe trovarsi in cima alla lista dei desideri di ascolto di tutti gli amanti della sperimentazione in campo doom, drone e folk metal. Un' opera prima davvero notevole per questa promettente one man band italiana. (Bob Stoner)

domenica 19 giugno 2016

Keeper - The Space Between Your Teeth

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Due song per i Californiani Keeper per dimostrarci di che pasta sono fatti vi sembrano poche? Niente paura perché i due brani in questione, durano rispettivamente 17 e 16 minuti scarsi. Più che sufficienti per delineare il profilo fangoso del duo statunitense, in questo EP uscito nel 2015 e intitolato curiosamente 'The Space Between Your Teeth'. "The King" è sludge doom allo stato puro: un riffing lento ma incendiario, che dal primo all'ultimo minuto mantiene intatte le proprie fattezze, muovendosi minaccioso attraverso atmosfere venate di pura tenebra e screaming vocals demoniache che rappresentano l'unico punto di contatto dei nostri col black metal. Poi è solo la distorsione delle chitarre a dominare, in uno slow tempo dai contorni asfissianti ma emotivamente intensi (merito anche di una produzione spettacolare), che per certi versi mi hanno ricordato la proposta dei francesi Crown, qui ancor più cupa e decadente. Non c'è stacco tra la prima traccia e "The Fool", se non un brevissimo attenuarsi a livello ritmico, uno sprazzo di noise/drone, come ideale ponte di congiungimento tra le due song. Poi, solo il marziale incedere del duo americano, a tracciare scenari desolati da fine del mondo e a creare un inevitabile disagio interiore, che va via via crescendo nel corso dell'ascolto della traccia. L'esito conclusivo è assai soddisfacente, se solo ci fosse un maggiore dinamismo a livello delle linee di chitarra, rischieremo di trovarci tra le mani una band dalle potenzialità enormi. (Francesco Scarci)

Sepvlcrvm – Vox In Rama

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
I Sepvlcrvm, progetto anticonformista e ultraterreno, ci regalano 'Vox in Rama', album sacrale meditativo e trascendente. Un altro gioiello di casa Agronauta, che ho avuto il piacere di contemplare all’Argonauta Fest di quest’anno. Premetto che l’ascolto su disco e davanti ad uno stage sono due esperienze totalmente differenti per qualsiasi act, ma per i Sepvlcrvm il salto è ancora più grande. Dal vivo l’atmosfera è come se fosse in grado di fermare il tempo, ma non al momento presente, bensì in un momento non meglio specificato del medioevo oscuro ove gli animi delle persone erano tormentati dalla violenza, dalla fame e dalla sofferenza. 'Vox in Rama' appare come un’espiazione di colpa, una via crucis che purifica lo spirito ed eleva la coscienza. La classificazione del genere ci porta sotto l’ala del drone ritual/ambient, se vogliamo identificare progetti simili possiamo citare i Sunn O))) ma mi permetterei di andare indietro nel tempo fino a Brian Eno e ai King Crimsom anche se non finirebbe qui, visti gli echi di musicalità dimenticate da secoli: canti sacri, formule magiche e suoni ancestrali. La band si esibisce utilizzando svariati strumenti che vanno dai moderni sintetizzatori, looper e chitarre elettriche fino ai sonagli, ai flauti indiani e ai tamburi sciamanici. La commistione di nuovo e antico colloca i Sepvlcrvm fuori dal tracciato del drone moderno sconfinando nel sacro e meditativo ed in più, lasciando una volta per tutte i lidi della forma canzone, arriviamo ad una fruizione musicale inversa dal classico concerto rock. Qui l’ascoltatore non assiste a dei brani o a delle soluzioni musicali orecchiabili, ma è costretto a ricercare dentro se stesso il senso di quanto accade sul palco, come se la canzone si formasse direttamente nella mente dello spettatore, bypassando la percezione del senso letterale delle parole e del senso musicale delle note. Tutto è un unico flusso di energia che si evolve lentamente; ascoltare 'Vox in Rama' è come ammirare il tempo atmosferico che muta e si trasforma, rimanendo immobili in un limbo di coscienza cosmico. Ma ora premiamo play. Rumore, sonagli, la sillaba sacra intonata con fermezza: sembra una processione di monaci custodi di un segreto inaccessibile che, con il loro fardello, vagano senza sosta e senza destinazione. D’un tratto una radura sonica di qualche secondo e poi il tuffo nella prima mastodontica parte dell’opera. Si passa da voci provenienti dalle profondità abissali al suono dell’industria moderna. Difficile parlare di struttura quanto di melodia, ma ad ascoltare con attenzione, vi accorgerete quanto ogni elemento è curato e come ogni passaggio porti ad un ambiente complementare al precedente. La seconda parte, se mai fosse possibile, appare ancor più criptica della prima. I suoni si fanno più aggressivi e ruvidi, una jungla notturna di frequenze, in continua sospensione. Circa a metà della traccia, le voci ancestrali dei monaci escono di nuovo allo scoperto e si fanno più presenti ma solamente per sprofondare in un deserto artico dal quale emergono le prime voci umane, che sembra un accorato dialogo preso da un vecchio film in bianco e nero. Un ultimo assalto sonico ci riporta nella roboante tenebra propria dei Sepvlcrvm, ma lentamente anche questa sfumerà per approdare ad un finale deliziato da una voce femminile. La ragazza è quella del fim in bianco e nero, parla di sogni, religione e morte e ci lascia ancora un volta sospesi nel vuoto. L’ascolto del cd è un’esperienza forte, permette a chiunque si lasci completamente trasportare dalle onde sonore, di viaggiare nel profondo della propria anima e delle proprie paure. 'Vox in Rama' è un memento mori, è un monito che ricorda di vivere non nella paura ma nella consapevolezza della morte, come se il domani non esistesse. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

My Answer - Pictures & Reminders

#PER CHI AMA: Post Hardcore
Già con un certo seguito nel mondo dell'underground transalpino, ho scoperto solo di recente i My Answer, quintetto post hardcore di Nantes, con all'attivo due EP. 'Pictures & Reminders' sembra essere Lp di debutto, anche se la durata di 28 minuti scarsi, farebbe propendere per un altro Extended Play. Il dischetto attacca con "Mistakes", song che possiede tutte le carte in regola per ammaliare i fan con melodie cariche di groove (ma anche di una forte vena malinconica, quasi shoegaze) su cui si pianta lo screamo efficace di Saymon. Un bell'urlaccio apre "Untitled", traccia oscura, dal ritmo nervoso che incanta per delle strazianti chitarre in tremolo picking, per quelle sue variazioni continue al tema e un certo alternarsi tra screaming e growling. Le song filano veloci grazie a delle durate mai eccessive e mi ritrovo senza rendermene conto a "Just a Breath" e alla sua ritmica pungente, calda e pesante, dove ancora mi preme sottolineare la performance vocale di Saymon, veramente bravo in tutte le manifestazioni dello spettro vocale. Si prosegue con "Unsignificant", altra song bella dritta, con interessanti aperture melodiche alle chitarre, un growling profondo e un intenso break atmosferico nella seconda parte del pezzo. Il disco prende questa direzione anche con le successive tracce: "Nightmares" palesa una ritmica serrata, a tratti schizofrenica, senza rinunciare anche a dei rallentamenti e a delle brusche accelerazioni. Con "Our Own Grave" i toni si fanno ancora più dimessi e plumbei, corredati da tutte le caratteristiche del sound targato My Answer. "Coward" chiude un disco, da cui francamente avremo voluto ascoltare qualcosa in più, e lo fa mostrando il lato migliore dei nostri: grande dinamicità, buon impatto emotivo e ottima prestanza. Per il prossimo disco un unico suggerimento, sforzarsi di suonare almeno dieci minuti in più. (Francesco Scarci)

giovedì 16 giugno 2016

Magoth - Der Toten Gesang

#PER CHI AMA: Swedish Black, Dark Funeral, Narvik, Dissection
Mi sembra che nell'ultimo periodo ci sia stata una sorta di recupero della primordialità del black metal per cui in giro per il mondo, esista un vero e proprio movimento che spinga per un ritorno alle origini del genere. Neppure la Germania è rimasta immune a questo richiamo e dalla regione della Westphalia, ecco arrivare i Magoth con il loro demo cd 'Der Toten Gesang' ('Il Canto Funebre'), che include sette brani di black old school che chiama in causa i maestri scandinavi degli anni '90. Tempo di una brevissima intro e poi il sound dei Magoth irrompe con il ruvido riffing della title track: chitarre semi-zanzarose, drumming serrato e screaming vocals demoniache. Per tipologia della proposta, oltre a rievocarmi per intensità e velocità i gods svedesi Setherial e Dark Funeral, ho trovato anche qualche similitudine con i loro conterranei Narvik. C'è da dire che la furia belluina dell'inizio lascia ben presto spazio ai toni sulfurei della seconda metà del brano, grazie a un black mid-tempo condito dalle urla dei dannati in sottofondo, destinati all'eterno dolore della città dolente. I ritmi si fanno ancor più cruenti ed esasperati con la successiva "Sheol", song che lascia comunque un certo spazio alla melodia delle chitarre e a rallentamenti occasionali, che permettono almeno alcuni attimi di tregua dalle scorribande dell'act teutonico. "Craving Blood", oltre a viaggiare su ritmiche glaciali ed impetuose, trova il modo di costruire impalcature da brividi, alternando interessanti giri di chitarra con sfuriate da manuale del black, scomodando qualche paragone con gente del calibro di Unanimated e Dissection. "Mental Fortress" è invece un pezzo che miscela il black al thrash con epiche galoppate in stile Old Man's Child, per un risultato che, per quanto possa essere palesemente derivativo, ha comunque il suo perchè. Si continua sulla linea del riffing melodico (e pure malinconico) con "Requiem Deus", altra traccia che in fatto di velocità e intensità, non lascia scampo. È però nei momenti più bui e meno caotici, che l'act di Bonn risulta più convincente e coinvolgente nella propria proposta. E l'ultima "Funeral" non fa che confermare le mie parole: spettrale, agghiacciante, tracimante odio e portatrice di atmosfere primigenie, è forse la mia canzone preferita, peccato solo che non vi sia traccia delle truci vocals di Heergott. 'Der Toten Gesang' alla fine è un buon biglietto da visita per i Magoth, in attesa che riescano ad affinare al meglio lo stile, plasmando una propria personalità. Comunque promossi con alti voti. (Francesco Scarci)

John Holland Experience - S/t

#PER CHI AMA: Psych Blues Rock
I John Holland Experience (JHE) sono un power trio nato nel 2013 nella provincia di Cuneo che si è subito concentrato sulla produttività: nel 2014 lanciano il primo Demo EP mentre a marzo di quest'anno arriva questo self title di debutto. Un album fortemente spinto a livello di produzione, co-prodotto da una lista interminabile di labels, tra qui Tadca Records, Electric Valley Rec, Taxi Driver, Scatti Vorticosi, Dreamingorilla Rec, Brigante Records, Longrail Records, Edison Box, Omoallumato Distro e altro ancora. Il digipack è stilisticamente ben fatto, la grafica in particolare richiama gli anni '70 grazie ad una invasatissima fanciulla che in ginocchio, ai piedi di una landa desolata, innalza le braccia al cielo, laddove si staglia il logo della band. I JHE sono anagraficamente giovani, ma sono stati tirati su a buon vino e blues rock, a cui hanno aggiunto influenze garage e qualche goccia di beat. I testi sono in italiano e se in prima battuta potrebbe sembrare una scelta assennata a discapito dell'audience, dimostra invece di essere vincente, con i testi azzeccati che accompagnano perfettamente il sound dei nostri. Inutile parlare di impegno sociale o abusivismo edilizio mentre la musica in sottofondo diventa sempre più festaiola. Vedi la donzella che ci fa girare la testa in "Festa Pesta", una sorta di serenata in salsa hard blues che ha lo scopo di lusingare la tipa di turno mentre i riff classici e ben suonati, si snodano sopra e sotto le ritmiche incalzanti. "Elicottero" è un ottimo crescendo, dove il trio si sfoga al massimo, aumentando il tiro e la velocità mentre si decanta l'infanzia sognante che si trova a far i conti con la dura realtà della vita. Il rallentamento a metà brano ci dà qualche secondo di respiro, giusto per lanciarci di nuovo nel vortice hard rock organizzato ad hoc dalla band. Menzione d'onore va infine a "Tieni Botta", un classic blues che vede la collaborazione di un vocalist dalla voce più calda che mi sia capitato di sentire negli ultimi anni. Se i JHE hanno l'energia e il sacro fuoco del rock 'n'roll dalla loro, l'ospite ci delizia con la sua timbrica suadente e graffiante, affinata a suon di wiskey e sigarette, consumati nei peggiori bar di New Orleans. Pochi minuti di blues scatenato che si tramutano in uno stacco quasi psichedelico, lento e abbellito da un assolo hendrixiano. Un album ben fatto, suonato altrettanto bene, che merita di essere ascoltato (la release è scaricabile peraltro gratuitamente su Bandcamp), soprattutto perchè ci suone buone possibilità che la band prenda la giusta via e tornino presto a far parlare di sè su queste stesse pagine. Nel frattempo i JHE sono in tour per l'Italia: io vi consiglio di andarveli a vedere. Io l'ho già fatto ed è stata una gran scarica di energia. (Michele Montanari)

(Tadca Rec, Brigante Rec, Electric Valley Rec, Dreamin Gorilla Rec, Scatti Vorticosi Rec, Edison Box, Longrail Rec, Omoallumato Distro, Taxi Driver Rec - 2016)
Voto: 75

https://johnhollandexperience.bandcamp.com/album/john-holland-experience

Coroner - Grin

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash Progressive
'Grin', ovvero come prendere una pistola, puntarla alla tempia del thrash metal più tradizionale e premere il grilletto, facendo si che da questo momento in poi, i canoni stessi di questo genere non siano mai più quelli di prima, proprio perchè con questo platter, l’asticella stilistica è stata spostata in avanti (e di molto), rispetto alla data di pubblicazione di quest'album (era il lontano 1993). 'Grin' fu l’album testamento degli sperimental-thrashers svizzeri Coroner. La band ha sempre avuto la formazione di un power trio ( Ron Royce, voce e basso; Tommy T. Baron, chitarra; Marquis Marky, batteria). Una caratteristica che ha sempre differenziato i Coroner rispetto ad altre bands thrash di fine anni ’80, inizio anni ’90 (i nostri sono stati discograficamente attivi dal 1987 al 1993, riformatisi nel 2010), sta nel fatto che essi abbiano sempre cercato una via più ricercata e cerebrale al thrash, sostituendo e affiancando alle classiche sfuriate veloci tipiche del genere, passaggi più cadenzati e ricercati, dove spesso, sopra la granitica base ritmica, si stagliavano assoli di chitarra finemente cesellati dal genio di Tommy T. Baron. Questa vena tecnica sperimentale del combo elvetico si è andata accentuando, disco dopo disco, (i primi quattro album sono: 'RIP', 'Punishment for Decadence, 'No More Color' e 'Mental Vortex', per chi volesse approfondire), ma è senza dubbio con 'Grin' che lo sperimentalismo di cui sopra, raggiunge il suo apice compositivo. A mio avviso l’album è fantastico ed andrebbe goduto nella sua interezza per poter essere apprezzato in tutte le sue sfumature, ma una menzione particolare meritano le tracce "Caveat (to the Coming)" e "Paralyzed/Mesmerized". Nella prima traccia i nostri ci sorprendono decisamente, stagliando sul muro basso/batteria un giro di chitarra acustica che si alterna perfettamente ai passaggi elettrici più aggressivi; in "Paralyzed/Mesmerized" addirittura, assistiamo all’inserimento di alcune brevissime parti synth, mentre la traccia precedente, la geniale "Theme for Silence" è un breve intro di rumori ambient naturali, una soluzione spiazzante che sino a quel momento non era mai stata neanche lontanamente pensata in ambito thrash metal. Una band non per tutti, ma solo per metallers che siano “open minded”, un act che ha scelto di percorrere sempre la strada meno battuta, avendo il coraggio di imporre la propria personalità e partorendo, prima di congedarsi dai propri fan, un autentico gioiello che si chiama 'Grin'. Semplicemente spettacolare. Ora li attendiamo al varco con un nuovo album. (Sam)

(Noise Records - 1993)
Voto: 85

https://www.facebook.com/pages/Coroner

martedì 14 giugno 2016

Dark Plague – Perverse Devotion & When the Last Christians Die


#PER CHI AMA: Black, Horde, Pest, Blut Aus Nord
Con il nuovo album della compagine transalpina, 'When the Last Christians Die', ci prendiamo il vanto di aprire una retrospettiva sulle due release dei tre artisti d'oltralpe, prendendo in causa anche il precedente cd del 2014, dal titolo 'Perverse Devotion', usciti entrambi sotto le ali della label coreana Fallen Angels Productions. Analizzando i due lavori, realizzati a distanza di un paio d'anni l'uno dall'altro, si denota subito il cambio di direzione stilistico del nuovo album, dal titolo ideologicamente inossidabile e senza compromessi nella lotta anticristiana. 'When the Last Christians Die' mostra fin dall'inizio che la gran parte dei brani è stata prodotta con un sound più secco e artificioso, meno ostico che in passato ma che per arrivare alle vette altissime della title track del debut cd, bisogna attendere l'arrivo di "Veil of Veneration", quarta song che comunque non soddisfa appieno quelli che hanno potuto apprezzare il lavoro precedente. Quest'ultimo album non è però da scartare anzi, è costruito bene e strutturalmente soffre e gode delle stesse belle e brutte cose dell'esordio. Manca fondamentalmente della stessa vena glamour/diabolica, perversamente abusata in passato e ora tramutata in militanza rigorosa e rispetto del genere. La musica riesce comunque a mantenere un fresco slancio creativo, anche se la scrittura dei brani non è cambiata poi di molto a livello compositivo ovvero, ritmiche secche, propensione ai mid-tempo, stacchi intelligenti ed omogenei, quindi non possiamo che innalzarlo ed acclamarlo come un disco ben riuscito. L'unica vera nota dolente a mio giudizio, è quella di aver voluto ripulire, anche se solo in maniera parziale, il sound originario della band. Infatti, l'impronta sonora è molto definita e professionale (un po' come l'evoluzione avvenuta nei mitici Pest degli ultimi anni), lontana anni luce da quella forma rudimentale, rumorosa, indefinita e fatta di barbara violenza che amalgamava, nella sua primitiva e radicale struttura sonora, lo spirito di una musica estremamente perversa e indomabile, libera di essere semplicemente contro e sotterranea. Lo stile dei Dark Plague non è mutato di molto se non nella tipologia del suono, ed alcuni brani del nuovo disco, come "Pure Fucking Hate" o "Sombre Invocation", risultano geniali per certi aspetti, assumendo un ruolo fondamentale  durante l'ascolto del cd, innalzandone notevolmente la qualità compositiva e facendo notare quanto, in 'When the Last Christians Die', tutto sia più focalizzato ed equilibrato. Anche se le parti violente ed estreme rimangono inalterate, il disco alla fine risulterà, passatemi il termine, più accessibile della precedente uscita. La produzione mette in risalto il nobile lavoro del bassista Infestus, cosa che nel primo disco, il suono zanzaroso e rude tendeva ad annullarne l'effetto. In entrambi i dischi vi è da segnalare l'ottima performance vocale di Daimon, demoniaco di nome e di fatto, che canta con uno screaming ossessivo, amplificato da alcuni effetti di matrice grindcore/brutal, decisamente centrati ed efficaci. Anche qui opto per l'uso più deciso e pesante dell'effettistica sulle parti di voce come avvenne in 'Perverse Devotion', che a tratti suonano veramente disturbanti anche se degno di nota in questo senso, è il bellissimo brano di chiusura del nuovo cd, "Dèliquescence" (il migliore del disco), che apre nuove strade stilistiche per il combo francese, violente, melodiche ed ipnotiche. L'assenza di un batterista nel terzetto si nota per quell'impatto assai freddo e gelido a livello ritmico che passa fortunatamente in secondo piano nascosto dall'ottimo lavoro alle chitarre svolto da Lord of Misery, che macina riff esagerati e muri sonori da ogni parte, facendo apparire interessante e personale ogni piccola sfumatura musicale, con caratteristiche tecniche da ricercare a metà strada tra i Blut Aus Nord di 'Memoria Vetusta I' e i seminali lavori degli Horde. 'When the Last Christians Die' è un passo in avanti verso un sound rivolto al grande pubblico del black metal che conta, è una prova di forza superata con coraggio e senza paura di ripetersi o perdere coerenza, dal gruppo proveniente da Lille. 'Perverse Devotion', che include un capolavoro assordante qual è "Aries Castle", sarà ricordato come un diamante grezzo dell'underground black metal, quello per cultori, che tra i confini di Francia, trovano sempre nuovi talenti, terreno fertile e prosperità, confermato alla grande dalla nuova tetra veste dei Dark Plague. Evolvere per non morire è la parola d'ordine per sopravvivere. Da ascoltare entrambi in maniera molto concentrata, due buone uscite di cui la Fallen Angels Productions deve andarne fiera. (Bob Stoner)

(Fallen Angels Productions - 2014/2015)
Voto Perverse Devotion: 80
Voto When the Last Christians Die: 75

lunedì 13 giugno 2016

Balance Breach - Incarceration

#PER CHI AMA: Melo Death, Soilwork, Omnium Gatherum
Ascoltando l'opener dell'EP dei Balance Breach, nonché anche title track di questo 'Incarceration', ho avuto l'impressione di rivivere le stesse emozioni che provai all'ascolto di 'Quicksilver Clouds' dei Throes of Dawn, qualche anno fa. Chitarra dark corredata da un'avvolgente atmosfera e da vocals graffianti. Impatto a dir poco entusiasmante, peccato solo si esaurisca nell'arco di un paio di minuti e di quel death dark non rimangano altro che briciole affidate invece ad un rifferama sincopato, scuola Meshuggah. "Deprivation". Muro di chitarre, screamo, stop'n go e voilà, il melo death/metalcore del duo di Mikkeli è servito. Il sound dei Balance Breach non propone grosse novità in un ambito in cui non c'è, a dire il vero, più molto da dire e alla fine i nostri si limitano a un compitino ove abilmente l'act scandinavo raggiunge la sufficienza, tra melodie ammiccanti, dark vocals pulite ("Useless Prey"), scale ritmiche inserite in un ipnotico contesto tutto da sviluppare ("Cast Aside") e linee di chitarra che qua e là richiamano a random, Soilwork e Omnium Gatherum, andando poi a braccetto con atmosferiche keys, come in "The Essence of Joy", dove vorrei segnalare un pout pourri di vocalizzi (mi sembra di aver contato addirittura quattro timbriche differenti). Insomma il più classico caso "ci sono enormi potenzialità, ma non vengono sfruttate a pieno". Diamoci dentro ragazzi! (Francesco Scarci)

Wastage - Slave to the System

#FOR FANS OF: Thrashcore/Metalcore, Machine Head, Biohazard
One of the longest-running acts in the Slovak underground, Thrashcore/Hardcore group Wastage are just barely now getting to their full-length debut and it’s quite an enjoyable mesh of their styles. Taking the stuttering rhythms and rather heavy propensity for breakdowns that fuel most Hardcore bands with a more rousing Thrash Metal aesthetic when it comes to the straightforward rhythms and paces which is certainly an enticing enough mixture on paper. Offering a mostly mid-tempo chugging charge with an occasional faster charge alongside those other harder-hitting breakdowns featured together here keeps the material nicely enjoyable despite the fact that way too much of the album comes off as rather one-dimensional with the majority played way too much in a straight way. There’s little deviation to be found here and it really seems a little sluggish in the mid-section where it blends together throughout here. In the finale it gets a little better with some stronger tracks but the middle is where it holds this down somewhat. There’s some pretty enjoyable work here. Intro ‘Away From The Darkness’ immediately blasts through a thumping series of mid-tempo hardcore-styled rhythms and tight patterns holding the stilted rhythms along through the stellar series of thumping and pounding drumming as the chugging breakdowns continue on through the charging final half for a fine opener. The title track offers a rumbling bass-line and a thumping series of tightly-wound and charging churning riffing into a steady, breakdown-laden patterns leading into the brief solo section and on into the final half for a solid and enjoyable effort. ‘Game’ features throbbing rhythms and clanking patterns that stuttering along through a plodding, low-key pace with tight patterns swirling along throughout the thumping series of patterns leading along into the plodding finale for an overall disappointing and disposable effort. ‘No Way Out’ utilizes immediate thumping rhythms and hard-hitting patterns thumping along to the charging and hard-hitting pounding breakdowns along throughout the thrashing rhythms charging along to the twisting rhythms found throughout the final half for a solid enough effort. ‘Ham-let’ features swirling thrash rhythms and chugging mid-tempo paces with plenty of thumping breakdowns holding the tight, straightforward chugging patterns in a steady pace with a steady solo section and breakdowns flowing into the finale for a much more enjoyable track. ‘You Can’t Stop’ uses thumping mid-tempo series of charging breakdowns with quicker thrashing patterns with the harder drumming keeping the stylish, stuttering chugging riff-work bringing the blasting rhythms along through the final half for a solid, enjoyable highlight. ‘Right Now’ takes harder thrashing rhythms with soaring leads and thumping drumming along through the steady, mid-tempo pace with the full-on stuttering riffing leading through the solo section and leading through the chugging finale for another rousing highlight. ‘I Walk Alone’ utilizes thumping mid-tempo grooves with plenty of charging riff-work through a hard-hitting series of chugging riffing that brings the stuttering paces along through the steady swirling breakdowns with the steady thumping patterns holding on through the final half for a solid enough effort. ‘Nobody’ features a series of hard-hitting thumping rhythms and steady breakdown-laden chugging that moves through a steady series of swirling thrashing riff-work and pounding drumming that continually moves through the strong patterns leading into the finale for another strong highlight. ‘Let Me Go’ takes immediate thrashing patterns and plenty of stylish swirling riffing with plenty of steady thrashing alongside the few minor breakdowns chugging along to the steady, straightforward thrashing patterns holding on through the solo section and on through the blistering final af for another strong effort. Lastly, album-closer ‘Confidence’ takes intense rattling thrashing riffing and pounding drumming through a steady, intense series of up-tempo charging patterns that whip along into a steady series of swirling patterns full of hard-hitting leads and coming along into the utterly blistering finale for the album’s best track to really end this on a high-note. It doesn’t have enough wrong overall to really hurt it much at all. (Don Anelli)

martedì 7 giugno 2016

Dö - Tuho

#PER CHI AMA: Death/Stoner/Doom, High on Fire
Distruzione: questo il significato di 'Tuho', album di debutto, sulla lunga distanza, dei finlandesi Dö, che abbiamo avuto modo di conoscere esattamente un anno fa, in occasione della recensione su queste stesse pagine, dell'EP 'Den'. I nostri tornano con un lavoro di sei pezzi che dischiude un death stoner doom assai peculiare. Le chitarre si presentano ai blocchi di partenza, costituiti dalla lunga "Born Under Black Wings", come un'arma di distruzione chimica, asfissianti e elefantiache a macinare un riffing corposo e decisamente sludge, su cui si muovono a proprio agio, i vocalizzi growl di Deaf Hank (chissà se nel suo nome c'è qualche riferimento all'Hank Moody di 'Californication'?). Piacevole la possente linea di basso e il fuzzing delle chitarre a metà brano, prima che si sprofondi nei meandri di un pericolante funeral doom. La seconda "Everblast II (The Aftermath)" è più easy listening, in quanto dotata di un maggior dinamismo sonoro, con il rifferama che qui scomoda mostri sacri come gli High on Fire e obbliga ad un ascolto a volumi massimi. Energia, groove, stoner, clean chorus, ispirazioni seventies, confluiscono in una traccia davvero ben equilibrata che trova anche il tempo di sbizzarrirsi con un discreto assolo guidato da un basso alla Black Sabbath. Una traccia strumentale, "Ex Oblivione" (anche se qualche vocalizzo in background si riesce a percepire), è quel che ci vuole per sanare gli animi inquieti in un trip di oltre sei minuti di psych doom, con un arrembante finale southern rock da brividi. La downtuned guitar di Big Dog impressiona in distorsione, profondità e pachidermia nella quarta "Kylmä", la song più melmosa di quelle contenute in questo primo lavoro dei Dö e quella che a mio avviso rende la proposta del terzetto di Helsinki più in linea alle produzioni del genere; tuttavia un devastante finale black/death mi scuote dal torpore in cui stavo cadendo. Che botta ragazzi e che bravi i Dö, nel momento giusto, a virare il proprio sound da quanto di più scontato ci fosse, con un'improvvisa scarica adrenergica. Un inedito intermezzo costituito da chitarra acustica e clean vocals (un po' stonate a dire il vero) e si giunge a "Forsaken Be Thy Name", la degna conclusione di 'Tuho': un pezzo di 12 minuti che chiama in causa, come già fatto anche in occasione del precedente lavoro, Cathedral, i già citati Black Sabbath e un che dei Celtic Frost più oscuri, per una song dai ritmi cadenzati e sulfurei che vanta a metà brano il drumming militaresco di Joe E. Deliverance a dettare la marcia prima che di venir affiancato dal basso del vocalist e dalla sei corde di Big Dog a cui lasciare l'incombenza di un finale pirotecnico e indiavolato, ciliegina sulla torta per questo primo Lp dei finlandesi Dö. (Francesco Scarci)

lunedì 6 giugno 2016

Pugni nei Reni - Bello ma i Primi Dischi erano Meglio

#PER CHI AMA: Alternative Blues Rock
Pugni nei Reni è il nome di un duo bergamasco, chitarre e cassa, che si presenta con un disco di debutto dal titolo 'Bello ma i Primi Dischi erano Meglio'. Le loro canzoni sono scritte in un inglese molto primitivo, pressoché privo di significato ma anche in un italiano alquanto stralunato. Con queste premesse sarebbe facile collocare il loro album nel filone del rock demenziale ma sarebbe riduttivo, assai riduttivo. Nei nove brani inclusi nel disco, si respira una costante ricerca del giusto riff di chitarra come in "Babbuzzi", il brano d'apertura, con la musica che non è mai secondaria al testo; la voce poi viene trattata quasi fosse uno strumento aggiuntivo, filtrata, raddoppiata, con frequente ricorso al falsetto, talvolta anche sguaiata. I Pugni nei Reni sanno maneggiare bene stili espressivi molto diversi tra loro: in “Risposte_di_circostanza alle_domande_esistenziali_di_Jane_Fonda”, l’uso della voce e i battiti di elettronica low-fi ci portano in quelle terre esplorate da Thom Yorke nei suoi dischi da solista, mentre nella veloce “Il_Rock_’n’_Roll” la struttura del brano rimanda ai più scafati Skiantos, senza ruffianeria, condividendone semmai lo spirito ribelle. Al primo posto nella mia personale classifica metto sicuramente “Morning_Brunch” il cui ritmo, sostenuto da una bella chitarra funky, si dilata piacevolmente per quasi sei minuti, diventando quasi un mantra dance. A livello di post-produzione ho trovato poco convincente l’inserimento di alcuni dialoghi estratti da pellicole cinematografiche, l’effetto può sorprendere al primo ascolto ma non agevola i successivi. Molto bello invece l’artwork del disco, incentrato su una grafica old style da IBM Personal Computer DOS. Nel complesso le canzoni hanno le potenzialità per una carica live coinvolgente, cosi dotate di un buon groove e ruvide al punto giusto. I ragazzi sono originali, loro malgrado.(Massimiliano Paganini)