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domenica 28 settembre 2014

Desert Lord – To The Unknown

#PER CHI AMA: Stoner Doom
Quante volte vi è capitato nella vita, di venire solleticati dall’idea del “dream team”, come concetto? Una squadra composta dai migliori giocatori di un determinato sport, una band che annoverasse tra le sua fila i milgiori musicisti di un particolare genere, un vero e proprio sogno, quindi. E quante volte vi è capitato, quelle poche volte che il sogno pareva come per miracolo materializzarsi, di rimanere realmente soddisfatti del risultato finale? A me, personalmente, pochine. Troppo alte le aspettative, o semplicemente troppo aderenti ad uno schema, anche elementare, ma evidentemente difficile da replicare nella realtà (lancio di prima all’ala, dribbling secco, cross perfetto, rovesciata, gol; oppure un pezzo con riff memorabile, strofa, inciso, un paio di assoli da brividi). Quante volte ho avuto tra le mani dischi sulla carta stratosferici, rivelatisi poi schifezze immonde o, ancora peggio, del tutto anonimi. Ecco, a me questo 'To the Unknown' dei finlandesi Desert Lord ha fatto l’effetto della realizzazione, perfettamente compiuta, di quello che avrei voulto ascoltare, a tredici anni, in un disco di una “dream team band”:
- nessun (ma proprio nessuno) elemento di novità o sperimentazione (anche se le cronache lo datano 2014, 'To the Unknown' potrebbe essere uscito in qualsiasi momento degli ultimi trent’anni);
- un amore viscerale per i Black Sabbath;
- l’incapacità di far durare un pezzo meno di 5 minuti, ma anzi la tendenza a sforare i 9;
- la capacità di sfoderare riff memorabili, forse un tantino già sentiti, ma comunque memorabili;
- la perfetta alternanza di riff, strofe, incisi, assoli di chitarra, strofe, assoli di basso, incisi, assoli di chitarra, arpeggi acustici, esattamente quando e come ce li aspetteremmo;
- il tutto suonato a volumi criminali, con quel suono di chitarra che riescono ad ottenere solo in Scandinavia, registrato in modo grezzo e sporco ma nemmeno troppo.
Per quanto sconosciuti, i Desert Lord sono un gran chitarrista, un gran bassista, un batterista pestone e un cantante a cui evidentemente piace il death metal. Questo loro secondo album racchiude in sole 6 tracce e circa 50 minuti, il sogno di un ragazzino, ovvero tanto hard fracassone (non proprio stoner, non ancora doom, non del tutto metal), oscuro, marcio, eccitante. Scusate se è poco. Per me è tantissimo. Pezzi migliori? Piú o meno tutti. Se devo fare nomi dico "New Dimensions", che suona come un nastro di 'Heaven and Hell' lasciato troppo tempo al sole, sul cruscotto di una Ford Sierra. Nera. (Mauro Catena)

giovedì 25 settembre 2014

Seasons - Patriarch

#PER CHI AMA: Death Progressive/Djent/Metalcore, Opeth, Tesseract 
Il Pozzo lo seguono anche dalla Nuova Zelanda. Ecco quindi arrivarmi da Auckland il notevole cd dei Seasons, quartetto che si muove sulle coordinate stilistiche del djent/metalcore progressivo. Non vorrei però che queste mie etichette avessero una qualche valenza limitante per l'egregio lavoro fatto dai nostri. 'Patriarch' è un album di nove pezzi che dura la bellezza di 60 minuti. Un'ora che scorre via veloce come il vento, nonostante un genere come questo necessiti solo di una trentina di minuti per esplicare il suo effetto. 'Patriarch' no, richiede più tempo per essere assimilato, percepito, letto e gustato. Un po' come quando sorseggiate un ottimo rum invecchiato o un whiskey, 'Patriarch' lascia il suo forte retrogusto. L'intro ci inebria immediatamente con quel suo piacevole fare melodico ma deciso. Quando attacca "Eutopia" ho il timore che la song possa annoiarmi nel suo evolvere burrascoso. Nulla di più sbagliato: il brano esordisce con fare gagliardo e violento per poi imboccare una strada oscura, quasi drammatica, che prende le distanze da quel metalcore paventato all'inizio della recensione. Ci riprovano i nostri a spararci in faccia il loro armamentario metallico con "Nimbus"; all'inizio della traccia la band sembra anche riuscirci, ma poi ecco nuovamente che i nostri si avviano alla loro personale reinterpretazione del genere, cambiando mille volte il tempo, offuscando addirittura la mia mente con passaggi più plumbei, al limite del doom. I riffoni, quelli seri del djent, mica da femminucce, rombano pesanti in "Sunshine", con il bravo vocalist che ringhia a denti stretti il suo growling scorbutico e acido. La song, un po' come tutte, miscela furia metallica con una discreta dose di melodia, facendosi notare per l'elevato quantitativo di groove che si cela nei pezzi, che trovano addirittura il tempo di piccole divagazioni industrial e sfoggiano qualche tastierina stile primi Tesseract. Fenomenali. Per impatto e per perizia tecnica. Un po' meno per originalità, ma poco importa. Con "Odysseus" ci addentriamo ancor maggiormente nel sound intimista dei Seasons: un death metal illuminato, a tratti sperimentale, che saprà accendere l'anima inquieta che è celata dentro di voi. Non solo: estesi sprazzi post metal in un break di "tooliana" memoria che lascia vagare ampiamente la mente e inebria non poco i miei sensi. "Atlantis Rising" è un pezzo strumentale che ammicca ancora ai Tesseract più potenti e fantasiosi, con quelle belle chitarre polifoniche come i mostruosi Meshuggah insegnano ai propri adepti da più di vent'anni. Se avete per un attimo avuto il timore che i nostri avessero calato il tiro, niente paura, ci pensa la devastante "Lotus" a ripristinare il tutto con la sua verve, la pesantezza delle sue chitarre e l'eclettismo sonoro del suo drummer. L'eco dei maestri svedesi è forte più che mai, ma non stiamo certamente parlando di plagio, bensì di una rivisitazione alquanto interessante, che propone nuove soluzioni al tema, grazie all'inserto mai massivo di tastiere. Dopo 48 minuti di botte, sento che posso andare avanti e sfidare il limite dell'ora, dove molte volte la tensione tende a calare. I nostri non cadono nel tranello e anzi trovano il modo con "Flourish", prima di sfondarci il cranio con un ritmo infernale e poi di darci lo zuccherino con i passaggi più mansueti del cd, dove appaiono anche clean vocals e chorus ruffiani davvero azzeccati. Il suono del mare di "Marine Snow" ci accarezza per i cinque minuti finali di questo ottimo lavoro che mette in luce l'ottima prova canora del frontman in chiave pulita, un po' a rendere omaggio a Mikael Åkerfeldt degli Opeth, anche per quello che è l'aspetto musicale. Che altro dire di un album che ho incensato in lungo e largo, se non auspicare un vostro ascolto accurato. (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 80 

Burzum - The Ways of Yore

#PER CHI AMA: Ambient
Burzum, 'The Ways of Yore'. Tremate. Abbandonate definitivamente le tendenze black metal, cosi come pure le velleità di commettere atti terroristici, il Conte torna dandoci in pasto al suo concentrato ambient. Assecondate i suoni accattivanti, vibrati, accostati a nuvole di fumo psichedelico ed ascoltate. "God from the Machine". "The Portal". Dimensioni oniriche, prismi dai cangianti velati, ostacoli duttili, ripetizioni reiterate per alienazioni lugubri, in cui la chitarra sfregia i pensieri ed il tempo involve in collisioni improbabili. "Ek Feller (I Am Falling)". Ora abbiate paura. Questo brano è sordo, lascivo, sospeso tra un cantato mortuale e pochi cenni strumentali che peggiorano un mood impossibilitato alla felicità. Se la serata vi ha lasciato con l'amaro in bocca, questo ascolto, potrebbe illuminare il vostro inferno. "Hall of the Fallen". Cristalli che si abbattono a terra. Incedere di voce ed elettricità dal pallido sentore musicale. Terrore. Ghiaccio ancora. Ossa spezzate dentro un turbine di sensazioni dall'incedere spettrale, invisibile, minaccioso. Lasciandovi trasportare, credetemi, rischiereste di venire a patti con l'anima. A vostro rischio. "Emptiness". Voluttà ripetute. Tortuosità appianate. Un basso che distoglie dal ritmo soffuso. Soffiate sull'orizzonte, ma sappiate che non se ne andrà il grigiore, malinconico, assente pensiero che questo album evoca con individualità allargate alla coscienza comune. Nel buio di questo metallo, emerge almeno un rincorrersi di suoni estatici e carnali, sino all'epilogo orientaleggiante. "Lady in the Lake". Perché non strofinarsi su pareti di ferro ruvido, lasciando che la pelle sanguini e l'anima segua strade sconosciute? Perché non alimentare la follia, prima che vincerla, lasciando che il tempo e la ragione diventino virtù d'altri? Perché non digrignare i denti e corroborare lo stupore con la piú nichilista tra le benzine alcoliche? Perdizione. Rabbia. Museo degli orrori. Benvenuti nel tripudio del black ambient. "Hell Odin". 3 minuti ed 11 secondi. Pensateci bene se percorrerli. Suoni ripetuti si fondono con la stessa improbabile frase che il titolo del brano rappresenta. Virtuosismi modulati calano il carico presto ed il brano è buono solo per un rave di bassa lega. "The Reckoning of Man". Suoni dalle metamorfosi metalliche. Voce dai toni pretenziosi. Virtù narrative corrugate dal volo raso terra della musica narrante e del testo ipotimico. "The Hel and Back Again". Mi chiedo perché Burzum cerchi di ripulirsi la coscienza con musiche zen. Mi chiedo perché una scia di rumori di fondo imprigioni quella coscienza riportandola nelle segrete della prigionia malsana. Mi chiedo, ma so che in questo album, nulla è come ce lo si aspetta... "Heil Freyia". Danze circolari. Movimenti psichici piú che corporei. Impossibile entrare in questo rituale. C'è un obolo troppo costoso da pagare. Accompagno un velo sugli altri brani. Lascio alla notte ed alle vostre inquietudini la scelta per continuare questo album, che mi ha lasciata sfatta di luce e sottesa al buio. Buon ascolto. Tremate. (Silvia Comencini)

(Byelobog Production - 2014)
Voto: 70

The Pit of the Damned Compilation

A second official compilation will be issued by The Pit of the Damned by the end of 2014 with a content of death and black from the best underground bands around the world.

The Pit of the Damned Vol.2 will be available for download on Bandcamp® with a very small offer. Support us to continue our work and to review music!

How to submit your song to "The Pit of the Damned Vol.2" (only death and black music genres):

- n. 1 track in mp3 format 320 kbps. The song has to be free from any contract with labels, please send only your own music.

- n. 1 picture in high resolution of your band logo or line-up (no LP/CD/EP cover or similar).

- Biography of your band in English (1500 characters with spaces maximum).

Please submit your material within 31st October 2014 to: thepitofthedamned@gmail.com

Tenebrae - Il Fuoco Segreto

#PER CHI AMA: Prog Rock 
Da Genova, grazie alla Masterpiece Distributions, arriva dritto dritto nel mio lettore il lavoro dei Tenebrae (disco autoprodotto nel 2012 e uscito sotto House of Ashes nell'ottobre 2013), band dedita ad una sorta di “Art rock” (come loro stessi si definiscono nella lettera di accompagnamento al disco), ovvero, un progetto interdisciplinare che comprende varie forme d'arte: musica, recitazione, pittura, disegno e fotografia. Non a caso, all'interno del libretto si possono trovare alcuni esempi di queste arti, grazie alle bellissime illustrazioni di Sara Aneto, mentre per quanto riguarda la musica proposta, ora ci addentreremo più specificamente nell'analisi. Premetto che in questo caso di thrash o death metal scarnifica corpi, non vi è la minima traccia; e vi confesso che, almeno in questo caso, la cosa mi fa particolarmente piacere. Non conoscendo la band e non avendola sentita all'opera mai prima d'ora, non sapevo esattamente cosa aspettarmi, o meglio, avevo solo un'indicazione data dal flyer informativo: “Gothic Prog Metal”. Subito ho pensato a qualcosa di moderno, di ultrasulfureo e non particolarmente “allegro”, ma pigiando play per la prima volta, sono rimasto basito. Innanzitutto per la finezza e la classe del sound proposto, e poi perché mi è sembrato per un momento, di ascoltare i vecchi Lp prog rock di mio padre (grande fan del prog italiano anni '70), proposti con un suono e registrazioni decisamente moderne. Potevo aspettarmi di tutto, ma non una cosa del genere: un gruppo italiano che suona grande prog “classico” nel 2014? Ebbene si, c'è e lo fa alla grande. Poche “seghe” strumentali, il prog vero e proprio si trova nelle atmosfere, nelle linee vocali e nel timbro del bravo vocalist Pablo, nelle chitarre del fondatore Marco “May” Arizzi e nei synth e tastiere di Francesco Mancuso, senza tralasciare “Attila” alla batteria e Fabrizio al basso. Trattandosi di un concept (cosi come per il predecessore, essendo questo il secondo CD della band), i testi sono complessi e invitano a immedesimarsi nei personaggi della storia proposta, che risulta essere un “prequel” della storia narrata nel primo lavoro dei Tenebrae. I ritmi sono sempre piuttosto lenti e tendono ad assestarsi sui confortanti 4/4, che danno a tutto il disco un bel senso di solidità e sui quali i testi in italiano suonano da Dio. Dopo 5 ascolti completi posso sbilanciarmi e dire senza se e senza ma, che è dai tempi dei mitici IN.SI.DIA che non ascoltavo del metal cantato in italiano così valido. E' inutile e irrilevante parlare di influenze e “modelli”, perché i Tenebrae vanno ascoltati sulla fiducia di trovarsi dinnanzi ad un lavoro di grande portata, assolutamente. Un ottimo lavoro composto e suonato da grandi musicisti, a mio avviso penalizzati soltanto da una produzione non perfettamente all'altezza del calibro del gruppo (sul suono della batteria si poteva fare qualcosa di meglio, e quel rullante è alla lunga fastidiosetto). Per il resto davvero nulla da dire, un CD senza cadute di tono, di alto livello dal primo all'ultimo secondo; le mie canzoni preferite? Tutte in blocco le 9 tracce de 'Il Fuoco Segreto' contribuiscono a creare quello che per il sottoscritto entra di diritto tra i migliori ascolti del “Pozzo” del 2014 (anche se il platter ha quasi un paio d'anni). Non voglio aggiungere altro se non un calorosissimo invito a recuperare il cd, ascoltarlo e rendersi conto di quanto sia notevole. Sono sicuro che mi darete ragione e sono certo che adorerete i Tenebrae quanto me. Io non ne ho proprio potuto fare a meno. (Claudio Catena)

(House of Ashes - 2013)
Voto: 90

mercoledì 24 settembre 2014

Ever-Frost - Departing of Times

#PER CHI AMA: Melo Death, Sentenced, In Flames
Con grande piacere mi trovo ad analizzare un lavoro di una band italiana, più precisamente di Modena; gli Ever-Frost, grazie alla Beyond Productions, fanno arrivare il loro CD accompagnato da una curata lettera di presentazione, il che non guasta affatto. Attivi dal 2008 con questo nome, alcuni membri della band sono stati impegnati però fin dal 2003 in una cover band dei Sentenced, che risultano essere infatti una delle maggiori fonti di ispirazione per il nostro combo italico. Proponendo un solidissimo melodic death metal, con sfumature profondamente scandinave, questi ragazzi sfornano un bel CD senza fronzoli e particolarmente curato nei suoni e sotto il punto di vista grafico dell'artwork; devo ammettere che ho provato particolare piacere negli ascolti di questo 'Departing of Time', perché suonato e prodotto con grande perizia tecnica e, soprattutto, buonissimo gusto. Mai eccessivo, mai involgarito da vocals troppo gutturali o screaming al limite del decente, sempre piacevolmente misurato nel proporre un genere che troppo spesso propone cadute di stile. Un intreccio di riffs spaccaossa e linee di basso cristalline, rullate e doppia cassa asfissianti, clean vocals e parti più “decise” sotto il punto di vista del timbro, modellano un sound classico ma allo stesso tempo dannatamente moderno. Ascoltando il CD, si capisce benissimo che è un lavoro dei giorni nostri, ma con ben più di un riferimento ai tempi d'oro di questo genere, quando bands del calibro dei già citati Sentenced, Nevermore, In Flames e Machine Head, sfornavano disconi destinati a rimanere nel tempo. Cresce con gli ascolti, 'Departing of Times', col rischio ben accetto di potersi innamorare di questo lavoro; l'unico appunto che mi voglio arrischiare di muovere ai ragazzi, è quello di osare maggiormente per quanto riguarda l'originalità delle composizioni. Voglio essere chiaro, niente e nessuno potrà dire che questo non sia un disco valido, anzi, solo che quel maledetto alone di “già sentito” rischia di affacciarsi qualche volta durante i 52 minuti di durata del full lenght. E' solo un consiglio, che spero accettino di buon grado, perché per quanto riguarda il resto, davvero, fatico a trovare un punto debole (e per fortuna aggiungerei), e non posso fare a meno di citare le bellissime “The White Light Beyond the Wall”, dallo swedish sound assai spiccato e la mia preferita “Tear Down the Sky”, seguite a ruota dalla valida title track e da “Cosmic Evolution”. Una gradevolissima sorpresa per il sottoscritto che non conosceva la band, poiché da troppo tempo, purtroppo, non ascoltavo qualcosa di veramente interessante prodotto da gruppi nostrani; una bella sorpresa che si dovrà confermare e migliorare ulteriormente con il prossimo lavoro della band, che attenderò con la giusta trepidazione: pollice all'insù per gli Ever-Frost!!! (Claudio Catena)

(Beyond Productions - 2013)
Voto: 75

Disharmonic – Il Rituale dei Non Morti

#PER CHI AMA: Doom Progressive, Death SS, Paul Chain, Antonius Rex
Questa band italiana, nata nel lontano 1998 a Pordenone, dopo alcuni lavori e cambi di formazione, è riuscita nel corso di questo anno a dar vita a un 12” EP (uscito anche in cd) molto interessante, dato alle stampe dalla Beyond Productions, che fa seguito all'album del 2012 dal titolo 'Carmin Mortiis'. Il batterista Lord Daniel Omungus e il chitarrista Sir Robert Baal, con l'aiuto alla voce del Profeta Isaia e al basso del Barone Von Hayden, riescono nell'impresa di raccogliere l'eredità di band futuristiche un tempo ed ora divenute storia del dark metal e del prog italiano come Goblin, Antonius Rex e Death SS, senza dimenticare la vena psichedelica e cosmica del mostro sacro Paul Chain e un certo doom stile Skepticism. L'incanto è servito! Loro lo definiscono "Ritualistic Dark Doom Metal Opera" e mostrano un sound stregato carico di suggestioni macabre, prevalentemente dai ritmi rallentati e circondato da ombre e figure orrorifiche. In queste sole tre composizioni (per la durata circa di un quarto d'ora) vi è molta devozione verso una certa cinematografia horror vintage di serie B ma anche è l'amore per i sopraccitati miti del rock italiano e doom internazionale si sente un po' ovunque nel platter. I Disharmonic mostrano di aver imparato a dovere la lezione donandoci questa insana vetrina di suoni e umori noir che trovano un apice d'armonia tra lo spettro di uno splendido sax e il teatrale, maligno recitato (in lingua madre) del brano che conclude l'opera. Infatti, 'Il Rituale dei Morti' è una suite ritualistica divisa in 3 atti, dedita all'invocazione dei defunti, quindi non esitate a resuscitare facendovi aiutare da questo EP di gran classe. Progetto stravagante e di nicchia, ma splendidamente realizzato. Da ascoltare. (Bob Stoner)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 80

domenica 21 settembre 2014

The Matador - Destroyer

#PER CHI AMA: Post Metal/Hardcore
Il primo aprile 2013 parlai di questi ragazzi australiani come dei potenziali fuoriclasse nel filone post rock - metal. A distanza di quasi un anno e mezzo, eccoli tornare con un nuovo EP, dal semplice titolo 'Destroyer', che vede la band impugnare i propri strumenti e aumentare le frequenze della propria proposta. Del post rock - metal di 'Descent Into the Maelstrom' è rimasto solo il post, perchè oggi parlerei dei nostri come di una realtà più orientata sul versante post-hardcore. Per carità, molte volte il confine tra questi generi è assai labile, però è evidente quanto nei solchi di questo secondo lavoro, emerga la nuova strada imboccata dai nostri, pur non rinnegando il passato, sia chiaro. A fronte di una registrazione un po' più scarna, la band scatena immediatamente la propria frustrazione, senza tanti giri di parole, con "Rodinia", un pezzo che rimane in bilico tra richiami al passato e una nuova tendenza hardcore. Le chitarre ululano acidi e vertiginosi riffoni mentre il bravo Nathan alla voce, si dimena tra urla feroci e qualche raro profondissimo growl. Il sound è arricchito da una discreta dose di groove, ma è palese che qualcosa sia cambiato in seno alla band di Brisbane. La title track conserva quelle atmosfere cupe e ossessive del passato ma è innegabile come il sound dei The Matador si sia imbastardito, abbia perso un po' in profondità e calore, a servizio di una maggiore espressione della rabbia che verosimilmente era repressa nel precedente disco. Nella title track comunque c'è anche spazio per un breve break dai richiami a la Isis. "Ur" è il classico intermezzo che ci introduce a "Vaalbara", song che mostra il lato meditativo che maggiormente apprezzo del combo australiano: atmosfere più soffuse, vocals pulite che si incrociano con lo scream abrasivo di Nathan, senza ripudiare le scariche nevrotiche fin qui espresse. Ma è la maggior presenza di melodie in questa song mid-tempo a renderne un più facile approccio, soprattutto anche per una migliore cura a livello di arrangiamenti; poi il break post rock posto in mezzo alla traccia è miele per le mie orecchie. Con "Nuna" si ritorna sul binario dell'hardcore anche se le chitarre in taluni frangenti ricordano il passato amore dei nostri per Cult of Luna e Isis. A chiudere il lavoro (per ora solo digitale, aspetto fortemente il cd) ci pensa "Pangaea", brano dall'incedere assai ritmato che si interrompe in un break dal sapore notturno, in cui i nostri prediligono linee di chitarra malinconiche. Insomma 'Destroyer' è un lavoro che conferma quanto di buono ascoltato in passato ma che per quanto mi riguarda, segna un leggero passo indietro rispetto a 'Descent Into the Maelstrom' che tanto mi aveva ben impressionato in quel fantomatico primo aprile 2013. Da risentire con una nuova release, per capire quale sarà la definitiva via intrapresa dai The Matador. (Francesco Scarci)

DSW - Dust Storm Warning

#PER CHI AMA: Stoner, Kyuss
Ecco un'altra band stoner che ho potuto apprezzare con la fantastica 'Desert Sound compilation' del portale Perkele.it, fucina instancabile di band stoner/doom italiane. I nostri quattro eroi provengono dal profondo deserto pugliese (Lecce) e hanno iniziato l'avventura nel 2010. Dopo alcuni EP, hanno firmato per l'instancabile Acid Cosmonaut Record e da allora è iniziata la scalata al grande olimpo della scena stoner. Questo 'Dust Storm Warning' (ormai datato 2012) consta di undici tracce e si presenta in un bel digipack completo di libricino e relativi testi. Anche la grafica risulta curata e piacevola, con utilizzo di caratteri che richiamano memorie psichedeliche. Appena "Outrun" scandisce poi le prime note, subito si gode del timbro delle chitarre, proprio quello che ci piace tanto. Tante frequenze basse che fanno pompare i woofer come dovessero aspirare sangue dalle profonde vene della madre terra, il tutto ben supportato dal basso che nello stoner ha un ruolo determinante e fin troppo sottovalutato per dare la giusta botta sonora. Ritmo forsennato per oltre quattro minuti gentilmente offerto dal batterista che non si risparmia e concentra potenza e velocità per assolvere al suo dovere. Il vocalist sfoggia un timbro maturo e potente, alla John Garcia per intenderci ed in effetti l'influenza della Kyuss-school è palpabile in tutti i cinquantasei minuti del progetto. "666.1.333" parte con una risata che si tramuta in eccesso di tosse per poi dar sfogo ad un brano meno forsennato e più evocativo, quanto un canto indigeno gridato a squarciagola verso il cielo. Suoni sempre all'altezza della band, arrangiamenti e fraseggi impreziosiscono il tutto. Lo stacco a metà traccia rompe il precedente schema e lascia spazio all'assolo di chitarra che guida la traccia verso la fine. "Dune" viene introdotta da un riff psichedelico di basso che evoca una notte senza luna, profonda e accogliente allo stesso tempo, come unica salvezza dal torrido sole del deserto. Quasi otto minuti che mettono nero su bianco tutti i colpi a disposizione del revolver chiamato DSW. 'Dust Storm Warning' è un calderone rovente di bei suoni vintage sapientemente catturati a livello di registrazione e masterizzanti altrettanto bene. A chi chiede se i DSW fanno qualcosa di nuovo rispondo no, ma almeno fanno qualcosa di già sentito in maniera più che egregia. Album da avere anche in vinile IMHO. (Michele Montanari)

(Acid Cosmonaut Records - 2012)
Voto: 80

https://www.facebook.com/dswband

Shores of Null - Quiescence

#FOR FANS OF: Dark/Gothic Black Metal, Katatonia, Moonspell
This is quite an impressive effort for a debut offering which has a lot more going on than really expected. The riff-work throughout here is perhaps the biggest influence on this which is quite a bit more varied and dynamic here which is quite impressive. This manages to include the kind of varied riff-work that doesn’t seem to mesh well initially upon first impression, as this has the light, romantic strains reminiscent of Gothic Metal up against the darker strains found in Black Metal, yet plays them in the tempo of Doom and somehow makes this seem quite organic and original. The main impression is that Gothic Metal here for there’s a more conscious effort to place that type of rhythm up-front and center in the tracks by being frequently utilized as the main style throughout, either by used to set-up the other sections or by coming into focus after those other sections do the set-up for the track, and through either method remains the more common variety throughout here. This does give the album a warm, lush atmosphere here with the swirling guitars featured throughout here providing plenty of gorgeous arrangements and dynamic variations throughout which is quite easier to get into than the harsher strains of their other influences. This makes for quite an impressive showing that gives them a bit of an edge against the other bands of this type, but it also gives this one quite a disorienting and scattershot appeal that really belies their infancy in the genre. Not really knowing which direction to turn and throwing all their influences together does make for quite a zigzagging album that continually whips around into numerous feels that never makes for a coherent whole but this can be something that’s fixed in the future. After getting by instrumental intro ‘0x0000,’ which is a droning heavy dirge with sprawling atmosphere and heavy clanking throughout, proper first song ‘Kings of Null’ offers a fine sampler of what’s within as there’s plenty of romantic Gothic tones, complex progressive riffing and darker Black Metal energies used sporadically in the sprawling section for an overall enjoyable track. ‘Souls of the Abyss’ continues that with a lot more lighter moments against the darker Black Metal sections but maintains enough of a good pace to allow this plenty of enjoyable moments. The darker ‘Night Will Come’ features more of those traditional Black Metal riffs amid the Gothic-styled arrangements for a quite dynamic and enjoyable effort, which is continued along nicely in ‘Ruins Alive’ which also features more of the darker elements in play despite a lot of warm, lush Gothic arrangements. ‘Quiescent’ goes back into the Gothic realm with plenty of lush arrangements, a lessening impact of the darker influences and a slow pace to allow it all to shine through quite nicely, but is just a bit too slow for its own good. Flowing along quite wonderfully, ‘The Heap of Meaning’ manages to mix together those elements quite well with breathtaking cleans against the most raging Black metal present on the album and generates an easy highlight. Quite disappointingly, ‘Time Is a Waste Land’ starts off fine with the blasting drumming and tight riff-work of Black Metal taking shape throughout before turning into a series of quiet, plodding droning that takes up the final half and really knocks this one down a lot as it really demonstrates the aimless direction of its varied influences the best here. The overall bland ‘Pain Masquerade’ is pure Gothic Metal throughout and really doesn’t do much of anything here to really wow with what it does. The massive sprawling ‘Eudaemonia’ keeps things going in the slow, swirling pace that just keeps repeating it’s riff-work throughout which does tend to make for a troubling finale but does have enough other areas about it to not only make up for this but certainly allows this to be a band to watch in the genre. (Don Anelli)

(Candlelight Records - 2014)
Score: 80

https://www.facebook.com/shoresofnull

sabato 20 settembre 2014

Venus Victrix – Volume I

#PER CHI AMA: Occult Rock, The Oath, Blood Ceremony, Blue Oyster Cult
I Venus Victrix sono una band autoprodotta proveniente dal Texas, assecondata e ammaliata dalle luci psichedeliche dell'occult rock che di questi tempi sta tornando alla ribalta con l'interessamento di personaggi accreditati e di fama mondiale, come l'ex Cathedral Lee Dorian. che sforna retro rock con voce femminile in continuazione (Blood Ceremony, The Oath, Purson....). La band americana si esalta soprattutto nelle atmosfere più rarefatte, psichedeliche e doom come in "Tsukuyomi", dove la esile voce eterea di T. Marie si mostra più padrona della scena. Una musica che rievoca palesemente il sound vintage dei 70's in tutto e per tutto: la cadenza e il taglio caldo delle chitarre, i piatti sguaiati e una batteria dal suono scarno e naturale, giocano delle buone carte nella costruzione dei brani, il profumo di rock degli Humble Pie, un tocco psichedelico alla Captain Beefheart, le escursioni acustiche e l'immancabile cadenza oscura alla Black Sabbath, chiudono alla fine il cerchio magico. Una produzione non sempre all'altezza della situazione che avrebbe dovuto esaltare maggiormente la profondità e lo spessore del suono, non pregiudica affatto questo 'Volume I' e la ricerca sonora a ritroso della band anzi, in alcuni casi riesce a donare quel suono magico che caratterizzò i primi album dei Blue Oyster Cult. Il duo texano si divide i compiti a metà e vede KJLK suonare abilmente tutti gli strumenti mentre T. Marie, che risulta essere una voce stregata dalla luna, poco consona all'aggressività e morbida come una Carole King in versione "Candice Night" (vedi Blackmore's Night) che canta brani dei Fletwood Mac, assume il comando delle operazioni e ci traghetta nel versante occulto del rock anni settanta dei Venus Victrix, con luci e ombre che lasciano trasparire umori alterni, tra tutte le variegate note del disco. Troppo delicati per risultare doom, troppo elaborati per essere solo rock, il mondo esoterico dei Venus Victrix ha bisogno di una corsia preferenziale di pura esaltazione prog/psichedelica/sciamanica per entrare nella vostra testa ed essere concepito. Quindi aprite a dismisura le vostre menti e ascoltate questo lavoro! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 70

Vrademargk - The Black Chamber

#FOR FANS OF: Melodic Death Metal, Dark Tranquillity, Arsis
Like the majority of bands in the Melodic Death Metal genre, the impetus here is on simply proving that the aggressive riff-work and dirty atmosphere of traditional Death Metal can be melded nicely alongside melodic tones, and that’s what this Spanish band ably attempts here. Bolstered by a tight, heavy chug that really revels in the mid-tempo paces, there’s a central focus on the aggression here that comes across quite well in these segments as there’s plenty of furious rhythms on display as a calculated dose of technicality is merged into those arrangements to make for an even more exciting display. That dose of technicality, strangely muted in the second half, makes the upper half tracks where it’s present far more dynamic and enjoyable with numerous tempo changes and furious riffing that makes for rather impressive foundations for the flowing melodies to get a chance to explore more innovative rhythms than just simply popping up in the middle of the track for no real reason. However, that does bring up the central underlying feature about the album in that it is clearly one-sided with the best tracks almost exclusively placed in the upper half of the running order while the second half is quite low on those elements. The upper half is dynamic, varied and quite enjoyable while the second half tends to meander around in mid-tempo paces and chugging rhythms that don’t build to any kind of energetic speed, enjoyable rhythms and just tend to wallow in sluggish paces that are not in the slightest bit interesting. This is a straight-up rule on the album that can be followed quite literally with one song on the first half not working well amongst a slew of energetic, enjoyable tracks while one on the second half sticks out for its enthusiasm and energy amongst the gathered number of sluggish, plodding pieces that surround it. It’s a little disconcerting to notice that as this essentially cuts the album in half with no difficulty at all and hinders the album a lot more than it really should with more explosive tracks throughout. After the intro ‘Into the Heart of Death,’ with its low rumbling noise and synthesized keyboards making for ominous gradual build-up, proper first track ‘Undesired Funeral’ best demonstrates the band’s ability to wrap tight melodies alongside aggressive patterns and pounding drumming for an outstanding highlight. The multifaceted ‘Fear Itself’ continues this stellar work with tight rhythms, plenty of aggressive riffing and a slew of dynamic tempo changes from raging mid-tempo to dynamic start/stop patterns and even minor hints of groove to make for a spectacular effort. Despite some impressive riffing, ‘Anima Invictus’ is a somewhat bland track that relies way too much on the mid-tempo chug-patterns rather than really utilizing the other factors in their sound for a decidedly decent effort. Thankfully, ‘Taste the Sin’ goes back to tight rhythms and melodic work-outs which provide this with another stand-out track. ‘Més Enllà de l'Abisme’ backs up more tight mid-tempo chugging with razor-wire riff-patterns and pounding drumming for another decent if slightly overlong track with the lengthy mid-section ambient interlude soaking up way too much time and not providing a lot else to like. ‘The Empathic Misanthrope’ starts out all right with plenty of tight rhythms and pounding drumming in the first half but it quickly loses the energy and becomes nothing but a plodding, sluggish crawl to the finish in the second half that struggles to end quick enough. The title track goes back to the start of the album with furious melodic patterns, tight chugging and plenty of tempo shifts that manage to store plenty of energy and intensity alongside the melodic leads which allows this to revert back to being an album highlight. Ending on a sour note, ‘Deathcell Migration’ manages to whip through a multitude of patterns and performances across the extended running time and certainly demonstrates plenty of fine technical displays but just doesn’t get the energy up enough to make the most of the sterling performances. Otherwise, there’s not too much really wrong here beyond the lack of energy throughout. (Don Anelli)

(Self - 2013)
Score: 65

Steny Lda - Beloe Bezmolvie / White Silence

#PER CHI AMA: Post/Sludge, Isis, Russian Circles
Cosa aspettarsi da un album intitolato “Silenzio Bianco”, da una band il cui nome significa “Muro di Ghiaccio”, e il cui, peraltro splendido, artwork mette in fila fotografie di mari ghiacciati e iceberg, rigorosamente in bianco e nero? Detto che ogni informazione supplementare bisogna sudarsela, essendo tutto (dal nome della band a i titoli dei brani e alle note di copertina) scritto in cirillico, vado in cerca di approfondimenti e trovo la recensione che il buon Franz fece dell’esordio del quintetto russo, datato 2010, allora promosso con riserva. Schiaccio play e vengo investito dall'equivalente musicale di una tempesta artica: muri di chitarre post hardcore e ritmiche serratissime, intervallate da momenti più riflessivi di stampo post rock e quindi nuove accelerazioni maestose, sottolineate da tastiere solenni e vocals sofferte e furibonde. Una bomba. Peccato che il resto del programma mantenga solo in parte le promesse fatte nei cinque minuti furiosi e drammatici del primo brano, “Fordevind”. Già, perché da qui in poi, gli Steny Lda propongono un post/sludge dalle forti componenti cinematiche ma che perde molto potenziale allorché decide, e lo fa per buona parte del programma, di rimanere soltanto strumentale. Come già rilevato nell'esordio, anche qui infatti l’impressione è che molte delle potenzialità della band vengano meno quando non supportate adeguatamente dalla voce. I tre brani successivi, infatti, mettono in fila in maniera diligente tutto l’armamentario classico del genere, come insegnato negli anni da gente come Isis e Russian Circles, il tutto incastonato sullo sfondo di quello che, come suggeriscono i titoli, sembra essere il tema portante del lavoro, ovvero il ghiaccio. Peccato che la personalità avvertita nel pezzo di apertura qui si perda e così diventa davvero difficile distinguere l’incedere lento dei 10 minuti di “Ice Storm, The Earth Ball” da quello di un qualsiasi altro brano prodotto da una delle tante band post/sludge strumentali. Quando sembra che le cose debbano incanalarsi per il peggio, ecco però che l’album sterza decisamente a partire dalla traccia numero 5 “Drifting Icebergs in the Fog, Causing Destruction and Destruction “ (metto solo la traduzione dei titoli, che già sono lunghi di loro...) che, guarda caso, vede il ritorno delle voci che innalzano immediatamente l’asticella dell’intensità emotiva. Intensità che i cinque riescono a mantenere alta più o meno fino al termine dei 12 minuti della conclusiva “Cold Earth” (quando si dice avere un chiodo fisso...), dove veniamo salutati dal suono di un vento gelido che spazza le lande desolate del nostro animo. Alcune cose ottime, altre decisamente meno. La direzione è giusta, adesso sta a loro imboccare con più decisione il bivio, sperando che facciano la scelta migliore. Adesso però vado a mettermi un maglione pesante. (Mauro Catena)

(Slow Burn Records - 2014)
Voto: 70

mercoledì 17 settembre 2014

Eternal Valley - Concealed in Nothingness

#PER CHI AMA: Suicidal Black
Era da un po' di tempo che non mi capitava di recensire una qualche one man band, eccomi quindi accontentato. Da Battle Ground nello stato di Washington, là in mezzo alle foreste, si cela Orszar, factotum del progetto Eternal Valley, che in questo 2014, ha fatto uscire ben 2 album e un EP, appunto questo 'Concealed in Nothingness'. Quattro i pezzi proposti, all'insegna di un black siderale, che si aprono con "As Shadows Look Away", contraddistinto da cupe atmosfere depressive disegnate da un flemmatico avanzare di chitarre, da voci disperate e da tenui luci autunnali, il suono perfetto per questo periodo dell'anno che va a sancire la fine dell'estate. 'Concealed in Nothingness' è un breve lavoro, che nonostante il suo approccio misantropico al limite del suicidal, suona comunque "caldo", come il sangue che esce da vene appena tagliate o come la lava che lentamente sgorga da un cono vulcanico. Immagini forti che rappresentano facce diverse della stessa medaglia, la prima la pericolosità della mente umana, mentre la seconda la furia della natura. Allo stesso tempo è forte e pericolosa anche la disperazione che emerge dai solchi di questo cd (attenzione, limitato a sole 100 copie): "A Hole to Die In" è la seconda traccia dal forte flavour burzumiano, quello più abile nel miscelare black e ambient, anche se di quest'ultimo non vi è traccia nel corso dei 18 minuti di questa release. "Morose" è una song furiosa, un thrash black vetusto, che trae ispirazione da molto lontano, e su cui si può anche sorvolare, per focalizzare meglio la propria attenzione sulla conclusiva "End This Life", titolo quanto mai esplicito. Davanti agli occhi mi ritorna l'immagine delle vene tagliate, il desiderio di farla finita e la malinconia trainante questo pezzo strumentale, risuona come un invito a calare il sipario sulle nostre vite. Dilanianti. (Francesco Scarci)

(Neckbrace Records - 2014)
Voto: 65

Ergholae Somptator – Raptus du Fanè

#PER CHI AMA: Experimental Black metal, Portal, Deathspell Omega, Tsjuder
Aprite le orecchie e votatevi a quest'album, azzerate le vostre visioni musicali, intrecciatele tra loro, mescolatele, rovinatele, perché questa band ha superato magnificamente il limite, costruendo un nuovo importante tassello per l'olimpo del metal estremo mondiale. Prendete dei riff thrash anni '80/ '90, mescolateli con la bizzarra controversa vena oscura dei Deathspell Omega, la forza degli Tsjuder, la violenza sonora ed il noise dei Portal (quelli di 'Vexovoid'), richiudetevi in una stanza senza finestre nel seminterrato e ascoltate il tutto, adorerete questo splendore underground. Psichedelia black metal, bagnata di postcore e furia grind lacerata e maciullata da una registrazione ai limiti della tolleranza in grado di devastare tutto quanto come se a suonare fossero i primi Atari Teenage Riot alle prese con i brani dei Taake. Violento, ferale, sulfureo, lugubre, spavaldo e pieno di sé, quest'album avanza con riferimenti musicali multipli tritati a dovere da una produzione underground implacabile e impietosa. La formula usata è geniale: si percepisce perennemente un senso di catastrofe e disastro che si espande nota per nota, riff dopo riff; cattiveria, mal di vivere, rumore nero imperversano nelle note di 'Raptus du Fanè'. Eccolo il metal deforme dei francesi Ergholae Somptator, che in questo album autoprodotto, dalle immagini di copertina astratte ed altamente artistiche, riportante i titoli dei brani, nome della band solo sul lato e i nomi dei due audaci autori (Jeròme Bouquet e Lèo Louis – Honorè) in un angolo, toccano vette che non si erano ancora raggiunte in fatto di sound sperimentale ed estremo. Molti odieranno questo lavoro per la sua attitudine divinamente low-fi, ma chi sta cercando un traghetto ed un nuovo Caronte per attraversare le fauci dell'inferno rimarrà ammaliato da cotanta creatività sonica. Come non amare la follia rumorosa e perversa di tracce killer come "Folie Comminatoire" e "Champs Absurde" o il taglio etnico rumorista di "Chantarellaceae", song ai confini con l'improvvisazione. Fingere di non provare piacere all'ascolto di "La Douleur est Mer" con i suoi riff rubati ai Sepultura per centrifugarli in un impazzito vortice black- industrial - noise – metal sarebbe come commettere un peccato gravissimo. Un perverso capolavoro!!! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 90

Codex Alimentarius - The Hand of Apophis

#PER CHI AMA: Death melodico
Sono solo undici i minuti a disposizione dei Codex Alimentarius per farci assaporare la loro furia distruttiva e vi garantisco che bastano e avanzano per farsi una idea della band di Exeter. 'The Hand of Apophis', secondo EP dei nostri, si fa portavoce di un death abrasivo ma al contempo melodico e dalle venature a tratti sinfoniche, che certo saprà conquistare tutti gli amanti di sonorità estreme, me compreso. Dopo una breve intro, ecco esplodere "Trajectory" e il rutilante martellare del drummer Frank 'Bleeding' Dennis viene accompagnato da una sezione ritmica con i controfiocchi costituita da ben 3 chitarre e un basso che, ben bilanciati, vedono ergersi sopra le loro teste, il vocione apocalittico del bravo Ray. "Azimuth" è la seconda traccia, dallo vena deathcore, una song che riassume lungo i suoi quattro minuti e mezzo, lo spirito del 6-piece britannico: sonorità potentissime, ritmiche sincopate, rallentamenti magmatici, growling brutali, una buona dose di melodia e tanta tecnica. Risultato: eccellente. Gli arrangiamenti in questo disco non si sprecano di certo, tutto è curato nei minimi dettagli e "Impact" è l'ultima dimostrazione del dischetto anche se i minuti a disposizione rimangono solo tre. Ottimi riffoni che dettano un tempo quasi marziale controbilanciato da accelerazioni da urlo, il tutto enfatizzato poi da una produzione pura e cristallina. Ottimi laceranti assoli squarciano infine il brano in più punti, rivelando la natura orchestral brutal-melodica dei Codex Alimentarius. Bella scoperta, ma ora attendo un lavoro che confermi le qualità dei nostri anche sulla lunga distanza e ne faccia anche lievitare il voto conclusivo, tenuto logicamente più basso visti i soli 11 minuti messi a disposizione. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

martedì 16 settembre 2014

Geminy - The Prophecy

#PER CHI AMA: Heavy Power, Labyrinth 
Primo lavoro per i genovesi Geminy, in attività dal 2006, che dopo due demo (uno del 2007 - 'The Hidden Door' - e uno del 2010 - 'The King of Gorm') approdano sul mercato con questo 'The Prophecy'. Concept album per i nostri incentrato su un mondo ambientato nel medioevo, con re, foreste, spiriti malvagi, prigionieri, templi e profezie. Il disco, uscito nel dicembre 2012, si apre con la strumentale "Into the Prophecy", dove si può da subito notare l'impronta power-progressive data dalla band. Già con la seconda traccia, "Nordic Sea", si può osservare l'affinità con un'altra band power melodic italiana: i Labyrinth. Il cantato in inglese, con la voce di Francesco Filippone, pulita e tendente all'acuto, bilancia un sound che altrimenti diventerebbe pesante da ascoltare. "Trinity Necklace" ha un'anima più orientata al versante folk, con qualche sprazzo dal ritmo intensificato, ma che poi rientra sui soliti binari, rasentando però il già sentito. Piccola gemma musicale dell'opera è "Abyss" brano “vestito” di una certa cupezza grazie al dualismo pianoforte/chitarre che ne prolungano le note con lunghi assoli. La sveglia arriva con "Empty Streets", puro power con inserti di pianoforte. Arriviamo alla melodia di "Mind Control" dopo una serie di interludi strumentali e mi sale all'orecchio un po' di aria fresca: si cambia musica, con le keys che imitano un carillon e un velato alone di mistero e paura mi avvinghia l'anima, ma purtroppo è una sensazione che dura poco. Poi ancora qualche assolo di chitarra, acuti vocali e quanto già finora s'era sentito. Quest'album vanta due ospiti d'eccezione: Roberto Tiranti dei Labyrinth/Mangala Vallis, vocalist principale della canzone "My Fellow Prisoner", song basata più su un tappeto tastieristico che sulle chitarre. Il secondo ospite è Tommy Talamanca dei Sadist/The Famili, di cui non si può non notare la sua impronta death in "Evil Eye", traccia che riflette la sana grinta del musicista ligure. Con la title track si giunge alla fine del disco, ma non prima di spezzarla in quattro parti (dura 11 minuti), che variano dalle note meste di pianoforte a quelle power, vero trademark dei nostri, per poi tornare a chiudere il tutto con un prolisso assolo di chitarra e note di piano. In conclusione: 'The Prophecy' è il primo lavoro ancora acerbo dei nostrani Geminy, per cui mi sento di dare il mio consiglio personale: aggiungere un po' di sano growl alle vocals, il che renderebbe il tutto più vario e interessante da ascoltare. (Samantha Pigozzo)

(Nadir Music - 2012) 
Voto: 60 

Ymir's Blood - Voluspa Doom Cold Stone

#PER CHI AMA: Thrash/Viking, Sadus, Sabbat, King Diamond, Venom
Vi è qualcosa di esageratamente metal nel sound di questa band finlandese al proprio debutto con questo EP, dal titolo 'Voluspa Doom Cold Stone'. Un lavoro di circa venticinque minuti diviso in quattro brani di media lunghezza, uscito nel 2014 via Archaic Sound. Un'orgia sonica plasmata con ferro e acciaio per un'ode alle divinità nordiche, lontana dal mainstream anni luce, figlia degenera dei migliori Sabbat con reminiscenze a la King Diamond, un'attitudine maligna a la Venom e un orgoglio glorioso a la Manowar. Niente epic metal in termini canori ma una voce roca e violentissima urlata in faccia come se si trattasse di un pugno ben assestato e una musica carica di rudi retaggi black metal filtrati dalla pesantezza del doom, anche se i ritmi non rallentano mai così tanto. Il trio predilige atmosfere claustrofobiche e oscure con una certa verve punk/ hardcore old school al vetriolo, il tutto è tanto ruvido e volutamente lacerato e si prende con la forza una buona credibilità, proiettando l'ascoltatore dritto in un campo di battaglia medievale con alabarda e scudo pronti all'uso. La costruzione dei brani ricorda molto il grande King Diamond per il suo classicismo compositivo e per certi aspetti la cadenza ed il mid-tempo da puro classico del metal vintage style, dona all'intero disco un'omogeneità e una fluidità d'ascolto esagerata, pur tenendo conto di un ambiente sonoro che di per sé è molto ostico. Buono l'artwork e la produzione, mirata ad esaltare la sonorità acustica e naturale di tutti gli strumenti che godono di un equilibrio perfetto e di una forza d'urto reale, violenta, nuda e cruda. Prende vita in questo lavoro una nuova veste del defender tout court, intrappolato nell'epicità classica ma espressa con sonorità vicine al thrash europeo più sanguigno e realista, con una propensione verso Celtic Frost e Sadus, dal tono perennemente drammatico, sobrio e arcigno. Un nuovo modo di fondere le varie correnti metalliche senza risultare sterili e inconcludenti. Ottimo lavoro! Ascolto consigliato a tutti quelli che si sentono vicini alle saghe vichinghe! (Bob Stoner)

(Archaic Sound - 2014)
Voto: 80

lunedì 15 settembre 2014

A Tear Beyond - Beyond

#PER CHI AMA: Gothic metal, Elettro-industrial, How Like a Winter
Difficilmente cerco di lasciarmi influenzare nel giudizio su un lavoro dalla veste grafica del “contenitore”: il rischio che si corre sta nel soppesare il contenuto aprioristicamente, un po’ come se partisse in curva e pertanto con più strada da recuperare per farsi largo alle orecchie del fruitore, penalizzato a causa di una scelta magari “poco felice” in termini di veste grafica per mille motivi diversi... oppure l’esatto contrario, tanto fumo e niente arrosto. Mi rendo conto che quanto affermato risulterà pacifico ai più, ma lo metto nero su bianco ugualmente in questo contesto perché, per una volta, contenitore e contenuto vanno realmente a braccetto e la copertina racconta in anteprima cosa andremo ad ascoltare inserendo il CD nel nostro beneamato lettore. Benvenuti a teatro! Prego prego, prendete posto, le luci si spengono, il drappo rosso del sipario si apre e siamo improvvisamente catapultati in un’epoca dove il tempo si è fermato in un certo passato elegante, colto e ricercato, molto diverso dal nostro vivere quatidiano, e ritengo siano i termini giusti per descrive appieno, a mio parere, pure il carattere di questi ragazzi vicentini. Musicisti non di primo pelo, ma qui al debutto (ormai del 2012) con questa formazione ed il risultato racchiuso in queste note entusiasma nel suo essere maturo e a tratti decadente. Non lasciatevi intimorire dall’inflazionato termine “gothic”, usato per descrivere la musica dei A Tear Beyond, in quanto posso assicurarvi che questa etichetta risulta alquanto stretta, certo limitante, funzionale solo a dare un’indicazione superficiale sul gusto musicale dei Nostri; in realtà molti più elementi emergono all’ascolto, sempre calati in questa atmosfera da palcoscenico, pertanto parlerei molto più volentieri di “dramatic metal” o qualcosa di simile, ma in definitiva chi sono io per proporre categorie e quindi teniamocelo inter nos tra queste righe. Ad ogni modo, è indubbio il valore intrinseco del disco, meritevole di plauso per il ritmo fantastico che lo sostiene, così come i nove pezzi ne rappresentano i diversi atti di un dramma: l’intro omonima da favola, dove la narrazione parlata in italiano ci mostra il percorso da seguire (il concept dell’intero album, arricchito da uno scritto nella pagina centrale del booklet) avanzando nel buio a lume di una candela dalla fiamma flebile e traballante, l’energia di "Lullaby for My Grave" che ci presenta la band (o compagnia di teatranti, se preferite) in grande coralità, quindi le fantasie orientaleggianti di "By Tears and Sand (The Golem)" e così via. Un posto speciale nel mio cuore è occupato da "Rain on the Oblivion", probabilmente l’episodio più riuscito dell’intero album grazie ad un refrain tra i migliori ascoltati da un po’ di tempo a questa parte. Musicalmente emerge ogni singolo strumento e, finalmente, mi sento di poter apprezzare un intelligente utilizzo delle tastiere nel ricreare il sound così teatrale che mi ha fatto apprezzare questo disco. I ragazzi poi non lesinano anche su alcune scelte più elettroniche ed industrial ("The Hunt"), ma danno il meglio quando vestono realmente i panni da teatranti, in particolar modo il vocalist Claude Arcano, dal timbro profondo e carismatico che mi ha ricordato il meraviglioso cantato di Marco Benevento (The Foreshadowing e How Like a Winter, in particolare!), ma in grado di mutare forma verso un buon screaming, a rinforzare ulteriormente il concept di dualismo e confronto tra opposti alla base di tutta l’opera. Personalmente, nonostante rispetti la scelta del gruppo di utilizzare l’inglese come lingua cantata, avrei osato con qualche pezzo in italiano in più, data la grande resa che la nostra lingua può avere in ambito teatrale, ma sarà per la prossima volta. In definitiva forse l’unico vero difetto del disco è la sua durata, poco più di 36 minuti ma, mi perdonerete, direi poco male: siamo a teatro, quindi tutti in piedi, un bell’applauso e sentiamo la folla richiedere il bis a gran voce... speriamo che la band ce lo conceda a breve... ancora più bello. (Filippo Zanotti)

Narriamo dell'antico tempo, ciò che lo scribano disse, 
riguardo all'occulto vespero dell'esistenza 
e di ogni suo elemento, 
della Rosa, dell'Assenzio, dell'Ombra e della Luce, 
dell'Uomo pazzo e dell'Uomo assiso...

(Self - 2012)
Voto: 80

The Morningside - Letters From the Empty Towns

#PER CHI AMA: Death, Carcass, Death, Opeth
Della serie qualcosa è cambiato... o forse tutto. Questo il mio primo pensiero dopo esser rimasto totalmente basito all'ascolto di 'Letters From the Empty Towns', nuovo lavoro dei moscoviti The Morningside, da sempre portatori di un death doom malinconico, sulla falsariga di Saturnus e primi Katatonia. Non vi posso pertanto nascondere il mio shock quando "Immersion" esordisce nel mio lettore. Strabuzzo le orecchie e controllo il cd per verificare se magari sia stato commesso un errore o altro. Il vecchio sound dei nostri è quasi definitivamente scomparso per far posto ad un techno death carico di groove che solamente nella sua sezione solista può vagamente rimandare agli albori della band, per quelle sue nostalgiche melodie. Per il resto si tratta di una song nervosa sulla scia di 'Human' dei Death, si avete letto bene, anche come impostazione vocale. Che diavolo succede? "(One Flew) Over the Streets", il secondo brano, parte con tutte le potenzialità mirate a infondere oscure e rarefatte melodie, ma la ritmica dei nuovi The Morningside continua a richiamare i gods statunitensi capitanati dal ei fu Chuck Schuldiner, regalando peraltro ottimi spunti di un death metal complesso e articolato. Tuttavia questa è un'altra band, e non posso trascurarne il passato, avendone recensito i precedenti due lavori. Provo ad andare oltre e vedere che succede, se gli echi dei Katatonia si sono disciolti del tutto o ancora risiedono nelle corde del quartetto russo. Finalmente "Deadlock Drive" sembra riprendere l'oscurità tipica dell'ensemble di Mosca, addirittura pescando da 'Gothic' dei Paradise Lost. Il suono si conferma potente, robusto e carico di groove con le chitarre che dipingono finalmente lande gelide e la voce del buon Igor che si conferma sempre su livelli eccelsi. "Sidewalk Shuffle" è una traccia dalle forti reminiscenze carcassiane (periodo 'Heartwork') soprattutto a livello ritmico. Con "On the Quayside" i nostri continuano a regalare ottimi spunti di death metal progressivo, anche se una serie di brevi break acustici/voci pulite, fanno aleggiare lo spettro degli Opeth nell'aria. "The Traffic Guard" è una song dal bel tiro e dalle linee di chitarre abbastanza ruffiano, anche se poi la traccia nella sua parte centrale, si diverte nel giocare con tempi dispari e riff graffianti. Un breve intermezzo acustico ed è tempo per le conclusive "Ghost Light" lunga traccia che finalmente richiama al passato dei Katatonia e "The Letter", song semiacustica che chiude un album che sinceramente non riesco a capire se mi abbia deluso o mi abbia dato l'opportunità di ascoltare una nuova realtà musicale, una band che si muove sui binari del death classico (Death, Carcass) leggermente venato di influenze doom. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music - 2014)
Voto: 65

domenica 14 settembre 2014

Sergeant Thunderhoof – Zigurat

#PER CHI AMA: Stoner, Doom, Space Rock, Monster Magnet
Lo ammetto, dopo il primo ascolto avevo pesantemente sottovalutato questo disco, che mi era sembrato piatto e inultilmente prolisso. Se ne avessi scritto all’epoca, agli atti sarebbero rimasto le prove della mia clamorosa cantonata, perchè questo 'Zigurat' è un lavoro davvero magnifico. I Sergeant Thunderhoof sono un quartetto inglese di Bath che arriva all’esordio discografico (autoprodotto) con quello che loro stessi definiscono un EP, anche se dura circa 40 minuti, il cui nome è preso dalle piramidi tipiche della civiltà babilonese, che simboleggiavano la montagna sacra. Ed ecco quindi che 'Zigurat' è in effetti una piramide che getta le sue basi sulla roccia solidissima, per poi slanciarsi verso l’alto e svettare oltre le nubi, puntando lo spazio profondo. Quello che ai quattro riesce benissimo, infatti, è il connubio tra la sostanza magmatica dei loro riff di matrice stoner e doom, con la leggerezza psichedelica che riesce a sospingerli verso l’alto, quasi in assenza di gravità. Quello che abbiamo tra le mani è quindi un favoloso ibrido tra Sabbath, Moster Magnet, Black Label Society, caratterizzato però da fortissime propensioni space che lo elevano facilmente rispetto alla massa di produzioni solo apparentemente simili. Tutto è al posto giusto: un cantante come ce ne sono pochi, chitarre potentissime e raffinate allo stesso tempo, una sezione ritmica semplicemente devastante, il tutto valorizzato da una produzione e un suono impeccabile, tenendo conto del fatto che ci troviamo di fronte ad un lavoro autoprodotto. Ogni cosa è curata nel dettaglio anche nell’ottimo artwork del digipack, che contiene anche i testi, ricchi di riferimenti lisergici e psichedelici. La prima traccia, "Devil Whore", è forse la meno convincente del lotto, perché pur essendo estremamente godibile e potente, è anche quella in cui l’effetto deja-vu è più forte, ricalcando maggiormente i modelli di cui sopra. Subito dopo arriva, però, l’apice del disco: "Pity for the Sun" che inizia dilatata e liquida per poi esplodere in tutta la sua potenza con riff monumentali e ha la forza, dopo otto minuti senza cedimenti, di accelerare ancora verso il centro della terra. Indimenticabile. "Om Asato Ma Sadgamaya" è il brano piú breve, che stempera bene la tensione con le sue chitarre effettate e l’atmosfera molto 70’s, prima dei due lunghi trip conclusivi: "Lunar Worship" si erge maestosa e sorprende con le sue rarefazioni improvvise, mentre "After Burner" cresce piano sorretta da magnifiche chitarre e una voce sempre piú protagonista, per poi esplodere nel climax finale fatto di colate laviche e grida strozzate. Per concludere, quindi, un esordio spettacolare, che potrebbe aver sancito la nascita di una nuova stella. Ci auguriamo tutti che sia cosí. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 80

Hercules Propaganda - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock
Un tempo erano quattro, ora sono tre. Nascono nel 2010 in Germania e dopo un EP escono con questo album omonimo, disponibile anche in vinile. A questo punto immaginatevi di prendere i Village People (a livello di abbigliamento) e fonderli con i Kiss e con questo avrete un a prima idea di chi sono gli Hercules Propaganda (HP). Una rock band che fa Giganten rock (??), ovvero un mix di hard rock anni '70 e glam con un filo di frequenze basse in più che li vorrebbe anche nella scena stoner (ma di fatto non lo sono). Gradassi, tecnicamente bravi e con una voglia matta di suonare dal vivo, i giusti ingredienti per fare del power glam per attirare dolci donzelle (anche se ormai le groupies vanno in discoteca) e sudati bikers. Il groove c'è, i brani spingono e il sound è in linea con il genere, come in "Power to Rock". Brano più punk che rock, veloce e anche dinamico, risulta pieno zeppo di riff già sentiti. Poi la chitarra si prende le sue responsabilità e diventa solista, sfornando pregiati assoli che scuotono anche l'ascoltatore più svogliato. Basso/batteria tengono il passo e il vocalist possiede il timbro adatto per interpretare abbastanza bene la parte. Una sorta di Jack White vestito per una festa a tema un pò equivoco. "Electric Diva" spiazza chi ascolta perchè l'intro smaschera il lato funky della band, la chitarra arricchita dall'effetto wha scandisce il tempo e la band alterna riff a la Led Zeppelin in versione moderna. Il testo è un po' ripetitivo, ma il giusto per permettere al pubblico chiassoso di cantare facilmente con la band. Verso la fine ci stà pure un break psichedelico ed un'ultima cavalcata sempre in stile inglese anni '70. "Children of Satan" vuole essere una ballad strappalacrime, classica fino al midollo e che non si vergogna di mostrare tutte le influenze del caso. Dopo l'arpeggio pulito iniziale, si alternano riff veloci a la Iron Maiden, per dare una duplice identità alla canzone che altrimenti avrebbe arrancato per tutti i suoi sette minuti abbondanti. Troppi. Gli HP sono una band con una facciata ricoperta di paillettes su pantaloni di pelle che nasconde dei musicisti validi, fortemente influenzati da tutto ciò che è già stato in passato. Resta da capire se questo è tutto quello che si aspettano dal loro progetto, oppure no. (Michele Montanari)

(Fuzzamatazz Records - 2013)
Voto: 70