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mercoledì 29 maggio 2013

Viscera/// - 2: As Zeitgeist Becomes Profusion of the I

#PER CHI AMA: Post-Hardcore, Sludge, Space Rock e Psichedelia
Mi dovrei vergognare, non c’è dubbio. Come si può perdersi per strada un album come quello degli italianissimi Viscera///, tra l’altro anche più volte indicati dal buon Kent nei suoi ascolti e riscoprirli solamente ora, solo perché la loro etichetta mi ha inviato magnanimamente il loro cd? Mea culpa mea culpa, mea grandissima culpa. E allora analizziamolo il contenuto di questa release: se i nostri si erano resi artefici nel 2007, di un album, “Cyclops”, che offriva il fianco ad una certa brutalità di fondo che mischiava schegge grind a sonorità post hardcore e industrial, tanto da guadagnarsi l’appellativo di brutalcore, con questa release, i nostri percorrono una strada molto più avventurosa, irta di pericoli e quindi più sfidante, anche per colui che li deve ascoltare e recensire. Già dall’iniziale “Ballad of Larry L.” capto la voglia di sperimentazione dei nostri, con una lunghissima song che per 2/3 si mantiene strumentale, barcamenandosi tra ammalianti sonorità post e ambient, in cui solo alla fine trova posto una bellissima e suadente voce. Quella stessa voce appare in “Hands in Gold”, traccia che per i primi quattro minuti ci regala ancora soffuse atmosfere, melodiche linee di chitarra e ambientazioni post rock, prima che nel bel mezzo del brano i nostri si lascino andare a schegge di grind impazzito. Si tratta solo di una manciata di secondi, perché poi l’ensemble italico torna ad abbandonarsi in deliziose fughe space rock, delineate da velate influenze blues che si miscelano perfettamente con una “psichedelia settantiana”. “Um ad-Dunia” sembra aprire la seconda parte del disco, ben più violenta della prima metà: il brano ha solo l’intro permeato delle intimistiche melodie ascoltate fino ad ora, perché il resto evidenzia un po’ del retaggio proveniente dalla precedente release, con ritmiche assai tirate e vocals al vetriolo. Tuttavia la nuova direzione musicale intrapresa dai Viscera/// rimane sempre udibile nella matrice di fondo dei nostri. Essendo un fan dell’ultimissima ora, ammetto però di preferirli in versione più riflessiva, piuttosto di band in grado di mostrare i muscoli con chitarre al fulmicotone, ritmiche serrate e vocals belluine, direi che di questa tipologia ce ne sono fin troppe. Quando però l’ensemble dipinge splendidi scenari desolati, ammetto di amarli e non poco. A chiudere il cd ci pensano i 14 minuti e passa di “They Feel Like CO2”, delizioso pezzo che torna a riproporre, solo nei primi minuti, i Viscera/// in veste più meditativa a livello musicale, offrendo un cantato all’insegna dello screaming corrosivo tipico dell’hardcore. Le linee di chitarra sono lineari, un po’ di quella sperimentazione evidenziata a inizio disco si è un po’ persa per strada, non fosse altro per un bel bridge centrale, qualche cambio di tempo e un riffing che da li a poco diventa nevrotico, dirompente ed inacidito, una tempesta elettrizzante che preannuncia la quiete finale che chiude questo secondo lavoro degli enigmatici ed eclettici Viscera///. Se anche voi vi siete persi “2: As Zeitgeist Becomes Profusion of the I”, avete tutto il tempo per rimediare, soprattutto perché ora potrete godere anche della versione in vinile. Ottima scoperta. Mea culpa! (Francesco Scarci)

(Consouling Sounds)
Voto: 80

http://viscera3stripes.bandcamp.com/

Red Harvest - Sick Transit Gloria Mundi

#PER CHI AMA: Black Industrial
Andiamo a scoprire il quinto album per i Red Harvest, storica band norvegese che debuttò nel '92 su Black Mark con “Nomindsland” e che, lontana dai vari trend che si sono avvicendati nell'arco di questo due decenni nel metal estremo, ha sempre mantenuto fede ad un percorso artistico autonomo. Attraverso lavori come “There's Beauty in the Purity of Sadness”, “Hybreed” e “Cold Dark Matter”, i Red Harvest hanno saputo plasmare il suono embrionale degli inizi, fatto di intuizioni originali ma anche di sperimentazioni talvolta poco riuscite, approdando così ad un industrial-metal molto personale. Se, qualitativamente parlando, “Hybreed” poteva rappresentare il disco della svolta, “Sick Transit Gloria Mundi” acquista un ruolo diverso, imponendosi come il migliore lavoro partorito dal gruppo e facendo emergere i Red Harvest da un "quasi anonimato" che non rendeva certo giustizia al loro reale valore. “Sick Transit Gloria Mundi” è un disco che raggiunge non soltanto la perfezione stilistica ma diventa anche il tramite di un concetto vasto ed attualissimo, che vede coinvolte scienza e spiritualità in una realtà terrificante. Quello che i Red Harvest dipingono è un inferno non molto distante dal mondo reale, un mondo incolore dove l'umanità è totalmente asservita alle macchine e si prostra ad una tecnologia dai connotati quasi mistici. Assorbita la lezione di nomi fondamentali quali Scorn, Ministry, Pitchshifter e Godflesh, la band stravolge questo patrimonio genetico e lo riassembla in modo convincente, conferendo alla propria musica una vena apocalittica, malata e spesso brutale, con ritmi martellanti ed un'atmosfera sempre cupa ed ossessiva. Nascono così dei pezzi devastanti come “AEP”, “Humanoia” e “Beyond the End”, grida disperate d'allarme che giungono impetuose e stridono nell'aria velenosa di una natura ormai al collasso. L'assalto metal industriale dei Red Harvest sa essere distruttivo e inarrestabile ma in episodi come “Desolation”, “CyberNaut” e “Godtech” è un incedere lento e pesante ad accompagnare le immagini aberranti descritte, come se due occhi stanchi seguissero annoiati i fotogrammi terribili di una catastrofe imminente. Dolore, rabbia e grigia frustrazione convivono nell'album più bello che i Red Harvest abbiano realizzato fino ad ora, tracciando un'alternativa estraniante di annullamento e di lenta autodistruzione, un'ultima chance per fuggire da questo mondo intossicato... get off the planet, now! (Roberto Alba)

(Nocturnal Art Productions)
Voto: 90

Talbot - Scaled

#PER CHI AMA: Stoner, Post Metal, Doom
Non sono la persona più indicata per recensire lo stoner, ma trattandosi degli estoni Talbot, che seguo sin dal loro esordio e che ho già recensito su queste stesse pagine con “Eos”, ho voluto fare un’eccezione. “Scaled” esce autoprodotto, orfano del supporto della Slow Burn Records, ma poco importa, il risultato è comunque garantito. Il duo di Tallinn torna coi loro bei riffoni super ribassati a centrifugarmi l’animo ed eccole di nuovo ronzare nella mia testa le ritmiche dei mitici esordi dei Cathedral, quelli di “Forest of Equilibrium”, con quel vocione maligno ad alternarsi alle cleaning vocals. Il doom ancora una volta si coniuga sapientemente con lo stoner in lunghe fughe space rock contaminate da un melmoso sludge dotato di una vena post-, come sin da subito sottolineato dalla traccia in apertura, “Spectral Express” che mi fa innamorare della nuova release dei Talbot. La ritmica è sinuosa, martellante, ubriacante e manifesta ancora una volta quella capacità di attorcigliarsi, come un serpente ai rami di un albero. Facile dunque perdersi nei deliranti passaggi del duo baltico, che con questo nuovo “Scaled” vuole confermare quanto già di molto buono è già stato espresso in passato. Se si vuole trovare un difetto, mi viene da dire che forse troppo spazio è concesso al basso che alla fine rischia di essere fin troppo preponderante sugli altri strumenti, mentre vorrei sottolineare la straordinaria prova, stracolma di fantasia, del bravo drummer Jarmo. Se “Egomine” sembra inizialmente inseguire i classici dettami del genere, la seconda parte del brano lascia ampi margini alle deliranti elucubrazioni musicali dei nostri. Sono trascorsi un paio d’anni dal precedente album e continuo a trovare affascinante la proposta di questo act nordico, perché si distacca consapevolmente dagli stilemi del genere. Se “Delta” non desta particolarmente la mia attenzione, ci pensa la successiva e lunghissima “Shadowbird” a farmi ripiombare nei miei deliranti trip mentali, affidati ad un lungo incipit completamente strumentale, prima che le vocals, psichedeliche a loro volta, contribuiscano a stordirmi con la loro tonalità, tra l’urlato di scuola Lee Dorian e il cavernoso; la migliore song del cd. Il sound di “Scaled” rivela una maggiore padronanza dei propri strumenti da parte dell’ensemble estone, ma forse ne acuisce un po’ la staticità e quel senso di soffocamento. La title track è una breve e tranquilla traccia che apre con un lontano suono di tamburo ed una ruffiana melodia in sottofondo, con il vocalist che dapprima sussurra qualcosa nel microfono prima di esplodere nella conclusiva e nebulosa “Hallelucinogen”, song che palesa un senso di irrequietezza di fondo nelle sue chitarre liquide e nel suo cantano malsano, fino alle sue sacrali note conclusive. Un plauso finale anche alla minimalista cover in bianco e nero che decreta l’eccezionalità del duo composto da Magnus Andre e Jarmo Nuutre. E ora spiegatemi perché i Talbot siano senza una casa discografica. Misteri… (Francesco Scarci)

Winternight - Pestilenz

#PER CHI AMA: Black, Abigor, Gehenna, Altar of Plagues
La band germanica arriva dalla Thuringia/Baden – Wurttenberg e questo è il primo full lenght del 2010 licenziato da Obscure Abhorrence Productions. Nel 2013 hanno pubblicato per la stessa etichetta un altro full lenght dal titolo “Todhen Uopal” che speriamo di recensire presto. Premesso che il cd ha un artwork dalla scrittura graficamente indecifrabile e discutibile che li rende alquanto e volutamente anticommerciali, possiamo dire a gran voce che la musica del duo tedesco ha un buon feeling, glaciale, sulle orme di un classic black metal dalle tinte epiche e battagliere con uno screaming al limite della schizofrenia, violentissimo e tagliente, un tiro costante e ferreo come la migliore scuola impone. La traccia due è lunghissima e velocissima, undici e più minuti di epica sinfonia distorta e interminabile cantato in antico alto tedesco come del resto tutti gli altri brani. Niente di nuovo a livello compositivo ma tanta rude potenza nera distesa in questo lavoro, duro e diretto, senza compromessi e senza pietà. Intromissioni cinematografiche in lingua tedesca e ambient sparse qua e là, chitarrone zanzara e velocità, questa la summa dell'intero album divisa con qualche stacco di rallentamento come nel caso della traccia quattro che arriva ad un finale sperimentale di folk rumorista/ ambient minimalista. Album che suona come i migliori Altar of Plagues, Gehenna, Gorgoroth e Abigor. La traccia sette sfodera tutte le qualità della band, l'ipnosi statica e rumorosa, la velocissima esecuzione ritmica, la nera ossessività e sgangherati cori fino ad arrivare alla quasi intima morbosità dell'esperimento conclusivo della traccia numero otto che chiude il lavoro in maniera decisamente anomala ma con gusto, lasciandoci esterrefatti e allucinati dall'azzardo sonico di tale strana composizione, tanto malinconica quanto liberatoria. Il brano è giocato tra una stordente chitarra in sottofondo, dei feedback, rumori e un lontano clavicembalo cosmico circondato da esuli, drammatici cori fantasma. Album di belle premesse, band con buone possibilità di evoluzione... aspettiamo curiosi il nuovo lavoro... (Bob Stoner)

(Obscura Abhorrence Productions)
Voto: 70

http://wintarnaht.bandcamp.com/album/pestilenz

Wo Fat - The Black Code

#PER CHI AMA: Stoner, Doom, 70’s Hard Rock
Primo lavoro dei Texani Wo Fat per la Small Stone (e quarto in totale), etichetta che è ormai sinonimo di sano, genuino, schietto stoner. Così come il ben noto eroe del fumetto francese Obelix era caduto da piccolo nel pentolone della pozione magica che dona forza sovrumana, così i Wo Fat (il nome sembra derivi da un personaggio della serie televisiva “Hawai Five-O”) sembra abbiano fatto lo stesso, ma con un ipotetico pentolone del fuzz più spinto. Classica formazione in power trio, i Wo Fat sono una pianta carnivora, con le radici ben piantate nei classici stilemi dell’hard blues anni ‘70 della sacra triade Hendrix-Sabbath-ZZ Top, nutrita con dosi criminali di stoner e doom, in agguato nelle paludi del delta del Mississippi, pronta a stritolare qualsiasi cosa gli capiti a tiro con le sue fauci appiccicose, ad ingerirlo e risputarlo fuori sotto forma di riff devastanti, ritmiche da treni merci carichi di minerali di ferro e improvvise digressioni chitarristiche uscite da una jam acida sotto il sole del deserto del Mojave. Solo cinque brani, tre dei quali superano i dieci minuti, dal peso specifico altissimo e la temperatura davvero rovente. Menzione d’obbligo per “The Shard of Leng”, assolutamente spettacolare per come accelera e rallenta ripetutamente nel corso di 12 minuti che vorresti non finissero mai, condensandovi tali e tante idee sulle quali altri gruppi avrebbero costruito un disco intero. Tutte le tracce sono comunque notevoli, dal blues saturo di “Hurt at Gone”, alla monolitica coltre di feedback che seppellisce la title track prima che cominci il suo inesorabile incedere. A fronte di queste maratone, l’iniziale “Lost Highway”, sembra quasi un pezzo “radio friendly”, con in suoi soli 5 minuti di tempesta desertica (sembra quasi di sentire lo spostamento d’aria calda proveniente dagli amplificatori). Il più grande torto che si possa fare a questo album, sarebbe quello di prestargli un orecchio distratto e catalogarlo frettolosamente come l’ennesimo disco stoner senza nulla da dire. Qui c’è molto di più, e se è vero che la parola “innovazione” non trova posto nel vocabolario dei Wo Fat, quello che mi trovo tra le mani è uno di quei lavori che sono sicuro riascolterò certamente, anche tra qualche anno. (Mauro Catena)

(Small Stone Recordings, 2012)
Voto: 75

http://smallstone.bandcamp.com/album/the-black-code

Jizzlobber - Jizzlobber EP

#PER CHI AMA: Thrash, Sludge, Post-hardcore
I Jizzlobber sono un quartetto francese originario della città del piumino, Colmar (scusate ma dovevo fare questa battuta idiota, ora posso tornare ad essere sgradevolmente serio).Piumino o no, debuttano con questo EP disponibile su Bandcamp, iTunes e fruttivendoli vari per contaminare l'etere già al limite della sopportazione e saturarci con il loro rozzo verbo nel nome del metal/post hardcore. In effetti questo EP è una vera e proprio sfuriata di potenza che nei miei stereotipi non associo a gentil popolo francese. Forse il galletto è stufo di esser preso per la sua aria sostenuta e quindi vai di distorsioni, riff e sudore a più non posso. "2:20 AM" inizia con un riff chitarra/basso dal sapore molto blues che lascia il marchio per tutti i quattro minuti ci brano, il pezzo diviene poi vero e proprio thrash, con tanto di assolo e basso sempre grosso e presente. Indovinato anche il cantato, ruvido e vissuto come piace a me. La quinta e ultima traccia "Nerd" è più old school rispetto alle precedenti e richiama i vecchi Metallica, ma i Jizzlobber non se la giocano male, dosando velocità e potenza che chiamano il pogo. Nulla da ridire a livello di tecnica e suoni, quindi ascoltateveli senza problemi e poi fatevi un'idea. Non seguite alla lettera quello che dichiarano sulla loro pagina, potreste restare un po’ spiazzati dal loro proclama sludge metal/doom. Tra dire e fare... (Michele Montanari)

domenica 26 maggio 2013

Acrimonious - Sunyata

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Watain, Agalloch, Belphegor
Gli Acrimonious sono una band greca fondata nel 2003 che ci fa pervenire questo bel lavoro di alta qualità tecnica e sonora. “Sunyata” è il nuovo album uscito nel 2012 per Agonia Records ed è il secondo full lenght dopo una seria di demo. La band svincola tutta la sua furia subito dopo l'intro iniziale fatto di quattro interminabili, gloriosi minuti di tappeti tastieristici neri come la pece che fin dall'inizio si fa notare per una certa somiglianza con il sound dei Watain, anche se i nostri rendono la musica più sofisticata e di ampio respiro. Una visione sonora che mira e punta molto in alto, che vanta un buon impatto esecutivo e che mostra similitudine con le idee di Agalloch ma ne aumenta la potenza, ricordando i Belphegor in una forma più armonica, con una voce molto potente e caratterizzante anche se non sempre originale, comunque di buona estensione. I brani sono di media molto lunghi e frastagliati con cambi d'atmosfera anche contrastanti tra loro, l'organo ecclesiastico che taglia in due “Lykaria Hecate” è straordinario come la metà del brano che segue. Indubbiamente il collettivo si muove molto bene nei brani più lenti o mid-tempo, d'atmosfera pesanti e gotici dove riesce ad essere originale e convincente al cento per cento. Là dove il sound vira lievemente verso sonorità cupe e post metal, il suono diventa pieno e tonante (il lavoro delle chitarre è straordinario), cosa che in alcuni momenti più violenti e tirati non riesce a pieno come se la veste di puri black metallers stesse molto stretta al gruppo. L'indole sperimentale prevale spesso, i continui ottimi cambi di velocità rendendo l'intero album un calderone di chiaro scuri e continue inaspettate varianti che tramortiscono l'ascoltatore e lo immergono totalmente in una calata agli inferi. Da notare come il coro mistico nel finale di “Adharma” crei uno stop tetro e visionario seguito da una bordata di malignità nascosta tra la limpida velocità e la bella interpretazione del cantato di “Glory Crowned Son of the Thousand Petalled Lotus”. Brani lunghi dicevamo, dalla composizione contorta e complicata, una notevole propensione alla sperimentazione, un velato e ricercato retro gusto “iron maideniano” nelle chitarre, un solido impianto di moderno black metal e un'attitudine al brano progressivo. Una band che convince con un'ora di musica così impegnativa non è da sottovalutare! Qualità, esecuzione e intelligenza al punto giusto, un disco per black metallers colti, molto colti... (Bob Stoner)